giovedì 12 luglio 2007

La nave dei folli (Due)


DUE.

Il progetto era nato in tutta segretezza negli ultimi mesi del 2006, quando, sull'onda dell'indubbio successo e del prestigio che era venuta via via acquisendo, la Fondazione aveva lanciato una sorta di offensiva su vasta scala contro le varie "serate de André" che, oramai da anni, si svolgevano in tutto il Paese. Ritenendosi legalmente titolare dei marchi De André®, Fabrizio® e Faber® (ma per quest'ultimo i legali della Fondazione avevano delle cause in corso sia con la Faber Castell, storica produttrice di matite e articoli di cancelleria, sia con la casa editrice inglese Faber & Faber), non si era limitata a far chiudere una pletora di siti Internet a vario titolo dedicati all'income source, a parte un paio considerati ortodossi e con i quali aveva anzi stipulato un accordo commerciale di massima e concesso l'autorizzazione a fregiarsi del logo, ma aveva iniziato una campagna a tappeto con lo slogan Fabrizio è di tutti.

Quanto fosse di tutti, se n'erano accorti per prime alcune decine di persone che si radunavano ogni anno, la sera dell'11 gennaio, in piazza del Duomo, a Milano, con chitarre e fiaschi di vino, per ricordare l'anniversario della scomparsa di De André. Dopo neanche mezz'ora erano comparse a sirene spiegate alcune auto della Polizia Municipale, dalle quali erano scesi degli agenti brandendo delle ordinanze con il quale il Comune di Milano intimava lo sgombero immediato del luogo pubblico occupato abusivamente, con l'aggravante del disturbo alla quiete notturna. Alle facce incredule degli astanti infreddoliti si erano aggiunti presto alcuni strani tizi in giacca e cravatta nel frattempo sopraggiunti a bordo di una BMW X5 grigia metallizzata; costoro recavano due ordinanze del Tribunale con le quali si sanciva il divieto su tutto il territorio nazionale di tenere manifestazioni non autorizzate contenenti tre marchi registrati. Per sedare un accenno di rissa, erano intervenuti i Carabinieri comandati dal maresciallo Zerbini (peraltro notissimo estimatore di Fabrizio De André), che avevano provveduto a sgomberare la piazza in maniera da non creare ulteriori disordini.

L'episodio aveva avuto discreta rilevanza mediatica, ed aveva portato alla luce l'oramai avvenuta acquisizione in esclusiva di Fabrizio De André, della sua opera e delle iniziative svolte in suo nome da parte della Fondazione; si era infatti configurata, dal punto di vista legale, una situazione di sfruttamento diretto per eredità dei diritti d'autore con regolare cessione da parte degli eredi nelle persone della sig.ra Ghezzi Teodora detta Dori (nata a Lentate sul Seveso, Milano, il 30 marzo 1946), De André Cristiano (nato a Genova il 29 dicembre 1962) e De André Luisa Vittoria detta Luvi (nata a Tempio Pausania, provincia di Olbia-Tempio, il 30 novembre 1977), di detti diritti alla Fondazione "Fabrizio De André" (di cui risultava per altro presidente la medesima Dori Ghezzi, con Fernanda Pivano come presidente onorario). Con la "cacciata dal Duomo" (così veniva chiamato oramai l'episodio) erano state proibite in tutta Italia le manifestazioni deandreiane non autorizzate, fatto che aveva suscitato l'interesse persino di un'infuocata puntata di "Matrix" durante la quale era stato aggredita in diretta la dott.sa Anna Maria Equizzi, alta funzionaria della SIAE, che stava perorando con decisione la giustezza dell'iniziativa nel nome della lotta alla pirateria discografica.

In seguito a questi fatti, che avevano di fatto spinto nella clandestinità tutta una massa di piccole "serate de André" organizzate oramai da anni come eventi-tappabuchi nei palinsesti culturali di innumerevoli e spesso improbabili località, la Fondazione aveva deciso di passare senz'altro al suo progetto-monstre: il Festival.

*

Al piccolo scantinato si accedeva da una porticina metallica situata nello storico palazzo dove, negli ultimi anni del XIX secolo, aveva avuto sede la tipografia che stampava in lingua italiana le opere dell'Anarchismo internazionale. L'anonima targa accanto alla porta recitava:

GABINETTO FOTOGRAFICO SCELSI
CAPOLAGO
SI ESEGUONO STAMPE ANCHE DIGITALI A PREZZI MODICI
SI PREGA BUSSARE CON FORZA

Non c'era infatti alcun campanello; situato a pochi metri dal lago, il fabbricato era attualmente occupato da alcuni uffici dove avevano sede società offshore, finanziarie e persino il Linux Group del Canton Ticino. Era stata vista sempre pochissima gente bussare alla porta metallica; apriva quasi sempre una giovane donna piuttosto alta, che d'estate indossava curiosamente delle magliette con dei draghi e un pin con l'effigie di Gaetano Bresci. Si presentavano sempre le stesse persone, che dicevano ostentatamente frasi come "Avrei delle stampe per un matrimonio", oppure "Sono pronte quelle digitali dell'inaugurazione?"; al che, la ragazza apriva furtivamente la porta, e chi si fosse avventurato per le strette e male illuminate scale che menavano nel seminterrato sarebbe prima passato per due sgabuzzini stracolmi di fotografie tradizionali in via di sviluppo con spose in bianco, gruppi di parenti, neonati, professori a convegno ed altri interessantissimi soggetti; c'erano anche due personal computer e due stampanti laser per le digitali, ma in quel momento erano inattivi.

"Sbrigati, Andrea, vieni dentro".
"E mi sbrigo, mi sbrigo. Notizie di Riccardo?"
"Nessuna. L'ultima volta che mi ha scritto era in Bulgaria per prendere contatto coi fornitori di cd, credo sia sempre da quelle parti…sai che non è semplice…"
"Andiamo giù? Io invece ho buone notizie…"
"Roba dai naviganti…?"
"Sssh. Ne parliamo di sotto."

