venerdì 31 ottobre 2008

Alfabeti originali




Qui sotto c'è scritta, nel suo alfabeto originale, una frase, o un modo di dire, che avevo letto qualche tempo fa. Ora è arrivato il momento di riportarla: così va la vita! Inutile chiedersene le cause, è semplicemente così. Che tu la dia, che tu la riceva, o anche tutte e due le cose insieme.


أراكم أمس

When a friend dies



Son serate così. Sei a mangiare una pizza, arriva una telefonata e via.
Mi ricordo di quando mi hai dato quella chiave, con una strizzata d'occhio, perché non s'aveva un posto, io e lei, dove andare a fare l'amore in santa pace.
Mi ricordo anche d'averti sempre conosciuto troppo poco.
Mi ricordo di quando, già malato, dicevi di stare sempre bene.
Davanti a gente estranea, alzo un bicchiere e una bandiera rossa, Enrico.
E tutto il CPA è con te. Niente addii, fanculo a dio. Gli addii sono per i morti. Tu sei più vivo da morto, che certi morti da vivi.

Riccardo.

giovedì 30 ottobre 2008

Pinocchi


Ieri, ovviamente, hanno mandato gli squadristi. Ma no, tranquilli, non importa che siano stati mandati dal “governo”, non importa che siano stati ingaggiati. Quando c'è da pestare, i picciotti rispondono all'appello dei boss spontaneamente. C'era da “creare il casino”, il casino tanto invocato, tanto agognato, tanto assaporato. Kossiga è andato in avanscoperta ricordando a tutti come si fa; poi sono spuntati i manganelli “tricolori” e persino il Pinocchio gigante a mo' di bastone.

Gli squadristi armati hanno eseguito; gli squadristi ben nascosti, ma non meno squadristi di quegli altri, ora possono alimentare le loro solite grancasse. Guardateli, persino in questo blog dimenticato: tutti belli carini, tutti con le loro parolette d'ordine, il “diritto a studiare”, i “facinorosi” e tutto il resto. Con una prassi consolidata, chiedono “argomentazioni”. Chiedono sempre “argomentazioni”, questi qui. Non importa, poi, fornirgliene a quintali, e che le loro, di “argomentazioni”, siano sempre le solite, trite e ritrite idiozie riprese dai loro giornaletti e dalle loro geniali televisioncine.

Riescono ad apparire prezzolati anche se, ovviamente, non prendono un soldo. L'altra sera, sui due dei bollettini televisivi di Berlusconi (tg2 e tg5), c'era un “ampio risalto” agli “studenti che si oppongono alla piazza” (guarda caso, tutti giovinotti di forzaitaglia). Ma per carità, hanno anche loro tutti i diritti di opporsi; solo che sono tre gatti. Il reportage del tg5 ha previsto addirittura un collegamento da Firenze: due interviste a dei giòvini con i soliti tormentoni studiati a tavolino, e addirittura una non meglio precisata “riunione” dove si vedevano dei tipi col culo su delle seggiole. A quanto si vedeva dal servizio, poteva essere anche un convegno di giovani allevatori di rottweiler, o di appassionati di birra trappista; ma no, erano i “numerosi studenti che si oppongono alle occupazioni e alle manifestazioni”.

Qui a Firenze, i giovinotti di forzaitaglia hanno una sede, in piazza Pier Vettori. Ci passo davanti spessissimo, non essendo lontano da casa mia. Un fondo di magazzino pavesato di bandiere e di poster del “Popolo delle Libertà” (provvisorie), ancora fermi alle elezioni del 13 aprile. E ci credo: anche durante la campagna elettorale, non c'è stato un minuto che sia uno che lo abbia visto aperto, quel fondo. E tuttora rimane disperatamente chiuso, sprangato. Un semplice supporto pubblicitario, un locale-spot.

Vogliono le argomentazioni. Le argomentazioni migliori, quelle che lorsignori non desiderano e di cui hanno una paura terrificante, sono ottocentomila persone in piazza a Roma e altre svariate migliaia in tutta Italia. Hanno talmente paura da scomodare prima il “picconatore”, poi i picconi. Pardon, i pinocchi. L'arma perfetta per questi schifosi che hanno riempito di bugie la testa della gente, e che continuano a farlo. Sbraitano sui “bambini portati in piazza”, quando loro coi bambini sbattuti in tv hanno contribuito a addormentare le coscienze. E vi ricordate quanti bambini, anche neonati, furono portati in piazza per il “Family Day”?

Ci hanno sempre i “rami secchi” da tagliare, loro. Con il pretesto dei “rami secchi”, tagliano tutto l'albero. Lo hanno fatto nelle ferrovie (senz'altro coadiuvati dai “centrosinistri” loro consimilari), privilegiando i progetti inutilmente faraonici e riducendo il servizio ferroviario ordinario in condizioni ancor più catastrofiche di prima. Lo faranno anche nella scuola e nell'università. Lo scopo è sempre quello: il privato. Il loro privato. Nel sud le ferrovie sono allo sbando totale, ma proliferano le autolinee private che hanno ottimamente beneficiato della cosa. Così avverrà per la scuola e per l'università: forza, scuolucce private! Ora privatizzano anche le università, così il cammino sarà finalmente completato. Non solo completato: sarà stato fatto dando l'illusione di “eliminare gli sprechi”. E ci credono pure, poveri imbecilli. Ci credono, o fanno finta di crederci. Ma il risultato è lo stesso: fare spot. Ovunque sia possibile farli. Una rete capillare di “consigli per gli acquisti”, dalla tv nazionale ai forum e ai blog più oscuri. Dal giornalone di famiglia fino al fondo costantemente sbarrato di piazza Pier Vettori.

Da questo punto di vista, lo ripeto, il Pinocchio gigante utilizzato dai picciotti “tricolori” in piazza è stato esemplare. L'arma perfetta per dei bugiardi criminali. Da qui il mio invito a chiunque sostenga questa lotta di non cadere in nessuna provocazione: quando vi chiedono “argomentazioni”, quando vi ripetono il loro bla-bla-bla, abbiate ben presente che i veri “facinorosi” sono loro, che sono solo degli squallidi esecutori di ordini, che il loro CQ (Cervello Qualunque) oramai è programmato per questo. Non abboccate alla loro finta tranquillità, perché dietro quella loro ostentata “pacatezza”, quando c'è, si nasconde la violenza più nera.

Alla fine del libro di Collodi, Pinocchio, come tutti sanno, diventa un “ragazzino perbene”. Si mette a studiare e fa contento babbo Geppetto. Diventa un bambino lindo e ubbidiente. Pronto anche lui per un bello spot pubblicitario, o per essere intervistato nel reportage del tg5 e dire “nghè nghè, voglio studiare, toglietemi di mezzo tutti questi cattivoni che me lo impediscono!”. Nella sua bella cameretta di bravo bambino, Pinocchio vede, abbandonato su una sedia, il vecchio burattino di legno che era. Quello, un giorno, lo darà ai suoi camerati in piazza per pestare chi non ci sta.


venerdì 24 ottobre 2008

Il senatore a morte



''Maroni dovrebbe fare quello che feci io quando ero ministro dell'Interno'', ha continuato. ''In primo luogo lasciare perdere gli studenti dei licei, perche' pensi a cosa succederebbe se un ragazzino di dodici anni rimanesse ucciso o gravemente ferito...''. ''Lasciar fare gli universitari - ha continuato - Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle universita', infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le citta'''. ''Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovra' sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri'', ha affermato Cossiga. ''Nel senso che le forze dell'ordine non dovrebbero avere pieta' e mandarli tutti in ospedale - ha continuato - Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in liberta', ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano''. ''Soprattutto i docenti - ha sottolineato - Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine si'."


