domenica 29 giugno 2008

Prima vennero a prendere i comunisti (ma sbagliarono l'autore)



Il numero di ieri dell'Unità, quotidiano fondato nel 1924 da Antonio "Trottola" Gramsci (dato che il suddetto si rivolterà sicuramente nella tomba per l'eternità), presentava in prima pagina le notizie sul rifiuto, da parte dell'Unione Europea, della prevista ordinanza sulla schedatura, con tanto di impronte digitali, dei bambini rom in Italia. Su questo provvedimento pienamente nazista da parte del "governo" italiano non intendiamo dilungarci, anche perché –da certi sondaggi di un quotidiano "progressista"- esso sembra essere approvato a larga maggioranza anche dal relativo "popolo"; indi per cui vada in culo non solo il governo, ma anche il popolo.

Da un po' di tempo, l'Unità presenta, tra la testata e il titolo principale, una striscia rossa che dovrebbe contenere un pensiero, quasi sempre espresso in forma di citazione, più o meno in tema con l'argomento del giorno. E cosa c'era ieri? La famosa poesia "Prima vennero per i comunisti" eccetera eccetera. Quante volte la si sarà letta, in questi ultimi tempi? Certo, va detto, di occasioni non ne mancano per utilizzarla attualmente in questo paese. E' letteralmente dovunque: giornali, manifesti, blog. Oltretutto, eh, sarebbe nientemeno che di Bertolt Brecht; l'Unità di ieri riportava anche la data di composizione, il "1931".

C'è però un piccolissimo particolare che sfugge regolarmente a chi cita quei versi: che essi non sono affatto di Bertolt Brecht. Sembra ripetersi, in questo paese, la stessa bufala che portò alla famosa declamazione dei "versi di Neruda" in parlamento da parte di Clemente Mastella, quando diede inizio alla crisi del governo Prodi. Sono invece opera del pastore protestante tedesco Martin Niemöller (1892-1984), e presentano peraltro una storia controversa, al pari del suo autore. Il quale, all'inizio, aveva appoggiato Hitler per divenirne poi un fiero oppositore. Opposizione che, nel 1937, gli costò un periodo di imprigionamento, prima a Sachsenhausen e poi a Dachau. Fu esattamente lì che compose l'embrione di questi versi, che presentano peraltro numerosissime versioni e rimaneggiamenti.

La versione definitiva fu composta dopo la guerra, nel 1946; fu pubblicata per la prima volta nel 1955 in un libro di Milton Mayer, They Thought They Were Free. La versione inglese fu incisa in una lapide poi sistemata nello Holocaust Memorial del New England, come si può vedere nella foto che precede questo post. L'originale tedesco è stato musicato ed eseguito dalla Songgruppe Regensburg, discendente della corale proletaria di Regensburg che interpretò per la prima volta Die Moorsoldaten nel campo di concentramento di Börgermoor. E' inoltre alla base di una famosa canzone di Christy Moore, Yellow Triangle.

La "bufala brechtiana" sembra avere avuto origine nei paesi di lingua spagnola attorno agli anni '70 e si è diffusa rapidamente, ed esponenzialmente con l'avvento di Internet. In effetti, per smontarla basterebbero alcuni semplici ragionamenti: dai versi appare chiaramente che è stata composta da un internato, e Brecht non lo fu mai; scappò dalla Germania il 28 febbraio 1933, il giorno successivo all'incendio del Reichstag. Nella poesia si afferma chiaramente: "Io non ero comunista". Chi non era comunista? Bertolt Brecht? Vogliamo babbiare, direbbe il commissario Montalbano? Come poi l'Unità, ieri, abbia spostato la data di composizione al 1931, lo devono sapere solo i geni della sua redazione, dato che in quell'anno i nazisti ancora non erano al potere. Comunque sia, e come dubitarne?, la citazione della poesia apre anche la voce "Bertolt Brecht" su Wikipedia italiana, anche se nella relativa discussione finalmente qualcuno sembra essersi accorto dell'errore. Comunque sia, certo, restano i versi. I quali, ovviamente, continueranno tranquillamente ad essere attribuiti a Bertolt Brecht finché a qualcuno non verrà in mente di attribuire "A coloro che verranno" al povero Martin Niemöller, così per compensazione.

Del resto, eh, gli stessi versi, e persino nell'originale tedesco (Als die Nazis die Kommunisten holten) sono stati addirittura attribuiti in rete al sottoscritto, Venturi Riccardo. Non ci credete? Leggete qui! E se non siete convinti, leggete pure qui. Insomma, c'è il caso che in qualche numero dell'Unità del 2095, quando sarò morto e sepolto e il governo italiano varerà la legge sulla precipitazione dalla Rupe Tarpea degli omosessuali, mi vedrò citato nella strisciolina rossa sotto la testata.

sabato 28 giugno 2008

Pian di Bordiga



Domenica scorsa sono stato, assieme alla mia compagna, a fare un giro in cerca di un po' di fresco. Era una giornata torrida, come oggi del resto; ci siamo messi in macchina e mi è venuto in mente di andare verso Vallombrosa. A mille metri secchi di altitudine, in mezzo ai castagni e ai pini alti, certi di trovarci comunque mezza Firenze in fuga dalla calura (cosa puntualmente avvenuta); e così ci siamo messi in strada, non senza aver notato, al Girone, un termometro stradale, fuori dalla casa del popolo, fermo su quaranta gradi.