La giovane donna si avvicinò al tavolino dove erano sistemati i computers, e lo spostò facendo comparire una pesante botola in legno; una volta tiratala via, una strettissima rampa di scale portava sotto. I due scesero, dopo che era stata accesa una lampadina con un interruttore a peretta; risistemata la botola (che sotto il rivestimento in legno era fatta di materiale insonorizzante), si ritrovarono in ciò che veramente era il sedicente gabinetto fotografico: una sala di registrazione e mixaggio. Dotata di tutte le apparecchiature necessarie. Presa live o a tracce separate. Effetti sonori. Campionatori. Hard Disk Recording.

"Insomma…?"

Il giovane si ravviò i capelli che un tempo erano stati assai più lunghi, e porse alla ragazza un foglio stampato:

From: farewellship@aurevoir.aq
To: info@andreaparodi.com
Date: 11-19-2007
Subject: Sei tracce complete

A., in allegato trovi gli mp3 di sei tracce complete della NdF. Si tratta di S. con "Canzone per Nadia Desdemona", del sottoscritto con "Galere", di W. con "The Ballad of Patty Hearst", di R. con "Han visto Dio fumare un Romeo y Julieta", di P. con "Terrazzini" e di G. con "La bite au cul d'un poulet". Vai subito in Svizzera da M. e cominciate il lavoro, non abbiamo molto tempo e tutto deve essere pronto per i primi di marzo, anzi meglio fine febbraio. Mi raccomando a voi. F.

"All'anima, Andrea. I primi di marzo, anzi meglio fine febbraio. E mancano ancora perlomeno una decina di tracce. La vedo dura. E Riccardino che non si fa vivo dalla Bulgaria o dove cazzo sarà andato a finire…"
"Non ti preoccupare per lui, quello torna quando meno te lo aspetti con uno Scania estone carico di tutti i cd più a basso prezzo del mondo…"
"Speriamo…intanto continuo a vederla dura…"
"Beh, qualcosa per cominciare a lavorare ce l'abbiamo."
"Ma come mai i primi di marzo?"
"Al ha ascoltato una conversazione tra la Signora e un altro tipo della Fondazione. Il Festivaluccio di Bordighera comincia il 16 marzo, e in pompa magna. Prima serata su Rai Uno, e fiaccolata in via del Campo con pezzi grossi della politica. Ai primi di marzo, zàc, noi cominciamo la distribuzione clandestina della 'Nave dei Folli' e cominciamo a fregarli. Poi sai chi arriva."
"Ma stanno sempre fra i pinguini…?"
"Sì, ma fra poco si muovono. Spero soltanto che non si fermino a imbriacarsi alla Tortuga, visto gli stomachini che ci hanno fra tutti quanti…"
"Le hai già ascoltate, le tracce?"
"Sì. Roba da far accapponare la pelle, ti giuro."
"Andrea…"
"Dimmi, bellezza."
"E se va male…?"
"Se va male, Manuelina, mi sa che ci faremo un lungo viaggio tutti quanti sull'Arrivederci."

(2 – continua)

mercoledì 11 luglio 2007

La nave dei folli (Uno)


In principio fu "Resurrezione", il feuilleton sull'inaspettata rinascita di Piero Ciampi in una Livorno ripensata col cuore del ricordo; e avevo pensato di ripubblicarlo integralmente su questo blog, in tutte le sue venti puntate più il relativo "cestino di vimini". Ma l'idea di un suo seguito mi covava dentro da un po'. Mancava però la condizione necessaria per scriverlo: una particolare concomitanza di eventi che non mi si verifica che molto raramente. Oggi mi sono steso per mezz'ora sul letto, con la finestra aperta, nel primo pomeriggio. Mi sono addormentato per pochissimo tempo, e al risveglio la storia era già tutta formata. Non esiste mai nessun "autore": sono le storie che si scrivono da sole, e decidono loro quando farlo. Allo scribacchino di turno il compito di mettersi a un tavolino e dar loro forma. "Dopo due estati" è accaduta di nuovo questa cosa, e la ripubblicazione di "Resurrezione" aspetterà. Per ora, in diretta, ecco l'inizio di questa "Nave dei folli". Dove porterà? Io lo so. Mi è apparsa in sogno. Voi lo saprete fra, diciamo, un paio di mesi e un'altra quindici o ventina di puntate che non avranno nessuna cadenza fissa. Quando le scriverò, le metterò. Va anche, in contemporanea, sulle mailing list "Fabrizio" e "Brigata Lolli" e sul newsgroup it.fan.'musica'.guccini.

La Nave Dei Folli
Ulteriore racconto probabile, con Piero, Fabrizio ed altri

"E va la nave dei folli, e va con morte e vita in lungo avvilupparsi"
Sebastian Brant, "Das Narrenschiff", 1483

*

UNO.

La signora, elegante e con aneliti ad una sobrietà che non aveva, rigirava nervosamente tra le dita una matita già mezza consumata; davanti a lei, dei fogli stampati, una bottiglia d'acqua minerale e un piccolo computer portatile. La sede centrale della Fondazione si trovava al terzo piano di un palazzo del centro, non lontano da un'importante e antica chiesa, ed era segnalata soltanto da una targa in plastica sistemata sopra la piastra dei campanelli, all'ingresso principale. "Fondazione Fabrizio De André, p.III"; così recitava la scarna dicitura.