Francesco Cossiga, senatore a vita, ex presidente della repubblica.

*
Un personaggio come quello che ha espresso quei bei concetti nazisti di cui sopra, il signorino di Gladio, lo abbiamo avuto come "presidente della repubblica", esattamente come ora ne abbiamo uno che a suo tempo applause entusiasta alla sanguinosa repressione della rivolta ungherese. Torno a dire: questi sono i prodotti perfetti della cosiddetta "democrazia parlamentare". Cossiga fa vomitare, ma non è uno che è venuto dal mondo della luna. E' un democristiano, un "senatore a vita" che nella scorsa legislatura ha sostenuto il "governo di centrosinistra", spero che tutti se ne ricordino a dovere. E forse non è nemmeno un pazzo: è uno che, con meno ipocrisia degli altri, mette a nudo la vera essenza del potere.

Magari qualcuno penserà che stia scherzando, quel buontempone. Magari scherzerà come quando era ministro dell'interno, quello dell' "abbiamo le armi", quello dell'11 marzo 1977 quando morì Francesco Lorusso a Bologna. Quello che mandò i blindati M113 nella zona universitaria a Roma, due mesi dopo, quando fu ammazzata Giorgiana Masi, studentessa di 19 anni del liceo Pasteur di Monte Mario. A quasi 30 anni di distanza, nel 2005 Cossiga scrisse che Giorgiana Masi probabilmente fu uccisa da "fuoco amico", "da un proiettile sparato dagli stessi manifestanti".

Oppure, nel consueto giochino, "smentirà" o dirà di "essere stato travisato". Sicuramente, poi , qualcuno dirà che è una "provocazione". Qualcuno, ancora, dirà che, così facendo, il "senatore a vita" (che meglio sarebbe chiamare: senatore a morte) ha voluto "smuovere le acque". Ci sono tanti, persino a sinistra e persino in quella estrema, cui in fondo sta "simpatico" per le sue esternazioni, per le sue "picconate". Sembra quasi una specie di sindrome di Stoccolma: questo qui è un boia dei peggiori, talmente dei peggiori che in certi casi fa innamorare le sue vittime.

Che se lo prenda, e presto, un cancro. Non è una cosa che faccio a cuor leggero, ma stavolta non posso davvero esimermi. Che muoia soffrendo come una bestia. E il giorno che avverrà, tutti vadano a sputare sulla sua tomba.

mercoledì 15 ottobre 2008

Verso il 18. 4, The Free Bird's Cellar Republic (1a parte)


Con le mie brutte e paurose oscurità trapiantate su un paio di gote troppo paffute per crederci. Così ho sempre amato visceralmente la luce, quasi a volermi illudere che potesse guarirmi da quelle oscurità che mi hanno accompagnato, sgraditissime compagne di viaggio, per larga parte della mia vita; però sono nato in una casa non grande, e con troppa gente. In più c'era anche la nonna, che viveva con noi; e la fissazione di mia madre, comune del resto a tante donne della sua generazione, di volerci avere il salotto. Il salotto è sempre la parte più orrenda di una casa, ricettacolo di mobilacci “in stile”, di cianfrusaglie, di “piccole cose di pessimo gusto”; in più mia madre, a un certo punto, insistette pure per metterci la carta da parati. E guai a entrarci, a parte nelle ore serali per guardare la televisione che troneggiava su una specie di trespolo.

Il risultato del salotto è che io, mio fratello e mia nonna si doveva dormire nella stessa stanza; uno dei motivi per cui, a un certo punto, fummo costretti a emigrare in cantina. Proprio così: in una piccola cantina condominiale, ovviamente solo durante il giorno perché non c'era lo spazio per tenerci nemmeno una brandina pieghevole. Finché mio fratello rimase in casa, io ci potevo andare soltanto quando non c'era; oltre alla scrivania e ai suoi libri, era riuscito non si sa come a metterci un piccolo laboratorio fotografico con delle strane lampadine colorate che mi affascinavano. C'era un minuscolo finestrino che, peraltro, dava su un sottoterrazzo nel cortile che faceva passare luce sì e no per dieci minuti al giorno (ma, quando passava e la giornata era particolarmente soleggiata, creava degli effetti stranissimi e meravigliosi, mescolandosi col pulviscolo).

Passarono gli anni, quelli dell'infanzia; un giorno, nell'autunno del 1974, quand'ero già in prima media, mi fu comunicato che mio fratello (già diplomato) rinunciava alla cantina e che me la consegnava, con tanto di chiavi. Se ne sarebbe andato di casa di lì a non molto, era già fidanzato e si è sposato giovanissimo. Comincia qui questa storia, la storia di una stanza tutta per me, così tanto per parafrasare Virginia Woolf. Ed è una storia che tuttora non mi risulta facile da raccontare: a poco più di undici anni, poiché per andare in cantina non era necessario passare da casa (si poteva entrare dalle scale e dal garage), mi ritrovavo di botto dalla promiscuità forzata della casa ad una stanza indipendente, seppure uno sgabuzzino. Non sapevo capacitarmene. Specialmente perché mio padre mi consegnò anche le chiavi del portone dello stabile: voleva dire, più o meno, andare e venire quando mi pareva.

Se avessi seguito le inclinazioni che avevo a quell'età, avrei fatto l'elettricista. Fin da piccolissimo sbavavo per spine, prese, fili elettrici, interruttori e lampadine. A otto anni, su un grosso pannello di masonite, avevo costruito una specie di circuito che, oh, funzionava; le lampadine si accendevano, perlomeno. Avevo uno scatolone enorme pieno di materiale elettrico, e mi ci divertivo come un matto; e alla classica domanda “cosa vuoi fare da grande” non avevo mai dubbi. Macché astronauta, macché ingegnere, macché missionario: io volevo fare l'elettricista.

Ma un conto è un pannello di masonite, un conto è una stanza propria. Naturalmente presi il mio scatolone e mi misi subito all'opera: piattine inchiodate al muro, portalampade, prese ficcate nei posti più impensabili. Al primo tentativo feci saltare la luce in tutto lo stabile; le prove successive andarono molto meglio. Alla fine contemplavo fiero l'opera mia; ero riuscito persino a mettere una lampadina all'esterno della porta, in modo da non accendere la luce del corridoio condominiale.

Come arredamento, un vecchio armadio vetrato nel quale avevo sistemato i miei libri; al termine della sua storia, la cantina sarebbe diventata un ammasso di mensole dove ce ne stavano quasi un migliaio. E' stato in quegli anni che ho sviluppato la mia particolare tecnica per la sistemazione dei libri, che è assolutamente maniacale. Tutti allineati alla perfezione con tanto di riga, e posti in modo da fungere da base ad altri sistemati in orizzontale. La adopero tuttora.

Alle pareti cominciai a appiccicare di tutto. Una stranissima foto di mio fratello, una “composizione” con una lampada accesa, uno sgabello e la prima pagina di un vecchio giornale che riportava la notizia della morte di Feltrinelli saltato assieme alla sua bomba sul traliccio. Il manifesto del meeting di atletica leggera Italia-Cuba, stadio Comunale di Firenze, 1° giugno 1972. Un Che Guevara ritagliato sempre da un giornale. Disegni fatti da me, che non ho mai saputo disegnare nemmeno la casina col comignolo. Calendari. E cominciai a passarci le giornate, a volte con alcuni amici che magari, a casa loro, avevano una bella stanza, ma che non era “la cantina del Venturi”. Cominciò, senza che lo volessi, a diventare una specie di mito; e cominciò anche la mia trasformazione, il mio passaggio. Esaurita la passione per le spine e le prese (ma ogni tanto ci davo un'aggiustatina, comunque), cominciai a scoprire l'essere da solo con se stesso. I pensieri. E la voglia di metterli su un foglio di carta.

