domenica 30 settembre 2007

Ottobre



Mai stato così contento che sia arrivato ottobre, o che sia passato questo mese di settembre; talmente contento che, a ottobre, do il benvenuto con un giorno di anticipo. Ho cambiato persino già i fogli dei calendari, dopo aver chiuso dopo quasi 4 anni quello che era rimasto fisso al dicembre del 2003. Tutto consegnato alla storia e ai ricordi; ora si guarda avanti. Con l'anticipo di un giorno, appunto.

Ottobre. E' un mese che adoro. E' un mese che, a sua volta, contiene un data (il 18, per la precisione) che ha un'importanza capitale nella mia vita; una data oramai lontana, anzi lontanissima, ma che, a suo tempo, segnò un inizio; così come quella di dicembre del calendario appena chiuso. Ma ottobre è un mese che reca in sé suggestioni a partire dal suo stesso nome; e qui diventa difficile spiegarne il perché. Otto Jespersen, il linguista danese inventore del fonosimbolismo, mi avrebbe capito probabilmente al volo; ma la suggestione fonetica è una cosa che si sente e basta, non ha spiegazioni. O-t-t-o-b-r-e; rovesciando le sue lettere si ottiene una parola senza senso, ma pronunciabile, erbotto; ha una sua bellissima controparte nel russo oktjabr'. Per sempre il mese della Rivoluzione, della Velikaja Oktjabr'skaja Revolucija.

La Rivoluzione, le rivoluzioni, hanno i loro mesi. Sono maggio e ottobre. Ne sono avvenute, di rivoluzioni, anche in altri mesi, certamente; ma la Rivoluzione Francese si chiama appunto "francese", non "rivoluzione di luglio". Tra le altre cose, come tutti sanno, la Rivoluzione d'Ottobre accadde…in novembre; questo perché a quel tempo, in Russia, si usava ancora il vecchio calendario giuliano (ancora in uso nella liturgia russo-ortodossa) e la vera data della Rivoluzione d'Ottobre è il 7 novembre. Ma è rimasta la Rivoluzione d'Ottobre. Provate a pronunciare lentamente, dentro di voi, questa espressione, e a confrontarla con ipotetici analoghi, tipo "Rivoluzione di Novembre" o "Rivoluzione di Aprile". Non è la stessa cosa. Non lo potrebbe mai essere. Il nome "ottobre" è baritonale, non garrulo come "aprile". Non contiene suoni palatali come "dicembre", che sciupano del tutto la sua consistenza. E "giugno", con quel suo "gn"? E "luglio" con quel suo "gl"? Non funzionano, per la Rivoluzione.

Che ottobre debba avere una sua particolare suggestione, lo si vede da molti altri esempi. Dante, ad esempio, nel De Vulgari Eloquentia, scegliendo una frase a caso per denigrare il linguaggio milanese della sua epoca e per dichiarare la sua inadattezza, prese: Ciò fu del mès d'ockiòver. E via così. Ottobre. La rivoluzione autunnale; a quelle latitudini, già corrispondente a un nostro inverno; non per nulla, fu segnata proprio dalla presa del Palazzo d'Inverno (l'inverno, però, in russo ha un curioso nome guizzante, zima, corrispondente perfettamente, dal punto di vista etimologico, al latino hiems e anche alla prima parte del nome dell'Himalaya).

Una Rivoluzione tuonante, terribile, grandiosamente cupa. Il nome "ottobre" somiglia a un rombo; per questo vi è adattissimo. Anche per questo sarà per sempre "Rivoluzione d'Ottobre". Anche per questo, l'aggiunta di "ottobre" a qualsiasi cosa rende subito l'idea. I "Circoli Ottobre". Persino il best-seller anticomunista di Tom Clancy, "Caccia a Ottobre Rosso". Avete presente quando Guccini attacca la strofa della "Canzone dei dodici mesi", "Non so se tutti hanno capito, ottobre, la tua grande bellezza"…? Peccato non esserci nati. Mi sarebbero bastati pochi giorni. Sarei rimasto anche dello stesso segno zodiacale, e quest'anno avrei festeggiato il mio compleanno già così come sono, invece di ricordamene come l'ultimo giorno di qualcosa.

