lunedì 28 aprile 2008

Si darà al vento



Si cominciano a fare tante cose, e della natura più svariata. Blog, racconti, collezioni…davvero ogni cosa. E sono cose che piacciono, che ti impegnano, che in determinate circostanze addirittura ti salvano. Ad esempio, mi chiedo che cosa avrei fatto in un dato periodo, recente, se questo piccolo blog del cavolo non ci fosse stato; gli ho affidato ogni cosa, magari annoiando a morte chi aveva la (s)ventura di leggermi; o magari dandogli anche qualche minuscola cosa da pensare, così, en passant, senza pretese. Perché nonostante tutto, sono e rimango una persona con pochissime pretese.

Poi, un bel giorno, arrivano le pause. Senza nessun motivo apparente, a parte –forse- quel famoso "stare meglio" che in realtà è soltanto lo stare in un modo diverso, con prospettive diverse, con persone diverse. Le pause che interrompono tutto quanto, come se qualcuno ti avesse innescato il comando "bloc scorr" o roba del genere. E' una cosa non del tutto improvvisa, la si sente arrivare; e allora si dà la colpa a ogni cosa possibile e immaginabile, alla primavera che arriva, a un momento in cui il "vaffanculo a ogni cosa" è preponderante sul desiderio di agire, alla famosa età che avanza…ma sono tutte balle. Arrivano, le pause, le interruzioni, e basta. Sono il motivo di loro stesse.

Di queste pause me ne dovevo rendevo già conto da ragazzo, perché già si manifestavano. Come una caterva di adolescenti, allora preferivo affidare le mie cose alle "poesie". Di blog e di altre diavolerie del genere non se ne sentiva ancora manco il puzzo; e allora pigliavo un pezzo di carta, una penna, e scrivevo tutta una serie di idiozie che poi, non pago, mettevo spesso in bella copia ribattendole a macchina. Prima una vecchia "Lettera 32", poi una Underwood elettrica che si guastò, e infine una spaventosa ma indistruttibile "Olympia" tedesca degli anni '60, scovata da un rigattiere, che non mi ha mai mollato. Mi piaceva da morire, quella macchina, perché aveva il tasto della cifra "1" (prima dovevo scriverla con la "I", tipo "I963") e, essendo tedesca, anche le letterine con l'Umlaut, ä, ö…e persino la "ß". Ma di cosa sto parlando? Ah, ecco, dicevo, le poesie.

La maggior parte sono finite dove dovevano finire: nella spazzatura. A volte, però, mi capita di ricordarmi di qualche loro parte, di qualche "verso", di un titolo. Ce n'era una, mi viene a mente, che si chiamava "Le cose iniziate". Doveva essere proprio un periodo come questo, in cui non scorreva più nulla, in cui tutto ciò che era in ponte si era arrestato. E iniziavano, dopo un po', come iniziano ora, i sensi di colpa. Devi fare qui, devi fare là. I periodi in cui il piacere diventava dovere; e, a me, il dovere non è mai piaciuto punto. L'obbligo, materiale o morale. Però questo, almeno da quanto mi ricordo di quella "poesia", mi creava l'assurdo bisogno di formulare delle scuse, dei pretesti, o addirittura di dare a tutto quanto una parvenza di "pensiero strutturato". Quel che mi viene a mente diceva così: Le cose iniziate non le abbiamo nella mente, ma sopra di noi. Volteggiano, aleggiano e puntano…"; poi, la "poesia" finiva con l'immancabile descrizione di fogli accatastati, di quaderni lasciati a metà, di punti indefinibili nel cosmo & di "un giorno verrà". Pippe, insomma. Avevo sedici anni.

Oggi 28 aprile 2008, di anni ne ho un po' di più. Da giorni non mi va di fare letteralmente una sega. Non che brilli e abbia mai brillato per voglia di lavorare, e la cosa peraltro mi provoca un vanto e una soddisfazione senza fine con tutta una serie di pernacchie agli apostoli dello sgobbo, ché i "lavoratori" c'erano pure nel nome del partito nazista; però, in questi giorni, anche le cose che veramente mi interessano e, in definitiva, mi, fanno vivere -insomma tutto il mio otium cui ho dedicato la vita- mi sono di peso. Mi trascino. Vado a fare camminate senza meta da solo o in compagnia. Ogni tanto, visto il bel tempo che si è deciso a venir fuori, esclamo in mezzo di strada: "Fotosintetizzo! "; poi torno a casa, inizio a leggere otto libri in contemporanea e non ne finisco uno. Persino le parole crociate giacciono dimenticate su un tavolino. Nulla. Passerà, domani o fra un mese. Chissà. Di solito è passato; mi chiedo però se un giorno non dovesse passare.

