martedì 26 maggio 2009

L'Eneide


Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris...no, dunque, c'è qualcosa che non torna. Nonostante l'Elba, o meglio gli Ilvates, vi siano nominati precisamente. Secondo il signor Publio Virgilio Marone, nativo di Andes (oggi, forse, Pietole) vicino a Mantova, alla guerra di Troia c'erano pure trecento elbani. O forse erano duecento, non me ne ricordo; oramai son cose sbiadite e non ho nemmeno tanta voglia di riverniciarle. Con tutto il rispetto, mi riesce difficile immaginare trecento elbani in mezzo a Achille, a Ulisse, a Oreste; ma non si sa mai. Qualcosa dev'essere rimasto, però, se quei nomi sono (o meglio, sono stati) assai diffusi all'Elba. Di Ulisse ci ho pure uno zio. Però avevo cominciato con l'Eneide. Qui si parla dell'Eneide, ma in un modo che forse a Virgilio sarebbe piaciuto poco.

Sì, ché l'Eneide, in anni che non c'ero, era una. Stava a Portoferraio; però, per il suo mestiere, girava un po' tutta l'isola. Come si poteva a quei tempi di carretti e poche corriere scassate, di strade polverose e malmesse, di massi che a volte rotolavano giù bloccando ogni cosa finché non venivano dieci o venti uomini a spostarli a forza di braccia. In certe zone dell'Elba ci sono ancora quelli che si chiamano macigni erranti; pietroni di tonnellate che, a vederli, nessuno direbbe mai che si muovono. Impercettibilmente, come il tempo. Eppure scivolano piano. Eppure arrivano un momento ed un punto giusti, in cui piglian l'aìre; e allora è meglio che tu non ti trovi sul loro cammino. Non ci si ragiona bene, son duri come macigni.

Quando si nominano certi lavori, specialmente un paio, dopo qualche milione d'anni si hanno sempre remore. Si fa meno fatica a chiamare col loro nome i banchieri, gli usurai, i promotori finanziari e altri mestieri del genere, che sono assai più disdicevoli e dannosi; ma non c'è nulla da fare. È stato trovato un comodo stratagemma; li si chiama i mestieri più antichi del mondo. E, garantisco, Eneide non faceva la ladra. Faceva quell'altra cosa più antica del mondo. Figlia d'un tizio che, con tutta probabilità, l'Eneide l'aveva letta per davvero, magari nella traduzione di Annibal Caro, e che aveva chiamato i figli e le figlie con nomi tratti dalla classicità. Non me li ricordo, anche se qualcuno deve avermeli detti; avrà, che so io, avuto un fratello Menelao o Agamennone, o una sorella Clitennestra o Didone. Lei era Eneide. Tutto un poema, come si suol dire.

L'ho vista due o tre volte in vita mia, già vecchia; si diceva in giro che, seppur saltuariamente, esercitasse ancora. Siccome girava ancora per l'isola, bisognerà ricorrere ancora ai macigni erranti, perché del macigno aveva l'aspetto e la consistenza: un donnone massiccio, con la crocchia nei capelli, l'aria truce e, soprattutto, ciò per cui andava famosa più o meno ovunque: una diffusa pelura tra il naso e il labbro superiore, che pochi esitavano a definire degli autentici baffi. Un vero bigiù, insomma; quand'ero ragazzino e leggevo i fumetti di Alan Ford, mi capitò di rivederla disegnata quasi esattamente, dalla fenomenale penna di Roberto Raviola detto Magnus, nella moglie della “Cariatide”; forse qualcuno se ne ricorderà. Stando comunque alle voci, ci doveva essere ancora qualcuno disposto a giacersi con costei in fugace amplesso; si aggiunga che, per tutta una vita d'arrangiarsi, come tutte le isolane di qualsiasi età, qualche volta gliene aveva pur date di zappa; e che, di conseguenza, le sue mani non erano certo quelle di Irina Palm. Chi l'avesse vista la prima volta, non ne riportava alcun dubbio che sarebbe stata capacissima di fare a cazzotti con un òmo; e che, nella sua lunghissima attività, a qualche marinaio un po' troppo sporcaccione o a qualche giovinotto che intendeva gabbarla sulla giusta mercede dovesse avere cambiato i connotati.

Come fosse da giovane, o più giovane, non lo so. Ufficialmente, nessuno era mai stato con lei. Sulla carta d'identità doveva averci scritto “bracciante agricola”, o “atta a casa”, o di quelle robe lì; si diceva fra l'altro che tenesse la sua casa come uno specchio. L'igiene prima di tutto, perché la casa era il luogo di lavoro principale; una camera, un letto, il lavabo, i panni, e la pulizia personale. Di case di tolleranza, all'Elba, dubito fortemente che ce ne fossero; forse qualcosa alla buona, e qualche ragazzotta che forniva il proprio contributo al desinare della famiglia come la diciassettenne Eleonora di cui s'era innamorato il Mago Chiò.

Magarì sarà stata più carina, e chi lo sa. Magari pure bella. Succede a volte che la vecchiaia faccia degli autentici sfracelli, come al professor La Ciura del racconto Ligea di Tomasi di Lampedusa. Il giovane bellissimo che aveva conosciuto l'amore della Sirena ridotto a un vecchio orripilante. Ciò per cui l'Eneide rappresentava un unicum, che doveva però restare ufficialmente ignoto, era che lei lavorava anche a domicilio, su chiamata. Ora si direbbe una call girl, ma più propriamente una sorta di pubblico servizio di insostituibile utilità nelle zone più lontane dell'isola. La mandavano a chiamare coi biglietti, persino i babbi che volevano calmare i bollenti spiriti dei figli maschi quando arrivavano a quell'età, sedici o diciassett'anni, alla quale tira il cazzo anche a guardare un tabernacolo della madonnina addolorata. E così, di nascosto alle mamme, ci pensava la procace Eneide a spompare quei figlioli che, in non pochi casi, qualche tempo dopo sarebbero stati gettati tra le braccia di una signora decisamente più magra, per non dire scheletrita, e ben più nera. Magari, chissà, proprio in Grecia, cui quei ragazzi dovevano spezzare le reni per conto di un assassino cialtrone; meglio farsele spezzare dall'Eneide. Ché, comunque, le ragazze non esistevano. Stavano chiuse in casa. Anche se qualche volta le facevano uscire, comunque non la dabant (in questo componimento totalmente basato sull'antichità classica, un po' di latino ci sta bene). Non la dabant nemmeno da fidanzate; bisognava che fossero trasformate in ispose. E anche una volta spose, non la dabant volentieri manco al marito, memori forse d'una prima notte in cui un energumeno infoiato si gettava su di loro facendo giustizia sommaria di quel che la mamma, la nonna, la zia e il sor curato avevano instillato come bene supremo. Inorridisco quando sento dire che la verginità è tornata ad essere un “valore”. In generale, poi, inorridisco di fronte a qualsiasi cosa che attualmente sia definita “valore”; ma questo è un altro discorso.