Quando invece la Rivoluzione ha caratteristiche di esplosione vitale, di sovvertimento non solo di un sistema politico ma di tutto un complesso di "valori", accade in maggio. Il Maggio francese, o più semplicemente il "Maggio" per antonomasia. Il mese delle rose, dell'amore che sboccia. Il "maggio" delle nostre campagne, Siam venuti a cantar maggio. Il mese dei matrimoni; all'Elba, tanti anni fa, a una sposina analfabeta che si era recata all'anagrafe per non so cosa, fu domandato dall'impiegato: "maritata?" Voleva sapere il cognome del marito; ma lei rispose "di maggio". Fu così che l'impiegato registrò "Maria Rossi, coniugata Di Maggio". Come Joe, il campione di baseball nonché grande amore di Marilyn Monroe.

Anche qui si deve ragionare per ipotetiche comparazioni. Provate a sostituire, nel Maggio Francese, il maggio con qualsiasi altro mese (compreso ottobre). Non ci azzeccherebbe niente. Il Gennaio Francese? Il Settembre Francese? Ma per favore. Ve lo immaginate De André, nel tradurre la canzone di Dominique Grange? Anche se il nostro Gennaio ha fatto a meno del vostro troiaio? Oppure: Anche se il nostro giugno vi voleva spaccare il grugno? Non poteva essere che di maggio, quella cosa. Le Rivoluzioni si scelgono i loro mesi, sanno sempre quando accadere. Spostandosi persino le date!

Probabilmente anche per tutti noi, nella nostra vita. E se la Rivoluzione d'Ottobre è accaduta in novembre, e se il Maggio Francese magari è cominciato in marzo o aprile, allora, per la rivoluzione che vado a vivere, io scelgo ottobre anche se è cominciata, anche se mi è caduta addosso negli ultimi giorni di settembre. Vorrà dire qualcosa, questo ottobre, questa nuova fase che mi trovo a vivere. Davanti, l'inverno; ma alla fine dell'inverno, c'è maggio.

sabato 29 settembre 2007

El humo



Fumare fa bene. Mi spiace per i miei signori polmoni, mi spiace per chi non voleva vedermi morire anzitempo, mossa da tutta la sincerità del mondo; ma del resto sono già morto e rinato non so quante volte. Ora, ad esempio, sono rimorto; ma rinasco in ogni momento e in ogni modo. E fumo. Come un turco. Come un camino. Come una ciminiera. Ogni cosa che mi capita a tiro: pipe, sigarette, cazzi di legno e stronzi in salsa tonnata. Mi tiene sveglio, il fumo. Mi tiene vivo. Anche la semplice occupazione di accendermi il suo supporto, uno dei quali fa parte dei diecimila oggetti che mi ricorda una persona.

Ho scelto di tenerli tutti, là dove sono, quegli oggetti. Ne ho tolti solo pochissimi, che comunque terrò facendo estrema attenzione a non perderli mai. Due di quegli oggetti mi seguiranno nella tomba, due marmotte di pelouche. Toglierli, eliminarli sarebbe semplicemente stupido. L'ho fatto una volta, e poi, anni dopo, mi sono ritrovato a rimpiangerli tutti e a maledire quella cretinata che ho fatto. Stavolta farò ben attenzione a non ricaderci mai.

