giovedì 31 maggio 2007

Brigate Affumicatrici!


Oggi, 31 maggio, sarebbe la "giornata mondiale contro il tabacco". Di codeste "giornate mondiali", contro o per qualsiasi cosa, è notoriamente pieno il calendario; altrettanto notorio è che non gliene frega niente a un cazzo di nessuno. Ma ho deciso di "festeggiarla" a modo mio, oggi. Intendiamoci: nessuno vuole negare che fumare faccia male. Ma ancora peggio, a mio modestissimo parere, fanno le guerre, i divieti, i proibizionismi, le crociate salutiste di questi perfetti anni di stronzio. Proprio di oggi è ad esempio la notizia che il "ministro della salute" italiano, Livia Turco (!), vuole proibire la vendita delle sigarette ai minori di 18 anni, con obbligo per i tabaccai di richiedere la carta d'identità al giovincello che si reca ad acquistarle. Questo perché, specifica l'ineffabile tiggiddùe (quando verrà finalmente istituita la giornata mondiale contro la tivvù itagliana?), "la percentuale dei giovanissimi che fumano è in costante aumento e sfiora oramai il 60%". E' mai venuto in mente ai politicanti crociati (che nascondono spesso dietro il fumo la loro totale incapacità) che rendendo il tabacco un prodotto illegale, rischiano di far salire quella percentuale al 100%? E' la solita storia del proibizionismo, di tutti i maledetti proibizionismi. E, allora, dalle righe di questo sperdutissimo e (volutamente) deserto blog, si becchino lorsignori questo "famoso" post, nel senso che ha girato un po' per vari posti; scritto da un fumatore che va in terrazza a fumare persino a casa propria. La "Versione 1.0" è del 6 settembre 2000; quella "4.0", la più recente, che qui viene presentata con qualche piccolo adattamento & aggiornamento, è del 16 novembre 2004. E' seguita dall'Inno delle Brigate Affumicatrici. Largo alle BAFF! Iscrivetevi numerosi!

BRIGATE AFFUMICATRICI
Versione 4.0.a

Cari amici fumatori,

E' giunta alfine l'ora della riscossa.

Stanchi ormai delle continue vessazioni cui siamo soggetti, è il momento di tornare ad affumicare le legioni dei non-fumatori rompicoglioni e, soprattutto, di stolidi ed ipocriti legislatori che, proni verso l'americanismo più becero, forcajolo e imbecille, stanno sempre più ghettizzandoci e riducendoci ad una sorta di cittadini di serie B.

Sarebbe finalmente l'ora di andare a vedere che cosa ci sia veramente dietro il business delle "crociate antifumo" oramai diffuse in tutto il mondo; senza contare che, alla fin fine, tutto si risolve in divieti sempre più ridicolmente draconiani (e sempre più aggirati), e soprattutto in aumenti incontrollati del prezzo delle sigarette sui quali -si badi bene- lo stato "antifumo" lucra non poco. Sospetto che, in fondo, a "lorsignori" questa cosa interessi ben più della salute dei cittadini.

Con questo post vengono quindi istituite anche in questo blog le BRIGATE AFFUMICATRICI (BAFF), il cui simbolo sarà costituito da una pipa curva e da un sigaro toscano stilizzati in modo da riprodurre una falce e un martello.

L'associazione alle BAFF è libera e gratuita; unica condizione necessaria è la comprovata dipendenza dalla nicotina in qualsiasi sua forma (sigarette, sigari, pipa, tabacco da fiuto o da masticazione).

Le BRIGATE AFFUMICATRICI, rigorosamente Fedeli alla Linea ed organizzate nella più gloriosa tradizione dello Stalinismo Antidemocratico (ricordando il più acerrimo nemico del fumo nella storia: Adolf Hitler, che non sopportava il fumo di una sigaretta neppure da lontano ma che altri ben fumi accese in tutta Europa), sono intese anche e soprattutto come faro e baluardo contro il colonialismo USA e dei suoi stolidi lacché.

Primo ed oramai atto simbolico delle BA sarà un pellegrinaggio laico alla Manufattura Tabacchi di Lucca e all'ex Manufattura di Firenze, sita nello storico palazzo di Sant'Orsola. In quest'epoca, tali luoghi assurgono ad un valore di autentica resistenza umana e politica.

Le BRIGATE AFFUMICATRICI saranno guidate da un Comitato Centrale (ЦККБ, Центральный Комитет Курённых Бригад / CKKB, Centralnyj Komitet Kurënnych Brigad) e da un Ufficio Politico (PBKB, Politbjuro Kurënnych Brigad), organismi dei quali potranno far parte esclusivamente quei Brigatisti per i quali sia comprovato un consumo di oltre due pacchetti al giorno di sigarette (per i sigari e verrà valutato ogni singolo caso, mentre per i fumatori di pipa dovrà essere certificata l'abitudine di tirar giù il fumo). Per far parte del Politbjuro è richiesto inoltre fumare da oltre vent'anni, in modo da formare una gerontocrazia nel più perfetto stile sovietico.

Non è ammessa ovviamente alcuna deviazione dal Centralismo Democratico. Chiunque dovesse smettere di fumare, per qualsiasi ragione, verrà immediatamente espulso dalle BRIGATE AFFUMICATRICI , e, nei casi più gravi, fucilato nella schiena previa asfissia a base di Stop senza filtro, Alfa, Esportazione e Merdasecca (quest'ultima marca non esiste, ma ne viene caldamente auspicata l'introduzione per le esecuzioni capitali).

L'attività delle BRIGATE AFFUMICATRICI consisterà principalmente in quanto segue:

a) Azioni terroristiche di disturbo ovunque sia proibito fumare, oppure dove esista il ragionevole pericolo o la certezza di un divieto presente e/o futuro (quindi: ogni sorta di ufficio pubblico, bar, ristoranti, cinema, sale da ballo, discoteche ecc.).

Sono naturalmente esclusi da tali azioni:
- Gli ospedali (a parte le apposite salette fumatori);
- Gli scompartimenti per non fumatori su treni, aerei e navi;
- Qualsiasi luogo dove ci sia fondato pericolo di incendio o esplosione.

b) Tali azioni consisteranno in spedizioni durante le quali le finestre e gli impianti di aerazione verranno chiusi, i non fumatori immobilizzati a forza, ed i fumatori invitati ad appestare il locale o i locali per una ventina di minuti circa. Durante tale periodo, i non fumatori verranno rieducati con slogan del tipo:

- "AVETE FINITO DI ROMPERE I COGLIONI, PEZZI DI MERDA! "
- "O BECCATEVELO IL FUMO PASSIVO ORA!"
- "QUESTO E' PE' GLI AMERIHANI D'I' CAZZO!!"
- "O VAI A PUPPALLO A SIRCHIA ORA!!"

c) Attività di controinformazione (mediante bollettini, comunicati, siti internet ecc.) volta a mostrare e dimostrare che alla salute fanno ben più male i gas di scarico delle automobili (per le quali lo "stato" concede spesso i cosiddetti "incentivi per l'acquisto"), l'inquinamento continuo dell'ambiente naturale, l'alimentazione spazzatura (vedi Mc Donald's & fasfutte vari) ecc., tutte cosette, beninteso, ben foraggiate dagli amerikani e dai loro servi.