Per arrivare a Vallombrosa bisogna costeggiare l'Arno verso monte, passando Compiobbi, Le Sieci e Pontassieve. Poi si prende la statale 70 verso Pelago. E' una Toscana poco nota, quella; poco nota e stupefacentemente bella. Ed è anche qualche ricordo per me, qualche ricordo molto lontano. Lasciata la statale, bisogna deviare verso Tosi (si pronuncia con la "ò" aperta, "Tòsi"); un paese già a più di cinquecento metri di altezza, dove tenere i finestrini aperti cominciava a risultare decisamente gradevole. Abbarbicato a mezza costa, uno di quei "paesi del mobile" che esistono, o esistevano, da molte parti in Toscana. Ci sono ancora i mobilifici, c'era il mercatino domenicale, un vecchio a fumare fuori dalla porta. Non ci passavo più da vent'anni.

Ci passavo abbastanza spesso, invece, da bambino e da ragazzino. Sul sedile posteriore delle due 850 di mio padre (la seconda, beige, era "Special"), poi sulla 128 verde. Per andare a Pian di Melosa.

Pian di Melosa è già vicina a Vallombrosa, e sta già sui sette o ottocento metri. Ci andavo, e ci andavamo, perché una zia paterna, di nome Luciana come mia madre, aveva lì la "casa dell'estate"; uno di quei posti di cui non devo avere mai parlato. Eppure, guidando piano su quel pezzo di salita, mi sono riaffiorati visi, e persone. Tornare in un posto dopo vent'anni, neppure fosse all'altro capo del mondo; ma forse sarà perché all'altro capo del mondo, o qualcosa del genere, ci sono stato io. Sarà anche perché, in generale, Pian di Melosa era associato a domeniche in famiglia, e mi toccava andarci piuttosto riottoso e solo con la promessa che sarei potuto andare al bar a seguire la partita della Fiorentina per radio, quando c'era ancora soltanto "Tutto il calcio minuto per minuto" col secondo tempo. Bortoluzzi, Ameri, Sandro Ciotti e Provenzali, per intendersi.

Però, a volte, ci ho passato anche una settimana o dieci giorni di fila, a Pian di Melosa. Quando gli zii convincevano i miei a lasciarmi lì per qualche giorno. Allora mi faceva piacere, perché un nipote dagli zii ha qualche libertà in più. E così mi ricordo delle figure di quel paesino, che poi è una frazione del comune di Reggello; una sola strada, circondata da "terratetto", che sbocca in una piazza aperta, con poche villette. Attorno, il bosco e basta; e il bar "Da Gigino", tenuto da una vecchia coppia –Gigino, appunto, e l'Angiolina- e dal figlio, che si chiamava Pellegrino. C'era il biliardo eternamente occupato dai giocatori di boccette, ché in Toscana la stecca è roba da accademie cittadine che non mi riesce immaginare in preda alla legge Sirchia; c'era l'ordinanza che proibiva i giochi "d'azzardo" alle carte, tra cui la briscola e il ventuno; s'immagini quanto fosse rispettata, quell'ordinanza a bischero. C'erano dei ragazzi, pochissimi del posto e molti fiorentini in vacanza. E siccome mio padre le ferie le pigliava quasi sempre in luglio, quando tornavamo all'Elba, agosto spesso voleva dire Pian di Melosa.

Quanto avevo? Sette, dieci, tredici anni. Ho tre ricordi incancellabili di Pian di Melosa. Il primo è quando, per accidente, mi chiusi un dito mignolo nello sportello della macchina di mio zio Dino, che era ovviamente una Simca. Righeschi Dino, ex bigliettaio sull'ATAF, fedele alla Simca fino alla morte. Tre Simca 1000 –la prima, blu notte, era detta "La Poldina" - poi una di quelle "familiari", verde, che se n'è andata con lui nella tomba –mi verrebbe quasi da dire. Un dolore terrificante e una falange rotta. Il secondo ricordo è una vecchia del posto che aveva perso, non si sa per quale motivo, l'uso della parola; tranne che per una sola espressione, "Oh Dio, Dio, Dio, Dio!". Riusciva a dire solo quello, ma col tempo doveva avere sviluppato una specie di linguaggio modulato elementare. Modulando il suo "Oh Dio, Dio, Dio, Dio!" arrivava ad esprimersi e farsi capire. Mi ricordo di una volta che era arrabbiata nera, e che berciava il suo "Oh Dio, Dio, Dio!" a novecento decibel; quando mi incontrava, però, mi faceva sempre la carezzina e un sorriso, e un "Oh Dio, Dio, Dio" decisamente dolce. Non so neppure come si chiamasse. Per me è "Oddìo Oddìo". Sarà morta e sepolta, ché era già vecchia quand'ero un bimbetto.