E fumo, fumo, fumo, fumo. Scientificamente, senza posa. Compagno fedele di non so quanti momenti brutti e belli. Compagno fedele e terribile, pericoloso e meraviglioso. Chi avrà di nuovo a che fare con me in un certo modo, badi di non rompermi i coglioni perché l'affumico seduta stante. Badi di non aerare la stanza e di non parlarmi del fumo passivo, sennò mi arrabbio. Mi affumicherò la vita, care signore, cari signori. Morirò? Sai che novità. Intanto vivo. Vivo e fumo. Ma non è la mia vita quella che mando in fumo, quella non la baratto con niente.

venerdì 28 settembre 2007

Morire normalmente


Sono passate tante e tante cose sotto i nostri occhi,
che gli occhi non han visto nulla;
ma più oltre e dietro,
la memoria come uno schermo bianco
una notte in un chiuso
dove scorgemmo strane parvenze,
strane piu di te, passare e dileguare
nell'immoto fogliame d'un albero di pepe

Abbiamo conosciuto così bene la sorte
errando fra le pietre rotte
-tremila anni o seimila-
frugando in edifici diroccati
che potevano essere forse la nostra casa
e sforzando la mente e ricordare date e gesta d'eroi:
potremo dunque?

Siamo stati legati e sparpagliati,
abbiamo fronteggiato asperità inesistenti
-a quanto si diceva- smarriti,
ritrovando una strada intasata di reggimenti ciechi,
naufraghi in acquitrini e dentro il lago di Maratona:
potremo ora morire normalmente?

Yorgos Seferis.


giovedì 27 settembre 2007

Riccardo Venturi


Siccome questo è il blog di tale Riccardo Venturi, il quale parla usualmente di sé in tutte le salse, stanotte vi parlerò di Riccardo Venturi. Bella novità, direte. E il bello è che non so neppure esattamente che cosa dire. Ma Riccardo Venturi ha appena subito uno dei suoi periodici rovesci, uno dei periodici momenti in cui la vita bussa e viene a chiedere il conto. Tranquilla, pacata, senza urla; arriva, si prende ciò che gli è dovuto e riparte. Nessuno venga a parlare a Riccardo Venturi di fulmini a ciel sereno o di cose del genere, perché i cieli sereni sono un'invenzione al pari dei fulmini. Semplicemente il cielo è mosso, mai fermo, mai lo stesso.

In tempi belli si tesaurizza, si incamera, si dà, si spera, si dice e si fa; in tempi brutti si cerca di preparare di nuovo il terreno a quelli belli. Riccardo Venturi, in questo senso, non è assolutamente differente da nessuno ed è una persona più che normale. Casomai ci sarà, stanotte, da parlare di ciò che distingue Riccardo Venturi da tutti gli altri esseri umani, allo stesso modo in cui tutti si distinguono da lui.

Innanzitutto, Riccardo Venturi ha un ottimismo incrollabile; e non è di quegli ottimismi talmente ottimi che preludono al suicidio. Riccardo Venturi non scriverà mai Grazie alla vita che mi ha dato tanto per poi rinchiudersi in un camerino e spararsi, come fece Violeta Parra. Riccardo Venturi ha, invece, l'ottimismo che promana dalla più totale certezza che la vita debba essere vissuta fino all'ultimo, che sia un piacere viverla fino all'ultimo, e che si debba morire esclusivamente per mancanza di fiato. Prima o poi accade. C'è chi dice, e magari non ha neppure tutti i torti, che Riccardo Venturi sia un incosciente; c'è chi dice che sia addirittura un pazzo. Riccardo Venturi preferisce dire di se stesso che è Riccardo Venturi; ha una capacità di reagire alle cose che sfiora effettivamente, spesso, l'incoscienza e la pazzia. Si mette davanti a una pagina bianca e scrive. Sta tuonando e ha in sé tutto il dolore del mondo; ma sulla pagina bianca scrive di ottimismo, fuma la pipa e sorride.

Riccardo Venturi ha la coscienza di essere assolutamente unico. Che chi lo ha incontrato ed ha avuto a che fare con lui, per un motivo o per un altro, si sia ad un certo punto ritrovato in un universo dove ci son delle cose che girano non nel senso atteso, fatto di orbite sbalestrate, di sguardi oltre, di storie bizzarre. Scrisse una volta: "Ho il dubbio di non fare, amico al caso tuo; a volte, se ti basta, ci sono e sono assente". Per essere così, Riccardo Venturi non ha mai fatto il benché minimo uso di droghe naturali o artificiali, non ha mai avuto bisogno di volgari ausili all'anormalità a parte, in certi periodi, qualche goccia d'alcool. Ultimamente, quanto a alcool, beve soltanto qualche bicchierino di tequila in compagnia di certi suoi amici che sono in realtà la sua famiglia; anzi, qualcosa di ben più profondo di una famiglia perché non c'è nessun "legame di sangue".