Costituiranno titoli di merito per i membri delle BRIGATE AFFUMICATRICI azioni altamente simboliche, come ad esempio fumare un Antico Toscano intero nell' ufficio del ministro Turco (urlandole: "Tiè, vecchia merdajola! Ora fuma come un Turco!"), oppure ficcare una MS accesa nel culo a tutti i quanti rompicazzo antifumo, a prescindere ovviamente in modo totale dalle loro idee politiche.

Per far parte delle BRIGATE AFFUMICATRICI sarà necessario compilare il seguente modulo, da spedire come commento al seguente post:

NOME ...............................................................
COGNOME .......................................................
NICK .................................................................
EMAIL ..............................................................
CITTA' ..............................................................
SIGARETTA FUMATA .....................................
ALTRO (sigaro, pipa) ........................................
QUANTITA' GIORNALIERA .............................
ANNO INIZIO FUMO ........................................

AVANTI CON LE BRIGATE AFFUMICATRICI !!
Hacia el tabaco siempre!
Esta pipa, este cigarro, este cigarrillo defenderemos! Defenderemos! Defenderemos!

*

INNO DELLE BRIGATE AFFUMICATRICI
(sull'aria di "Bandiera Rossa")

O fumatori, alla riscossa,
Marlboro rossa,
Marlboro rossa,
o fumatori, alla riscossa
Marlboro rossa trionferà!

Marlboro rossa la trionferà,
Marlboro rossa la trionferà,
Marlboro rossa la trionferà,
evviva il tabagismo e la libertà!

E se la ETI non sarà tirchia
la guerra a Sirchia,
la guerra a Sirchia,
e se la ETI non sarà tirchia
la guerra a Sirchia vogliamo far!

La guerra a Sirchia noi vogliamo far,
la guerra a Sirchia noi vogliamo far,
la guerra a Sirchia noi vogliamo far,
evviva il tabagismo e la libertà!

E con la tosse e il catarrone,
rivoluzione,
rivoluzione,
e con la tosse e il catarrone
rivoluzione vogliamo far!

Rivoluzione noi vogliamo far,
rivoluzione noi vogliamo far,
rivoluzione noi vogliamo far,
evviva il tabagismo e la libertà!

E' guerra aperta ai salutisti
proibizionisti,
proibizionisti,
e guerra aperta ai salutisti
proibizionisti noi la farem!

Noi gli antifumo si affumicherà,
noi gli antifumo si affumicherà,
noi gli antifumo si affumicherà,
evviva il tabagismo e la libertà!

W STOP !
W ALFA !
W TUTTO IL FUM !




mercoledì 30 maggio 2007

Di scarpata ferroviaria


Pagato il tributo all' "attualità", mi ributto con immenso piacere nell'inattuale più completo con una cosa scritta il 5 agosto 2005, quand'ero a Friburgo (quella svizzera, che propriamente dovrebbesi chiamare "Friborgo" in italiano, per distinguerla dalla Friburgo di Germania). Nonostante il titolo "gucciniano" (e la relativa, originale postatura su quel newsgroup), questa è la storia di un giorno solitario e di una pianta (quella nella foto). Ma come non pensare, ora che mi sovviene, al "giorno d'estate, giorno fatto di niente"...?

Agosto, che bel mese. Fatto apposta per una storia come questa, ché tanto nessuno la legge e la commenta. Come lo special TV dedicato a Piero Ciampi quand'era ancora vivo e ubriaco, che la RAI mandò in onda un 3 agosto alle ore 13.

Una storia che non c'entra nulla di nulla con niente. E così ve la racconto, o meglio la racconto a me stesso. Tanto non ho nulla da fare e per un par di giorni sono solo.

Comincia in un bar qui vicino casa, gestito da dei signori portoghesi e che reca il nome di Bar Benfica. Ci vado spesso a prendermi uno "sciacquè", il caffè di queste parti che però ti viene servito con il cioccolatino svizzero e la panna svizzera (la bustina di zucchero è invece, chissà perché, italiana). In questi primi giorni d'agosto, a certe ore si potrebbe apparecchiare una tovaglia in mezzo di strada, sull'asfalto, e farci un pic-nic. Tanto non c'è nessuno.

Nel Bar Benfica ci sono i tre giornali fondamentali: il quotidiano sportivo portoghese, che non mi ricordo mai come si chiama; lo Hürriyet turco, che non lo leggo perché non ci capisco una sega, e La Liberté. Il quotidiano "romando" di Friburgo in lingua francese, che invece divoro perché è uno spasso. Immaginatevi una cittadina svizzera di 32.000 abitanti dove da secoli non succede nulla. E se dico nulla, è nulla; e immaginatevi chi deve redigerne il quotidiano, e soprattutto le notizie che riporta nella sezione locale. E così ci sono paginate dove viene intervistato ogni singolo neolaureato dell'Università, reportages enormi sull'ultimo modello di autobus acquistato dall'azienda municipale dei trasporti, minuziosi resoconti sugli incidenti stradali (memorabile quello dello scorso marzo, quando un trattore e' volato di sotto da un ponte uccidendo sul colpo tre povere vacche mentre il conducente se l'è cavata con ferite non gravi), e così via.

Insomma, oggi pomeriggio mi siedo a un tavolino col mio "sciacquè" e la Parisienne accesa, e mi piglio La Liberté per gustarmi la sezione locale in santa pace. L'occhio mi cade subito su un titolone a caratteri quasi cubitali, che riporto in traduzione (perché ci ho sempre dietro il taccuino dove annoto ogni cosa):

SENSAZIONALE:
PIANTA MEDICINALE RARISSIMA SCOPERTA IN PIENO CENTRO A FRIBURGO

O cavolo.
Mi metto a leggere avidamente l'articolone, corredato di fotografie.
La pianta medicinale rarissima si chiama erniaria e la si credeva non dico estinta, ma quasi. Sembra che abbia bisogno di un microclima del tutto particolare per crescere, un microclima finora creduto esclusivo di certi recessi alpestri per altro non presenti immediatamente nei dintorni (casomai nel lontano cantone dei Grigioni); da tempo immemore la si ritiene un ottimo rimedio contro l'ernia (da qui il nome), ma oramai era stata data per perduta, per una curiosità botanica del passato. E invece dov'è andata a rispuntare, l'erniaria? Allo scalo merci della stazione ferroviaria di Friburgo, dall'acciottolato accanto ai binari. Un'erba triste di scarpata ferroviaria, ecco. Portata da chissà chi o da chissà cosa (una formica viaggiatrice, un refolo di vento dispettoso venuto da lontano che ne ha depositato i semi). Ha deciso d'aver trovato il microclima che le si confaceva e s'è abbarbicata, coi suoi ciuffi verdi, a un lastricato accanto ad un binario; facendo magari una pernacchia a chi le aveva cantato il de profundis e preparandosi a vivere la sua vita di pianta.