Il terzo ricordo, me lo sono ritrovato fermandomi a Pian di Melosa, dopo vent'anni, e entrando nel bar che si chiama sempre "Da Gigino". Solo che Gigino non c'è più, e nemmeno l'Angiolina, e nemmeno il figlio Pellegrino. Non c'è più nemmeno il biliardo, ma una TV al plasma dove rombavano i motori del gran premio di Formula 1, e di quello di motociclismo poi. Quella è una cosa rimasta; il bar Gigino era un tempio del dio Ferrari, e mio zio Dino ne era uno degli apostoli. Abbonato a "Autosprint" fin dal primo numero. Mi sono ricordato che in quel bar ho visto per la prima volta nella mia vita la televisione a colori; erano le trasmissioni sperimentali dell'estate del 1976, durante le olimpiadi di Montréal. Sono una cosa incredibile, i ricordi. Dopo trentadue anni mi è tornata alla mente l'immagine precisa, la partenza di una gara di atletica leggera, i colori ancora violenti, le discussioni tra la scelta del sistema PAL e del SECAM francese. Mi ci sono abbandonato per due minuti.

Poi ce ne siamo andati via. Le ho telefonato, alla zia Luciana, per dirle dov'ero in quel momento. Mi piace pensare che le abbia fatto piacere.

Poi, rimontando in macchina per andare a Vallombrosa, mi sono accorto che a Pian di Melosa c'era qualche strada nuova. O meglio, alle stradine di campagna sul lato destro della provinciale avevano dato un nome; prima non lo avevano.

C'era una via "John Milton", a Pian di Melosa. Accidenti, il paradiso perduto! E c'era, facendomi strabuzzare gli occhi, una via "Amadeo Bordiga". A Pian di Melosa. Non ci sono né Togliatti, né Lenin, né Berlinguer; ci hanno messo Amadeo Bordiga.

lunedì 23 giugno 2008

Il Passo della Morte


Trambusti, da queste parti, è un cognome comune; quando lo si sente, almeno nelle menti delle generazioni non recentissime, si pensa poi immediatamente al vino. "Chianti Trambusti", che esiste peraltro tuttora, col magazzino in via Pistoiese.

Scrivo così perché, in realtà, non so nemmeno da dove cominciare. Perché questa è una storia che non conosco, che nessuno mi ha raccontato a voce, che non ho mai sentito coi miei orecchi. L'ho letta qualche tempo fa in alcune scarne righe del saggio di Gianantonio Stella, L'Orda – quando gli albanesi eravamo noi. Righe riportate anche da un paio di siti, e che ho trovato quando sono andato a cercare qualcosa di più per raccontare una storia, una storia di gente più o meno comune, come recita la frase introduttiva di questo blog. Nulla da fare. Soltanto alcuni scarni dati, e un nome.

Quando gli albanesi eravamo noi. Albanesi, e rumeni, e chissà cos'altro. Quando eravamo anche zingari; una delle più famose canzoni di emigrazione italiane, Trenta giorni di nave a vapore, dice letteralmente: in America ci andremo coi carri degli zingari. Non ha avuto la fortuna che meritava, quel libro di Gianantonio Stella; troppe cattive coscienze smuove. Troppe storie che, al giorno d'oggi, si vogliono dimenticare. Oppure liquidare con la lontananza nel tempo. Oppure, ancora, ponendo "paragoni" tra il bravo emigrante italiano che "con l'industria costruisce paesi e città" e il cattivo emigrante d'ora, che porta soltanto delinquenza, prostituzione, stupro, sporcizia.

Di questa storia, o non-storia, so che è avvenuta l'altro ieri. Nel 1962. L'anno prima che io nascessi. Proprio ieri pomeriggio sono passato da Bagno a Ripoli; ora una cittadina attaccata a Firenze, cittadina di villette e benessere, di territorio ben adatto al "Tuscan dream", qualche piccola industria, le seconde case dei cittadini e, spesso e volentieri, anche le prime di ex fiorentini che si sono trasferiti là per sfuggire magari al "degrado". Davvero carina, Bagno a Ripoli, nulla da dire. Con le sue frazioni immortalate persino da un pittore del calibro di Ottone Rosai. Un suo affresco, "Case di Villamagna", del 1935, si trova dentro il bar Chef Express della stazione centrale; e quel paesaggio, tutto sommato, lo si può vedere ancora. Villamagna è nel comune di Bagno a Ripoli.

Come immaginarsi che, ancora nel 1962, da Bagno a Ripoli si potesse partire per fame? Il secondo magro dato di questa storia. Il nome. Mario Trambusti, di anni 26. Un nome che ora non si sentirebbe più, chi chiama ancora "Mario" un figlio. Si chiamerebbe, chissà, Jonathan Trambusti, o Samuel Trambusti, o Vanessa Trambusti se fosse una femmina. A quei tempi succedeva invece che una mia cugina coetanea trovasse difficoltà nel parroco perché i genitori la volevano chiamare Barbara. "Barbara non è un nome cristiano", disse loro.