Magari, come ora, mi piglia in un estremo tentativo la voglia di parlarne, e per fortuna è un bel po' tanto che ho smesso di scrivere "poesie". Tutto, per il resto, è assente. Scompaio. Da mangiare me lo preparo a fatica. Pazienza, perderò qualche chilo. Magari qualcuno mi dica che cavolo sta succedendo nel mondo, ma se anche non me lo dice non è che mi perda granché. E cosa mi dovrei perdere? Alemanno o Rutelli? Vai Riccardo, meglio fotosintetizzare, meglio catturare un po' di luce ché poi, magari, in qualche modo e senza mai volere niente, ma niente!, in cambio…ti verrà di cercare di regalarla a chi si sente nel buio. Se la vorrà; e se non la vorrà, si darà al vento.

giovedì 17 aprile 2008

Previsioni sbagliate




Se non fosse che è un verso di una canzone di Franco Battiato, cantante che detesto quanto pochi altri, si potrebbe dire che "la primavera tarda ad arrivare". Oggi, a dire il vero, se n'è visto qualche brandello; quel che più conta, è che le previsioni erano piuttosto sbagliate. Avevano messo pioggia a catinelle, per oggi; magari verrà stanotte, visto che è un aprile piovoso. Piove di tutto in questo aprile, persino governi; quindi, un po' di sole inaspettato fa davvero piacere. Con tutta la sua iconografia: aprire la finestra, sentire gli uccellini che cinguettano, andare per due minuti a crogiolarsi al sole. E' stato un lungo inverno, questo.

Lungo, di quelli che cominciano ben prima del 21 dicembre. Ha compreso tutto l'autunno; e già dai suoi primi giorni speravo che venisse maggio. Ancora non ci siamo; ma maggio è comunque arrivato. Un maggio che fa benissimo a meno del vostro coraggio, e anche di molte altre cose. Fa a meno, ad esempio, di tutti i manifesti pieni di facce di merda che si stanno oramai sbrandellando e dilavando al (poco) sole e alla (tanta) pioggia. L'arcobaleno? Dopo un acquazzone arriva quello vero, non quello preso a prestito da ignobili personaggi. Il sole che ride? Ride in cielo, dove deve stare, e quando si fa vedere.

Sì, mi piacciono proprio le previsioni sbagliate in quest'epoca di satelliti, di canali tv dedicati esclusivamente alla meteorologia, di bollettini onnipresenti. E mi viene un po' a mente mia nonna materna. Dico subito che quasi mai ho avuto un bel rapporto, con quella donna. Quasi mai. Ogni tanto, però, mi ricordo certe sue cose da vecchia contadina, cose venute dal fondo dei tempi. Si metteva, a volte, alla finestra, di notte; e sentenziava. Con una parola sola. La più frequente era "burrasca", quando doveva esserci tempo cattivo; parole moderne come "maltempo" non appartenevano al suo vocabolario. "Burrasca" è una parola antica, e mi è sempre piaciuta. Ora la si usa quasi sempre in senso traslato; lei la usava come deve essere usata. Curiosamente, era venuta al mondo nella casa di un tizio il cui soprannome, finché è campato, è stato proprio "Burrasca".

Non diceva mai "sole" o "bel tempo", ma "caldo". Non esisteva il tempo "variabile", esisteva solo "mezz'e mezzo". La pigliavamo per il culo, chiamandola il "Bernacca notturno"; eppure, non so come, ci azzeccava quasi sempre. Ho dovuto aspettare di conoscere il Senia, per trovarne un altro, di Bernacca. Anche lui ci azzecca quasi sempre, e anche lui viene da un'isola. Non esisteranno, ma son sempre posti curiosi, le isole. E poi mi ricordo di Bernacca, quello vero, il colonnello nasuto. Quando ancora i satelliti si trovavano nei libri di fantascienza senza suscitare risolini di anacronismo. Ogni tanto toppava, beccandosi lettere di insulti e minacce per la strada da chi aveva organizzato la gitarella per la domenica fidandosi delle sue previsioni, e poi s'era ritrovato bagnato come un pulcino.