A volte, scherzando, dico di avere imparato a scrivere a macchina prima che a mano. Non è vero; ma a sette anni e mezzo già battevo tranquillo sulla Lettera 32 di famiglia. L'ho letteralmente consumata, prima di sostituirla con una monumentale “Olympia” tedesca, presa da un rigattiere, che non ha mai ceduto. Poi ho avuto due macchine elettriche, anche belline, ma non erano la stessa cosa. Cominciai a scrivere raccontini: il primo parlava delle improbabili avventure di un cane, poi qualcosa che aveva a che fare con l'alluvione di Firenze e infine, ahimé, verso i tredici anni venne il momento delle immancabili poesie. Qui devo fare uno sforzo per riportarmi letteralmente a quell'età, una specie di stecco magrissimo alto quasi un metro e ottanta, brutto, sgraziato, spesso puzzolente come si puzza tutti quanti nell'adolescenza incipiente, dedito allo sfinimento da seghe, con la voce che cambia e con i pensieri “seri” che si affacciano. Tipo: la morte. De André c'era già, diviso tra un mangianastri a cassette regalatomi dalla nonna e il vecchio “Gelosino” che funzionava ancora. De André cantava che la morte sarebbe venuta all'improvviso e che avrebbe avuto le tue labbra e i tuoi occhi. Che accidenti sarà stata, 'sta morte?

Eppure l'avevo già vista, in diretta, da bambino. Il 4 luglio del 1968, quando ancora non avevo cinque anni e, a tavola, all'isola d'Elba, la mia bisnonna, Dini Giuseppa, che sapeva andare a dorso di mulo, mentre mangiava il pesce era sbiancata in volto e era passata dall'altra parte. E' un'immagine che non mi abbandonerà mai, una di quelle che magari rivedrò nel “film accelerato della vita” quando toccherà a me. Ma, a quell'età, i pensieri non c'erano. C'erano solo le immagini. A tredici anni era un po' diverso. Cominciava la coscienza precisa, e non esiste età che più dell'adolescenza sia appassionata alla morte. La prima poesia che scrissi su un foglio di carta si chiamava “Ballata della morte in faccia”; mi ricordo (oso dire fortunatamente) solo del titolo. Era lunghissima, la strampalata storia della Morte che mi appariva lì in cantina, da sotto la scrivania, e dell'impari lotta che sostenevo con lei. Credo contenesse anche una specie di “testamento”, e anche lì De André si faceva vedere. E scrivi, scrivi, scrivi. Diventare grullo dallo scrivere, mentre mi accingevo, senza saperlo, a diventare quasi matto sul serio. Non mancava molto; a quindici anni o poco più cominciò la mia “moltiplicazione”, e sospetto che quella cantina e quei pensieri troppo liberi e soli vi abbiano avuto una parte non indifferente.

Indipendenza! Che strana parola. Strana o non strana che fosse, a un certo punto mi venne in mente una cosa più strana ancora. Visto che mi ero già inventato una lingua personale, e che ad una lingua deve corrispondere un territorio, perché non creare uno stato indipendente? Credo di averci rimuginato per dei mesi; alla fine compii il gran passo. Indipendenza! Su un foglio di un album da disegno feci la bandiera con le matite Giotto: a bande verticali, rossa, gialla e verde, e con un cuore rosso nella banda centrale (quella gialla). Scrissi la costituzione, in italiano, in inglese e nella mia lingua (il kelartico), consistente in due soli articoli:

  1. Qui si può fare tutto quello che si vuole.

  1. I cittadini della FBCR non hanno nessun obbligo.

Già, FBCR. La sigla che cominciai a mettere su tutti i miei libri, accompagnata dal cuore rosso; su tanti ce l'ho ancora. Quello “stato” in una cantina condominiale, nato dalla fantasia e da una buona dose di solitudine di un ragazzino, si chiamò: The Free Bird's Cellar Republic.

Verso il diciotto un mezzo passo del quarto.

mercoledì 8 ottobre 2008

Bocca di Rosa


Per questa cosa devo un ringraziamento speciale a Franco Senia, che me la ha ritrovata negli archivi della mailing list "Fabrizio" (non mi ricordo nemmeno di che anno è; da un riferimento sembra però il 2001). Una "Bocca di Rosa" leggermente aggiornata ai "nuovi tempi". Mi ricordo che, a suo tempo, in lista qualcuno la prese per una notizia vera; si vede che era considerata del tutto plausibile. Mala tempora currunt. La "Gazzetta del Levante" non esiste; o meglio, esiste dovunque.

La chiamavano Bocca di Rosa, che era -così dice la "Gazzetta del Levante"-, la traduzione esatta del suo nome in lingua yoruba; Okôbwa Gblé. Sbarcata clandestina su qualche improbabile costa italiana, uscita da qualche camion rumeno o ucraino, arrivata in aereo dalla Nigeria assieme ad altre quattro ragazze di nemmeno vent'anni, con i biglietti pagati dal solito non-si-sa-chi.

Che cosa le avevano detto? Basta dir poco ad una ragazza che vive in una baracca della periferia di Lagos; basta una promessa vaga, un lavoro, qualcosa da guadagnare per una madre e sei tra fratelli e sorelle, di cui quattro ammalati di AIDS. Una bellissima ragazza, di quelle da far girare la testa; violentata a undici anni e mezzo da uno zio mezzo "ras" della baraccopoli. Non c'è mica da stupirsi, poi; succede anche da noi.

E il lavoro l'ha trovato, Bocca di Rosa; accolta da un misto di suoi connazionali e di "italiani", è stata destinata alla sua zona. Le è andata anche relativamente bene: un quartiere dell'estrema periferia del levante genovese, Sant'Ilario, che un tempo era un paesino ed ora si confonde con gli altri quartieri a base di autostrade al quinto piano delle case, "Lavatrici", viadotti e antichi campanili colorati che sembrano davvero diamanti nel letame.

Sul nuovo viale di accesso al quartiere-paese, ottenuto dopo tanti anni grazie alla battaglia del solito comitato civico (presieduto dal notaio, cav. Tiberio Deogratias, e dal locale preside di scuola media -di cui non si ricorda il nome, ma che era noto, alquanto curiosamente, come "Baffi di Sego"), la ragazza nigeriana Okôbwa Gblé -gli accenti non sono messi lì a caso; indicano dei precisi "toni" della sua complicata lingua- sembra abbia ottenuto immediatamente un grande "successo". Assieme ad altre compagne di strade -albanesi, rumene, senegalesi- arrivava quando, d'estate, era ancora giorno pieno. Un lavoro come un'altro, si diceva. Meglio che morire di fame a casa. Meglio che morire di AIDS. Qui, perlomeno, tutti sono belli puliti e si mettono il preservativo. Il "Mal d'Africa" lo hanno inventato i bianchi, no?