L'Eneide, ora, sarà morta e sotterrata. Poiché sono un vero miscredente, mi auguro che le abbiano fatto un funerale cristiano e le abbiano dato degna sepoltura in terra consacrata. Non mi spingo oltre a far considerazioni, e non mi piace santificare nemmeno i santi. Fu un essere umano che ebbe a vivere in tempi poveri e duri. Non so che carattere avesse. Sarà stata a volte gentile e di buon cuore, e altre volte dura e carogna. Come tutti quanti. Avrà distribuito a pagamento la sua dose di piacere; e, per quanto ne sappia, quando girava per gli affari suoi nessuno si permetteva di segnarla a dito. Non c'era, e c'era. Non so se ebbe figli da qualcuno. C'eran delle legittime spose che, a volte, di figli ne facevano una decina più altrettanti aborti. Non amo mitizzare. Non fece una vita di donna libera, probabilmente. Non so nemmeno se sapesse leggere e scrivere. Tutto voglio, con queste parole, fuorché farne bandiera. Nessun paragone. Nessuna canzone. Le canzoni sono buone per il letame da cui nascono i fiori, ma qui si parla di letame e basta, quello vero, quello che puzza e che serve per ingrassare i campi; i fiori servono a poco ai contadini. Si strappano e ci si passa sopra con l'aratro. Non è Via del Campo, ma al massimo il Campo nell'Elba. E poi, anche il prode Enea che si scordò la moglie nella città in fiamme (tanto ormai il figlio maschio glielo aveva fatto, e il vecchio padre ce lo aveva sulle spalle), trattò Didone né più e né meno come una puttana.

E allora tanto vale, e forse vale ben di più, un'Eneide sulla quale -di sicuro- ben più di trecento Ilvates passarono sopra. Nessun poema, stavolta. Nessun Virgilio. Nessuna guerra. Ma l'avessero mandata, l'Eneide di Portoferraio a far loro un un bel pompino e a dar loro un po' di passera per qualche moneta, forse Eurialo e Niso sarebbero ancora vivi.


giovedì 21 maggio 2009

John Cocks


Quella che vado a raccontarvi è un'antica storia, avvenuta nell'Inghilterra vittoriana agli albori dell'industrializzazione. Si svolge esattamente nel 1846, nella fiorente città di Bloomtown, nel Tuskshire; una città celebre in tutto l'Impero Britannico per le sue magnifiche opere d'arte (tra le quali la cattedrale di St. Mary of Flowers e l'austero municipio di fattura medievale, detto per questo “The Old Palace”) e per i suoi innumerevoli contributi alle arti ed alle scienze.

Nel giugno di quell'anno -copiosamente piovoso come si confà a quelle latitudini-, fruendo già la Gran Bretagna d'un avanzato sistema democratico, erano previste delle sentitissime elezioni municipali. Ma era un periodo assai particolare; il paese, da oramai diversi anni, era caduto in mano ad una disdicevole cricca di protoaffaristi che si avviavano a divenire il nucleo della prima classe capitalistica industriale del mondo. Invano il movimento Luddista tentava di contrastare l'avanzata delle macchine; anzi, in generale, chi anche asseriva di opporsi al gruppo di potere che aveva, con il beneplacito della Regina, occupato tutti i centri nevralgici dello Stato, a livello centrale e locale, accettava oramai senza fiatare il cosiddetto Great Change (così sembra essere passato alla storia d'Inghilterra).

Capo riconosciuto di quel gruppo, che si faceva pomposamente chiamare People of Liberty (non gli bastava essere un partito: voleva essere tutto un popolo), era un ricchissimo parvenu, Lord Silly Bearlusk, che aveva fatto un'autentica fortuna prima nel campo edilizio e poi in quello editoriale. Era proprietario di diffusissimi giornali, come The Newspaper (certo che, chiamare un giornale Newspaper sarebbe come se, nell'Italia di oggi, ci fosse un giornale che si chiama Il Giornale), Free ed altri; non contento di questo, e del fatto che tali testate lo sostenessero più come si sostiene un padrone assoluto che un editore, poteva contare sull'appoggio non certamente tacito di un altro discreto numero di giornali nazionali e locali, tra i quali si distingueva per l'appunto anche uno dei principali quotidiani di Bloomtown, The Nation. Formalmente “indipendente” e facente parte di un differente gruppo (la Polygraphic Publishing House dell'altro magnate Andrew Ripheeser, che comprendeva anche The Shilling's Rest di Phelsiney e The Day di Workingham), The Nation, cionondimeno, faceva un continuo “battage” in favore del POL e dei suoi candidati alle elezioni nazionali e municipali.

Così quell'anno, scaduta al suo naturale mandato la precedente giunta laburista presieduta dal sindaco Leonard Dominics. Perché Bloomtown era nota nel paese per essere, da sempre, piuttosto allergica sia al “popolo” di Sir Bearlusk, sia alle destre in generale. Non che, in città, mancassero fautori del Great Change; però, in generale, si trattava di persone e gruppi dotati di scarse qualità e dalla condotta quantomeno ambigua. Per quelle elezioni, ad esempio, Bloomtown era stata letteralmente imbrattata di manifesti recanti la curiosa effigie, disegnata da un artista che aveva fatto del suo meglio per celarne i tratti più comici -ma senza riuscirvi del tutto, di un giovane e attivo candidato del POL, tale John Maidens, leader di una formazione giovanile detta Youth Action la quale propugnava i consueti “valori” (forse con la malcelata speranza che fossero quotati alla borsa di Liverpool). John Maidens aveva, peraltro, una condotta quantomeno singolare: si proponeva infatti come campione della tradizione religiosa, ammirava il famoso mistico valacco Hortensiu Zafferanu, aveva sposato una giovine fanciulla celebrando il sacro rito secondo i canoni della più rigida tradizione anglicana nella remota chiesetta di Manfeather, e poi si faceva beccare a sostenere rivistine di dubbio gusto nelle quali si esaltavano le procacità di certe signorine di facili costumi e non corrispondenti propriamente al suo cognome (maidens significa “vergini, donzelle” in inglese).