Mario Trambusti faceva il panettiere. Racconta Stella che aveva un negozietto a Bagno a Ripoli che non gli permetteva di tirare avanti. Dovevano essere ancora i tempi, nel 1962, in cui di quei piccoli forni ce n'erano uno ogni duecento metri, tutti con la stessa vita dura e magari senza impastatrice meccanica, ché la luce elettrica costa un subisso. Tempi già di Rai tv, di telefono, di automobili. Tempi che, sovente, ancora si sente chiamare di miracolo economico o di boom. Di cui si parla con rimpianto. Tempi in cui un panettiere di ventisei anni doveva ancora partire da Bagno a Ripoli, come un cane, per cercarsi una vita altrove senza nulla in tasca.

Partendo magari nella notte dopo aver cercato una via per andare dall'altra parte. L'altra parte era la mèta di tanti italiani, e di moltissimi toscani e fiorentini. La Francia. Da Firenze, poi, era probabilmente il paese più emigrato di tutti, i fiorentini –nonostante Antonio Meucci- in America non ci andavano tanto volentieri, e neppure in Australia. Magari in Argentina. Ma quando stavo a Bruay Sur l'Escaut, un'officina vicino a dove abitavo recava il nome di "Giotto Bardi". Il titolare non parlava più neanche mezza parola di italiano, ma il padre veniva da Scandicci. Quando il figlio vide la mia vecchia Tipo targata Firenze, che reggeva l'anima coi denti e che in quelle plaghe è rimasta poi a sfasciarsi, mi fece passare avanti a tutti.

Si dev'essere diretto verso Ventimiglia, Mario Trambusti, panettiere di anni ventisei nel 1962, con un biglietto di terza classe, o qualcosa del genere. Verso un posto che era usato dagli emigranti clandestini italiani fin da decenni prima, i sentieri dietro la Valle dello Stura, alla frontiera del Col di Tenda. Un luogo talmente impervio, da essere chiamato Passo della Morte. Già nel 1922 un deputato italiano, Stefano Iacini, aveva denunciato che "ogni notte sono decine e decine, per non dire centinaia, gli operai che passano in Francia clandestinamente"; nel primo dopoguerra si arrivarono a calcolare circa duecento clandestini al giorno. Un traffico organizzato, con tanto di guide; e non si trattava soltanto di operai o comunque di carne da lavoro. C'era anche la carne da sesso, ragazze italiane abbindolate nei porti (specialmente a Napoli, Livorno, Messina) e spedite clandestinamente in Francia e in mezza europa a fare le puttane con la promessa di qualche bel lavoretto sicuro. Ricorda nulla, questa cosa? Magari, che so io, l'espulsione delle prostitute? E c'erano anche i bambini, letteralmente venduti per diventare schiavi nelle vetrerie francesi, sgobbando quindici ore il giorno "in cambio di un pezzo di pane duro, di una minestra immangiabile condita col sego, alla domenica un bicchiere di vino cattivo e salsicce o altra carne putrefatta, cinque per letto, brulicante di insetti." (dalle relazioni di Lionello Scelsi, diplomatico italiano, console a Lione).

Il Passo della Morte. In realtà, di "passi della morte" ce n'erano diversi. La Valle dello Stura, ma anche la Valle della Roya, il Piccolo S. Bernardo, il Chemin de Rochemolle in Savoia, la "Fenêtre Durand" e altri. Mario Trambusti era in quello della Val di Roya, appena sopra Mentone. Sentieri abbarbicati a quelle montagne da paura, e tuttora utilizzati da curdi, rumeni, magrebini. Probabilmente utilizzati nei due sensi, però, ora. Allora no. Il senso era unico. Si partiva, magari da Bagno a Ripoli, da una Bagno a Ripoli del 1962, da una Bagno a Ripoli dove un ventiseienne del 2008 si pone come problemi il Nokia di ultima generazione o le vacanzine alle Maldive con la fidanzata, per andare a schiantarsi giù dal Passo della Morte. Quel Passo dove sono morte, dicono, duecentocinquanta persone. Ognuna con un nome e un cognome. Mario Trambusti fu l'ultimo clandestino italiano che vi morì, volando di sotto da una spaventosa parete di roccia dopo aver messo un piede in fallo. Lo trovò tale signor Ferdinand Delrue, che aveva portato il cane a pisciare nel giardino della sua villa proprio ai piedi del costone; Mario Trambusti, da Bagno a Ripoli, anni 26, panettiere, gli era venuto a cascare proprio in casa. Era la mattina del 1° gennaio 1962.