La "Gazzetta del Levante", come tutti i giornaletti locali di questo mondo, indulge molto ai particolari di "cronaca vera"; magari non si sa quali sono quelli autentici e quali quelli inventati di sana pianta; ma tutto fa brodo, e bisogna pur sopravvivere alla concorrenza spietata del GQC (Grande Quotidiano Cittadino, di tendenze filogovernative a prescindere dal Governo). Sembra dunque che, per passare qualche mezz'ora con Bocca di Rosa, arrivassero persino dal centro e addirittura dall'estremo ponente. Da Voltri e Arenzano, insomma; e, se conoscete Genova, è un bel viaggetto. Inutile dire, poi, che la popolazione maschile di Sant'Ilario formava spesso, tra le undici e mezzanotte, qualche piccolo ingorgo sul vialone. Qualche volta c'era stata la regolare retata della Polizia o dei Carabinieri, e siccome la ragazza risultava in attesa di permesso di soggiorno, un commissario magro, che era noto per sequestrare valigie di ciondoli, le aveva emesso un foglio di via. Ma Bocca di Rosa, poi, doveva tornare al suo viale; quelli della banda non erano teneri con chi sgarrava.

Questa storia ha un andamento singolare; qualcuno, chi lo sa, potrebbe un giorno scriverci sopra una canzone (anche se, francamente, non si vede attualmente chi potrebbe). Sant'Ilario, come abbiamo detto (e come, peraltro, specifica anche la "Gazzetta del Levante") è un paese da non molto inurbato; il risultato è che vive i problemi della grande città e delle periferie degradate senza aver perso i caratteri e i difetti del villaggio. Visto che mariti, fidanzati e amanti dai venti ai sessant'anni mostravano intrattenersi un po' troppo volentieri con quella "sporca negra" (lo facevano anche prima, con altre, ma s'intuisce che Bocca di Rosa doveva essere leggermente più bella della media), le comari erano comprensibilmente e visibilmente preoccupate. "E se mi torna a casa con l'AIDS, quel porco?" "Le dovrebbero ributtare tutte in mare!" "Maledette, se ne stessero a casa loro!" "Io mio marito non lo tocco più neanche con un dito! E' infetto!" "Ma possibile che lo Stato e la Polizia non facciano nulla?"

Come riferisce la "Gazzetta del Levante", questo è un campionario delle frasi più frequenti che s'udirono ad un infuocata assemblea pubblica convocata presso il locale cinema "Odeon" (o "Metropolitan" ? "Gambrinus"? Boh.). Bisognava far qualcosa; fuori dal cinema stazionava una piccola folla, capitanata dalla sezione della Lega d'Azione Popolare (un movimento che stava cominciando ad avere qualche successo anche a livello nazionale). C'erano cartelli gialli con scritte nere (il giallo e il nero erano i "colori ufficiali" del movimento); qualcuna diceva "Fuori Bocca di Rosa", oppure "Bocca di Rosa go home"; qualcuno più audace degli altri, ma certo d'interpretare correttamente i sentimenti della massa, s'era azzardato a scrivere "Via la sporca negra da Sant'Ilario" .

(Beninteso, diversi di coloro che manifestavano erano stati visti -tra le undici e mezzanotte- sul viale d'accesso al paese; ma su questo particolare la "Gazzetta del Levante" sorvola leggermente).

Come in tutte le assemblee del genere, non si arrivava però ad una conclusione chiara. Sembrava essere la solita manifestazione di muscoli che si risolve in una bolla di sapone, quando, all'improvviso, prese la parola una vecchia del quartiere. Mai stata sposata, senza figli e -per unanime giudizio di tutti- brutta come la fame, disse poche parole. C'era chi continuava a invocare la Polizia e chi lo Stato; lei, invece, disse semplicemente che "ci dobbiamo pensar da soli, e in maniera definitiva". On la laissa partir avec des ovations, come diceva Brassens nel Mécréant.

La notte dopo -e qui la "Gazzetta del Levante" si fa vaga, perché c'è un'indagine in corso e la Procura non ammette fughe di notizie- pare che un auto con a bordo tre uomini si sia recata nel luogo dove Bocca di Rosa soleva stazionare in attesa dei clienti. Prelevata con la scusa di un sostanzioso compenso, la ragazza nigeriana Okôbwa Gblé, di anni 19, clandestina in attesa di regolare permesso di soggiorno, viene portata su un viadotto dall'altra parte della città. Forse intuisce qualcosa, forse no; ad un certo momento spunta un coltello da cucina. C'è, come si legge sempre nel giornalese, una "breve colluttazione" ; e per forza che è breve. Una ragazza sola contro tre energumeni. Ne ha riconosciuti pure uno; era quello che le chiedeva sempre di fare il "pissing".

La prendono di peso. E' gia' tramortita. Sono le quattro del mattino, non c'è un anima a giro. Ottanta metri di volo; e nessuno l'ha vista volare.

L'ha trovata, alle sette e mezzo di mattina, un ragazzo che andava a scuola; ha raccontato tutto alla Polizia, ma alla "Gazzetta del Levante" non vuol dire nulla. Lo capirete. Avete mai visto qualcuno che è precipitato per anche la metà o un terzo di quei metri? Io sì, perlomeno una decina; e vi assicuro che è uno spettacolino al quale non ci si abitua mai. Più si vede la morte, e meno ci si abitua.

Dunque, addio Bocca di Rosa. Qualcuno ti ha fatto un funerale di terza categoria, senza vergini in prima fila. Sei finita in un cimitero qualsiasi, col tuo nome e la tua età. Niente foto. La famosa "pietà anonima" ogni tanto deposita un fiore sulla tua tomba, che peraltro appassisce alla svelta. Tu pensa che roba: un cantante di quelle parti, tanti anni prima, su una cosa del genere ci aveva davvero scritto una cosa. Una che era "volata in cielo su una stella". Purtroppo, quel cantante è morto qualche anno fa; per te nessuna canzone e nessuna stella. Non sei volata in cielo, ma solo da un viadotto in una notte senza luna.

lunedì 6 ottobre 2008

Verso il 18. 3, Breve tremoto.



E vedermi vecchio con dentro agli occhi tutta una vita, e le sue immagini, e il desiderio che possa non spegnersi mai quando si sa che, quando si sa che invece. O quando invece non so nemmeno chi fosse Enrico Mayer, e perché gli abbiano dedicato una via a Livorno. Ma sì, visto che siamo a far tutto quanto, apriamo pure Wikipedia; eccolo qui, Enrico Mayer. Nato a Livorno nel 1802 e morto nel 1877, sempre a Livorno. Di origine franco-tedesca. Fu precettore presso importanti famiglie aristocratiche. Scrisse un commento alla Divina Commedia e nel 1840 fu addirittura imprigionato a Castel Sant'Angelo per alcuni scritti rivoluzionari. Fu volontario nella battaglia di Curtatone e Montanara. Si firmava spesso “Ellenofilo” per il suo sostegno alla guerra d'indipendenza greca. L'articoletto ha anche una “perla”: recita che “gli fu concessa la cittadinanza italiana soltanto nel 1860”. Mi chiedo come avrebbe fatto a ottenerla, la cittadinanza italiana, prima del 1860. Ecco, ora so chi è stato Enrico Mayer, e perché gli abbiano dedicato una via a Livorno.