Nelle foto si vedono due studiosi della locale facoltà di scienze naturali, carponi e col culo all'aria, che la esaminano con delle lenti di ingrandimento e l'aria stupefatta. Lei se ne sta lì a acciuffettarsi, mentre i suddetti studiosi, nell'articolo, usano termini come "aberrazione botanica", si pongono interrogativi di elevato tenore scientifico e, soprattutto, dichiarano di aver già richiesto alla direzione delle ferrovie il permesso di recintare l'area apponendovi un cartello di avvertenza alla popolazione a non strappare la pianta per farsene "dei decotti che potrebbero risultare dannosi, perché le proprietà curative dell'erniaria abbisognano comunque di un adeguato trattamento in laboratorio" (e i montanari che se ne servivano in passato facendola magari bollire nell'acqua di fonte, come avranno fatto? Boh).

Me lo permettete un sorriso per questa pianta che è scappata da chissà dove per ricomparire a una stazione ferroviaria? Che ci avrà avuto voglia di vedere un po' di mondo, stanca dei suoi incontaminati habitat in quota? Di vedere la città?

Gli studiosi parlano poi della flora cittadina, che riserva sempre più sorprese. Non solo a Friburgo. "Il caso dell'erniaria ha del clamoroso, però nelle città si assiste sempre di più al proliferare di specie non comuni che vi trovano un ambiente insospettabilmente propizio. Bisogna saper riconoscere queste specie e salvaguardarle".

E così mi rendo conto finalmente che la stazione di Friburgo è a cinque minuti a piedi. Nelle foto, il luogo è facilmente riconoscibile; basta entrare in stazione e sgattaiolare senza essere visti lungo il binario giusto.

Vado a fare la mia visitina a mademoiselle Herniaire. Fortunatamente sono le tre e venti e allo scalo merci non c'è un cane; i ciuffi sono lì, a cinquanta metri, già recintati con elvetica meticolosità e con un embrione di avvertenza scritta in due lingue col pennarello, ma munita del regolare timbro della direzione della stazione à la demande de l'Université de Fribourg.

Se ne sta lì bel bella, a godersi il sole e le ventate di qualche treno che passa. Magari qualche seme schizzerà su quel treno, facendosi trasportare chissà dove. Mi metto a sedere sull'acciottolato con in testa qualche strampalata confusione a base della stessa ragione del viaggio, viaggiare, e su quanto sopravvivenza e fuga siano correlate. Ma è una pianta, perdiana. Una pianta che, però, non mi sembra affatto "quasi triste". Al minimo soffio d'aria, si muove. Mi ardisco persino a toccarla, a farle come una carezza. Ci faccio una chiacchierata col pensiero, di un minuto; ma tanto non saprete mai quel che ci siamo detti. Sono affari nostri.

Mi rialzo e me ne torno a casa.
Bisogna finire di fare le cose per i quali si sono presi degli impegni.
Però, a casa, stavolta ci torno fischiettando.
Firulì, firulà.
Firulì, firulà.


martedì 29 maggio 2007

Nel paese di Antognoni


"Storie di gente più o meno comune", recita il sottotitolo di questo blog. Ed anche questa, pur ripresa dall'immediata attualità (una cosa che, comunque, sarà raramente presente qui dentro, tanto da costituire un'eccezione), è in fondo una storia di gente comunissima. E' la gente che alligna nell'anno 2007 in questo paese. E' la storia dell'informazione, dell'idiozia e dell'ipocrisia che lo sta uccidendo. L'illustrazione è la "Sacra Famiglia" di Annibale Carracci.

Accadde in un paese che per il sottoscritto, tifoso della Fiorentina, ha un significato. Marsciano, Perugia. Tornano alla mente i vecchi album delle figurine Panini: Giancarlo Antognoni, nato a Marsciano (PG) il 1/4/1954. Non perché Antognoni c'entri qualcosa in questa orrenda storia, ci mancherebbe altro; è solo che la cosa m'ha colpito. Non poteva fare a meno di colpirmi.

L'orrenda storia, è di questi giorni. Di queste ore. Una povera donna incinta di otto mesi ammazzata in casa, e con lei la bambina che aveva dentro di sé. La quale, tanto per aggiungere qualcosa, si sarebbe dovuta chiamare Viola. Poche ore fa, per l'omicidio è stato arrestato il marito, con le seguenti motivazioni: "indagato per i delitti di omicidio volontario aggravato (futili motivi, crudeltà verso la vittima, rapporto di coniugio) per aver cagionato la morte della moglie Barbara Cicioni, maltrattamenti nei confronti della medesima e dei figli minori, calunnia nei confronti di ignoti, simulazione di reato".

Ma facciamo un piccolo passo indietro. Al giorno dopo il delitto. Torniamo al bel clima che si respira in questo bel paese di merda. Come è ovvio, il fatto, per le sue particolari modalità, suscita grande impressione; viene immediatamente catalogato come omicidio per rapina, tanto più che pochi mesi prima, nella stessa villetta del delitto, era stata effettivamente commessa un'effrazione. I giornali partono in quarta; tra questi si distingue stavolta "La Repubblica", e sarà bene parlarne un pochino di questo giornalazzo finto "progressista", e della sua attuale foia securitarista. Una foia che, naturalmente, fa vendere benissimo; perché, in fin dei conti, tutto si riduce a questo. L'informazione non come strumento di conoscenza, ma come assecondamento morboso e criminale delle foie, più o meno inculcate, dei suoi lettori e di una società intera.

Siamo, è bene sempre ricordarlo, nel paese della strage di Erba, e della caccia al tunisino finché non si scopre che il macello è stato compiuto dagli itaglianissimi vicini di casa. Siamo nel paese dove l'omicidio a ombrellate commesso dalla rumena provoca l'ondata di indignazione, le interrogazioni parlamentari, l'immancabile fiaccolata e i cortei dei fascisti di Forza Nuova, mentre l'assassinio di una bambina polacca di cinque anni da parte dell'itagliano viene liquidato in poche righe, in un servizietto in coda al tiggì, senza manco l'accensione di un cerino. Siamo nel paese dove quasi ogni giorno si celebra un fèmili dèi a base di strangolamenti casalinghi, uxoricidi nel bagno, accoltellamenti di figli nel sonno, stupri di figlie in doccia e chi più ne ha, più ne metta; ma basta coprire tutto quanto con la creazione del mostro collettivo.

Il quale mostro collettivo è variabile nel tempo. Ora, ad esempio, quello più gettonato è il "rumeno". Così è accaduto anche per l'omicidio di Marsciano. La "Repubblica" prende la palla al balzo. Pochi giorni prima ha addirittura pubblicato in prima pagina l' "accorata lettera di un lettore" che, pur dichiarandosi "progressista e di sinistra", si spaventa di "essere diventato razzista" e si profonde in una pappardella i cui ingredienti sintetizzano alla perfezione il Repubblica-pensiero attuale, con tutti gli ammorbamenti a base di "degrado" e "legalità" che oramai inquinano ben più della spazzatura in Campania.