Sì, davvero, continuo ad amare follemente le previsioni sbagliate. Comunque, per la cronaca, in questo momento sta piovendo. Non ancora a dirotto, ma piove. Proprio in questo aprile di pioggia il destino ha deciso di mettere sulla mia strada un ombrello, a me che ne ho avuti sempre pochi, e quei pochi li ho persi. Un ombrello enorme, scuro, abbandonato su una sedia al tavolino di un caffè del Borgo Stretto, a Pisa. Pure a Pisa, lo dovevo trovare.

giovedì 10 aprile 2008

I torvi



Eccoli, eccole che arrivano. Hanno facce normali, sono vestiti in modo più che normale, hanno un'età normale; non importa quale. Sono i torvi, sono le torve. Sono lì, accanto a te, sull'autobus, al supermercato, al bar, per strada; e si riconoscono subito, anche se, al momento, niente di torvo è apparentemente dipinto sul loro volto. Basta poco. Non importa che tu abbia un aspetto insolito, forestiero, abnorme. Anche tu puoi essere normalissimo, come loro. Puoi essere vestito in modo altrettanto normale. Puoi avere l'età che vuoi.

Ma, magari, in quel momento ti è venuto di sorridere. Mentre ti appoggi ai sostegni di un autobus stracolmo. Mentre ti bevi in santa pace un caffè al bancone del bar. Mentre sei in coda alla gastronomia della Coop vicina per comprarti una porzione di pasta al forno e tre fette di polpettone. Stai sorridendo, e questo è intollerabile per i torvi. Di questi tempi, sotto questi chiardiluna, sorridere è non solo vietato; sta diventando quasi sovversivo. Genera sospetti.

Così, ieri verso mezzogiorno e tre quarti, me ne stavo giusto in fila a una Coop per comprare, caso volle, proprio una porzione di pasta al forno e tre fette di polpettone. Tranquillissimo, col mio numeretto 96, in piedi con le braccia conserte, il carrello della spesa sistemato in modo da non disturbare il passaggio. E non soltanto sorridevo; cantavo. Ho questa bizzarra abitudine, che mi porto dietro fin da bambino; quella di cantare dappertutto, non certo a squarciagola ma sicuramente in modo più che udibile. Mi viene spontaneo e non saprei trovare una spiegazione plausibile; così come, onestamente, ritengo plausibile che a volte qualcuno mi prenda, se non per matto, perlomeno con qualche rotella fuori posto. Ma chi se ne frega; se mi va di cantare, canto. Ieri, in particolare, in coda alla gastronomia della Coop cantavo una canzone degli Apuamater Indiesfolk, Var'ka. Con tanto di grande rivoluzione, dita affondate nella gravidanza, arterie del Don e colli schiacciati.

Accanto a me una signora, una sessantacinquina d'anni ma le età le so dare piuttosto male. In coda pure lei, col suo carrello, vestita con un soprabito verde scuro. Mi arriva poco più in su dell'avambraccio, ma ha una statura normale; casomai, sono io ad essere decisamente alto. Ma è normale anche che io sia un metro e novanta e rotti. Ho addosso una giacca blu portata su un maglione blu, e dei jeans che per definizione dovrebbero essere blu. Tutto blu. La guardo. Mi aspetto qualcosa, per un'intuizione improvvisa; e la torverìa esplode regolare. Matematica.

- Giovanotto…c'è poco da cantare!

Mi chiamano sempre "giovanotto", a me. Ora, certo, ancora vecchio –per fortuna- non sono, anche se qualche pelo bianco nei capelli e nella barba comincia a vedersi bene. Ho quarantacinque anni. Magari essere chiamato "giovanotto", alla mia età, mi fa pure piacere; così come me ne ha sempre fatto poco essere chiamato "zio" dai miei nipoti. Proprio non mi ci sono mai visto nei panni di zio.

- Prego, signora?…., faccio con aria ostentatamente cortese, già prevedendo l'andazzo.

- Beato lei che canta….ma non lo vede che gente c'è a giro?

Mi guardo in giro. C'è gente normalissima, come me, come la signora. Qualche mamma col bambino. Pensionati. Persone comunissime. Aspettate, aspettate, no. Non me n'ero accorto; al bancone accanto, quello della panetteria, c'è un tizio che sta confabulando con un altro tizio, in una lingua sconosciuta alla signora. A me no. Stanno parlando in rumeno. Della partita che la Roma deve giocare la sera contro il Manchester. Quello la cui voce si sente meglio dichiara brevemente al suo amico, o collega, di fare il tifo per le squadre italiane. Quindi anche per la Roma.

- Signora, in giro…

Manco faccio in tempo a finire la frase, che poi sarà stata sicuramente una banalità, che la signora parte con un'autentica concione.