"Dori, senti, secondo me non ci dovremmo preoccupare gran ché di questa cosa. I soliti mitomani, probabilmente, e avrei anche una certa idea di chi siano…"
"Sarà, caro Valter, ma la cosa ormai sta andando avanti da un bel po' di tempo. Hai letto l'ultima mail arrivata, eh?"
"No, non l'ho letta…"
"Ecco, allora da' un po' un'occhiata qui…"

La signora porse un foglio al suo emaciato interlocutore, che si mise a leggere inforcando gli occhiali:

From: farewellship@aurevoir.aq
To: fondazionefda@iol.it
Date: 11-18-2007 02.35
Subject: Avviso ai fondatori

Come state, cari fondatori? E tu, cara consorte? Speriamo bene. Certo ne hai fatta di strada dal Kasatchok! Volevo e volevamo avvertirvi ancora una volta che sarebbe l'ora che vi deste una regolatina, perché siamo in giro e non ci piacerebbe dovervi venire a fare una visita per parlare di certe cose. Ci siamo, lo sapete bene. Chiedetelo al dottor Morbidi del Premio Ciampi, se ci siamo… come dite? Il dottor Morbidi non si è fatto più vedere? Ma no! Non ci possiamo credere! Insomma, sarebbe meglio che non procedeste così speditamente per l'organizzazione di quel certo festival… Siete avvertiti. Vi teniamo d'occhio. Con tanti cari saluti, F. e gli altri.

"La solita cosa, Dori. Sono sempre più convinto di sapere bene chi c'è dietro a queste lettere. Che fantasia, poi; pure l'indirizzo mail dell'Antartide! Si vede che vogliono stare freschi…"
"Il problema, Valter, è che ho fatto analizzare il percorso delle mail da un mio amico esperto, e sembra che tutto provenga realmente da una base antartica. Esattamente la base scientifica norvegese di Sønderfjørd nella parte orientale della Terra di Adelia. Tutte le coordinate corrispondono, e l'indirizzo mail è regolarmente registrato. Fa' quello che ti pare, ma io sono preoccupata. E non capisco. Che male ci può essere? Si tratta di una così grande iniziativa…"
"Ma è quello che vogliono, non capisci. Questi sono pazzi. Sono convinti che De André, Ciampi, Endrigo e quant'altri siano soltanto 'cosa loro'. Logico che vedano il festival come fumo negli occhi! Oramai ne sta parlando tutto il paese, del Festival De André di Bordighera. A proposito, parliamo di cose serie….non ti avevo detto una cosa…"
"E dimmela, dai."
"Mi ha scritto e convocato il direttore di Rai 1, sarà prima serata. E per tutti e cinque i giorni. Dal 16 al 20 marzo prossimi, le date sono confermate. Un mese dopo Sanremo, e se vogliono starci dietro, stavolta si devono dare da fare sul serio, altro che canzonette simil-impegnate…."
"Convocato? Questo vuol dire che…?"
"Vuol dire che l'accordo è pronto, e non sono convocato soltanto io. Ci dobbiamo essere in una delegazione ai massimi livelli. Tu, la Nanda, Gigi, tutti. Il 16, pre-collegamento in diretta da Genova con la fiaccolata in via del Campo…cose grosse, Dori, ma grosse. Il direttore mi ha detto in via del tutto confidenziale che sarebbe interessato a presenziare anche un certo mio omonimo…"
"Veltroni?!?!"
"Proprio lui. Sai come vanno le cose. Possibile che con la situazione attuale sarà già in campagna elettorale, e una cosa del genere, se ci pensi bene, non se la può lasciar sfuggire. Sono vantaggi reciproci, potremmo anche studiare una cosina apposita…che so io, fargli cantare una mezza canzone…"

La signora fece un sorriso enorme, battendogli una mano sulla spalla. "Valter, se tutto va come deve andare avremo davvero messo una pietra miliare. Hai sentito quelli di Bielle per la logistica? Sai, con Mantova hanno già una certa esperienza…
"Tranquilla, è tutto a posto. Sono con noi. Scusami, però, ora bisogna che vada…per favore, pensaci tu a diramare i comunicati agli altri, ma stavolta falli un po' più comprensibili…sennò la povera Nanda non ci capisce nulla, eheheheh! "
"Ma tu…ma poveraccia, perdio! Dai, non essere perfido…"
"A volte lo sono, anche se non se lo immagina nessuno…"

*

"Dé, ir primo che dice che a noiartri morti 'ni garba ir freddo, 'ni stiro le gengive…"
"Piero, forse ancora non ti sei reso conto dopo due anni. Non siamo più morti. Siamo ufficialmente resuscitati. Il problema è che da resuscitati bisogna andare in giro con un po' di attenzione, hai visto cosa t'è successo a Livorno i primi giorni. Ora bisogna stare qui, ma coraggio, non sarà ancora per molto tempo…"
"Sarà, ma manco da morto avevo avuto tanto freddo…come diceva la barzelletta dell'eschimesino napoletano…teng' 'n' fridd'…"

Si misero tutti a ridere di gusto. L' "Arrivederci", con le sue infinite capacità di trasformazione, aveva assunto oramai da due mesi l'aspetto di una serissima base scientifica norvegese con tanto di bandiera e cartello bilingue:

KONGERIKET NORGE
VETENSKÅPLIGE ANTARKTIKBASIS SØNDERFJØRD I ADELIALAND
KINGDOM OF NORWAY
SCIENTIFIC ANTARCTIC BASIS OF SØNDERFJØRD, ADELIA LAND

"Sì, ridete, ridete. Però intanto ir naso fori 'un ce lo mettete manco voi…"

Da un angolo, dove stava strimpellando non si sa cosa, intervenne pacatamente Sergio:

"Piero, su, dai, non ti lamentare. Sono due anni che siamo in giro e al caldo ci siamo stati, e se non fosse stato per quel casino che hai combinato a Curaçao…"
"Senti te, Trieste, prima di tutto c'eri anco te, e poi ar sottoscritto Ciampi Piero 'ste 'ose 'un le devano fa, né a Curassào e né a Curamistaceppadicazzo. Se domando ir rumme bono, me lo devano dà bono, no un troiaio 'e sa di rigovernatura di piatti…e fàccelo anco pagà' trenta dollari a boccia, dé, ma n'ho fatto pòo di bordello…"
"Sì, poco…hai preso quel povero barman olandese e gli hai spaccato la bottiglia in testa…dopo dieci minuti ringrazia che non c'era già la guardia nazionale…"
"E che sarà corpa mia, budello di gesù, se n'hanno approfittato pe' tirassi tutti ner muso?…"
"Ma lo sai che da quelle parti…"
"Sì ma proprio in Antartide si doveva scappà…? 'Un si poteva andà chessoìo all'isola di Pasqua? Alle Galapagos?…In quarc'artro posto dove ci fosse 'varche donna…? Dé si sarà anco risuscitati, ma in du' anni s'è pipato 'n po' poìno…e penzà che avevo trovato la Miriana, a Curassào…"
"Seee, le Galapagos…pagos una sega, te, che non ci hai mai il becco di un quattrino e ci tocca sempre pagarti a noi…la Miriana, poi…in quella lì c'inzuppava anche il papa…"

Tale cortese osservazione era provenuta da una voce non meglio specificata, sollevando un'altra sghignazzata generale; la quale s'era interrotta quando Piero era scattato in piedi brandendo un microfonone di cinque chili e minacciando di spaccarlo sul capo al primo che capitava.