I laburisti, piuttosto a sorpresa e nell'ambito del generale decadimento della loro stella a scapito del POL, avevano puntato tutto, dopo delle curiose “elezioni primarie” che all'epoca si tenevano in Gran Bretagna all'interno di alcuni partiti storici, su un giovanissimo candidato, tale Matthew Rents; nel 1846, in effetti, era decisamente insolito che fosse candidato alla guida di una città importante un trentaquattrenne. Perdere Bloomtown, per il Labour, sarebbe stato un colpo durissimo; con Matthew Rents speravano quindi di consolidarsi, anche perché il giovinotto non era certo, come si suol dire, un rivoluzionario. Tutt'altro. Bisognava far fronte alle esigenze del periodo.

In cosa consistessero tali “esigenze”, ben preparate, fomentate, inculcate e propalate dalla stampa cittadina (e non solo da The Nation), era presto detto. Dopo i sanguinosi attentati dell'11 settembre 1838 a New York, organizzati dai terroristi mormoni del sedicente “vescovo dello Utah”, Ossiah Ben Leathen, nel mondo si era diffuso un comodissimo senso di unsafety. Dico comodissimo, perché l'allora presidente degli Stati Uniti, George W. Bush (che non ha niente a che fare con il suo omonimo di un secolo e mezzo dopo), ne aveva approfittato per lanciare una sorta di guerra mondiale che si era risolta in un totale fiasco. Da allora, però, era scatatta in tutto il mondo la caccia al mormone, era nata la mormofobia, gli immigrati di qualsiasi razza e religione avevano cominciato ad essere visti come nemici mortali, erano comparsi libelli (famosi quelli di una giornalista ora totalmente dimenticata, Auriane Phallax) che propugnavano lo scontro di civiltà e, soprattutto, chi comandava aveva visto in tutto questo in modo perfetto per sviare l'attenzione dell'opinione pubblica dai propri affari, affaretti e affarucci. Inutile dire che Sir Silly Bearlusk e i suoi luogotenenti (John Francis Phinney, Ignace Larousse, Denis Greenlittle, Paul Goodhelp -questi due ultimi entrambi nativi di Bloomtown) vi si erano buttati letteralmente a pesce, potendo contare su tutti i mezzi per influenzare la gente. Aveva inoltre ottenuto grande successo una formazione separatista del Northumberland appartentata al POL, la cosiddetta Northern League, dichiaratamente razzista e xenofoba; era guidata da un curioso personaggio, un ex manovale che rispondeva al nome di Humbert Box.

Anche a Bloomtown, quindi, negli anni precedenti alle elezioni municipali del 1846 ed a cura della Nation, del New Courier, di The Kingdom (quotidiano che si definiva vicino al Labour, ma spesso su posizioni del tutto analoghe a quelle della presupposta “parte avversa”) e del foglio volante gratuito The Bloom Town, erano comparse tonnellate di safety and decadence. Bloomtown, città splendida, non male amministrata e relativamente tranquilla rispetto, ad esempio, a Liverpool, a Manchester, a Birmingham e alla stessa Londra, nelle pagine ben manovrate di quei giornali si era ritrovata ad essere una sorta di sentina di criminalità. Il vecchio centro, dove operavano immigrati gallesi, irlandesi, italiani, scozzesi e persino norvegesi, era diventato una polveriera; bastava un episodio insignificante per scatenare campagne di denigrazione (particolarmente colpiti i norvegesi, quel barbaro popolo di stupratori e delinquenti); le zone della città, anche quelle dove non si registrava un fatto di sangue dall'epoca di Cromwell, erano diventate quadrilateri della morte; e così via. Urgeva un cambiamento. Il Great Change, appunto.

Il problema era che, come detto, a Bloomtown there was no tripe for cats, come recita un vecchio proverbio del vicino Yorkshire. I bloomtowners proprio non ne volevano sapere del POL e di Sir Bearlusk. Fu così che the Anointed of the Lord ebbe uno dei suoi numerosi colpi di genio. Tra le numerose cose che possedeva, c'era anche la principale squadra di cricket del paese, il My Land, vincitrice di ogni cosa ci fosse da vincere in quel popolarissimo sport. Anni prima, quando ancora non era entrato in politica, il My Land aveva acquistato proprio dalla squadra di Bloomtown, la Bloomtown Flower Cricket Club, un fortissimo giocatore, idolo degli appassionati locali; il suo nome era John Cocks.

Nativo di una città fortemente rivale di Bloomtown, Shitville, John Cocks, terminata nel My Land la sua luminosa carriera, era tornato brevemente come dirigente nella Bloomtown Flower, venendone però cacciato dai proprietari, gli industriali calzaturieri della famiglia Valleys, per manifesta incapacità; accade sovente nel mondo dello sport, allora come adesso, che alle grandi doti atletiche non corrispondano altrettanto grandi doti gestionali. John Cocks restava comunque una figura popolare a Bloomtown, nonostante i suoi tristissimi natali e l'aver militato in una squadra nemica. Sir Bearlusk pensò quindi a lui come alfiere del Great Change, quello che avrebbe finalmente strappato Bloomtown al Labour, il fiore all'occhiello che mancava, la definitiva conquista di tutto l'Impero Britannico (ed un futuro da imperatore, in cuor suo, sir Bearlusk lo prefigurava in modo del tutto preciso).

In men che non si dica, i più valenti disegnatori ed artisti britannici furono ingaggiati per sostenere la campagna di John Cocks: la città fu invasa da enormi cartelloni dove il suddetto, con aria da tranquillo padre di famiglia e con un sorriso calmo e rassicurante, era raffigurato assieme a comuni cittadini, famigliuole borghesi e bambini; il tutto sullo sfondo del panorama mozzafiato che si godeva dal piazzale Geoffrey Chaucer, con la cattedrale ed il fiume Harn, e, soprattutto, con grandi scritte inneggianti al Great Change, rigorosamente di color viola. Il viola, infatti, era il colore sociale della Bloomtown Flower Cricket Club, che proprio in quegli anni stava tornando ad ottimi piazzamenti e che rappresentava un simbolo della città.

Ma il “Cricchettiere”, come lo chiamavano invero assai spregiativamente i suoi avversari, non aveva fatto certi conticini. In primis con gli stessi, e numerosissimi, tifosi della Bloomtown Flower, che non sembravano certo disposti a farsi menare per il naso. Era infatti chiarissimo che John Cocks altro non era che uno specchietto per le allodole per captare i loro voti, perdipiù in un momento in cui si stava animatamente discutendo della costruzione di un nuovo e più ampio cricket ground dalle quali parevano dipendere le sorti di ogni cosa. Ma, nei pub, nei negozi e ovunque si discutesse delle vicine elezioni, i tifosi tiravano casomai l'acqua dalla parte esattamente opposta.