- Perché stanno dappertutto! Ormai non ci si rigira più! Se ne stessero alle su' case, che poi si vede cosa fanno, rubano, stuprano, ammazzano! Delinquenti ! Gliela darei io la galera! Al muro!

I due rumeni manco si voltano. Uno compra un filone di pane. Continuano a parlare. Sono vestiti chiaramente da operai, uno ha una tuta blu stinta e sporca di vernice; proprio dietro la Coop c'è un cantiere aperto, un vecchio convento degli anni in cui da quelle parti, come si suol dire, era tutta campagna. Per qualche anno è stato un centro sociale poi regolarmente sgomberato; ora è in via di trasformazione in appartamenti senz'altro prestigiosi. Tutto è prestigioso in questa città. Prestigiòpoli.

Non faccio nemmeno in tempo a abbozzare una reazione. Da qualche tempo, a questo genere di discorsi cerco in qualche modo di reagire, sempre. Mi assumeranno, chissà, nell'orchestrina dei Fiati Sprecati, anche se non so suonare niente. La signora se ne va, liberando finalmente nell'aria tutto il suo torvo. Ha un'espressione cattiva. Quella che normalmente, magari, è la cara, buona, vecchia zia. La brava, anziana vicina di casa che non ti rifiuta mai un piacere. Se ne va senza nemmeno prendere la sua roba. Io resto lì con un'aria così.

I due rumeni, accortisi finalmente del casino, si mettono a sorridere. Uno si porta un dito alla tempia, il gesto universale che significa "questa è matta". Non resta che sorridere anche a me. Mi viene quasi la voglia di avvicinarmi a quelle due persone, e scambiarci due parole, in italiano o nella loro lingua. Ma tanto a che servirebbe. Hanno già detto tutto.

E me ne vado. Prendo la mia pasta al forno, il mio polpettone. E ricomincio a cantare, badando stavolta, però, di farlo a voce un po' più alta. Ci tengo, porca puttana, a essere un giovanotto sorridente. E al prossimo torvo, alla prossima torva, giuro, invece di spiegare ragioni che tanto non vengono più intese in questo mondo di alienazione, mi mettero a cantare. Sul muso. Come semplice atto di sanità mentale.

martedì 8 aprile 2008

Tante cose son passate



No, via, inutile. Ero già pronto per andare a letto, con tanto di It di Stephen King già a pagina 179...ebbene sì, lo confesso candidamente: non lo avevo mai letto. Ma da dove comincio...? Non lo so. Diciamo che non ce l'ho fatta a andare a letto senza almeno ricominciare a scrivere un post qualsiasi su questo blog, con un titolo che più qualsiasi non si può.

Tante cose son passate, già. Ne sono passate a milioni, da quando per l'ultima volta ho scritto qualcosa qui dentro; poi, il silenzio. Chi mi conosce bene sa già cosa mi è successo; mi sono trasferito in una nuova casa (la chiamo così per comodità...), che ancora è priva della cucina ma che da oggi, 7 aprile, dopo varie vicissitudini (un contratto Telecom già firmato e poi segatomi per motivi del tutto ignoti, e poi una connessione Fastweb che gli ci son volute le binde a allacciarmi visto che -sempre in Telecom!- avevano sbagliato a mettermi un doppino o roba del genere, 'sti telecoglioni...), torna collegata alla grande Rete.

Nessuno squillo di tromba, nessun rullo di tamburo. Ma per carità. Semplicemente una nuova vita in un posto che, lo dico senza nemmeno un granello di retorica, è finalmente mio. Mi torna a mente, in modo piuttosto ovvio, Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, anche perché questo posto, a dire il vero, è appena un po' più grande di una stanza; ma che sia tutto per me, accidenti alla miseria, questo sì. E se per questo tuttopermé sono dovuto ricorrere a dosi massicce di Ikea, pazienza. Vorrà dire che modificherò la famosa canzone della Zanicchi, io sarò la tua ikea... (battuta peraltro non mia, è di tale francosenia, eh lui!, che saluto).

A questo punto dovrei descrivervi questo posto, come lo sto rimettendo a posto (cucina a parte...) e tutto il resto. Non so neppure se sono in grado di farlo; con un'altra battuta, sono solito dire che mi sono ispirato alla casa di mia madre, quella dove ho vissuto fino a poco più di due mesi fa e da uno sgabuzzino della quale proveniva questo mirabolante blog. Ispirato all'incontrario: qualsiasi cosa avessi in mente di quella casa, in questa ho messo l'opposto. E così è venuta fuori, almeno spero, una cosa fatta di colori vivissimi, caldi, di luce. Cose che mi erano sempre mancate come l'aria. Non vorrei esagerare, ma temo sinceramente che una discreta parte della componente cupa del mio carattere sia dovuta al quel buiùme di casa, alle sue finestre sempre chiuse (sennò entrano i ladri/la polvere/sennò ci vedono), al suo eterno puzzo di naftalina, alla cartaccia da parati, ai mobili classici, ai centrini e ai fiori finti.