"C'mon boys! Boni! This land is our land, now! Se deve staqquà…!"

Chi aveva parlato, in un italiano rabberciato imparato a bordo, era Woody. Non parlava tanto, ma quando lo faceva aveva quel ché di naturale autorità sufficiente a farsi ubbidire senza storie e a calmare le acque di que' cantastorie resuscitati. "Guardare, ragazzi, io ci ho questa. This guitar kills fascists di solito, ma non si vergognare essere tirata su capo a Italian folksingers. Chiaro…?"

"Chiaro…"

E si rimisero tutti a sedere, mentre Fabrizio scuoteva la testa con un sorriso sconsolato. "Su, su. Ce n'è ancora per poco. Intanto, mentre voi ve ne state a leticare, guardate un po' cosa ci arriva. Certo che lavora bene, quel ragazzo…"

E si alzò dallo sgabello davanti alla postazione radiotelematica, con in mano un foglio. "Ci scrive la nostra talpa nella Fondazione, ragazzi. I nostri amichetti e la mia dolce consorte fanno le cose in grande, stavolta…sì, sì, fra poco sarà ora di partire e di fare scalo in quel certo posto…"

From: alessio.lega@fastwebnet.it
To: farewellship@aurevoir.aq
Date: 11-18-2007
Subject: Prima serata

Mes chers amis, da quello che sono riuscito a sapere la cosa sarà tra il 16 e il 20 marzo prossimi in prima serata su Rai 1. Ho captato D. e V. che ne parlavano. Si parla anche di un pre-collegamento in via del Campo con la presenza quasi certa di un noto uomo politico italiano, V.V. Ulteriori notizie non appena le avrò. Saluti et vive l'Anarchie, A.

(1-continua)


La fiaccola dell'Anarchia


Questo è un post molto "antico": risale al 2 aprile 1999 e già dal titolo si capisce che proviene dal newsgroup di Guccini. Ma Guccini c'entra solo marginalmente; o, meglio, è la filigrana della carta. C'entrano, invece, due persone che ho conosciuto. La prima è un mio vecchio padrone di casa; la seconda è la nonna della mia ex moglie. C'entrano dei periodi in cui m'è capitato di condividere la vita di queste persone. Non voglio dire altro.

Qualche volta, senza bandiere né slogan, m’è capitato di vedere accesa la fiaccola dell’Anarchia.

La canzone di Guccini è In morte di S.F. Lui aveva le iniziali invertite: F.S; era il mio padrone di casa dei tempi dell’università.

F.S., come le ferrovie; come i binari che correvano sotto casa facendo sobbalzare tutto ad ogni pur misero locale che passasse, come i binari impazziti che aveva dentro. Una malattia lucidissima, terrificante, incurabile; sui certificati che ogni tanto mi faceva vedere c’era scritto: sindrome paranoico-schizofrenica con accentuata mania di persecuzione. Faceva il magazziniere, ed era una delle persone più intelligenti, simpatiche e colte che avessi mai conosciuto; gli piombai in casa una mattina di gennaio, attirato dal basso prezzo che pretendeva per una stanza luminosa e grande. Il giorno dopo sbarcai coi miei libri, una macchina per scrivere dei tempi di Noè ed un cartoccio di pizza coi capperi e le olive.

Aveva viaggiato sempre, e mi raccontava qualche volta di quando e come avesse incontrato la bestia. Una volta, mentre era al lavoro tra i suoi scatoloni di giocattoli, mentre stava scrivendo chissà cosa su quale registro o bollettino di carico e scarico. Descriveva minuziosamente tutte le fasi della sua implosione, del suo scomparire dentro sé stesso, e ci scherzava sopra; parlava dei suoi viaggi, delle sue ragazze, del posto dov’era nato. Un posto con il nome più bello che abbia mai sentito: si chiama Falce Torta, due o tre case sprofondate nella campagna casentinese, dove pochi anni prima era morta sua nonna Fosca, che usava dire che "la vita è come un forcone, chi infila, infila".

Cucinava benissimo, mi ricordo sempre le sue seppie in zimino; sapeva fare ogni cosa. Accanto al suo letto d’uomo solo, bucherellato dalle cicche spente, teneva una foto di Dacia Maraini. Mi diceva che era una gran donna. Leggeva i suoi libri con un quaderno sempre aperto, per annotare quel che lo aveva colpito; poi, a volte, lanciava via tutto. Mi diceva d’andare in camera mia, mettendomi una mano sulla spalla, perchè stava arrivando la bestia e se n’accorgeva. S’attaccava al telefono senza comporre il numero, e ascoltava per ore il tu-tu-tu completamente immobile. Credevo che i suoi libri fossero tutti sfasciati dall’uso e dalla lettura, ed una volta, invece, capii il perchè. Li lacerava, li buttava dalla finestra, li prendeva a calci. Non mangiava nulla, fumava e beveva litri di caffé. Diceva che era tutta colpa della Polizia, delle botte che aveva preso durante una certa manifestazione, poi si metteva in contatto con delle cose verdi che stavano sul pianeta Vega.