Non posso immaginare altro e forse ho immaginato già troppo. Mi viene da pensare ai nomi. Tutti avranno presente i titoli dei giornali: 150 clandestini annegati nel Canale di Sicilia. Clandestino trovato morto nel cassone di un TIR. Clandestini. Persone. Con dei nomi. Cognomi. Persone. Esseri umani. A Mario Trambusti è stato perlomeno riservato un barlume di memoria, la stessa memoria che abbiamo perso vomitando cibi confezionati, oggetti inutili, pance gonfie che hanno sostituito il pane e la fame. La fame è brutta e nessuno vorrebbe tornare a farla. Ma l'antico affamato che ora sputa addosso all'affamato attuale, invocando leggi, "legalità" e tolleranze zero, meriterebbe di tornare, come individuo e come collettività, a schiantarsi giù da un Passo della Morte, una mattina di gennaio, nella più totale solitudine pari solo al disprezzo che lo avrebbe atteso di là dalle montagne.

mercoledì 11 giugno 2008

Quando il sonno se ne va, 2.



Quando il sonno se ne va, magari per una canzone, te ne vengono a mente delle altre. Sono le quattro e cinquantasette di una notte di giugno, e sta per arrivare l'alba. Silenzio. Gli uccelli. Mi è venuta a mente questa, che invece credo sia una grande canzone. La conosco da una vita e mezzo, ma come mi è successo spesso, avendola ascoltata da ragazzo su una cassettaccia senza nomi, a lungo ho ignorato chi la cantasse. Poi, tempo dopo, ho scoperto che era un gruppo irlandese, i Planxty. In seguito ho scoperto che nei Planxty cantava tale Christy Moore, e ancora dopo che la canzone la aveva scritta talaltro Norman Blake. Ne hanno fatta di strada per diventarmi nomi noti, e volti, e altre canzoni; ma andrà a finire che, questa, sarà sempre legata a sogni provenienti da una musicassetta arancione scassata.

Parla di una ragazza che si innamora di un pistolero, e parla di amore. Di quello "che non conosce ragioni", che non gl'importa di nient'altro. Fatta apposta per un diciassettenne e mezzo. Lui viene ammazzato, lei lo ama per sempre. Nel mezzo c'è la "fredda giustizia", e in quest'alba voglio proprio dirlo che la legge e l'amore saranno sempre nemici mortali, e che l'amore è, o dovrebbe essere, un fuorilegge naturale, un
outlaw. Vabbè. Di Norman Blake, l'autore, dico che è nato a Chattanooga, nel Tennessee; e nonostante le vecchie ironie di Guccini, no, non è per nulla la stessa cosa che essere nato a Sant'Anna Pelago provincia di Modena. Ha avuto a che fare, non mi ricordo se suonato assieme o che altro, con Bob Dylan, con Johnny Cash, con Kris Kristofferson. Ma la cosa che più mi piace di Norman Blake, oltre a questa canzone che ho nella pelle e nel cuore, è che è cresciuto in un posto che si chiama "Sulphur Springs", "Sorgenti di Zolfo".

Christy Moore racconta che, quando la sentì per la prima volta cantare in un pub di Cork, in Irlanda, da Noel Shine, oltre a innamorarsene subito pensò che una cowboy song in un pub irlandese non l'aveva proprio mai sentita. Su YouTube si trovano due "versioni artigianali" cantate e suonate da sconosciuti, questa e questa; e resta meravigliosa lo stesso.

TRUE LOVE KNOWS NO SEASON
L'AMORE VERO NON CONOSCE STAGIONE
di Norman Blake


Billy Gray arrivò a Gantry tornando da dov'era, nell'83,

là incontrò per la prima volta Sarah McLane,
rosa selvatica del mattino, pallido fiore dell'alba,
quel giorno scagliò la primavera nella vita di Billy

Sarah non sapeva vedere quanto lampante era la realtà,
ai suoi giovani occhi Billy non aveva alcuna macchia
poiché non sapeva che il suo amato era un pistolero
ricercato a Kansas City dalla legge

Poi, un giorno, un uomo alto arrivò dalle Badlands
che stanno a nord del New Mexico
per caso fu sentito dire che cercava un certo Billy Gray,
un ricercato e un pericoloso fuorilegge

Billy lo venne di straforo a sapere mentre dormiva sodo
all'albergo del Clarendon Bar,
corse alla vecchia chiesa appena fuori dal paese
pensando di nascondersi nella guglia del vecchio campanile

Ma gli arrivò una fucilata e cadde faccia a terra
nella polvere della strada, dove giacque morto
Sarah corse da lui maledicendo lo sbirro,
la povera ragazza non intese ragioni, lo avevano ammazzato e basta

Sarah vive ancora nella vecchia casa bianca di legno
dove per la prima volta aveva incontrato Billy quarant'anni prima
ma la rosa selvatica del mattino è appassita assieme all'alba,
lunghi anni son passati e ogni giorno è stato un giorno di pena.

E scritte sulla pietra dove a lungo hanno soffiato venti carichi di polvere
ci sono ventuno parole che dicono alla gente che passa:
"L'amore vero non conosce stagione, buon senso o ragione,
la giustizia è fredda come la terra della contea di Granger."