Poi, Riccardo Venturi ha in sé ogni contraddizione di questo mondo e anche, gli sa, di qualche altro mondo. Cos'è la contraddizione? Si tratta, in realtà, di piani paralleli; e sono tutti piani veri, reali, autentici. Realtà è tutto ciò che accade. Realtà e verità è anche una menzogna. Realtà e verità sono i coacervi, gli strati, le cause e gli effetti, le paure, i coraggi, il male e il bene fatto, il bene e il male ricevuto. Sorrido, ma avrei spesso voglia di sghignazzare, quando mi si parla di "linearità". E' una parola che non ha senso. Le linee sono migliaia. Rette, tronche, spezzate, curve, casuali, incrociate, aggrovigliate, e poi si sciolgono, s'intrecciano di nuovo, si distendono e si allontanano in volute e gangli indicibili. Si chiama, questo: vita. Riccardo Venturi ha la piena coscienza di tutto questo, fin da giovanissimo. Non ne ha paura. Non la rifiuta. Anzi, la sfrutta e se ne fa sfruttare. Barriere del tutto assenti. Scrisse un'altra volta: "Guarda il suo infinito raddoppiato dall'orizzonte".

Riccardo Venturi ha poi tutta una serie di peculiari fobie. Chiude sempre il rubinetto del gas quando esce di casa. Ha il terrore di precipitare nel vuoto. Contrariamente a molti che desiderano la dolce morte nel sonno, ha una paura folle di addormentarsi e di non svegliarsi più. Riccardo Venturi non teme la morte, ma la vuole in piena coscienza. Da sveglio. Sa fare benissimo alcune cose: parlare e scrivere le lingue. Questa la sanno più o meno tutti; anche se, va detto, si sa vendere abbastanza bene e sa come impressionare gli astanti con mosse abbastanza astute. Ci sono però un altro paio di cose: guidare ogni sorta di automezzo con la massima naturalezza (a parte le monoposto di formula 1, per mancanza di occasioni) e risolvere i cruciverba, i rebus e gli enigmi più astrusi. In quest'ultima cosa, Riccardo Venturi non temerebbe di presentarsi a un eventuale campionato mondiale. Ci sono poi delle cose che sa fare malissimo, o addirittura per niente. Si trova alle perse con qualsiasi tipo di ragionamento logico e matematico, ad esempio; questo gli ha precluso del tutto cose che pure lo attiravano, come la filosofia o la musica. Ha una manualità assai approssimativa, con delle curiose eccezioni.

Riccardo Venturi ha sempre avuto, e sempre avrà, una vita affettiva tanto enorme quanto irregolare. Ha avuto un grande amore adolescenziale tirato troppo oltre la sua scadenza naturale. Ha avuto avventure di ogni tipo, compresa una brevissima puntata gay nel bagno di una casa, con un amico poi perduto. Ha avuto un matrimonio assolutamente sballato, nel periodo più sballato della sua sballata vita. Ha avuto, poi, il più grande amore della sua vita; che, stanotte, non si sa ancora quale strada stia prendendo o abbia già preso. Così va, e così deve andare; muss es sein? Ja, es muss sein. Dice sempre di essere innamorato dell'amore, ma non ha mai saputo se si tratta di un amore ricambiato, o almeno ricambiato del tutto. Ne dubita. Ciononostante, continua ad amarlo come l'unica vera gioia, l'unica che instilli ricordi incancellabili; ed in questo è compresa l'amicizia, è compresa anche l'inimicizia. Tutto viene da quella stessa radice am-, di origine sconosciuta, preindoeuropea, persa nella notte dei tempi. Riccardo Venturi viene da quella notte; ma siccome gli è innato un retaggio di saggezza terragna dei suoi avi contadini, si porta comunque sempre dietro una torcia. Non si sa mai. Mica è piacevole inciampare e cadere in un baratro; altrimenti, bye bye all'ottimismo.