La via in cui, a casa di momentanei amici che poi non lo erano un gran ché, mi trovavo la sera del 16 novembre 1997. I livornesi, uno, se li immagina spesso tutti col Vernacoliere in mano, tutti comunisti o roba del genere, sboccati per non dir volgari, e così via; ma Livorno, tra tutti i posti in cui ho vissuto, non cesserà mai di essere quello più sorprendente, più segreto. Questi erano livornesi aristocratici, benvestiti, dall'eloquio forbito, forniti di ottima cultura e di passioni démodées. Ne avevo conosciuti un paio durante una gita organizzata a Vienna, ché ho fatto anche quelle; e dopo averli fatti sbellicare dal ridere sotto il nevischio, improvvisandomi surreale guida della città austriaca e qualificando di “monumento all'orchite” una statua d'arte moderna sistemata non mi ricordo davanti a quale palazzo, mi avevano qualche volta invitato ad auguste cene con il servizio buono. Naturalmente stavano in via Enrico Mayer, che è una via rimasta a modo suo elegante, a due passi dal lungomare; e figurarsi che popo' di belle maniere mettevo in campo, sbafandomi tutto il bendiddio che veniva portato in tavola, bevendo come una cisterna e guardandomi bene dal lasciare nel piatto il cosiddetto “boccone della creanza”. Per un po' mi devono avere sopportato, mentre con la bocca piena di rosbif parlavo di poesia giullaresca toscana del '200, di come comincia la Völuspá dell'Edda Antica (che recitavo in islandese antico), di che cosa fosse il carme anglosassone delle Rovine e di come, probabilmente, fosse una descrizione di ciò che già nel IX secolo dopo Cristo erano i ruderi dell'antica città romana di Bath. Non mi devono avere mai inquadrato, quei gentili signori e quelle cortesi signore livornesi. Mi versavo una bicchierata di vino rosso del migliore, mi servivo una porzione di flan di spinaci che avrebbe stiantato un rinoceronte, e giù di nuovo a disquisire della Cançon d'Auliver, dei nominativi fritti e mappamondi del Burchiello e della poesia medievale galego-portoghese. Poi, all'improvviso, hanno semplicemente smesso di chiamarmi alle loro serate. Forse avevano finito le provviste. Oppure non appartenevo a quel mondo di professoresse di lettere in pensione, di funzionari statali con interessi varij, di giovani appena sposi che sognavano di lasciare Livorno per Seattle.

Quella sera, il 16 novembre 1997, avevano organizzato una serata di poesia e musica. Si trattava di leggere delle poesie a propria scelta, mentre un autentico pianista eseguiva la musica di sottofondo. Dopo la cena, con la mia moglie d'allora che sfoggiava uno dei suoi famosi tailleurs stile 1928 andante, il qui presente, Venturi Riccardo di Alberto, col suo maglione a collo alto blé e un paio di bluggins mezzi stinti, s'avvicinò al pianoforte e lesse la poesia che aveva portato. Una sua fissa, come tutta la poesia barocca napoletana e meridionale in genere. Una poesia conosciuta fin dall'adolescenza, sapete, quell'età dove si leggono insieme i poeti che nessuno poi leggerà mai; e non immaginate neppure quanti ne abbia letti, insieme o da solo. Questo si chiama Giacomo Lubrano.

Aspettate, ché ve la ridico, questa poesia. E' un sonetto. Si chiama: Terremoto orribile accaduto in Napoli nel 1688. Tanto la so a memoria, non importa che la cerchi su Google. Come scordarsela poi, dopo quella sera. Mi fa bene anche fermarmi un attimo e recitarla a voce alta, mentre la scrivo.

Mortalità che sogni? ove ti ascondi
se puoi perire a un alito di Fato?
Dei miracoli tuoi il fasto andato
or né men scopre inceneriti i fondi.

Sozzo vapor da baratri profondi
basta ad urtar con precipizio alato
Alpi di bronzo; e in polveroso fiato
struggere tutto il Tutto a regni, a mondi.

Di ciechi spirti un'invisibil guerra
ne assedia sempre, e cova un vacuo ignoto
a subitanee mine in ogni terra.

A' troni ancora, a' templi è base il loto:
su le tombe si vive: e spesso atterra
le nostre eternità breve tremoto.

Ecco, questa poesia avevo scelto di dire. E allora non avevo ancora il telefono cellulare. Lo avessi avuto, forse non avrei avuto il tempo di dirla. Nessuno sapeva dov'ero. Ero irraggiungibile. In quel momento esatto, mentre declamavo quei versi, mio padre stava morendo. Un breve tremoto sotto forma d'infarto.

I saluti, ci rivediamo, e pure lasciai a quella gente un paio di libri che non sono mai più andato a riprendere. Resteranno in via Enrico Mayer, a Livorno, o dovunque il diavolo li porti. Io e mia moglie tornammo a casa, e dalle scale si sentiva suonare il telefono fisso. Era mio fratello. Alzai la cornetta e sentii che piangeva.

Presi la macchina, una vecchia Alfetta targata Siena. Mi precipitai a Firenze, all'ospedale di Santa Maria Nuova. Arrivai che erano quasi le due di notte. Si era sentito male con la Settimana Enigmistica in mano. Esattamente il n° 3425 con, sulla copertina, Maria Grazia Cucinotta. Ho qui in mano quella rivista. Mio padre si è interrotto sulle “Parole crociate senza schema” a pagina 44, sulla parola “Montessori”. Definizione: “Una celebre pedagogista”. Sembra che ci sia scritto “Montessorii” con due “i” finali, ma la seconda “i” è uno sbaffo della matita che aveva in mano.

Lo avevano avvolto in un lenzuolo, su un lettino. Aveva addosso tutte le malattie del mondo, credo. La mattina prima ci avevo leticato al telefono. Lui era un amministratore esattissimo. Io, in quella cosa, definirmi un disastro è un eufemismo. Era preoccupato e assillante, e assillante lo sapeva essere benissimo. Le ultime parole che gli ho detto, al telefono, sono state: Madonna, ma mi lasci in pace una buona volta? Ha provveduto. Dentro a quel lenzuolo sorrideva, con quel sorriso della morte che libera finalmente dai mali, dalla sofferenza. Può darsi che fra di noi ci fosse un abisso, il vuoto spaventoso del ginnunga gap; ma in quell'abisso ora c'eravamo tutti e due. Lui per la via maestra; io coi miei soliti cammini tortuosi, coi miei angiporti, con le mie brutte e paurose oscurità trapiantate su un paio di gote troppo paffute per crederci.

Verso il 18 il terzo passo.


venerdì 3 ottobre 2008

Quando



Non ci sarà un posto al mondo dove potrò stare, quando sarò morto
E non distinguerò più il bene dal male, quando sarò morto
E non mi troverete a cantare questa canzone, quando sarò morto
E allora mi sa che dovrò farlo finché sono vivo

E non sentirò più lo scorrere del tempo, quando sarò morto
E tutti i piaceri dell'amore non ce li avrò più, quando sarò morto
Dalla mia penna non uscirà mai più un verso, quando sarò morto
E allora mi sa che dovrò farlo finché sono vivo

E non respirerò più l'aria salubre, quando sarò morto
E non potrò più nemmeno preoccuparmi dei fatti miei, quando sarò morto
Nessuno mi chiederà di fare la mia parte, quando sarò morto
E allora mi sa che dovrò farlo finché sono vivo

E non correrò più per scappare dalla pioggia, quando sarò morto
E non potrò nemmeno soffrire una pena, quando sarò morto
Non saprò chi lodare o biasimare, quando sarò morto
E allora mi sa che dovrò farlo finché sono vivo

Non vedrò più il sole dorato, quando sarò morto
E sera e mattina sarà per me la stessa cosa, quando sarò morto
Non potrò più cantare più forte dei cannoni, quando sarò morto
E allora mi sa che dovrò farlo finché sono vivo

I miei giorni non saranno danze meravigliose, quando sarò morto
E le sabbie mi scivoleranno via dagli occhi, quando sarò morto
Non potrò associare il mio nome a una lotta, quando sarò morto
E allora mi sa che dovrò farlo finché sono vivo

Non riderò delle menzogne, quando sarò morto
Non potrò chiedere perché, come e quando, quando sarò morto
Non potrò vivere fieramente tanto da morirne, quando sarò morto
E allora mi sa che dovrò farlo finché sono vivo.