"L'amore vero non conosce stagione, buon senso o ragione,
la giustizia è fredda come la terra della contea di Granger."

Quando il sonno se ne va, 1.



Quando il sonno se ne va, a volte è per colpa di canzoni. Non importa che siano "grandi" canzoni, possono essere anche canzonette qualsiasi che, il più delle volte senza nessun motivo, ti entrano in testa e si mettono a martellartela. Non ti ricordi un verso, una parola…e allora, alla fine, sbatti il cuscino in terra, tiri due madonne e ti alzi. Bisogna andare a cercare il testo, magari alle quattro di mattina, magari stanco morto; ma la canzonetta esige la sua notte. Sovente una cosa che viene dal passato, e che innesta ricordi ben precisi; così per la colpevole di questa notte, ed il termine "colpevole" è quanto mai adatto datone l'argomento stesso. Questo non è un blog di canzoni. Fanno capolino solo una volta ogni tanto, e così per caso. Però, chissà, anche una canzonetta senza pretese, che è pur sempre una storia, qualcosa da dire ce l'ha. Una cosa che, per un motivo o per un altro, si è rifiutata di andarti via dalla mente. Una cosa, poi, che nella sua canzonetta-senza-pretesità, ho sempre trovato del tutto, piacevolmente e indefinibilmente reminiscente di "Arsenico e vecchi merletti" e di quando l'assassino era il maggiordomo; ma stavolta, con tanto di "splash" e di cucù nella musica buffamente goticheggiante, il maggiordomo è il fedele complice. Per chi la volesse ascoltare, eccola su Daily Motion; è di un cantautore parigino nato nel mio stesso anno, che ha cantato anche la mirabolante storia d'amore fra un pipistrello e un ombrello e pure "Bella ciao" in italiano.
Curiosamente ha lo stesso cognome del famoso amante svedese di Maria Antonietta di Francia, quello da cui sembra essere partita la leggenda della "Primula Rossa".

MONSIEUR
di Thomas Fersen
1999

I passanti che incontra
Si levano il cappello,
Il cane gli lecca le mani,
La sua presenza rassicura.
Guardate quel bambino che strilla
Come lo soccorre,
E come aiuta il cieco
A attraversare la strada.
Nella pace del suo giardino
Coltiva le sue rose;
Monsieur è un assassino
Quando è depresso.
Strangola il proprio simile
Nel parco di Meudon
Quando è inconsolabile,
Quando ha il magone.
In barba ai vicini
Che lo trovano simpatico,
Monsieur è un assassino,
Io sono il suo domestico.
E archivio questo dossier
Sotto le rose canine,
Faccio un poco il giardiniere
E pure cucino.

Strangola il suo prossimo
Quando è in preda alla noia,
E poi, oplà! Dentro lo stagno
Sotto le ninfee.
E poi do una spazzatina
Sui luoghi del delitto
Dove lui non torna mai,
Neanche per far scena.
Senza destare sospetti,
Alle ore piccole
Rientriamo a casa,
Io sono il suo autista.

Ché con quell'aria anodina,
è un pazzo furioso,
Monsieur è un assassino,
Per lui è una cosa cronica.
Strangola il suo simile
Quando batte mezzanotte,
E io attiro il povero diavolo,
Al Bois de Boulogne.
Il cliente dentro una valigia
Con tanto di cappello,
Prenderà il treno per Venezia
E un po' di riposo.

Strangola il suo simile
Nel parco di Meudon
Quando è inconsolabile,
Quando ha il magone.
In barba ai vicini
Che lo trovano simpatico,
Monsieur è un assassino
E io sono il suo domestico.

Lo impiccherete, Monsieur,
E io perderò il posto,
Lo impiccherete, Monsieur
Ohimé! Tre volte ohimé!
Ma bisognava aspettarselo
E la prego, Vostro Onore,
Umilmente, di riprendermi
Come servitore.
E archivierò questo dossier
Sotto le rose canine,
Faccio un poco il giardiniere
E pure cucino.

giovedì 5 giugno 2008

Ho appena rischiato la vita. Resoconto da una tranquilla notte fiorentina di paura.




Care amiche, cari amici,

Anche per questa sera, per questa degradata sera d'un giugno piovoso, ho dovuto seriamente rischiare la vita qui nel mio quartiere fiorentino, in questo terribile Isolotto alle frontiere della civiltà.