Una volta lo hanno trovato completamente nudo in una chiesa che insultava un crocifisso e pisciava all’altare; usava rovesciare il bidone della spazzatura sul tabernacolo sotto casa. Faceva quel che gli ordinavano. Sudava. Piangeva. Si chiudeva in camera. Quando usciva, aveva un grande sorriso e non si ricordava di niente. Si ricominciava a tirar mattina davanti a un fiasco di vino, a leggerci le poesie che amavamo; ho conosciuto una grandissima poetessa francese del ‘500, Louise Labé, grazie ad un magazziniere paranoico.

S’andava insieme a teatro, in bicicletta, ben attenti a indossare i nostri soliti maglionacci del mercato e blue jeans di seconda mano, per ascoltare parole. E una volta la bestia lo prese durante la Tempesta di Shakespeare, durante un monologo di Ariel, lo spirito del vento. Un giorno dovetti andare via, e ogni tanto ripasso sotto casa sua. Vedo sempre la sua Vespa ammaccata, e la finestra della mia stanza, ora chiusa, ora aperta.

*

La canzone di Guccini è Amerigo. Quello che probabilmente uscì chiudendo dietro sé la porta verde; e, infatti, c’era una porta verde, ed un grande cancello verde. Dietro, un diospero che di novembre, quando il cielo sullo sfondo si faceva d’un profondo grigio argentato, lanciava le sue macchie d’un arancione carnoso a creare il più bel contrasto di colori che abbia mai visto. E i campi di grano dietro la casa, il mare d’erba verde ondeggiante, il Castello illuminato la notte. La notte, quando ammaestravo una civetta che mi veniva alla finestra dello studio, attirata dall’unica luce accesa nel buio più assoluto, con dei pezzettini di carne tritata. Mi guardava coi suoi occhi verdi. Come Mafalda, la vecchia Mafalda. Venuta da chissà quale angolo della campagna, venuta da chissà quale tempo.

Non si ricordava di quel che aveva detto un minuto prima, ma mi parlava di suo nonno. Di suo nonno che, quand’era bambina, se n’andava a tagliare il bosco in quei boschi fra la montagna senese e la Maremma, e che, per guadagnare due soldi, una volta all’anno se ne andava a piedi fino a Piombino per fare chissà cosa. Di suo padre stravolto dalla fatica e dal vino, che tornava a casa a massacrare di botte sue moglie, mentre lei e i fratelli si nascondevano nella stalla, a volte nella merda. Di suo marito mandato a fare il conquistatore in Abissinia per ordine di Mussolini, e quando le nominavi Mussolini dovevi stare attento che non avesse il trinciapolli in mano. Della sua prima figlia, morta a nove anni nel ‘43 in un bombardamento, e della sua seconda figlia, morta a trentuno anni di leucemia.

Ma lei, di fiaccole, se ne intendeva per davvero. A quindici anni era dovuta andare a lavorare in fabbrica, per tirar su cinque lire al giorno; una fabbrica di fiammiferi. Si ricordava ancora a memoria tutte le miscele necessarie per fare gli zolfanelli, di quando arrivavano i Lancia Rho carichi di legno, quei camion colle gomme piene che sembravano sempre sul punto di dar di balta, e che invece montavano anche su’ muri. Di come in fabbrica non ci fosse neanche non dico un estintore, ma neanche una sistola attaccata a una cannella, neanche un sacco di sabbia; e del capataz che girava tutto il giorno tra le operaie col sigaro acceso, che non le lasciava neanche andare in bagno e poi tanto era inutile perchè il bagno non c’era, di quando tornava a casa che puzzava di zolfo come neanche il Demonio.

Era vecchia, risecchita, e quegli occhi verdi chiari che sembravano dipinti dal Beato Angelico; quegli occhi verdi che s’attaccavano a qualunque cosa odorasse di zucchero e di vino. Metteva lo zucchero sui pomodori crudi e se li mangiava; zucchero sul tavolo, e c’inzuppava il pan bagnato. E il fiasco davanti, di quel vino ai margini del Chianti, di quella specie di melassa rossa. La grappa fatta in casa, che qualcuno doveva nasconderle in alto perchè era capace di scolarsene una bottiglia in un giorno. Era diventata il punto di riferimento di tutti i cani della zona, i vicini non volevano che desse loro da mangiare e lei se ne fregava altamente. Ne aveva otto. La lucetta votiva appesa sotto i ritratti delle sue figlie, di suo marito, e ogni sorta di cose nella sua camera, anche raccolte nel bidone della spazzatura davanti casa.

Le cose, le cose e la terra, e a culo tutto il resto, anche il suo funerale in un giorno soffocante di fine luglio, con cinque persone a seguirla, nella luce accecante come quella d’una bomba.

E che ci giunga un giorno ancora la notizia d’una locomotiva, come una cosa viva, lanciata a bomba contro l’ingiustizia.