Due paginoni, in seconda e in terza, sulla "morte dell'isola felice Umbria", con tanto di intervista ai cittadini impauriti & indignati. Va in scena la ferocia razzista di questo paese, tratta questa volta da una cosiddetta "regione rossa". Chi è stato a ammazzare la mamma e la bambina? Ma i rumeni, è ovvio! Senza neppure pensare un attimo, senza neppure un minimo dubbio. Già si organizzano le ronde, già si prevede la fiaccolata (bisognerà prima o poi studiare un lanciapiscio per spegnerle, 'ste fiaccole), già si fanno le profonde analisi. Nel caso di Erba, la strage era stata compiuta dal tunisino "perché era contrario all'educazione non islamica del figlio"; stavolta invece la colpa è tutta di quelle maledette badanti rumene, che si portano dietro la famiglia di delinquenti, stupratori & assassini. Parola de "La Repubblica". Il sindachetto si chiede "che cosa accadrà ora che la Romania è entrata nell'Unione Europea"; e via discorrendo. Tutto il campionario perfetto dell'Italia del 2007.

Avviene però l'imponderabile. Come a Erba. Vengono fatte delle indagini, e le cose cominciano subito a quadrare poco. Strane chiazze di sangue che corrispondono tra quelle ritrovate in casa e quelle presenti nella macchina del marito. Gli stessi bravi paesani che avevano già condannato i rumeni cominciano a parlare di liti, di botte, di quotidiani inferni di famiglia ("gravissimi maltrattamenti pregressi", recita l'ordinanza di arresto; ma quant'è bella e santa, la famiglia!); finché non si giunge all'arresto di oggi, alla presunta messinscena del marito omicida, e, soprattutto, alle invocazioni alla pena di morte fuori dalla caserma dei Carabinieri. Senza oramai più accorgersi che la pena di morte è già stata comminata ed eseguita in massa nei confronti dei cervelli della gente.

Ma dimenticavo che siamo sulla "Repubblica", lo stesso giornale che si accora tanto per la chiusura (che non è neppure tale) di una schifosa tv venezuelana, di quelle a base esclusiva di telenovelas, televendite, quizzini presentati come "opposizione"; di quelle che ben conosciamo da queste parti, di quelle che sono con tutta probabilità corresponsabili nella condanna a morte e del ghigliottinamento delle menti. Dimenticavo anche che siamo in Italia, pardon. Resta solo quella bambina mai nata, di nome Viola, per la quale voglio solo pensare che sarebbe stata, un giorno, migliore.





lunedì 28 maggio 2007

Il Mago Chiò



E così, ecco arrivato anche il momento, per questo blog, di rifare i conti col Mago Chiò. E' una storia che è andata oramai un po' in giro, questa, a partire dal 20 febbraio 2006 quand'è stata scritta per il vecchio blog "Da Galenzana" (ma la si trova anche sui newsgroup di Guccini e De André, e addirittura in qualche sito sparso qua e là; ne è stata incominciata anche una traduzione spagnola da parte dell'amico Sergio Gayol Menéndez). Nel frattempo, c'è stata una novità; chissà, forse stimolata proprio da questa storia. Almeno così m'illudo di pensare. Insomma, per farla breve, c'è la firma del Mago Chiò (anzi, "Chiò Mago") su un vecchio muro di Portoferraio. Una delle foto che avevo cercato per anni, e che non avevo mai trovato.

Se avessi saputo scrivere canzoni, una canzone sul Mago Chiò l'avrei fatta senz'altro. Ma siccome non le so scrivere, racconto questa storia magari con l'ingenua speranza che qualcuno che lo sa fare la legga, e che gli vengano le parole e la musica giusta. Chissà.

"Mago Chiò" vuol dire, nella parlata elbana, Mago Chiodo; ma perché
si fosse voluto chiamare così, lo dirò dopo. Aveva un nome e un
cognome, e una data di nascita: si chiamava Francesco Grassi e era nato in un'antica via di Portoferraio, via dell'Oro, il 1° marzo del 1867.

Aveva un aspetto ordinario. Di media statura e di media corporatura,
sebbene piuttosto sgraziata e dinoccolata. Però la natura gli aveva fornito la dote di un'enorme agilità, con delle braccia lunghe e delle gambe assai robuste. Non aveva né arte né parte; nato da contadini, il contadino non gli era andato di farlo. Fin da ragazzino vagava allora per le campagne attorno a Portoferraio e un po' in tutta l'Elba, senza però spingersi fino alle remote zone occidentali (Pomonte, Chiessi) dove non andava mai nessuno. Campava rubando, anzi rubacchiando quel che si poteva trovare; un barbone, un ladro di polli. Però aveva un modo singolare di rubare: prima di farlo, si annunciava dando fiato a una trombetta scassata che aveva trovato o fregato chissà dove e chissà a chi. Se qualcuno lo sentiva, se ne andava; se non lo sentiva, procedeva al furto. Ma si dice anche che i contadini lo lasciassero fare e, nella maggior parte dei casi, facessero finta di non aver sentito la trombetta.

Era quel che si direbbe un tipo strano, ed è probabile che non avesse tutte le rotelle al suo posto. Un emarginato. Però era molto sicuro di sé e si vestiva in un modo da farsi riconoscere da tutti. Portava sempre una casaccona bianca che teneva legata in vita con una cordaccia; in testa s'era rincalcato un berretto nero pesante che portava anche in piena estate sotto lo stellone, una sorta di colbacco che teneva allacciato sotto la bazza. Alla cintola aveva invece appesa una gavetta, dove teneva sempre un po' di vernice bianca. Vi dirò ora a che cosa gli serviva.

Francesco Grassi, detto Mago Chiò, aveva una fissazione. Voleva
diventare famoso, ad ogni costo. Con la sua strabiliante agilità era diventato uno scalatore, anzi un vero e proprio funambolo. S'arrampicava ovunque potesse: fari, muraglie, fortezze, castelli, torri, campanili. E dopo un po', famoso lo diventò sul serio. Fu quando dette prima la scalata alla cupola di Santa Maria del Fiore, a Firenze, il capolavoro del Brunelleschi; poco dopo ripeté l'impresa a Bologna, arrampicandosi fino in cima alla torre degli Asinelli. Ne parlarono tutti i giornali, anche perché, una volta in cima, il Grassi cavava fuori il pennello, lo intingeva nel suo barattolo di vernice bianca e scriveva, a caratteri cubitali: MAGO CHIO'. Il suo marchio, e anche l'unica cosa che sapesse scrivere: era analfabeta.

Un "nessuno", un "ultimo" lo scopo della cui vita era uno solo:
impressionare il prossimo. Sollevarsi in qualche modo. E si sollevava davvero, a centinaia di metri d'altezza. A chi gli chiedeva che cosa volesse intendere con quel soprannome di "Mago Chiò" che s'era dato, rispondeva con il suo buffo parlare pomposo, sgrammaticato, mirabolante: "Chiò Mago è un nome dato da me, significherebbe andando in qualunque pericolo di vita, in qualunque altezza che possa restare incredula al popolo!"