Phil Ochs.


So' regazzini

Stamani, “Repubblica Online” sembrava il Libro Cuore. C'era, naturalmente, l'articolo sull'ennesimo pestaggio a sangue ai danni di un immigrato (cinese), avvenuto a Roma. Stavolta, però, gli autori so' regazzini: una banda di mocciosi italiani dai 14 ai 16 anni. Non vorrei essere troppo astioso e nominare il presumibile quoziente di intelligenza di questi rampolli, pari a quello di un cavolorapa o forse inferiore; non vorrei fare la solita tiritera sulle “famiglie”, ché già ci ha pensato Red sul suo blog a farne una perfetta fotografia; non vorrei, di sicuro, ma devo confessare che oggi, leggendo quell'articolo del giornale del famoso sig. Poverini (ve lo ricordate? Quello che mandò la lettera dove diceva di essere “di sinistra, ma diventato razzista”), mi sono all'improvviso sentito discretamente astioso, e forse anche qualcosina di più.

Insomma, un cinese trentaseienne di nome Tong Hongshen alla fermata dell'autobus, a Tor Bella Monaca. Sta solo aspettando l'autobus. Si avvicinano questi sei regazzini, cominciano a chiamarlo “cinese di merda” e poi lo fracassano di mazzate. Gli stessi che, secondo gli inquirenti, qualche giorno prima avevano aggredito due ivoriani, chiamandoli ovviamente “negri di merda” e distribuendo loro la consueta razione di legnate. Mi dispiace che non sia più visibile l'articolo di “Repubblica” di cui sto parlando; chissà, forse qualcuno se n'è accorto e lo ha rimosso. Ora, sul “portalone”, campeggiano le “scuse” di uno di quei pezzettini di merda. Ironia della sorte, il cinese è stato salvato da un consigliere di circoscrizione di Alleanza Nazionale; che in questo caso si è comportato da persona umana e generosa, e gliene vada onore. Forse, chissà, avrà modo di ripensare a tutto il clima che anche il suo bel partitone ha contribuito a creare in questo paese.

Ma cosa diceva quest'articolo? Ci presenta, con tono da cronaca “partecipata”, il riconoscimento degli stronzetti proprio da parte del soccorritore del cinese. Ci presenta un comando di vigili urbani “di frontiera”, dove si fa più “polizia e perquisizione che multe e verbali”, dove “quasi tutti i vigili sono armati, hanno facce indurite e tono bonario da veterani di strada”. Insomma, un attacco degno dei gialli dell'87° Distretto di Ed McBain. Ecco che arrivano i regazzini testè acchiappati; il cronista sta “nella stanza attigua con la porta socchiusa, e osserva e sente tutto”.

I ragazzini prima negano e fanno i duri, poi, alla fine, incalzati e riconosciuti, crollano, si mettono a piangere e “ridiventano ragazzini”. Quanta umanità viene spalmata! Addirittura, un bonario vigile armato dice al primo di loro: “"Guarda che se dici la verità e magari chiedi scusa a quel signore che hai picchiato forse te la cavi senza troppi problemi". Si indugia su particolari tipo la felpina alla moda, il quindicenne cicciottello in tuta che ne dimostra tredici, i capelli tenuti su col gel in una specie di pera, l'orecchino, il piercing sul labbro inferiore.

Poi arrivano le “vigilesse bonarie come zie”; infine, tadàn, ecco i genitori. L'autorità familiare. Li regazzini che non tremano davanti all'ordine costituito, cominciano a cacarsi addosso quando vedono babbo e mamma. Qualche mammina sviene, qualche babbino molla una scarica di ceffoni al sangue del suo sangue, alla carne della sua carne, alla merda della sua merda. Partono i “mi dispiace”, tutto in questo comando di vigili duri ma bonari, di vigilesse zie, di calde làgrime, di ceffoni dei genitori. Quasi un idillio. Sei bambini che hanno giocato, sicuramente. Hanno giocato con la vita di un uomo che non avevano mai visto, colpevole solo di essere cinese. Il quale, nel frattempo, meno bonariamente se ne stava ricoverato in ospedale.

So' regazzini. Ma proviamo a immaginare un po' l'inverso. Proviamo a immaginare quel bonario comando con in mano sei ragazzini rom sorpresi a fare chissà cosa, ma sicuramente non a pestare a sangue qualcuno, che di cose del genere non se n'è mai sentita manco mezza. Proviamo a immaginare con quanta umanità sarebbero stati trattati. Ve lo vedete voi un giovane vigile tanto umano & armato che si prende la briga di dire a uno di loro: Ciccino, su, di' la verità, chiedi scusa a quel signore cui hai rubato cinque euro per mangiare, forse te la cavi senza troppi problemi. Oppure proviamo a immaginare di prendere le impronte digitali ai cinque regazzini italiani con le felpine, coi piercinghini, coi capellini a pera fatti col gel. I genitori de li regazzini italiani hanno il diritto di arrivare, di svenire, di distribuire i doverosi ceffoni; quelli dei ragazzini rom, meglio che non ci vengano neppure, al comando. Rischierebbero di essere arrestati immediatamente, o espulsi.

Insomma, tutto ricondotto ad una “bonaria” rampogna, e del resto che cosa si vuole fare? Sono ragazzini. Ragazzini che, addirittura, ora chiedono scusa. Ma mica al cinese: direttamente al sindaco Alemanno. E i genitori? Se fossero veramente degni di questa qualifica, oltre ai ceffoni ai loro figli dovrebbero prendere e riempire di legnate proprio il sindaco. E tutti gli altri caporioni, tutti coloro che, servendosi della “sicurezza” e di altre cosine del genere, sono finalmente riusciti a creare tutto il razzismo che volevano, che del resto è nella loro piena tradizione di schifosi nazifascisti. E ad un livello talmente profondo, da aver trasformato il razzismo e l'intolleranza in un gioco da ragazzi di quartiere. Ahò, cosa fàmo oggi, dopo la scuola? Dai, annàmo a sfracicà er cinese! Ma no, 'a Michè', l'avemo fatto jeri...oggi se va a dà foco ar campo romme...gajardo!

Sì, sarebbe proprio opportuno che qualcuno, prima o poi, ci pensasse. Che si premurasse di appioppare al sindaco-sceriffo di turno qualche bella manata nel muso, decisa. Che se lo mettesse sulle ginocchia, gli calasse i pantaloni e giù col battipanni, come ai bei vecchi tempi. Una bella mezzoretta di tottò sul culetto, ché servirebbe assai di più delle “scuse”. Perché, in fondo, anche per questi signori paludati, che dicono di amministrarci e che vorrebbero insegnarci, loro, la “legalità” e la “civile convivenza”, tutto quel che hanno creato è soltanto un gioco. Un merdoso gioco che hanno imparato proprio da ragazzini, quando i loro compagnucci si chiamavano magari Giusva Fioravanti, Giorgio Vale o Walter Sordi. C'è chi è morto ammazzato, e c'è chi è diventato sindaco.




giovedì 2 ottobre 2008

Verso il 18. 2, Il cimitero delle fotografie.