sabato 7 luglio 2007

Western Pearl


"Contestualizzare" è una parola che trovo detestabile. Ma a volte non se ne può fare a meno. Questa è probabilmente una delle cose a più elevato tasso alcoolico che io abbia mai scritto, e la sua data, il 30 gennaio 2002, lo giustifica per vari motivi. Il calcio all'inverno, ad esempio; non era semplicemente l'inverno di quell'anno, ma tutto un inverno in cui m'ero andato a cacciare da diverso tempo e che, da pochi giorni, aveva ricevuto non un tiepido raggio di sole, ma un vulcano intero, in carne ed ossa, materializzatosi in una serata milanese. Ma continuando a "contestualizzare", in quel post scritto in condizioni spaventose alle tre e mezzo di mattina c'era "in tre minuti tutta la storia della mia vita". Persino l'immancabile notazione etimologica. Il "canale IRC", che poi era quello del newsgroup di Guccini; in certe serate era un incrocio tra un puttanaio, un campo di battaglia e il pianeta dell'amore. Non dovevo "bere fino al 30 aprile" perché dovevo operarmi per un piccolo tumore al pene, un condiloma, poi rivelatosi un'inezia ma che aveva aggiunto cazzacci amari a quelli che già avevo a dirigibilate intere. C'è il pub "Nessie" di Livorno, che esattamente due mesi dopo avrebbe visto una cosa che ho già raccontato parlando di un treno. Lo stesso pub dove, il novembre prima, s'era impiccato un mio amico, uno dei gestori. Un ragazzo di 25 anni mezzo livornese e mezzo polacco, che quand'era livornese si faceva chiamare Michele e, quand'era polacco, Alekszej. Pochi giorni prima che si ammazzasse gli avevo regalato una grammatica polacca. C'è Piero, che di cognome fa Ciampi, e che ho cominciato neppure tanto inconsciamente a far risorgere quella sera; ma questa è un'altra storia. Ci sono vari episodi violenti della mia vita; ma la mia, e lo dico solo a mo' di constatazione, è una violenza esclusivamente fisica, fatta di mani, di braccia, di cazzotti. Mai un'arma in mano. Mi sono comunque dovuto ritrovare in un'aula di tribunale, quel posto dove si capisce definitivamente che al loro posto non ci sai stare. E qui devo fare una parentesi un po' delicata. Nel post è nominato tale commissario Cerofolini. Non ne parlo mai volentieri. Non sono mai stato uno che indulge al "buon poliziotto", al "bravo sbirro". Per me la polizia è e rimane la peggiore merda che esista sulla faccia della terra. Non amo sdilinquirmi sulle "eccezioni", perché a forza di eccezioni si finisce invariabilmente per giustificare appieno tutto ciò che la polizia fa, ivi compresi i Bolzaneti e le scuole Diaz. E' una premessa che ritengo necessaria prima di limitarmi a raccontare brevemente che, una sera di giugno del 1993, dormivo beatamente in piazza Signoria, a Firenze, senza rompere le scatole a nessuno. Dormivo. E basta. Mi venne a svegliare in malo modo un agente di polizia, con un calcio nel sedere; non contento, iniziò a dirmene di tutti i colori, a darmi di finocchio, di lurido, di drogato. Scattai all'improvviso, in modo quasi inconscio, cominciando a pigliarlo a cazzotti, ma di quelli fitti, di quelli disperati. Credo che mi fermarono i colleghi dell'agente prima che lo ammazzassi, perché lo avevo messo a terra. Fui portato in questura, dove c'era, appunto, questo commissario Cerofolini, di turno. Il quale, dopo avere confabulato con quegli agenti e aver tirato delle bestemmie in salernitano o roba del genere, urlò: Quella bestia non capisce un cazzo. Pensavo ce l'avesse con me; invece ce l'aveva con quello stronzo che mi aveva svegliato a calci. Poi mi prese da una parte, dicendomi di levarmi alla svelta di lì. Non ci capivo più niente, erano le cinque di mattina e ero distrutto; dovette farmi il gesto del "fuori dai coglioni" con una mano. Non l'ho mai più rivisto, nemmeno incrociato per caso. Nulla. Questi sono i semplici fatti e non intendo, neppure adesso, minimamente commentarli. Ho avuto, quella notte, un immenso culo; e non solo per il commissario, ma anche perché ancora sto a chiedermi perché quel demente non avesse cacciato fuori la pistola mentre lo riempivo di cazzotti. Ripensandoci, mi sono a volte detto che devo avere incontrato il commissario Montalbano, e probabilmente qualcosa della mia autentica passione per il commissario di Camilleri la ricollego in modo subliminale a quell'episodio. Fine della storia, e nessuno mi caverà mai più niente. "Franco" è ancora una volta Franco Senia. Tutto il resto è...Western Pearl. A proposito: non l'ho mai più ribevuto. Meglio così. Se vi capitasse di trovarne una bottiglia, comunque, fateci estrema attenzione.

Lo conoscete il Western Pearl?
Ah, la Perla d'Occidente. La Perla del Tramonto.
Color dell'oro!
Franco, lo so che io e te si beve tequila. Lo so che, per stasera, è un tradimento. Come andare con una donna totalmente diversa dalla propria.
Ma l'amore, l'amore è plurale. Non c'e' mai amore verso una cosa sola.
Anzi, diceva mio nonno Bruno che o c'e amore verso tutto, o si muore.
Probabilmente era una cosa che s'era detto anche a Mauthausen, dove lo avevano spedito e da dove era riuscito a tornare vivo. Si noti questa parola: vivo. Che suono strano, con quelle due "v" che anticamente avevano una "g" davanti (indoeuropeo *gwiwos).

Ricostruisco la storia di stasera, che in tre minuti è la storia della mia vita.
Ero sul canale IRC. Si parlava e a un certo punto, contravvenendo alle regole hygieniche che vorrebbero ch'io non bevessi fino al 30 aprile, giorno in cui mi devono togliere una specie di tumore dal cazzo (per favore, non chiamatemelo "pene", nome orrendo che ricorda le pene e W "Porci con le ali"), ho cavato fuori una bottiglia di Western Pearl che avevo comprato oggi pomeriggio al Nessie. Il Nessie e' il pub dove il 6 novembre scorso s'e impiccato il mio amico Alekszej, ed e' l'unico posto a Livorno dove vendono il Western Pearl, la birra Kwak (che si beve col whisky Talisker), il Vabarigis Valge (una bomba a orologeria estone fatta dalle patate) e il White Diamond Fog, che è idromele.