Suo padre, Marco Grassi era un "lombardo", un lavoratore stagionale capitato dal Veneto, come tanti (e come, ad esempio, anche mio zio Borzino Pietro, nato a Robbio Lomellina, provincia di Pavia, morto l'anno scorso a 97 anni), prima in Maremma e poi all'Isola d'Elba. La famiglia era poverissima, e le condizioni erano aggravate dal fatto che Marco, quando gli capitava di guadagnare mezza lira, se l'andava subito a tracannare all'osteria. La moglie mise al mondo, uno dopo l'altro, tre maschi, e la fame aumentò ancor di più. I tre fratelli divennero il trio più singolare di tutta Portoferraio; Francesco, il Mago Chiò, era il primogenito; nel 1868 arrivò il Micco e nel 1869 il Cavalier Jenny. Le loro imprese divennero leggendarie; l'ultimo dei fratelli si divertiva a andare vestito da donna, e vi potete immaginare cosa volesse dire nell'Isola d'Elba di quel tempo. Francesco era scappato di casa a undici anni, non sopportando più la fame e le botte del padre, ubriaco fradicio ventiquattr'ore su ventiquattro. E fu così che entrò nella povera leggenda d'un minuto, ma anche in quella stabile dell'Isola. Lì niente la può scalfire.

Al culmine della sua effimera fama di scalatore e di equilibrista, conobbe una donna. Se ne innamorò pazzamente. Era il periodo in cui il Mago Chiò s'era fissato dietro a un famoso pittore, Telemaco Signorini; aveva preso a seguirlo in ogni dove, perché Signorini era il pittore "à la page" e voleva ad ogni costo farsi ritrarre. E ce la fece. Il ritratto del Mago Chiò, eseguito nel 1887, è anche l'unica testimonianza che abbiamo della sua figura. Una testimonianza di eccezione. La donna si chiamava, dicono, Eleonora. La descrissero assai graziosa. E anche come una donna di malaffare, una puttana insomma. Ma chissà se lo era per davvero, o forse una semplice ragazza del popolo di Portoferraio che per arrotondare un po' il magro bilancio familiare a volte la dava un po' qua e là. Era comunque carina e sapeva di esserlo; aveva diciassette anni.

Mago Chiò, una volta innamoratosene perdutamente, decise che non
poteva dichiararsi come un comune mortale. Studiò un'impresa, una delle sue: avrebbe scritto stavolta non il proprio nome, ma quello dell'amata, in un punto da dove tutta la città avesse potuto vederlo. Che fossero le mura Medicee, che fosse il bastione del Forte Stella (da dove lo avrebbero visto anche le navi che passavano), che fosse qualsiasi cosa che non potesse essere ignorata. Ma, come abbiamo detto, Mago Chiò non sapeva scrivere che il suo, di nome. Avrebbe potuto farselo insegnare da qualcuno; ma un conto era provare a scrivere "Eleonora" su un quaderno, un altro tracciare delle lettere di dieci metri con la vernice bianca.

Ci si mise allora di buzzo
buono: si fece scrivere il nome "Eleonora" su un cartone dal suo amico Telemaco Signorini, e cominciò a esercitarsi fino ad essere in grado di copiarlo a lettere gigantesche sul bastione del Forte Stella. Così, pensava, la sua amata avrebbe capito, senz'ombra di dubbio. Ma Eleonora non capì nulla. Le chiacchiere volavano, a Portoferraio; e così, quando il progetto di Mago Chiò arrivò alle orecchie della ragazza, questa volle incontrarlo.

Quando lo vide, rimase prima di stucco e poi si mise a
sghignazzare. Disse: "E quella specie di netturbino russo sarebbe il famoso Mago Chiò?" Il Grassi era lontano una quarantina di metri, ma s'accorse subito della reazione non propriamente da colpo di fulmine dell'Eleonora. Lei gli si avvicinò. Era una ragazza che non aveva soggezione di nessuno. Gli domandò se fosse proprio lui il celebre Mago Chiò, quello che scriveva il proprio nome sui muri. "Sissignora!", le rispose lui impettito e fiero; "E non sui muri, ma su fortezze, su castelli, su campanili". Voleva mettere le cose in chiaro. Non si trattava di semplici "muri". Eleonora cominciò, come si suol dire, a pigliarlo per il culo; gli disse che erano un po' più alti, ma sempre di muri si trattava. E lui le rispose, con ancor più fierezza, che sui campanili e sulle fortezze c'era pericolo di morire, sui muri no.

Dei passanti si avvicinarono e si ricordavano ancora dopo anni e anni
quella conversazione. Eleonora gli chiese, al Grassi, se scrivesse sempre e soltanto il nome di Mago Chiò. Lui le rispose di no. "E cosa scrivete d'altro?" "Il vostro!" Ci rimase così. Ma si riprese subito, con la sua faccia tosta di diciassettenne, e cominciò a tirare stilettate avvelenate al curaro. "Ma lo sapete scrivere, il mio nome?" Mago Chiò stette zitto. E quella rincarò la dose: "Avete fatto esercizio? O perché allora non me lo scrivete ora, il mio nome, su quel muro?"

I passanti si misero a ridere; ma la risposta del Grassi tolse la parola a tutti, e anche la voglia di ridere. "Io vi voglio bene. Il vostro nome non lo scrivo su un muro qualsiasi. Lo scriverò sulla muraglia del Forte Stella."

Poi girò i tacchi, "con un gesto finale", e se ne andò.
Telemaco Signorini, in quei giorni, era all'Elba. Erano diventati amici. La sera il Mago Chiò andò a fargli visita, con una richiesta: quella di scrivergli, sul solito cartone, una cosa. Signorini era l'unico forse che lo chiamasse per nome; gli disse, "Francesco, stai attento, per l'amor di Dio. Quella non fa per te, non ti merita." Ma poi gli scrisse quel che voleva, mica poteva dirgli di no.

La notte del 27 giugno 1891 i portoferraiesi sentirono suonare una
trombetta dalla parte del Forte Stella, dove c'era il faro, appena sopra la scogliera del Grigolo. La storia, oramai, la sapevano tutti quanti; così la mattina vollero andare a vedere cosa c'era scritto sul "muro"; e partirono le sghignazzate di tutta una città. La sola cosa che il Grassi era riuscito a scrivere era una specie di "M", ma forse poteva essere anche una "E", oppure una "N" sghemba, seguita da una strisciata bianca sgocciolante.

A mezzogiorno del 28
giugno, l'Eleonora volle pure lei andare a vedere; poi, casualmente, fece modo d'incontrare il Mago Chiò. "Allora, ancora non ce l'avete fatta a imparare il mio nome?", gli chiese appena lo vide con un'aria da pigliarla a ceffoni; lui, calmo, le rispose che domani avrebbe visto meglio, e che però non avrebbe più scritto nessun nome. Eleonora gli tirò allora la coltellata definitiva: "In ogni caso guardate di sbrigarvi a scrivere quel che volete, perché domani lascio l'Elba per sempre, vo a vivere in continente, ho trovato un signore perbene che mi vuole sposare."