The Nation, come è logico, faceva una campagna in favore di John Cocks che rasentava lo spudorato. Diffusissima sui tavoli dei pub, nei club e presso i pensionati, non perdeva occasione per magnificare la “grande occasione per Bloomtown”, quella di liberarsi una buona volta di quei maledetti “reds” che avevano ridotto la città -a loro dire- a qualcosa a metà tra gli slums di Bombay e le peggiori stambergopoli del Galles minerario. In realtà, a Bloomtown si viveva piuttosto bene; ma tra la gente, batti e ribatti, si era diffusa la credenza di abitare una città oramai inesorabilmente destinata alla rovina se non fosse intervenuto LUI, sir Bearlusk, per mano del suo angelo John Cocks, a “cambiarla” e salvarla. Ci speravano sul serio, insomma. Speravano di riuscire a rincoglionire anche i Bloomtowners, come già avevano fatto con successo in quasi tutto il paese.

Tutto questo fino al fatidico 19 maggio 1846; una data nella quale proprio The Nation fu costretta a pubblicare un sondaggio che presentava le cose in modo radicalmente differente. Nonostante il battage, nonostante i cartelloni, nonostante tutto quanto, il quieto Matthew Rents sfiorava la maggioranza assoluta e l'elezione diretta al primo turno. Non solo: altri candidati avversi al POL, come Wald Thorns e lady Hornella Van Zoord (un'elegante baronessa di origine fiamminga convertitasi alla militanza rivoluzionaria) ottenevano risultati piuttosto cospicui. John Cocks, lui, l'angelo mandato dal Signore, si fermava ad un misero 28/30%, e The Nation doveva prenderne amaramente atto. La città dimostrava inoltre scarsissima affezione anche per un altro paio di liste che, a lungo andare e nonostante i loro propositi bellicosi di “indipendenza”, alla prova dei fatti si sarebbero apparentate ànema e core con il POL: la prima era una curiosa accozzaglia di grulli capitanati da tale Marius Rathsnell, uno che aveva fatto sua ragione di vita l'opposizione alla costruzione del servizio di diligenze a vapore tra il sobborgo di Scandyke e il centro (“il vapore è morte”!, era il suo slogan); l'altra era una listarella di picchiatori ultranazionalisti, ma sempre pronti ad andare a frignare dal Royal Tuskshire Constabulary quando venivano mazzulati a dovere, chiamata “People, City, Nation”, guidata da tale Paul Hills.

Quel che avvenne alle elezioni del 7 giugno 1846, purtroppo, non posso raccontarvelo. Non dipende dalla mia volontà; gli è che, disgraziatamente, le fonti informative e storiche riguardo a quella giornata sono state totalmente cancellate. Come se quel giorno non fosse mai sorto. The Nation dell'8 giugno 1846 riporta in prima pagina due immagini a china, la prima di un poliziotto municipale e la seconda di una graziosa signorina con la conturbante immagine di un malleolo nudo. The Kingdom non uscì, in quanto il lunedì non veniva pubblicato. Il New Courier cessò stranamente le pubblicazioni riconvertendosi in rivista osé. Gli archivi comunali, come tutti sanno, andarono completamente distrutti nel furioso incendio del 14 novembre 1864. Si sa comunque che Matthew Rents fu visto sventolare una bandiera della Bloomtown Flower in occasione del terzo campionato vinto dalla squadra, nel 1847; ed aveva una fascia alla vita coi colori dell'Union Jack. Hornella Van Zoord fu vista qualche volta presso il principale covo di rivoluzionari e sovversivi della città, il Self-run People's Centre di Greatvillage Street. Si sussurrava anche di una sua improvvisa storia d'amore con Wald Thorns. Sir Silly Bearlusk morì nel 1851 dopo una cocente e inopinata sconfitta elettorale, stroncato da un infarto del suocardio (e perché mai dovrebbe essere del mio, di cardio?). Di John Cocks non si seppe più niente. C'è chi lo vide, molti anni dopo, presentarsi come candidato sindaco nel vicino, piccolo paese di Reenhain-on-the-Harn, con una sua lista civica, risultando peraltro sonoramente battuto persino dal candidato del Beefsteak Party.

Nel frattempo, sir James Murray, iniziatore e principale compilatore del monumentale Oxford English Dictionary (OED), l'opera capitale della lessicografia inglese, arrivato dopo anni ad inserire il lemma decadence fu colto da un inspiegabile, sommesso, beffardo sorriso.

mercoledì 20 maggio 2009

Le avventure di un Demonizzatore


Questa è la storia, o il racconto, o il resoconto delle povere avventure di un demonizzatore di periferia, che durano da un bel pezzo di vita. Perché, come tutti sanno, demonizzare è segno di disattenzione, di superficialità, di scarsa intelligenza e, in definitiva, di mediocrità. Tutti sono buoni a demonizzare questo e quello, confondendosi nella massa, non elevandosi nemmeno ad un originale pensiero ed analitico; da qui l'epiteto di povere che riservo a queste avventure. Altro, proprio, non si potrebbe immaginare.

Demonizzare significa considerare qualcuno o qualcosa come il diavolo, come il male assoluto, come un nemico da spazzare via, come il ribrezzo personificato o materializzato. Tuttora, ad esempio, demonizzo i fagiolini lessi; ma quando mi sono azzardato ad esprimere l'autentico schifo che mi fanno, ed il mio desiderio che scompaiano per sempre della faccia della terra, come per miracolo mi sono ritrovato regolarmente circondato dai Templari del Fagiolino Lesso. Chi magnificava la loro bontà con l'olio e il sale; chi esaltava le loro salutari virtù; chi addirittura li declinava come cibo preferito. Mi sono sentito quindi un verme, io che avevo osato profferire ignominie contro quei salvifici vegetali bolliti. Nello sparuto paio di casi in cui ho incontrato qualcuno che, come me, li detestava, ho immediatamente provato che cosa significasse far parte della Carboneria.

No, demonizzare proprio non si può. Ma il qui presente, che evidentemente è sempre in cerca di guai, ci ha provato e riprovato. Ogni tanto, ad esempio, provo a demonizzare il jazz. Non ci posso fare niente: quella musica proprio mi fa arrovesciare i coglioni. La considero un'accozzaglia di noiose cacofonie senza alcun senso. Peraltro, sono relativamente certo che molti la pensino esattamente come me, e che quando si ritrovano nella classica serata tra amici e qualcuno mette su il disco di Mingus, Thelonious Monk, Jaco Pastorius o Duke Ellington, desidererebbe piuttosto una compilation di Orietta Berti o degli Squallor. Però non si può dire. È vietato. Provati a farlo, e capirai cos'è il disprezzo. Ben che ti vada, vedrai su di te sguardi di compatente sufficienza. Ti ricorderanno l'età del jazz, il Grande Gatsby, il Cotton Club, le radici africane, gli slums della Grande Mela, le piantagioni del Sud, le jam session del 1934, il jazz cecoslovacco, le emozioni di una nottata con un bicchiere di whisky e la pipa, tutto quello che c'è da ricordare mentre in te si affaccia il sospetto di essere buono soltanto per il Festival di Sanremo.