Dicevo, che ho incignato il Western Pearl raccomandando a tutti di fermarmi a un certo punto.
Solo che poi è arrivato Piero. All'improvviso.
Piero è la rabbia dell'amore. E' la cosa che in mezzo millisecondo ti fa scorrere tutta la vita concentrandola in un calcio o in un pugno.
C'era Piero quella sera che ho tirato il naziskin nella vetrina del gelataio. E' venuto la prima volta quella sera che hanno ammazzato Rodolfo Boschi. C'era quella volta che ho steso mio padre sul pavimento con un cazzotto e quando s'è alzato mi ha stretto la mano. C'è stato quando il commissario Cerofolini m'ha mandato libero anche se avevo massacrato un agente che non mi voleva far dormire per terra, e non rompevo i coglioni a nessuno.
Stasera volevo ammazzare l'inverno.
E così sono uscito, sperando d'incontrarlo.
Per dirgliene quattro, cinque o sei.
Pero' mi son portato dietro il Western Pearl.
E via, via, via.
Aveva un colore bellissimo, tutto il contrario dell'inverno. La Giamaica. Ho deciso: ai mondiali di calcio tiferò per la Giamaica anche se non c'è. Red, Red, ma quale Cina. Noi si tifa Giamaica.
Che calcio gli ho tirato, all'inverno!
E' volato via, Franco. Vedessi!
Io penso in antica lingua di forme complicate, ma stasera il calcio gliel'ho tirato in esperanto!

Il Western Pearl è un rum giamaicano. Ha 67 gradi. Se ne beveste due bicchieri pieni sareste già sdraiati per terra.
Io ci ho davanti qui la bottiglia. Vuota. Hihihhihihihihi !
Che bel calcio all'inverno!

giovedì 5 luglio 2007

Libri


Ogni post, o repost, contenuto in questo blog contiene la data di redazione, o quantomeno il periodo. Per questo post è particolarmente importante: il 3 giugno 2002. Da due giorni avevo eseguito il trasloco, o forse meglio sarebbe dire la smassatura, dei miei libri da Livorno. Un furgone noleggiato, un grosso "Daily" dove alla fine non sarebbe entrato più nemmeno un capello. Erano appena iniziati cinque anni che mi avrebbero portato molto lontano. Tra quei libri, molti hanno preso altre strade; altrettanti sono ancora qui con me, a seguirmi, a condividere. Il post era stato scritto per il newsgroup di Guccini. Sullo stesso thread, Franco Senia scrisse un'altra cosa che ritengo del tutto inscindibile. E' riportata in un commento.

Portati via a forza di braccia giù per le scale di quella che, per anni, è stata casa mia. Ammassati alla rinfusa dentro a un furgone preso a noleggio. Portati in giro per strade ed autostrade, e ad ogni curva un crollo. Copertine che son saltate, pagine strappate, strane commistioni venutesi a creare (le poesie di Mario Luzi incastrate dentro una grammatica birmana, le Sette principesse di Nezamî avvinte in un appassionato amplesso con un dizionario bulgaro e una copia di PK New Adventures). Infine, scaricati in un sottoscala condominiale davanti agli inquilini esterrefatti. Son venuti fin dall'ultimo piano a vederli, ci fanno le gite in ascensore. E, piano piano, me li sto portando tutti in casa. Disponendoli su scaffali veri e improvvisati. Sono più di seimila.

Libri. Sono libri. E ognuno di essi, via via che li tolgo dal mucchio immane, dalla babele borgesiana in cui il caso e l'ordine sono inestricabilmente avviluppati, mi racconta una storia. Pagina dopo pagina, tutta la mia vita, tutti i miei disordini, tutte le solitudini che hanno viaggiato insieme a me. Perché io non mi sposto senza i miei libri. Mi seguono e mi seguiranno ovunque, e alla fine andranno da qualche parte dove siano a disposizione di tutti. Eccoli là, sempre più polverosi, sempre piu' squinternati, scalcinati, scarabocchiati, laceri, macchiati; io odio chi dice che il libro va "rispettato". Va rispettato quel che c'è scritto dentro. Piglierei a calci i bibliofili, Franco Maria Ricci, e tutti coloro che considerano il libro un bel soprammobile. Le strenne natalizie delle banche. I libri cosiddetti "d'arte" che nessuno apre, ma che fanno tanto figo nel salotto buono. Vade retro. Ce ne ho pure, di questi bei volumi, ma sono scarabocchiati, spaginati e usati come tutti gli altri.

Eppure li sistemo con un ordine maniacale; e diversi si sono addannati a farci psicologia addosso. Togliete pure un opuscolo di poche pagine, e me ne accorgo. Una volta disposti, non permetto a nessuno di toccarli, e so bene che è una delle mie cose piu' antipatiche. Ok, ok, sono un ultras del libro. Li presto solo a poche persone fidate, che so che li tratteranno malissimo ma li leggeranno. Quando torneranno da me, so che ci sarà dentro anche un po' di vita altrui. Se qualcuno ci ha infilato un foglio dentro, un fiore secco, qualsiasi cosa, non la tolgo; in una vecchia grammatica araba trovai dei tovagliolini di un caffè del Cairo con alcuni appunti incomprensibili, che sono ancora lì e vi resteranno. Chi li avrà scritti? Perché li avrà messi lì dentro? Ma c'è tutto il mondo, perché i miei libri hanno davvero fatto il giro del mondo prima di arrivar da me; ed io l'ho fatto assieme a loro.

Ma che vi starò a raccontare, sudato come una merda, che ci avrei bisogno di una doccia più d'un lingotto d'oro e invece sto qui a scrivere su questo newsgroup già in vacanza? Non lo so. Stavo nel sottoscala a smassare, dividere e portar su libri, libri e libri. Poi a ordinarli stanza per stanza, scaffale per scaffale, uno per uno. Mi pigliavano strane rabbie, bizzarri slanci, e un pozzo di ricordi senza fondo. "Ti amo, Riccardo, 4 gennaio 1980. G." Sta sul frontespizio della Grammatica della lingua serbocroata di Giovanni Androvic', edizioni Cisalpino-Goliardica, reprint degli antichi Manuali Hoepli. E mi ricordo come fosse ieri di quando quel libro mi fu messo in mano, di quando lo scartai dal pacchettino, degli occhi che mi brillavano.