Prima o poi, nello spazio di parete vuoto tra l'armadio e la cassettiera rossa ci andrà un bizzarro specchio che una ragazza con un numero nel cognome mi sta fabbricando; e ad uno specchio doveva essere la fotografia illustrativa di questo secondo passo verso il 18. Ora che ho la fotocamera digitale, regalatami per il compleanno, avevo deciso di fotografarmi allo specchio con in mano una foto di trent'anni fa precisi, di quando avevo quindici anni.

Sicuro di averla, in un vecchio album a casa di mia madre, ero andato persino a cercarla, qualche giorno fa; l'album l'ho trovato, ma la foto non c'era più. Non so se l'ho strappata io, se l'ha presa qualcun altro, oppure se se n'è andata via da sola; le fotografie sanno essere strane. Me l'aveva fatta mio fratello, che tra le sue varie cose è fotografo diplomato, un pomeriggio di prima estate dell'anno 1978, nella cantina condominiale che era la mia stanza; un primo piano leggermente di sbieco, coi miei riccioli di allora, una masnada di collanine di quelle che “andavano” negli anni '70, il mio solito sorrisetto a mezzabocca e un fiasco di Chianti sullo sfondo. In bianco e nero. Si vedeva un po' di quella cantina, che già avevo eletto a Repubblica ma che non si chiamava ancora con il nome con cui sempre la ricorderò: The Free Bird's Cellar Republic. Ma di questa cosa parlerò, statene pur certi, tra qualche altro passo.

Niente fotografia allo specchio; anche quella se n'è andata. Come la maggior parte delle foto in cui sono comparso. Alcune mi sono state bellamente gettate via senza neppure informarmi, e iddio ne guardi da chi crede che, eliminando le immagini, si eliminino i ricordi; altre le ho perse io stesso. Fatto sta che, per un motivo o per un altro, sono andate tutte quante al Cimitero delle Fotografie. Questa espressione non la sto inventando io, ora, per questo post; la si trova nel testo di una canzone, molto bella, di Gilles Servat. Una canzone che dice: Occorre amare gli istanti che muoiono subito, e che si rivedranno soltanto nel cimitero delle fotografie. A me è toccato andare oltre. Gli istanti sono morti subito, e poi sono morte anche le fotografie. Il loro cimitero non sono neppure vecchi album polverosi, è un cimitero che neppure so dove si trovi.

Chissà dov'è andata a riposare per sempre, ad esempio, una foto fatta sull'isola di Lipari, in cui ero assieme ad un'altra persona. Il suo istante consistette nel farcela fare da un gentilissimo signore che si trovava nel nostro stesso albergo, sul corso principale del paese, e proprio sulla terrazza dalla quale ci preparavamo ad assistere alla processione del Santo. Gli porsi la macchina fotografica, una Asahi Pentax che per comprarmela m'ero dovuto svenare, e lui la guardò con interesse; “bella macchinetta, bella macchinetta davvero”. Non feci nemmeno in tempo a ringraziarlo, che cominciò a scattare foto come palleggiandosela tra le mani. Diceva: ragazzi, no, non vi mettete in posa, fate come se non ci fossi. E giù a scattare foto su foto. Dopo che ebbe finito, gli chiesi con molto rispetto se per caso fosse un fotografo professionale; mi rispose di sì, e si presentò dicendo di chiamarsi Fulvio Roiter. Prima deglutii io, poi la persona che era con me. E ne venne fuori, tra le altre, una foto in cui l'immagine fermata mi aveva fatto diventare un ventiduenne bellissimo.

E quell'altra, di tanti anni dopo? Ero sempre in compagnia di quella stessa persona, ma da un'altra parte. Ero a inseguire canzoni.

Nel sud della Francia, nel Languedoc. Sull'autostrada, ad un certo punto, vidi un cartello che indicava Sète; quasi inchiodai per svoltare. Sète è il posto dov'era nato Georges Brassens, quando ancora la cittadina si chiamava Cette, “come un pronome dimostrativo” (“cette” vuol dire “questa” in francese). Stufi delle battute tipo: “Come si chiamano gli abitanti di Cette? Ces! (= “queste”)”, i sétois indissero un referendum per cambiare l'ortografia pur mantenendo la pronuncia del nome; e nacque così Sète. E non è neppure che ci volevo andare a fare chissà quale “pellegrinaggio”, ché nei panni del pellegrino proprio non mi riusciva immaginarmi nemmeno allora; volevo andare in un certo posto. Volevo andare sulla spiaggia della Corniche, dove Brassens voleva essere sepolto nella “Supplique pour être enterré à la plage de Sète”, una della canzoni che mi hanno segnato la vita e che una volta ho rifatto, mezza in elbano occidentale, spostandola in Galenzana (tutto quanto sta qui, se per caso vi piglia la voglia di vedere). E così fu fatta anche quella foto. Dove sarà andata a finire? Mi fu fatta dal basso verso l'alto, mentre camminavo, con il mare sullo sfondo. Avevo un'espressione felice, di quella felicità che si ha quando ci si trova in un posto che fa parte di qualcosa che ami, ma che non pensavi mai di poter vedere. Poi un'autostrada e un cartello, all'improvviso, ci mettono lo zampino; e si forma l'istante qu'il faut chérir e che, già, morirà immediatamente.

Così, ho dovuto mettere in azione la memoria. Una macchina fotografica delicatissima, che un giorno c'è e che, quello dopo, magari non c'è più. Ho dovuto sforzarmi di ricordarle, quelle ed altre fotografie, per non scordarmi di quegli istanti morti. Chiudere gli occhi e rivederle, cercando di mettere tutti i particolari al loro posto, ordinando i colori e le espressioni; e non ci sarà mai nessun album, nessun “supporto” cartaceo o meccanico che le possa contenere, quelle fotografie. Sono dovuto diventare l'album di me stesso, per cercare di non perdere gli istanti della mia vita. Sforzarmi a ricordare, e a ricordarmi. La foto di Cleto a Capraia, dove sarà? Con otto fiaschi di vino, quattro in una mano e quattro nell'altra, che Dio solo sa come facesse a tenerli; è morta la foto, e anche Cleto, qualche anno dopo. La foto a Vieste del Gargano, leggermente sfocata, con due ragazzi appoggiati a un muretto, e uno ero io, al tramonto? La foto della prima volta che sono stato a Parigi, presami mentre accarezzavo un cagnolino nero di una signora che stava raccattando da terra un filone di pane e due scatolette che le erano cadute dalla borsa della spesa? Sì, volevo proprio mettercela, qui, quella foto con il fiasco di Chianti e le collanine. E un paio d'occhi di ragazzino che forse, quelli, ce li ho ancora. E che continuano a fotografare ogni cosa, e continueranno a farlo anche ora che ho la fotocamera digitale.

E magari, chissà, dopo aver letto questa cosa, la persona che me l'ha regalata capirà meglio di che cosa abbia rimesso in moto, e anche il mio malcelato entusiasmo nell'averla ricevuta e messa all'opera immediatamente. Così, magari, potrò dar luogo a un mio vecchio sogno ad occhi aperti: quello di andare in giro per la città a fotografare strade, e per ogni strada inventarci sopra una piccola storia. Come si dice? Storie son tutte!

E chissà, poi, che un giorno non mi riesca di trovarlo, il cimitero delle mie fotografie. Con la foto col fiasco di Chianti, con quella sulla plage de la Corniche, con quella di Cleto a Capraia e con tutte le altre. Ho però l'impressione, nient'affatto vaga, che quel cimitero coinciderà con il mio. Forse, un giorno, inventeranno una macchina da collegarsi addosso, e che riuscirà a “scaricare” le immagini su un computer (o chissà dove) direttamente dalla propria testa; del resto, vattel'a immaginare, qualche anno fa, che sarebbero esistite le fotocamere digitali. Nel frattempo mi dedico a andare ancora più addietro, a una foto che avevo da bambino piccolo, con in mano una cornetta di telefono più grande di me; o a una foto di classe con accanto un amico che poi non lo è stato più; oppure ad andare avanti, e avanti, e vedermi vecchio con dentro agli occhi tutta una vita, e le sue immagini, e il desiderio che possa non spegnersi mai quando si sa che, quando si sa che invece.