Cerco allora di salvarmi demonizzando sanamente il Festival di Sanremo. “Su questo”, penso, “tutti saranno d'accordo”. Non fo in tempo ad attaccare l'invettiva, che salta fuori il tizio il quale, scuotendo la testa, mi fa capire come il Festival sia pur sempre un interessante oggetto di studio per la cultura nazional-popolare, che di Sanremo sono tutti bravi a dirne male ma poi almeno un po' lo guardano avidamente, che scagliarsi contro il Teatro Ariston è segno di insopportabile e stantio intellettualismo. Da un divano si alzano voci che riscoprono e rivalutano i Jalisse, ingiustamente demonizzati e derisi da una massa di pecoroni; al che mi sento spuntare addosso il vello, e provo un improvviso terrore per i can pastore.

Esco fuori ridicolizzato, e cerco un qualche conforto per abbandonare quelle fastidiose visioni di corde penzolanti o bicchierate di acido muriatico che mi si affacciano nelle mente. “La politica! Cazzo, quella funziona sempre!”, dico fra me e me mentre cammino sul marciapiede, solo, in una piovosa serata di novembre, cercando un bar dove dare sfogo alle mie demonizzazioni. Vedo un'insegna all'angolo, e entro. Il solito caffè. Quando non si ha voglia di bere nulla ma non scappa da pisciare, si chiede sempre un caffè; chiedere una minerale è il pretesto perché ti lascino andare in bagno. Ci sono due o tre sfaccendati come me, e il giornale aperto su un tavolo; basta questo per cominciare a demonizzare Berlusconi.

A me Berlusconi sta sul culo. Estremamente sul culo. Non lo trovo simpatico. Non lo trovo geniale. Non lo trovo divertente. Lo ritengo un pericolo, e grosso, per questo paese dove il destino mi ha pur sempre ficcato. Un demagogo della peggiore specie. Un miliardario puttaniere che poi mi parla di sacralità della famiglia. E via discorrendo. E mi azzardo a dirlo, in quel bar; disgraziatamente, i miei casuali interlocutori sono invece di quelle persone che capiscono tutto; al primo accenno di scuotimento di testa, comprendo di essere caduto dalla padella nella brace.

Il primo mi fa: “Sì, sì. Però basta con questo antiberlusconismo di maniera. Prendersela con Berlusconi è quel che vuole il sistema, un modo inutilmente autoreferenziale per perdere di vista i veri problemi. Io mi rifiuto di demonizzare Berlusconi, è da poveracci che non vanno a fondo nelle cose e che si sciacquano la bocca andando poi a votare mediocremente il meno peggio....”

Taccio. Devo riconoscere che ha ragione. Tanto più che a votare non ci vo da un bel po'; ma non ci posso fare nulla. Berlusconi mi sta sulle palle lo stesso. Ora però so che sono un poveraccio, e la cosa rifiuta di stupirmi; intanto il caffè si sta freddando.

Mi fa il secondo: “Per Berlusconi vale ciò che disse Flaiano del fascismo e dell'antifascismo: l'antiberlusconismo è il peggior prodotto del berlusconismo!”; inghiotto il caffè oramai gelido d'un colpo, senza zucchero, come a bere l'amaro calice. In due attimi e mezzo riesco però a pensare che, in questo paese, si è bravissimi a creare sempre il sofisma perfetto, quello che immobilizza, quello che non dà più nessuna speranza. Il peggior prodotto del fascismo è stato l'antifascismo. Il peggior prodotto del berlusconismo è l'antiberlusconismo. Il peggior prodotto degli interisti sono gli anti-interisti. Il peggior prodotto dei cicloni sono gli anticicloni. E così via. Il gusto della retorica che blocca ogni cosa, lo sforzo eterno di voler dimostrare tutto e il contrario di tutto. Così, al nemico si riservano elogi, simpatia e comprensione; al compagno, invece, si deve dimostrare principalmente che non capisce un cazzo. Il resto è del tutto secondario.

Il terzo mi annienta. “In fondo, è quel che vuole Berlusconi. Che se ne parli. Che tutto si concentri su di lui, pro o contro. Ignorandolo non si farebbe il suo gioco. Concedendogli espressioni di benevola simpatia, senza mai demonizzarlo ma non prendendolo sul serio, il giochetto verrà prima o poi a finire.”. Fine della storia. Pago gli ottanta centesimi di quel veleno travestito da caffè, esco a testa bassa e medito su tutti i miei errori. D'una panchina non se ne parla, sta piovendo a dirotto; meglio tornarsene a casa, solo, in preda a pensieri confusi.

Una volta a casa, mi stendo sul letto e ripenso a tutte le mie demonizzazioni. Ho demonizzato i fagiolini lessi. Il jazz. Berlusconi. Inoltre demonizzo il fascismo, lo stalinismo, gli juventini. Demonizzo al tempo stesso gli integralismi religiosi e l'islamofobia. S'apra il cielo. Quando demonizzo gli integralismi religiosi, si spalanca una botola e ne spuntano fuori torme di tuttocapenti che mi spiegano come la religione non c'entri in realtà niente, come i “conflitti religiosi” abbiano tutt'altre cause, come qui e come là; e hanno, va da sé, ragione. Da vendere. Quando invece demonizzo l'islamofobia, parlando magari di una razzista che voleva far saltare una moschea (non ancora costruita, peraltro) ricorrendo a certi suoi “amici anarchici”, mi risponde telematicamente un facoltoso banchiere recentemente scomparso, dandomi dell'idiota e ricordandomi che una centrale nucleare in Iran non è meglio di una in Val Padana. Inutile spiegare che, per me l'islamofobia è solo una forma di razzismo e di xenofobia, e che detesto (e persino demonizzo) chi vuole fare “scontrare le civiltà”. Guai a demonizzare persino la Fallaci. In fondo, sospetto che a molte menti eccelse e radicali sia, di soppiatto, piaciuta un sacco.