E su per le scale inveivo dentro di me contro quell'imbecille snob d'investigatore barcellonese che brucia i libri, che ci accende il fuoco. Ma datti fuoco tu, cretino d'un Carvalho. Uccidevo con la mente chi si sciacqua la bocca con la "vita vera", quella che "non si impara sui libri"; strangolavo Ubertino da Casale che urla a Adso da Melk: "Butta via tutti i libri!", e con lui tutti i predicatori di falsa esperienza, chi vuole "tornare alla semplicita' ", chi vorrebbe far disprezzare la cultura perche' "isola dal mondo reale" e compagnia bella. Garrotavo con il pensiero chi ha fatto le battutine sul "peso della cultura" mentre mi ha visto sudare sette camicie per scale di mille case diverse, a portar su e giù libri, libri, libri. Ricordavo con affetto Fiorenzo, un mio vecchio padrone di casa, che uno scaffale intero di libri, che adorava, me lo buttò giù dalla finestra del primo piano; e ancora ne portano i segni, i segni di un periodo della mia vita, i segni di una follia, di notti in bianco, di lacrime e di risate che non finivano mai.

E io porto i segni di quei libri. Di tutti quanti. Come loro portano il mio. Di quel che ho fatto di bene e di quel che ho fatto di male. Di tutte le persone che ho incontrato, di quelle che mi hanno amato, di quelle che mi hanno odiato. Di sogni, speranze e ipocrisie. Ci ho volato e ci volerò assieme, nei mondi della fantasia, della scienza, della pazzia e del sangue.



lunedì 2 luglio 2007

La scimmia del quarto Reich


Eccomi tornato a Firenze. Ma, dal punto di vista del blog, ci torno con una cosa...scritta proprio a Friburgo, l'otto maggio 2005. Per il newsgroup e per la mailing list di De André. Era, quel giorno, il sessantesimo anniversario della fine della II guerra mondiale. Vi si parla anche della "Domenica delle Salme", e del suo video.

E' notte, e fa freddo. Per di più, comincio a scrivere a un'ora dal numero strano, le 3.33 in punto. Si gela. Tira il vento del nord. E' l'otto maggio, e sessant'anni fa finiva la guerra europea.

Stasera, cioè qualche ora fa, mi sono guardato alla televisione (sì, la televisione, ma una piccola tv francese indipendente) un documentario, l'ennesimo, sulla fine della guerra. Immagini di potenti e di cadaveri. Immagini di festa e di disperazione. Immagini che riuscivano a dare un senso di morte anche quando erano di festa. Immagini di folle e di solitudini. Immagini di prigionieri e di armi. Vi si vedeva anche quello che doveva essere il cadavere di Hitler bruciato, nell'atto di essere riconosciuto dal suo medico. Immagini che scorrevano rapide; come quelle di un altro documentario guardato qualche ora ancora avanti, su Robert Capa.

Se non avessi avuto un'altra persona accanto che voleva probabilmente sentire il commento (pronunciato da uno stupidissimo speaker con tono quasi marziale, e dal testo orrendo), so benissimo che cosa avrei fatto. Avrei messo il volume a zero, e mi sarei guardato quelle immagini con il commento musicale della "Domenica delle salme". Più le guardavo, e più mi ricordavano il video di quella canzone, girato da Gabriele Salvatores.

Sono passati sessant'anni. Mi viene a mente una cosa singolare, cioè che sono nato solo diciott'anni dopo la fine di quella guerra. E mi martella la testa quel verso della canzone di De André, "La scimmia del quarto Reich ballava la polka sopra il muro". Lo si vede, lo si tocca, il quarto Reich. E' il Reich dell'imbecillità più totale. Un Reich "democratico". Un Reich non riservato ad un paese in particolare. Un Reich globale. Un Reich nel quale dio è sempre di più con loro. Un Reich dove milioni di scimmie ballano polke sopra tutti i muri, cantano canzoncine da stadio a un moribondo e al suo successore benedicente e benedetto, si ammazzano e ammazzano per un telefonino. Un Reich dove non si sa più neppure dove stia veramente il Führer.

Ci diciamo di "resistere", e noi si resiste. Ma si resiste sempre più stanchi e con sempre maggior voglia di mollare ogni cosa e di trovarci da qualche parte l'isola che non c'è. Nel mondo "democratico" si compilano manuali di tortura personalizzati: come torturare una persona colta, come torturare una persona non istruita, come torturare una donna, come torturare un militare addestrato. E le immagini di morte di quel documentario riescono ad essere persino comiche.

For, William McBride, it's all happened again,
and again, and again, and again,

cantava Eric Bogle in una sua bella e famosa canzone, No Man's Land (conosciuta anche come The Green Fields of France).

Ci diciamo di "resistere", e noi si resiste. Ma non ripetendocelo tre volte, come un sudiciume di magistrato, come un mandaingalera di merda. Non lo ripetiamo nemmeno una volta. Ce la fabbrichiamo giorno dopo giorno, questa nostra resistenza. Non è la resistenza standardizzata di chi sta al gioco. Al gioco non ci stiamo. Sempre più anonimi sovversivi. Sempre più costretti a lavorare di fantasia.

Ci diciamo di "resistere", e noi si resiste. Usciamo di casa, e le vediamo appena fuori dal portone, le scimmie del quarto Reich che ballano tutti i balli. Non importa nemmeno veder loro il culo, basta guardarle dritte negli occhi. E allora, appena possiamo, giriamo la chiave -quell'unica chiave che portiamo sempre con noi, e che è tenuta ben oliata da tutta la nostra vita- ed entriamo nel cortile dove teniamo il cannone. Sempre pronto all'uso.

E' un cannone fatto spesso di povere cose, come le canzoni. Versi che spesso non sono affatto "poesia". Persino, a volte, versi "sindacali". Persino non-versi. Musiche fatte di pochi accordi. E' un cannone fatto di pensieri che a volte fanno fatica a coniugarsi con l'azione. E' un cannone che sbuffa, che ride, che piange, che bercia, che sputa, che sbraita, che oscilla. Ma ne hanno paura. Sanno che, se dovesse sparare, spara e non ci pensa due volte, secondo il principio di Tuco. E lo sa bene la scimmia del quarto Reich, che ce ne ha ancora diversi, di questi cannoni, puntati addosso. E che venderemo cara la pelle.