Mi è successa una cosa terribile, e per colpa mia. Eppure me lo dico sempre, da fumatore incallito quale sono: Riccardo, le sigarette te le devi far finire di giorno. Almeno, con il dono della luce solare, le terribili orde di rom del Poderaccio, di rumeni di Mantignano, di albanesi di San Bartolo a Cintoja e di peruviani delle Cascine e di via Torcicoda, possono essere individuate e abbattute dalle speciali squadre della Polizia Municipale dotate dei più moderni armamenti; ma, quando calano la sera e poi la notte, il terrore si impadronisce dell'Isolotto. Il cocomeraio alla passerella delle Cascine appone i suoi quotidiani cavalli di Frisia e tira su le paratie antirapina, consegnando le fette da un'apposita feritoja. Intrepide ronde d'impavidi cittadini, sprezzanti del pericolo, percorrono le buje strade del quartiere. Nei giardinetti di via degli Agrifogli e del viale de' Platani si consumano orrendi stupri ai danni di incaute fanciulle italiane che hanno osato uscire da sole o col fidanzato; si sono avuti casi in cui, nome santo d'Iddìo, è stato stuprato pure il fidanzato, tanto che c'era. Coppie collaudate si sono sfaldate quando la ragazza, pur nell'orrore del momento, ha constatato che il fidanzato ci godeva pure, quel popo' di majale. Così non si può andare avanti. Siamo alla fine della civiltà occidentale. O all'occidente della civiltà finale. Scusate ma sono confuso.

Insomma, alle ore 22.40 di oggi 5 giugno 2008, ho finito le Diana Blé e, da autentico tabagista, non mi è rimasto che sfidare follemente la sorte e andare alla macchinetta situata al bar all'angolo con via Pio Fedi, distante ben 150 degradati & pericolosissimi metri da casa mia. Ogni volta che mi capita di farlo, esco con il cuore in gola. Indosso la mia tuta mimetica, imbraccio il kalashnikov e, nonostante tutto questo, ho una paura folle. Nel quartiere girano voci terribili su quella macchinetta; si parla di ignari fumatori di passaggio sgozzati senza pietà per essere rapinati di pochi spiccioli, e addirittura di un povero vecchio catarroso sventrato, ma non prima che avesse comprato due pacchetti di Stop che gli sono stati sottratti dal vilipeso cadavere assieme al resto dei soldi.

E così è andata. Superato l'ultimo avamposto della civiltà nella notte isolottina, costituito dalle rassicuranti luci della pizzeria "Da Cinzia", mi sono avventurato nel vialetto di uscita e poi nella terrificante via dell'Argingrosso.

Mi è passata davanti prima una lussuosa Mercedes con targa balcanica, letteralmente infarcita di bambini rapiti; sulle fiancate dell'automezzo, un cartello con scritto: Giro rapimenti delle 22. A quest'ora, quei dolci e innocenti bambini e bambine di Firenze saranno già state avviati a sordide tendopoli della periferia di Priština dove condurranno una miseranda vita di furti e di nequizie, non serbando più il ricordo di via Ciseri o di via Cecioni. Si sentivano echi di sparatorie sempre più vicine, e proprio mentre cercavo di ripararmi, ho inciampato nel cadavere della lavandaja mentre un assatanato gruppo di persone dalla pelle olivastra stava saccheggiando il negozio provvedendo anche a dare una lavatina a secco ai loro cenciosi & miseri vestimenti.

Alla fine, ho raggiunto la macchinetta. Ho infilato una moneta da due euro, ma non c'era nulla da fare: come sempre, quella maledetta non ne voleva sapere e risputava fuori il denaro. Naturalmente è stata manomessa dagli zingari, che così possono approfittarne per sorprendere il malcapitato; tanto più che, verso di me, stava avvicinandosi con fare minaccioso uno sconosciuto. Preso dalla disperazione, ho cominciato a tempestare la macchinetta di cazzotti, accorgimento che uso spesso unitamente a colorite bestemmie all'indirizzo del dio giudaico-cristiano; e proprio mentre lo sconosciuto era a pochi passi, clàc, la macchinetta ha deciso di erogare il pacchetto di Diana Blé con la sua voce metallica: Ritirare il prodotto o sceglierne un altro dlèn. Ritirare il prodotto o sceglierne un altro dlèn.

Troppo tardi.

Sono stato investito da un profluvio di contumelie in purissimo rumeno dell'ovest, del tipo : Brutto buhaiolo, ma che l'abbozzi di tirà cazzotti alla macchinetta, gesummajale, che con quelle mani 'e tu me la sfasci, accident' a tu' mà trojaaaaa.....!?!?!?

Era il barista.

Biascicando alcune scuse di prammatica, e adducendo a pretesto la paura occidentale, degradata e cristiano-.giudaica che mi attanaglia, ho dovuto promettere a quell'uomo di non farlo mai più, anche perché dalla giacchetta aveva cavato fuori un Usag 36 minacciando di usarlo contro la mia spaventata persona se mi ribeccava a cazzottargli la macchinetta; e di fronti a simili argomenti, non mi è rimasto che acconsentire urbanamente.

Ho preso il pacchetto e sono tornato a casa tremando come una foglia.

Le luci della pizzeria mi hanno accolto salvifiche. Mi sono barricato in casa sistemando, come di consueto, sacchetti di sabbia davanti all'uscio e decidendo per questa sera di ricorrere persino all'extrema ratio: una foto di Giuliano Ferrara ignudo, a mo' di disperato deterrente.