Ora, il Mago Chiò si sentì di morire. Ma era famoso, lui. Non poteva
darlo a vedere, né debolezza mostrare. Gli venne un sussulto del baffo. Disse solo: "Scriverò per voi sulla fortezza e poi non mi vedrete più." L'Eleonora ci rimase di sasso. E se n'andò, disperato, a copiare, a ricopiare, a ricopiare ancora e per decine di volte le parole che Signorini gli aveva scritto sul cartone. Inutile. Non ce la faceva. Andò avanti fino all'ora di cena; e allora, andasse com'andasse, si decise. Prese la gavetta con la vernice e salì in cima al bastione in quattro balletti; si calò con una fune fino alla strisciata bianca della notte prima, e finì come poteva la sua opera. Infine, scese fino alla scogliera, sempre con la fune, e controllò quel che aveva fatto. Era contento. Si leggeva. Non era un gran ché, ma si leggeva.

Poi tornò a casa per fare un'altra cosa.

Aveva stabilito di ammazzarsi.


Però lui era il famoso Mago Chiò, e non poteva ammazzarsi in un modo comune, banale, come s'ammazzano tutti. Prese il fiasco del vino e riempì un bicchiere pieno. Poi una scatola di zolfanelli e, con un coltello e con infinita pazienza, raschiò tutte le capocchie. Gli zolfanelli, allora, erano di zolfo puro, che è velenosissimo; prese tutte le capocchie e le buttò dentro al bicchiere. Poi tracannò tutto e si mise a aspettare. I dolori gli arrivarono presto, prima di quanto avesse immaginato.

Verso le undici di sera del 28 giugno 1891, il Grassi uscì di corsa.
L'istinto di sopravvivenza aveva preso il sopravvento. Quasi sfondò la porta della farmacia; e il dottore, non appena lo ebbe visto, si rese conto che quello stava morendo. Aveva una schiuma giallastra alla bocca; cercò di farlo vomitare. Per uno strano capriccio del destino, Eleonora stava di casa proprio davanti alla farmacia, e sentì il trambusto precipitandosi fuori in vestaglia come avesse intuito qualcosa. Vide il Mago Chiò in agonia sul pavimento del locale. Gli mancavano due minuti a morire, ma ebbe la forza di cavar fuori dalla casacca bianca un foglio spiegazzato e di darlo alla ragazza che lo guardava inebetita. Lei s'inginocchiò e prese il foglio, lo lesse e si mise, dicono, a piangere come una fontana.

Prese la mano del Mago
Chiò, di Grassi Francesco, di anni ventiquattro, nullatenente, analfabeta, senza dimora fissa, arrampicatore, ladro di polli, celebre. Morì. Si dice che, non appena fu morto, l'Eleonora lo chiamasse per nome: Francesco, Francesco. Il pittore Signorini prese la ragazza in braccio, dicendole che su quel foglio c'era scritto quel che lui gli aveva chiesto e che avrebbe dovuto copiare sulle mura del forte. Ma non sapeva se ci era riuscito.

E la mattina dopo l'Eleonora partì. Era vero che un signore l'aveva
chiesta in sposa. Non era una bugia crudele per fare del male al Grassi. Prese il piroscafo di linea della Società Toscana di Navigazione, e quando fu proprio davanti alle mura, non resistette e corse fuori per vedere se c'era scritto qualcosa. C'era. Ma non era né "Mago Chiò", né "Eleonora". C'era scritto "Ti amo".

Erano le stesse
parole che stavano scritte su quel foglio. La scritta fu fotografata. L'ho cercata per ogni dove, negli anni passati dal fotografo Ridi di Portoferraio, e poi anche su Internet; non ve n'è purtroppo più alcuna traccia. Non c'è quindi nessuna prova che io non mi sia inventata tutta questa storia, tranne, sempre si dice, alcuni sbaffi di vernice bianca che ancora resistono dopo quasi centoquindici anni. L'ultimo vestigio di un amore, insomma. E quale razza d'amore, per tutti gli dèi che ci siano o non ci siano.

Il nome di Mago Chiò, però, non morì. Divenne quasi il nome dell'identità collettiva dell'Isola d'Elba. Se lo presero cantastorie, poetastri popolari, artigiani per le loro botteghe, persino negozi. A San Piero in Campo, paese lontano da Portoferraio dove forse il Grassi non aveva mai messo piede, il caffè della piazza della Chiesa, quella dove ogni anno, a fine agosto, si svolge una "Serata De André", si chiama "Mago Chiò"; anzi, il caffè è tra i principali organizzatori dell'iniziativa, anche perché quella sera la piazza è piena zipilla e ci fa, comprensibilmente, dei gran soldoni.

Se per caso qualcuno di voi ci passasse, e se lo desidera, ci faccia
un pensiero.

domenica 27 maggio 2007

L'Ardhu


Questo post è in lingua francese, ché in francese è stato scritto originariamente (nel 2003), ché parla d'un ricordo di quand'ero in Francia, ché proviene dal newsgroup di linguistica francese (al quale non partecipo più da tempo). Un ricordo, appunto. Una camminata in una foresta delle Ardenne. Vi compaiono (peraltro in forma del tutto anonima) anche delle persone le quali, credo (anzi sono certo), non vogliono più avere a che fare con me; né io con loro. Nell'improbabile caso che leggano questa cosa (ma non si sa mai), dico loro di stare tranquille: è solo un bel ricordo, e null'altro. Nessun tentativo di renouer des contactes.

J'ai dépassé les 35 ans de ma vie mortelle, et les forêts ne me font plus peur. Au contraire, je m'y sens à l'abri; parmi les arbres, les plantes, les chemins qui se perdent et s'entrelacent sans ordre apparent, et les animaux qu'on ne voit pas mais qu'on devine, rien ne me pèse.

Pourtant, je ne suis pas un solitaire idéologique; j'ai eu et j'ai une vie sociale assez bizarre, mais riche; ma connaissance des langues (hélas, peut-être trop instinctive ou trop peu raisonnée) m'ayant aidé à développer mon goût naturel du pluriel, je sens que je lui dois plus que des simples "traductions", souvent mal faites.

Le nom des Ardennes paraît dériver d'un ancien mot celtique, ardhu, qui signifierait: noir, obscur. Encore une forêt sombre et noire, comme le Schwarzwald ou la Foresta Umbra du Gargano. Il semble que la forêt partage la suprématie de l'obscur avec la nuit; mais il s'agit très souvent de l'obscurité qu'on a dans soi-même, et dans laquelle on s'effondre à la fois spontanément, pour voir si on est capable d'en sortir. Dans un morceau de forêt ardennaise, un jour d'été, j'ai joué pour la dernière fois avec moi-même et avec la solitude absolue. Avec le noir. Avec l'ardhu. Sans que ceux qui étaient avec moi s'en aperçussent, parce que je n'étais pas seul sur la douce pente menant à la forêt de Vendresse. J'ai gardé le secret, ce petit secret où le passé et l'avenir se confondent, jusqu'à ce jour où les mots tombent enfin sur la page blanche.