Cerco disperatamente appigli. Comincio a demonizzare la televisione. Si affacciano gli slogan: “Spegni la TV e accendi il cervello!”, “La TV avvelena anche te: dille di spegnersi”, e così via. Non sto neanche a dire che cosa non mi provenga dalla solita botola che si spalanca davanti ai miei piedi. Demonizzare la TV? Ma basta non guardarla, se proprio si vuole; basta “usarla” come si desidera; ci sono le “storie” che “non potrebbero essere raccontate altrove” (anche se mi risulta che, nei libri, di storie ben più interessanti di “Lost” ne venivano raccontate anche qualche migliaio d'anni fa; se la sarebbero mai immaginata, che so io, l' “Odissea”, gli autori di telefilmini?); colgo l'occasione per dire che so come va a finire l'ultima serie del Dottor House, quella non ancora trasmessa in Italia, e se mi fate girare i coglioni ve la spiattello sul blog. Perché è inutile demonizzare la TV, e hai voglia a “usarla come ti pare”: la televisione sei tu. Specie quella di Berlusconi. Così non ne parli, te la guardi e ti senti intelligente a non cadere nella trappola costantemente tesa dalla demonizzazione a buon mercato.

Sdraiato sul letto, ne concludo che l'unica cosa che mi resta sarebbe demonizzare il Demonio. Satana in persona. Porca paletta, almeno quello. È come divinizzare Dio. Come pastorizzare i pastori. Almeno quello si potrà fare; e invece no. Il Diavolo è simpatico, carino e persino tenero; nulla a che vedere in confronto a quel pezzo di ghiaccio di Dio. Non parliamo dell'inferno: troppo più divertente (provarsi a leggere la “Divina Commedia”!), più umano, più “in”. Augurare a Hitler, a Pinochet, a Pol Pot di bruciare eternamente nelle fiamme infernali significa far loro un piacere: piuttosto si auguri loro di marcire in paradiso. Il Demonio non può essere minimamente demonizzato; peraltro, lo fa soltanto il Papa e qui si rischierebbe di schierarsi con Ratzinger. Demonizzare Ratzinger? Ma per carità. I nemici non esistono. Meglio ancora: esistono, ma bisogna ricondurli a semplici pedine. Bisogna andare a ricercare chi veramente muova le fila: solo che non lo si scopre mai. Ci si addentra in profondità, ma i Burattinai sfuggono. Si analizzano i meccanismi più intimi e impensabili del Sistema, ma il labirinto di Cnosso è una barzelletta al suo confronto. Intanto le pedine si muovono. Fanno i loro danni e i loro morti. Libere anche dalla demonizzazione. Demonizzare è semplicistico. È indice di superficialità. Di non voler capire cosa ci sia veramente sotto.

Come nel mare. Le ondate sono in superficie, ma sotto è tutto calmo. Bisognerebbe curarla un pochino di più, la superficie, perché è quella su cui viviamo. E allora sapete che vi dico? Che vi mando tutti in culo. Che continuo a demonizzare tranquillamente chi mi pare, senza per questo considerarmi una merda da schiacciare o giù di lì. Che Berlusconi è uno schifoso sudiciume, un fascista, un lurido nanaccio e basta. Che la televisione dovrebbe al massimo far cacare il maiale. E che, in definitiva, la cosa che più demonizzo è lo starsene beati a guardare, a pascersi di depressioni e di disillusioni, a declamare al vento Ohimé, ho visto tutto!, ad autodistruggersi per nulla, ad affrettare la morte, a blaterare di tempi andati, a rimpiangere tutto il rimpiangibile mentre lassù sghignazzano delle tue lamentazioni e delle tue serate desolate. Alzarsi. Andare avanti coi propri demoni da sconfiggere, fregarsene di tutto il resto e lottare senza trasformarsi in poetici relitti, in vane solitudini, in calmissimi e inutili abissi. E smuovere il culo da se stessi, porca madonna.


domenica 17 maggio 2009

"Nazione", la stampa del padrone



Ieri pomeriggio, come un altro gran numero di fiorentini, studenti, persone di tutte le età ed immigrati, ero alla manifestazione organizzata per protestare contro l'aggressione subita l'11 maggio scorso dai ragazzi della Rete dei Collettivi in via della Colonna, ad opera dei celerini del questore Tagliente. Un'aggressione vera e propria con il pretesto di un corteo “non autorizzato”. Un'aggressione pienamente “alla genovese”, con i quindicenni pestati, con la ragazzina insultata e umiliata dal prode tutoredellòddine in divisa. Tutto questo in una città dove si tollerano oramai tranquillamente i raid delle squadracce fasciste contro il centro sociale di Don Santoro alle Piagge, la presenza di una lista nazista (“Popolo, Città, Nazione”) alle elezioni municipali e, in generale, il tentativo di effettuare il famoso “cambiamento”.

In che cosa consista in realtà tale “cambiamento”, lo si vede benissimo a partire da come colui che dovrebbe rappresentarlo, un palloniere di nome Giovanni Galli, è stato scelto dal sor padrone. Un pisano che con la città di Firenze non ha mai avuto alcun rapporto reale a parte giocare alcuni anni nella Fiorentina, catapultato da queste parti dopo che per anni e anni gli è stato preparato il terreno a base di degrado, sihurezza, invivibilità, abusivi, polveriere, quadrilateri della paura ed altre tonnellate di cose del genere; va da sé che, in prima fila al “cambiamento”, ci sia La Nazione. Stamani, però, la pennaiolandia che occupa abusivamente uno stabile tra via Paolieri e piazza Ghiberti, ha passato ogni limite di decenza.

Occupandosi della manifestazione di ieri pomeriggio, e dedicandole addirittura due pagine, è stato ordinato ad un suo servetto, tale Marcello Mancini, di scrivere il relativo “editoriale”. Lo riporterò in sintesi. Con un tono tra il preoccupato e il paternalistico, il Mancini dichiara che “si sono rivisti gli slogan e le motivazioni degli anni '70”, che le forze dell'ordine sono state qualificate di “servi del potere”, che nel corteo c'erano (abbondantemente fotografati, per altro), “esponenti dei centri sociali con le bandiere arrotolate ai bastoni”; ne conclude -come dubitarne- che si sta tornando ad un clima “preterroristico”, che il corteo ha “disturbato lo shopping del sabato” e, coup de théâtre finale, più che prevedibile, ammonisce i “ragazzi” a “non farsi strumentalizzare”.