Verso il 18 il secondo passo.

mercoledì 1 ottobre 2008

Verso il 18. 1, Porte Aperte e Porte Chiuse.


Con questo post vorrei iniziare una serie di cose che porteranno “verso il 18”. Che cosa sia questo diciotto, per ora, non lo dico. Lo dirò quando sarà il momento. L'intenzione è quella che tutte queste cose siano legate da alcuni particolari, un po' come nel film “Il fantasma della Libertà” di Luis Buñuel. Da dove partire, in questo viaggio verso il 18? Da casa. Da casa mia.

Quella che si può vedere nella foto, è casa mia. Forse non è comune, nella bloggosfera, vedere un luogo così privato come la propria casa; addirittura, all'estrema destra in basso, sul tavolino bianco, si vede il computer sul quale, in questo preciso momento, sto scrivendo questa cosa. E tutte le altre. Dal quale parte l'‘Eκβλόγγηθι Σεαυτόν che in questo momento, amica o amico, nemica o nemico che tu sia, stai leggendo. So bene che, con una foto, non si entra in realtà da nessuna parte; ma in chiar di luna sotto ai quali la diffidenza, la paura e l'insicurezza artificiale sono le dominatrici del mondo e degli umani rapporti, anche una semplice foto può “fare il suo”, almeno simbolicamente. Vorrebbe significare: Io paura non ne ho. E né diffidenza, e né insicurezza. Potete venire qui quando vi pare, se vi punge vaghezza di farlo. Abito a Firenze, in via dell'Argingrosso al numero 65/C; guardate pure un po' di quello che c'è dentro. Se siete dei ladri, debbo dirvi che i libri sono in buona parte grammatiche, corsi e dizionari delle lingue più astruse del mondo. Il quadro col paesaggio toscano immaginario l'ho comprato a un'esposizione che si teneva nell'osteria di San Casciano dove andavano a “fare merenda” Pietro Pacciani e i suoi amici; vale 270 euro. L'adesivo appiccicato sul televisore dice “PCI – Partito Ciclista Italiano”. I mobili sono quasi tutti dell'Ikea. Il quartiere si chiama Isolotto, e ci va l'autobus linea 9 da via del Prato. A nemmeno 500 m da casa c'è un campo nomadi. A nemmeno 1 km ci sono Ugnano e Mantignano.

Oggi è cominciato ottobre, e una volta qualcuno mi diceva che gli assomigliavo, addirittura che il mio passo e il mio modo d'entrare in casa glielo ricordava. Forse, chissà, allora ero un po' più leggero e aggraziato d'ora; passi pesanti ne ho però sempre avuti tutte le volte in cui mi son trovato a dover entrare, di corsa, e sovente dopo affannose corse per rampe e rampe di scale, in case visitate di fresco dalla Morte. E, non di rado, addirittura assieme a quella Signora là, che saliva le scale assieme a me e agli altri della squadra; ma lo zaino dei farmaci, le apparecchiature e le bombole d'ossigeno sono pesanti. In generale, Lei fa le scale più veloce di noi.

Le avete mai sentite le urla disperate di chi si vede morire davanti un proprio caro o un amico? Vi siete mai ritrovati ad avere davanti, a nemmeno mezzo metro, una famosa e terribile scena del film Trainspotting, e a cercare di fare una rianimazione a un neonato? E io lì, assieme agli altri, davanti a porte chiuse che si son dovute spalancare per far entrare la Morte e chi prova a ritardarla per qualche tempo. Sono frangenti in cui si misura il senso della violenza, perché violentemente si deve agire. Rovesciare tavoli, strappare vestiti, sporcare di sangue l'intimità di una casa. E, alla fine, comunque sia andata, non si rimette niente a posto. Rimane tutto lì, una stanza sconciata, cocci di fiale, vasi rovesciati, l'attaccapanni preso di corsa dall'ingresso per reggere le fisiologiche. Il massaggio cardiaco comincia con un cazzotto sullo sterno, un cazzotto che, dicono alcuni medici, per essere efficace deve rompere un paio di costole. Ne ho dati non so quanti. A che cosa serve chiudere le porte? Non è mai servito a nulla. C'è Qualcuno che, un giorno o una notte, entra senza fare complimenti. E si porta via ogni cosa, mentre nello sfacelo combinato da vivi con strani apparecchi restano le foto dei nipotini, le ciabatte, il libro per sempre fermo a pagina 126, i pupazzetti di pelouche, la fettina con l'insalata che si stava mangiando agli arresti domiciliari, a volte la televisione accesa.

Case povere, case ricche. Mi è successo di abitare in tante case altrui. Mi è successo di sentirmi dire che la casa dove abitavo momentaneamente “puzzava di povertà”; e la stessa persona che me lo stava dicendo abitava in una bella casa là sugli ameni colli, una casa che avevo visto nascere. Porte, cancelli, cellule fotoelettriche, antifurto; bisogna aspettare che qualcuno le apra, a volte con meccanismi complicati e lenti. Porte di alberghi, con il maître che sussurra contrariato se per caso non si possa rimuovere, cortesemente ma con sollecitudine, il cadavere dell'anziano turista inglese morto mentre faceva l'amore con la giovane moglie, visto che il viavai di procuratori della Repubblica e di medici legali nella suite potrebbe nuocere al buon nome dell'hôtel. “Potete per caso portarlo fuori, sul marciapiede?” Porte che mi si sono aperte per mezz'ora e poi richiuse. Case. La porta di casa dell'Elba che, una volta, nemmeno veniva chiusa a chiave la notte. E tutte le porte che, camminando, si vedono chiuse o socchiuse. L'enorme e antico portone d'un palazzo di via Lambertesca spalancato da una carica di tritolo piazzata in un furgone, una notte di maggio.

Davanti a tutte queste porte sono stato; e mi piace, quando posso, e sfruttando la mia alta statura, sbirciare nelle finestre illuminate, sul far della sera. Tavole apparecchiate, scaffali di libri, arredi, ordini e confusioni che fanno parte di un'unica porta aperta che dovrebbe chiamarsi vita. Cerco d'immaginarmi quali storie possano esserci dentro, quali pene, quali felicità; con la rassicurante certezza di sbagliarmi sempre.

E il marcantonio mezzo impazzito che, una notte d'agosto, proprio qui all'Isolotto, tanti anni fa, stava gettando da una finestra del quarto piano tutta la sua casa. Mobili, suppellettili, libri, pentole, il calendario di Frate Indovino, la foto della mamma che per poco non mi planò sul capo. Poi scese tranquillo le scale e si fece portare via dicendo: Tranquilli, io so' bono come una pappa ma della mi' mamma e della su' casa 'un ne potevo più. Porte di paesi stranieri, strane chiavi, e nella foto c'è quel che si trova dietro la porta di casa mia. Non tutto, e ancora non è terminata. Sono lentissimo. Prima o poi, nello spazio di parete vuoto tra l'armadio e la cassettiera rossa ci andrà un bizzarro specchio che una ragazza con un numero nel cognome mi sta fabbricando.

Verso il 18 il primo passo.