Ma d'ora in poi, le sigarette 'e gli anderò sempre a comprarle di giorno. Si sentono sirene nella notte tragica. Firenze sta morendo. Domattina la Quadrifoglio passerà a rimuovere le salme.

mercoledì 4 giugno 2008

Vox Populi, Vox (del) Sanguinis



In questo blog si parla abbastanza poco di musica, e per una scelta ben precisa. Lascio di solito parlarne chi ha maggiore competenza, maggiore "bernoccolo" e maggiore puntualità di quanto non ne abbia e non ne sia capace il sottoscritto; per questo, basta cliccare sull'elenco dei link a sinistra. Eppure, parlare di certa musica, e soprattutto di certe persone che la fanno, a volte rientra in modo preciso nella "dichiarazione programmatica": stare bene con poca gente e in pochi posti che si amano molto. Per questo, oggi, scrivo queste cose.

Le sto scrivendo sui e per i Del Sangre. Per degli amici, per dei compagni e anche per qualcosa di più; proprio oggi, sul loro sito, hanno reso liberamente scaricabile, interamente a gratis, il loro ultimo e bellissimo album, intitolato Vox Populi. Basta cliccare, e vi scaricate un capolavoro, senza nessunissimo "mezzo termine" (sia detto per inciso, a me i mezzi termini piacciono poco o punto). Di questo album completamente affidato alla diffusione gratuita via Internet parla compiutamente Franco Senia sul suo blog; e si tratta di una consultazione assolutamente necessaria, le "Note di copertina" di un album che di copertine non ne avrà mai. A suo tempo, sono stati i Del Sangre stessi che hanno chiesto a Franco di preparare quelle note, cosa che l'interessato ha fatto (o, per usare le sue stesse parole, ha provato a fare) unendo capacità e passione. Vale a dire esattamente quel che i Del Sangre fanno con le canzoni. Le "note di copertina" di Franco Senia sono, a modo loro, un'altra canzone dei Del Sangre.

Che cosa sia "Vox Populi", ovviamente, è spiegato sia nella breve introduzione presente sul sito della band, sia nelle "note" seniane. Dico solo brevemente per chi si imbattesse nei Del Sangre soltanto ora e per tramite di questo blog, che Luca Mirti e Marco "Schuster" Lastrucci hanno preso alcune canzoni popolari italiane, e poi hanno fatto una cosa. Non so se chiamarla "reinterpretazione", anche se personalmente non mi sembra il termine giusto. Una canzone "popolare" non è mai "reinterpretata", è soltanto fatta circolare. Nella tradizione popolare autentica, una canzone può presentare spesso variazioni assai maggiori di quelle che hanno compiuto i Del Sangre; preferisco quindi dire che Marco e Luca si sono messi sulla stessa strada, sullo stesso cammino della canzone popolare, e lo hanno seguito da par loro. Se c'è un'unica cosa sulla quale non sono d'accordo con Franco, è quando parla di "tradire la tradizione"; secondo me i Del Sangre hanno fatto tutt'altro che tradirla. La cosiddetta "tradizione" è in realtà una storia continua di reinterpretazioni, di modifiche, di interventi che poi si reimmettono in circolo. Al giorno d'oggi, solo per fare un esempio, i rarissimi cantori popolari scozzesi che ancora conoscono le antiche ballate, le cantano per lo più nelle versioni e negli arrangiamenti musicali compiuti da Robert Burns, da sir Walter Scott e da altri nel famoso Scottish Musical Museum. Al tempo loro, quei grandi personaggi fecero un'operazione niente affatto dissimile da quella dei Del Sangre.

Interventi come quello su "Maremma", ad esempio, non sono certo nuovi; costruire un testo originale attorno ad un ritornello "popolare" è un caso che si ritrova decine di volte nella "tradizione", e quel testo riscritto è divenuto poi autenticamente "vox populi". E' il caso, per citarne uno famoso, di Scarborough Fair. Ma è quello che scrive, precisamente, anche Franco Senia: Il canto popolare vive nelle sue varianti, e anche nelle sue interpretazioni e riscritture. Nella sua giustezza, questa frase contraddice da sola il presupposto "tradimento". Giungo a dire, pur nella mia particolare e oramai lontana formazione, che l'aderenza filologica, pur lodevole e utile, imbalsama il canto popolare, lo cristallizza, lo rende morto. Il canto popolare vive soltanto mutando continuamente come le immagini di un caleidoscopio.

Con il loro album, i Del Sangre compioni quindi un'emozionante operazione di vita. Qualcosa che, ora come ora, suona come un'opportuna, una doverosa bestemmia. Condannando magari questa band favolosa ai margini, ai localacci ancora fumosi perché a un certo punto le sigarette spuntano sempre fuori nonostante Sirchia, a un circuito sotterraneo. E' qui che la passione, quella vera, quella che non ha mai bisogno di ritornare perché non è mai andata via, si manifesta in tutta la sua magnificenza.

Non resta quindi che inforcare il mouse, cliccare e scaricare. E magari, perché no, diffondere. Con un ultimo "grazie" ai Del Sangre per le loro canzoni, per la loro musica, per la loro esistenza.