Avete capito benissimo: per lo schiavetto di lorsignori, tutto questo non è altro che una “strumentalizzazione” operata a danno di quei poveri, innocenti ragazzi che si fanno traviare dai “cattivi” invece di starsene buonini buonini a riempirsi di seghe, fisiche e mentali, su Facebook, invece di leggere i bei libriccini di Moccia e ascoltare le canzoncine di Tiziano Ferro, invece di pensare a studiare seriamente per farsi poi inghiottire dal mercato, invece di mettere i lucchettini dell'amore sul Ponte Vecchio, invece di indebitarsi fin da piccoli per i telefonini di settima generazione e per altri gadgets alla moda, invece di rappresentare, zitti e ubbidienti, soltanto un target per vendere, vendere, vendere. Che vi siano invece tanti e tanti ragazzi che non solo sono ben lungi dall'essere come vogliano lorsignori, ma che siano addirittura disposti a prendersi delle responsabilità, a lottare per i propri diritti e anche a farsi pestare dal braccio violento dei papà Mancini & company, a questi qui proprio non va giù; e allora bisogna provvedere. Demonizzando, rilanciando le minacce di “terrorismo” in pieno stile Kossighiano, e ammonendo minacciosi a “non farsi strumentalizzare”. Attenti, ragazzi: se andate dietro a quelli sbagliati, poi finite male. Ci pensa la polizia a rimettervi la testolina a posto; e poi non dite che non vi avevamo avvertiti!

Il signore che “ammonisce a non farsi strumentalizzare” appartiene allo stesso foglio dalle cui righe , un tempo, tale Enzo Tortora, parlò di Pietro Valpreda come del “mostro che schiumava bava nella cella dov'era rinchiuso per aver massacrato innocenti” (la stessa bava che poi dovette schiumare lui, accusato ingiustamente, in una cella di galera; e allora diventò campione della “giustizia giusta”); allo stesso foglio che parlò del massacro degli aviatori italiani a Kindu come di un “rigurgito di violenza negra e tribale”; allo stesso foglio, soprattutto, che in tempi più recenti non perde nessuna occasione per fomentare odio, paura, insicurezza, razzismo con le sue menzogne quotidiane, continue, scientifiche. Allo stesso foglio che, in occasione della strage di Erba, quando in un primo momento era stato accusato il marito e padre tunisino di tre delle quattro vittime, arrivò a scrivere un articolo dove già si esponeva con certezza il “motivo della strage”: “il rifiuto da parte della madre di dare un'educazione islamica ai figli”. Allo stesso foglio che, ad ogni idiozia che succede al mercato di San Lorenzo o in altre parti del centro storico, pubblica paginate di appelli, di comitati cittadini, di “esasperazione” e di altre cose atte ad instillare la necessaria paura nelle chiacchiere da bar, da parrucchiera, da pizzicagnolo; le chiacchiere perfette per effettuare, appunto, quel famoso “cambiamento” di cui sopra. Perché, cari ragazzi, care ragazze, è a questo, e solo a questo, che mirano quei signori. Quei servi. Quegli stessi schiavi che strumentalizzano ogni più insignificante episodio che accade in questa città (e altrove) per obbedire alle direttive dei padroni. Lo cantava perfettamente Alfredo Bandelli:

Telegrafo, Nazione, la stampa del padrone


Sono i giornali dei benpensanti
son quotidiani indipendenti
stanno al di sopra di tutti i partiti
leccando il culo ai Costa e ai Pesenti

Telegrafo, Nazione, la stampa del padrone

O com'è serio questo giornale
ogni notizia è di fonte sicura
e l'informazione è sempre imparziale
arriva dritta dalla questura

Telegrafo, Nazione, la stampa del padrone

Ma un giorno o l'altro questa cartaccia
farà la fine a cui è destinata
e nelle edicole si sentirà solo
un brutto odore di carta bruciata

Telegrafo, Nazione, la stampa del padrone.

Contrariamente al Mancini Marcello, io non farò “appelli”. Né ai “ragazzi” né a nessun altro. I ragazzi, quelli che ieri hanno riempito il corteo, lo sanno benissimo cosa fare; e lo fanno, fregandosene del Mancini e di tutta la “Nazi” (l' “One” è assolutamente superfluo per definirla). Un corteo dove, peraltro, non c'erano certamente soltanto ragazzi. C'erano tutte le forze cittadine che realmente si oppongono; ed è comprensibile che faccia paura, questa cosa. Vedere che c'è una città che non si piega. Vedere nei cortei la solidarietà tra gli studenti, gli immigrati, i lavoratori nella stessa giornata in cui, perdipiù, Rinaldini è stato sbattuto fuori a calci dal palco, a Torino. Vedere di nuovo una rabbia decisa, senza sconti, senza compromessi. E allora, signor Mancini, comunque vadano le vostre “elezioni”, ti ci dovrai abituare, vi ci dovrete abituare a vederne sempre di più, di questa rabbia. Abituarti e abituarvi a vedere la gente che, fregandosene altamente dello “shopping globalizzato”, solidarizza con il corteo che passa: addirittura diversi turisti stranieri che avevano capito quel che succedeva, informati in inglese o altre lingue. Addirittura tranquille signore sugli autobus che si complimentavano. La città di Firenze è molto, molto, molto diversa da quella che presenta “La Nazione”. Se ne dovranno accorgere in piazza Ghiberti, accorgere molto amaramente e sempre di più. Lo avrete sì il "cambiamento"; ma non quello che volete voi. Tutto diverso, con la speranza viva che, al posto di quella tetra fabbrica di bugie a mezzo stampa sorga un giorno un bel giardino coi bambini che giocano.

Dovrete abituarvi a vederne a cadenza sempre più fitta, di queste "motivazioni da anni '70". Alla fine è quel che avete voluto e che vi siete meritati: la cosa vi sta scoppiando tra le mani. Al momento giusto, farà un "boom" che nemmeno vi immaginate. Ne avrete da scrivere di articoletti, ubbidienti e tutti uguali. Ne avrete da fare di "raccomandazioni ai ragazzi"; tanto non vi seguiranno. E ve lo dice uno che non è certamente più un ragazzo.

PS. Attenzione, sor palloniere Galli sgazzebato: tra i ragazzi di ieri, nel corteo, ce n'erano tanti e tanti con la maglietta della Fiorentina. Non credere di infinocchiare la gente anche se va allo stadio a fare il tifo.