Non vorrei che, leggendo queste righe, i miei due milioni di lettori (che col mio silenzio plurimensile saranno senz'altro diventati quattro milioni) pensino che ce l'abbia con mia madre; pòera donna, ha settantacinqu'anni, ha tutto il diritto di vivere nel suo buio, tra i suoi centrini e la carta da parati; dev'essere stata una cosa durissima sopportarmi in tutte le mie vicende, con tutte le mie mattane, coi miei sbalzi d'umore, con le mie assurdità. Una casa dalla quale ho sempre desiderato scappare; e l'ho fatto periodicamente, andandomi alle volte a ficcare in posti mai sentiti nominare prima, in paesi stranieri, seguendo amori e chissà cos'altro d'ingarbugliato che io sia riuscito a concepire. Vediamo ora, Riccardino, di districare 'sta matassa.

Intanto qui, sebbene si tratti a rigore di un ex garage, entra la luce. Intanto do luogo a quella che è una delle mie specialità, ovvero quella di inserirsi in un quartiere girandoci come se ci fossi nato. La strategia l'ho imparata a Livorno: basta evitare il più possibile i supermercati e impadronirsi di tutti i superstiti negozi e negozietti della zona, anche di quelli in cui non ti servirai mai. Così ora, dopo due mesi, attorno a via dell'Argingrosso il barista mi saluta, la parrucchiera mi fa lo sconto (cinquanta centesimi, ma tant'è) e non mi sento un estraneo. Non mi sono sentito un estraneo a niente, persino nei posti dove lo sono stato davvero; e così è andata che Bruay sur l'Escaut non saprà mai che un tizio l'ha letteralmente cantata a parole scritte, e lo stesso vale per Friburgo. Affari loro; continuerò a farlo, quando mi andrà, seguendo il filo dei ricordi.

Ed eccomi quindi all'Isolotto.

I primi giorni che ero qua, quando ancora credevo che entro pochi giorni la Telecommajala mi avrebbe fatto l'allacciamento con tanto di Alice (Alice nel paese dei troiai, ben si direbbe), avevo progettato di scrivere un post sui nomi delle strade di questa zona, traendone considerazioni altamente allegoriche su tutta la mia vita. Argingrosso a parte, c'era la nèmesi per la mia antireligiosità (mettendomi all'incrocio con via Pio Fedi), c'erano tutte le acque di questo mondo (l'Isolotto con relativa via, via delle Isole, scali, argini e chi più ne ha, più ne metta), c'era via Lega (il che si riallaccerà ad una cosina che mi sono impegnato a scrivere in questo periodo di offline forzato)....poi non se n'è fatto di niente, così come di un post "cronachistico" che intendeva raccontare di un brutto episodio accaduto da queste parti nel mese di febbraio, quando degli eroici tutori dell'ordine, carabinieri nella fattispecie, durante un controllo non hanno trovato di meglio che sparare a un cane di nome Alì. Visto il nome, chissà, avranno pensato di aver fatto fuori un pericolosissimo terrorista islamico, e strano che la Nazi(one) non abbia fatto il titolone sulla cellula di Al-Qaeda sgominata in città.

Per il resto, le solite cose incrociate indissolubilmente con la precisa sensazione che niente sia più lo stesso. Manca a questo confusionario resoconto, lo devo dire, una componente importantissima di questa Vita Nova; ma me la terrò per me, tanto più che nei mesi passati questo blog è stato un po' troppo una sorta di "diario del cuore", o roba del genere. Un diario di quel che può essere, certo, la fine di un amore. Dico solo che ne è iniziato un altro; alla persona che tutti i venerdì arriva a condividere ikee e pasti senza cucina (ma un giorno porteranno anche quella...) va un pensiero più che speciale.

Certo che ricominciare non è semplice. Tutto si accavalla. Si avrebbe voglia di dire ogni cosa, ma ad un certo punto è meglio interrompere, e rimandare al giorno dopo. Dico soltanto a chi nei mesi scorsi mi ha seguito, che se almeno un pochino gli sono mancato, la mancanza è stata reciproca; e nella mia ben nota immodestia, dico almeno quest'ultima cosa con la più autentica e sincera deferenza ed umiltà.