Il faisait chaud, ce jour-là; c'était le 12 juillet 2002. On était allés faire une petite balade, mais nos balades n'étaient jamais si petites et, pour moi, elles avaient aussi la dimension de la nouveauté et de la stupeur. Moi je n'aime pas marcher sur le macadam; mais donnez-moi un chemin blanc, des cailloux et de l'herbe à côté et je deviens un marcheur redoutable. Une clope avant de partir, entre les sourires de tes compagnons de voyage qui te regardent avec l'air de dire "regardez-le, il va arrêter en toussant, après cent mètres", et on y va. Mais après un quart d'heure de montée dans les champs, tu marches, tu marches comme un fou, tandis que les autres prennent leur langues à coups de pied. Je ne suis plus là; je suis ma sueur qui coule et qui m'agace comme des insectes invisibles, je suis mes godasses, je suis mes genoux qui craquètent, je suis ma haleine qui danse à un rythme pas toujours régulier.

Vous étiez là, je vous entendais bien; mais rien n'était comme avant.
Moi, la forêt, un ciel bleuâtre et un temps différent. Another time, another place ; et j'arrive à l'entrée de l'Ardhu juste comme on arriverait à une pauvre saison à l'enfer, mais un enfer à moi, un enfer sans prétention où je ne souhaite que la présence des gens et des choses que j'aime. C'est un enfer très vert, tranquille, même frais; c'est un enfer où il serait tellement agréable de s'endormir en rêvant d'être réveillé par un brigand, un saint, un chevalier loqueteux ou une jolie paysanne qui cherche à te vendre ses fleurs.

Et je m'enfonce dans la forêt inconnue, qui ne ressemble guère à celles de mes coins. Mes pieds s'embourbent dans de la boue séculaire qui ne doit jamais avoir connu l'état solide et sur laquelle je laisse des traces que ne seront peut-être jamais effacées. Tout sent la pluie, une pluie sédentaire ou déchaînée, paresseuse ou violente; il faut chercher un abri. Des branches, tombées d'arbres dont on ne voit pas la sommité, se pétrifient lentement tout en prenant des formes agréablement terrifiantes; je devine les sangliers, et leur nom c'est juste ce que je suis. Un singularis, un solitaire qui aurait toujours aimé se perdre dans des forêts d'arbres, mais qui, hélas, n'a fait jamais autre chose que se perdre dans la forêt presque inextricable de soi-même.

J'entends vos voix, vous ne devez pas être loin. De quoi parlez-vous?
Vous connaissez bien ces endroits, vous avez vécu là toute votre vie.
C'est vous, les ardhuinnates ; moi, je suis un intrus qui marche.
Pardonnez-moi, si vous pouvez; pardonnez ce marcheur d'autrefois qui va tout droit.

Et c'est ce jour-là que j'ai parcouru le seul chemin vraiment triomphal de ma vie. Un chemin de je ne sais pas quelle conifère, des sapins, des mélèzes, je l'ignore. Qu'ils étaient hauts, ces arbres-là; trente, quarante mètres, peut-être plus. Et ils savaient bien que j'étais si fier, si heureux, si orgueilleux de passer parmi eux, comme un roi qui sait que son règne ne durera que l'espace de cent pas. Je ne vous oublierai jamais, vous les grands arbres, vous les vrais rois qui avez fait semblant de vous incliner à mon passage pour me donner un quart d'heure de magie et d'illusion.

sabato 26 maggio 2007

L'ho già visto


Rividi nella distruzione
la pietra scolpita da mani
di polveri antiche, la vita
storpiata, le immagini ferme;
mi colsero qui, nella notte
di maggio, le spalle un po' curve
mentre già, lontano, esplodeva
nel sogno il dolore, la fine.

E' da quella notte del 27 maggio 1993 che vado ripetendo una cosa, periodicamente, ogni qual volta mi torna alla mente oppure quando vedo un ovetto Kinder. Dico, sempre, che non importa se andrò all'inferno; l'ho già visto.

L'ho visto a partire da un letto in via di San Salvi, dove dormivo. Due ore prima avevo fatto una telefonata, o forse era un'ora e mezzo, o forse non l'ho mai fatta e me la sono sognata; sì, dormivo, ma di quei sonni strani di quell'anno. Erano sonnacci cani, puzzolenti d'alcool, sporcati d'illusioni, aggrovigliati alla follia. Si sentì uno scoppio tremendo.

Lo sentì anche il mio padrone di casa, pazzo intelligentissimo; ci ritrovammo in corridoio, in mutande, quasi scherzando. "Ci stanno bombardando", disse ridendo. "Ora arrivano gli elicotteri", gli risposi; tornai a letto. Squillò il telefono.

"Riccardo, corri, è un macello, un macello!"

Dall'altro capo del telefono, qualcuno dall'associazione del volontariato sanitario della quale faccio parte da oramai non so quant'anni, davvero da perdere il conto. Istintivamente e immediatamente ricollegai la cosa allo scoppio sentito pochi minuti prima.

Mi vestii alla bell'e meglio in mezzo minuto prendendo la divisa. Un minuto dopo stavo volando in sede con la mia vecchia Ford Escort bianca, quella che nemmeno due mesi dopo avrei decappottato andandoci a sbattere col tetto contro il pianale abbassato di un camion parcheggiato a lisca di pesce, rischiando di decappottare anche me stesso.

In sede c'erano quaranta persone, svegliate come me, lo scoppio, la telefonata. Tra loro, quattro medici che si erano messi a disposizione gratuitamente. Senza dire niente. Una squadra era già partita; furono fatte partire le altre autoambulanze. Io ero l'autista di una di esse. Fiat Ducato, sigla in codice Milano 4.

Da quel momento sono passati quattordici anni esatti. Ed ho ancora tutto negli occhi. La città bloccata dalla polizia, dai Vigili, dalla Protezione Civile. Il percorso obbligato da Lungarno della Zecca Vecchia e da Corso dei Tintori, già transennato. La gente che non capiva che diavolo stesse accadendo. E l'arrivo.

Piazza Signoria trasformata in un cimitero di vetri rotti, per terra ce n'era uno strato di dieci centimetri.

Le finestre di Palazzo Vecchio divelte.

La colonna di fumo che saliva dietro gli Uffizi.

L'ambulanza ferma. Si scende e si corre a piedi con la barella, i teli, i medicinali, l'attrezzatura di rianimazione.

Via Lambertesca.

Via dei Georgofili.

Non importa se andrò all'inferno. L'ho già visto.

Rividi nella distruzione
la pietra scolpita da mani

Le macerie.
I blocchi di pietra caduti.
Il fumo.
Le fotoelettriche.

L' "Antico Fattore" bruciato, con le impronte dell'insegna "Trattoria", che si era disciolta, ancora visibili sul muro.

La gente che continuava a scappare.

Le grida.