Gli piacerebbe avere un legame stabile tendente all'eternità, al persempre. Poi sa benissimo che questo, per questioni soggettive e oggettive, è pressoché inesistente. Rarissimo, quantomeno. Ma non smette di crederci e di perseguire questo scopo assai realista; diceva un tizio con la barba ammazzato in Bolivia che bisogna essere realisti, quindi esigere l'impossibile. Riccardo Venturi lo esige. Andrà pur a finire che s'innamorerà a dodici minuti esatti dalla sua morte, e che quindi, finalmente, sarà per sempre. Forse. Oddio, magari all'undicesimo minuto viene piantato in asso e lo piglia nel culo per l'ennesima volta; ma un minuto è pur sempre un minuto. Magari s'innamora di nuovo a trentadue secondi dal tiramento del calzino. Capacissimo, ve lo garantisco. Lo conosco bene, io, quel Riccardo Venturi là.

Riccardo Venturi sarebbe "anarchico". Non ha compiuto però nessuno studio regolare alla pontificia università anarchica. Ha letto poco al riguardo. Non ha mai fatto parte di gruppi. Sinceramente, non ha mai neanche avuto una grande capacità di analisi politica, anche se ultimamente qualche progresso l'ha fatto. E', come dire, un anarchico alla Riccardo Venturi. Sa le canzoni anarchiche, non tutte, frequenta qualche luogo anarcheggiante (ma più spesso la parrocchia di Mercatale), fa dei casini inenarrabili sempre sospeso tra una certa truculenza verbale e la fondamentale dolcezza del suo carattere, tra la voglia di distruggere ogni cosa e il desiderio di lasciare in piedi quella cosina là così bella, che magari gli ricorda del 18 novembre 1979 quando lo sguardo gli si è fissato su un particolare di cui si è invaghito perdutamente; tra un radicalismo in cui crede con le budella e un'elasticità verso tutto e verso tutti, che sconfina nell'indulgenza più totale. Insomma, come dire, è un anarchico che darebbe qualche serio grattacapo a Buenaventura Durruti (persona che pure ama follemente, tanto da avergli dedicata persino una delle sue scassatissime automobili). Riccardo Venturi è un anarchico come è anarchico il mare; tutto, in fondo, va verso il mare.

E verso un'isola. Riccardo Venturi è quell'isola là, e anche quella più in là, è l'Elba, è Castellorizo, è Ventotene, è l'Islanda, è Spetses, è Citera. Nel sovvertimento di cui a volte, sogghignando, si diletta, gli piace rovesciare il famoso verso di John Donne, quello che poi si conclude con una campana che suona per te. No man is an island? Col cavolo. Every man is an island. Anzi, meglio: every man is every island. Vorrebbe finire la sua vita su un'isola. Quale sarà? Tutte. Tutte quante.

Ci sarebbero poi tante altre cose da dire su Riccardo Venturi. Tante da scriverci un libro intero, come su ognuno di noi, come su ogni isola che siamo. Ma stasera c'è un piccolo problema: Riccardo Venturi è disperato. Anche la disperazione è una cosa normale. La si può gestire, razionalizzare, digerire. Comporta magari qualche notte insonne, tutta una serie di microfiamme che ti trapassano da parte a parte, di fotogrammi, di cose che sono state e che potrebbero non essere più, o almeno non più come prima. Diverse. Poi passa. Lascia il segno, come lo lascia ogni altra cosa. Si mettono in campo tutti i trucchi, i sotterfugi, i contravveleni. L'ironia, il finto distacco, la scrittura. La speranza ricomincia a lavorare a pieno regime, una specie di turbina (e Riccardo Venturi, tra parentesi, di turbine se ne intende per qualche pittoresco motivo che non sta a spiegarvi). Riccardo Venturi ha provato molte altre volte questa disperazione, quella che deriva da un abbandono possibile o certo, senza appello o con un barlume di qualcosa; ma la disperazione è sempre fatta dello stesso materiale. Disperazione e speranza, gli opposti inestricabili. Nessun Gordio le potrà mai separare, non c'è colpo di spada che tenga.

In questa disperazione, Riccardo Venturi vi saluta. Con gli anni si è fatta strada qualche differenza; ad esempio, è la prima volta che si ritrova in questa terra di nessuno senza aver bevuto nemmeno un dito di alcool. Perfettamente sobrio. Calmissimo. Tranquillo. Ma, nel salutarvi, vuole dirvi che non sta mettendo in scena niente. Riesce persino ad essere felice di qualche piccola cosa, come il pareggio in extremis della Fiorentina contro la Roma. Una bellissima partita, al termine della quale gli sono venuti a bussare. Proprio ieri, su questo blog, aveva riportato una poesia di Attila József, le casualità della vita (così come è casuale che proprio in questi giorni stia risolvendo i cruciverba della Settimana Enigmistica del 15 dicembre 2003, che era rimasta vuota per quasi quattro anni; quasi a chiudere un ciclo). Attila József scrisse una poesia che si chiamava Il dolore. Dice così:

Il dolore è un postino grigio, silenzioso,
col viso asciutto, gli occhi di un azzurro chiaro,
dalle sue spalle fragili pende
la borsa, il vestito è scuro e consumato.
Nel suo petto batte un orologio
da pochi soldi, timidamente sguscia
di strada in strada, si stringe ai muri
delle case, sparisce in un portone.

Poi bussa. E ha una lettera per te.

martedì 25 settembre 2007

Compleanni


Non ce ne ho avuto gran voglia, ultimamente, di scrivere su questo blog. Né di scrivere, né di ricopiare vecchie cose, né di nient'altro. La parola classica da utilizzare in casi del genere è: succede. Chissà, però, che oggi non mi riprenda, questa voglia. Oggi, 25 settembre 2007, giorno del mio quarantaquattresimo compleanno.

Non so se conoscete la persona raffigurata nella fotografia. E' un poeta. Forse il più grande poeta ungherese del ventesimo secolo; si chiamava Attila József. Ebbe una vita durissima e infelice. Fu comunista. Morì suicida il 3 dicembre 1937 all'età di trentadue anni, sdraiandosi sui binari e facendosi passare sopra il treno a una stazione dal nome impronunciabile, Balatonszárszó. Per i compleanni si ripensa a quelli passati, e sto ripensando a quando mi fu regalato il libro delle sue poesie. Avevo sedici anni. Mi sono rimaste dentro, alcune di quelle poesie. Ce n'è una che si chiama Notte di sobborgo, ad esempio; e poi ci sono quelle per i compleanni. Ad ogni compleanno, suo o altrui, scriveva una poesia; soleva dire che era l'unico regalo che poteva permettersi di farsi, o di fare. Soldi: nessuno. Della sua grandezza, come sempre, si sono accorti dopo che il treno era passato. In tutti i sensi.

La poesia che segue è sua. Si chiama Quello che nascondi nel cuore.
E' per tutti. O per tutto. Così, tanto per tirarlo fuori proprio oggi, quello che si nasconde nel cuore. La scrisse per un compleanno. Non per il suo, ma per l'ottantesimo di Sigmund Freud.

[Il testo della poesia è stato rimosso per volontà della sig.ra Agnes Preszler, traduttrice, la quale evidentemente si aspetta enormi danneggiamenti economici e morali dall'inserimento della sua fatica in un blogghino di periferia come questo. Si noti che tale richiesta è stata inoltrata dalla signora il 3 dicembre 2011, quindi oltre 4 anni dopo l'inserimento in questo blog; nel frattempo, evidentemente, devo averle sottratto chissà quanti emolumenti e chissà quale enorme quantità di "proprietà intellettuale". Ho comunque immediatamente aderito alla richiesta della signora, esprimendole nel contempo la mia più completa disistima. - R.V.]