Un portone antichissimo di legno, che sarà pesato tre tonnellate, spazzato via. All'interno, una Mercedes scura sepolta dalle macerie. Spuntava solo il cofano posteriore, e la targa: FI K9…..

di polveri antiche, la vita
storpiata, le immagini ferme

I pompieri che scavavano.

E io, e noi lì, con degli elmetti protettivi rossi in testa.
Mi sentii ridicolo.
Non potei fare a meno di sentirmi ridicolo con l'inferno davanti agli occhi.
Chiudevo gli occhi ogni due secondi e li riaprivo con la speranza che fosse un incubo.

Spuntarono due piedi raggelanti, di un adulto.

Era ancora in pigiama.

Spuntò una bambina morta. Aveva un ovetto Kinder in mano.

E, poi, la sorellina di pochi mesi. Di pochi giorni. Si credette che fosse ancora viva. Un vigile del fuoco la prese, avvolta in una coperta, portandola a un'ambulanza.

Morì anche lei.

Come era già morta sua madre, che era stata la prima ad essere estratta dalle macerie della Torre dei Pulci.

Come morì un giovane studente del palazzo di fronte.
Viveva con la sua ragazza.
Era sveglio.
Stava studiando.

Sono quattordici anni che penso a quella ragazza.
Dove sarà adesso.
Che cosa farà.
Se si sarà di nuovo innamorata.
Oppure se il suo amore avrà per sempre ventidue anni.

mi colsero qui, nella notte
di maggio, le spalle un po' curve

Un fotografo della rivista "Epoca", mentre il vigile del fuoco portava via la neonata. Le spalle curve, la testa china.

Rimasi tutta la notte, tutta la mattina, tutto il giorno lì.

Mi toccò vedere gli arrivi dei potenti, dei politicanti, dei giornalisti. Di Carlazzeglio Ciampi, che all'epoca era presidente del consiglio, e che col suo codazzo di gorilla mi tirò una botta dietro che ci mancò poco che rotolassi per terra.

Durante quella giornata mi venne di fare una telefonata.
O forse non mi venne, non me ne ricordo bene.

Mi rispose una voce. O forse no. Raccontai. A qualcuno dovetti raccontarlo.
La voce era strana, fredda.
Eppure mi ricordo che, pochi giorni dopo, su un prato, a quella voce mostrai la foto di "Epoca".

mentre già, lontano, esplodeva
nel sogno il dolore, la fine.

Nemmeno un mese dopo sarebbe toccato a me, di esplodere.
Ed era, anche quello, uno scoppio che veniva dalla stessa notte.
Non fu inviata nessuna squadra di soccorso a raccogliere le macerie.

Passano gli anni.

Come passano gli anni.

Ogni anno arriva la notte fra il ventisei e il ventisette maggio.

Nessuno mi chieda, in quella notte, di fare qualcosa.

Nessuno mi metta mai più davanti un ovetto Kinder.





venerdì 25 maggio 2007

Quand 'riva el cald


Doveva prima o poi succede che anche questo blogghe vedesse il suo primo post originale. Diciamo semi-originale, perché in realtà l'ho già spedito anche sul newsgroup di Guccini (rispetto al quale contiene però un piccolo adattamento). Giorni di gran caldo, questi; il titolo proviene da una vecchia canzone in milanese di Ivan Della Mea.

Madonna che caldo in questi giorni! E quando arriva il caldo, in questa come in tutte le città si cominciano a vedere cose buffe, e divertenti.

Oggi, ad esempio, per andare in ufficio mi sono così abbigliato: maglietta blé con le alci canadesi; pantalonacci di tela leggerissima blé, sfoderati; sandaloni da crucco, senza calzini. Proprio loro. I famosi sandaloni da crucco sbeffeggiati qualche giorno fa da qualcuno sul newsgroup di Guccini, che li aveva visti in una foto della piola.

Una goduria. Nell'ufficiaccio dove lavoro (sapete, quello dove si producono missili e bombe atomiche) siamo in due soli, e con l'aria condizionata e il frigo per mettere l'acqua e la frutta fresca. Per andare a lavorare: treno intercity per Udine alle 9.27, fermate Firenze Campo Marte e Firenze Rifredi. 6 minuti e mezzo per farsi tutta la città, equivalenti a 35 minuti di autobus stracolmi o a oltre tre quarti d'ora di ingorghi in cancromobile.

Mi metto a sedere in uno scompartimento bello vuoto (ma chi cazzo volete che ci vada tutti i giorni a Udine alle 9.27), tiro fuori la settimana enigmistica, e non la faccio. Guardo dai finestrini, dato che il treno passa in mezzo alla città. Incroci e semafori con file agghiaccianti; motorini di merda; miasmi; nervi; cristi, madonne, ditinculo e berci. E io lì, tranquillo, nel treno vuoto che non adopera nessuno per muoversi in città.

Scendo alla stazione di Rifredi, faccio cinquanta metri a piedi e sono arrivato. Coi miei sandaloni da crucco, che fanno respirare i piedi alla perfezione (ci sarà pure qualche motivo perché i tedeschi siano un po' più intelligenti degli italiani; del resto, da quelle parti ci hanno la Frankfurter Allgemeine, e noi ci abbiamo La Repubblica).

Ora dovete sapere che proprio davanti all'ufficiaccio del Venturi, c'è la sede centrale di una banca. Oh, intendiamoci, mica è la Deutsche Bank o la Barclay's; è una banca locale del cazzo, di quelle già fagocitate, di quelle dei "pacchetti personalizzati" (per studenti, casalinghe, vecchi bavosi, ciccaioli, raccoglitori di tarzanelli, inculatori di formìcole & azzannatori di varani); però, a ore fisse, davanti all'ufficio mi passano schiere di fundzionàri e fundzionàrie, tutti belli & belle, giacchettine, camicine, cravatte, scarpozze di marca, taièr eccetera.

Non me li perdo, quand 'riva el cald. Passano lì a parlà de' mercati, de' conti pubblici e d'altre stronzate sulle quali magari s'illudono d'avere qualche influenza, poveri idioti, e l'unico risultato della loro vita da schiavi è quello di sudare. Perché sudano. Come bestie. Camicine inzaccherate. Miasmi ascellari. Fronti eczematose. Fazzoletti impregnati. Slippini fungiferi. Calzini aggorgonzolati. E io me ne sto lì, e guardo, e insieme a me ghignano anche le alci canadesi della maglietta.

Poi, a una cert'ora, se ne rimonteranno tutti quanti nelle loro belle scatolette per farsi qualche ora di traffico congestionato, sognando la doccia come un disperso nel Sahara sogna l'oasi. Sicuramente George Soros terrà in gran conto le loro vite. Ma prima di arrivare alla doccia ci sarà da togliere il bell'abbigliamento corretto, magari uccidendo sul posto la povera mogliettina e i bambini, stile Caryl Chessman nella camera a gas di San Quintino.

Sì, decisamente. Quand 'riva el cald si capisce l'importanza di essere comunista. L'importanza, e la comodità!