Il quarto uomo in barca



Leggere è una delle cose che più mi piace al mondo; però, nella lettura, seguo una strada tutta mia. Anzi, non la seguo affatto; piuttosto mi faccio trasportare, pigramente, senza intervenire. Questo perché sono profondamente convinto che siano i libri a decidere quando e come è il momento di farsi leggere. Ho comprato dei libri trent'anni fa che ancora non ho letto; se ne stanno lì a impolverarsi e a ingiallirsi sugli scaffali, intonsi, pazienti. Aspettano, in silenzio, l'attimo giusto; e, quando arriva, si cambia registro all'istante. Perché, nella lettura, sono generalmente rapidissimo, capace di sciropparmi un migliaio di pagine in tre giorni. Chi mi vede leggere (pochi, perché, almeno per me, la lettura è un fatto estremamente privato e mi piace immergermici in perfetta solitudine) ha l'impressione che io scorra soltanto le pagine. In realtà, per motivi che non sto a spiegare, riesco ad assimilare un testo scritto ad una velocità supersonica. Mi astraggo da ogni altra cosa, le parole scritte si trasformano in immagini (che sia un saggio, un romanzo, una grammatica swahili o l'elenco del telefono -perché leggo anche quello, quando mi va-, è del tutto uguale) e mi trasferisco in un altro mondo. Un libro, in fondo, non lo si “legge”: lo si mangia. I processi sono identici a quelli della nutrizione, dell'assimilazione, della digestione ed anche dell'evacuazione. Non a caso di parla, spesso, di libri “indigesti”. E, se un libro mi è piaciuto sul serio, me lo rimangio e rimangio, come una pietanza di cui si è ghiotti: il Caso di Charles Dexter Ward di Lovecraft, solo per fare un esempio, me lo rileggo almeno una volta ogni due mesi da quindici o sedici anni. Sempre con lo stesso piacere, sempre con la stessa ingordigia. O, per andare in un mondo estremamente differente, The Modern Greek Language di Peter Mackridge, dove l'autore, con la scusa di scrivere una grammatica descrittiva, racconta la lingua greca moderna. Un libro assolutamente unico.

L'ultimo esempio che farò è quello del Pinocchio di Collodi, che è un caso ancora diverso. Nelle sue pagine, trasformate in immagini, ci ho messo sin da bambino tutta una serie di paesaggi, di ricordi, di volti, di terre e di mari che sono tutta la mia vita. Sebbene un famoso ristoratore fiorentino appassionato di quel racconto sostenga che sia ambientato in origine a Peretola, per me si svolge, da sempre, tra Colle Val d'Elsa e la Maremma, sulla statale della Valdicecina, passando per Volterra, Ponteginori e Guardistallo, magari a bordo della vecchia 850 beige di mio padre in una giornata di sole accecante. Finché vivrò, quel racconto mi ricorderà quei posti; viceversa, ogni volta che mi ci trovo a passare mi viene a mente il Pinocchio. Proprietà transitiva dell'immaginazione. Se sono solo, mi viene da recitarlo a voce alta, a memoria. Ci riporto altre cose: il Pescatore di De André è, per me, quello cui Pinocchio si rivolge, dopo la “battaglia dei libri di testo” sulla spiaggia, per chiedere notizie del suo compagno ferito con un pesante dizionario. Alcuni anni fa arrivai a scriverne una parodia pagina per pagina, sostituendo i personaggi originali con persone che conoscevo, e facendola terminare in un modo un po' bizzarro e, diciamo, esplosivo.

Di conseguenza, con questo modo di fare (anzi: di farsi fare), ho un rapporto divertentemente problematico coi cosiddetti capolavori della letteratura, quelli certificati, quelli che tutti hanno letto -o sono stati, consciamente o inconsciamente, costretti a leggere. Ci sono dei capolavori che ho letto subito e che sono talvolta diventati come quei libri di cui parlavo prima: il Decamerone, ad esempio. Da ragazzino m'è toccato leggerlo in una traduzione in lingua moderna, ché altrimenti non ci avrei capito nulla; quando, poi, sono stato in grado di leggerlo così come lo scrisse davvero il Boccaccio, è diventato uno dei miei capisaldi, uno di quei libri che mangio e rimangio. Altri “classici”, invece, non li ho finora mai aperti nemmeno per leggerne due righe: il Don Chisciotte, per dirne uno. Ad un erudito spagnolo, che non mi ricordo come si chiama, chiesero una volta quale fosse il libro che preferiva; senza esitare rispose che era il Quijote, lanciandosi poi in una profondissima e appassionata disamina dei motivi. Concluse: “Sì, sicuramente non saprei mai separarmi da quel libro; mi piace talmente, che forse una volta o l'altra mi deciderò a leggerlo”. Ce l'ho, quel libro, in italiano e in spagnolo. Come tutti quanti so di Sancho Panza, di Dulcinea e dei mulini a vento; ma non ne ho letto mai mezza parola. Verrà, forse, anche il suo momento.

C'è un libro, invero assai meno ponderoso, di cui pure conoscevo l'esistenza e la vicenda fin da ragazzino. L'ho comprato, poi, oltre dieci anni fa, in un'edizione supereconomica, a un chiosco di giornali mentre andavo con la mia ex moglie a fare il bagno vicino a Piombino. Finalmente avevo intenzione di leggermelo sulla spiaggia, spaparanzato sull'asciugamano; nulla da fare. Sull'asciugamano mi misi a fare le parole crociate. Da allora me lo sono portato dietro ovunque: in treno, su altre spiagge, in bagno, a letto, di notte alle ambulanze. Non c'è stato mai verso, come mi respingesse. Alla fine l'ho lasciato da mia madre, me ne sono andato a giro per il mondo e lui lì a pigliarsi la sua polvere e il suo giallore. Sono tornato dal vasto globo ed è rimasto lì. Ho cambiato casa e non me lo sono portato mai dietro; fino a pochi giorni fa. Si tratta, pensate un po', di Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome. Il capolavoro dell'umorismo all'inglese.

Se un libro decide di non farsi leggere, ci sono pur sempre alcuni motivi. Il fatto è che l'umorismo inglese, in generale, proprio non lo sopporto. Ho provato, anni fa, a leggere alcuni volumetti di Wodehouse, quelli del maggiordomo Jeeves; ho provato dopo un po' qualcosa che si avvicinava al tedio assoluto. Non parliamo poi del Tristram Shandy di Sterne: uno dei pochi libri che ha rischiato di finire nella spazzatura. La cosa, forse, vale per tutta la letteratura volutamente “umoristica”, non solo quella inglese; chi si mette a scrivere con l'intento di far ridere, o sorridere, non mi smuove e mi annoia. Mi piace invece, e molto, la parodia intelligente: mi sono, ad esempio, sbellicato sul Libro Cuore (Forse) di Federico Maria Sardelli. E ancor di più mi piace l'umorismo involontario. Libri paludatamente serissimi mi fanno, a volte, scompisciare dalle risate. Uno di questi è l'acclamatissimo Neve di Orhan Pamuk, il turco premio Nobel; quando l'ho letto, con la sua città di Kars seppellita dalla nevicata del secolo e le vicende islamo-terror-turcoman-deliranti che vi si svolgono (ma forse sono deliranti perché mi riservo sempre il diritto che, di certe cose, non me ne freghi assolutamente e liberatoriamente un cazzo), passata la fase degli sbadigli è subentrata, fortunatamente, quella delle risate. Pensavo, leggendo, che se a quel tizio hanno dato il Nobel per la letteratura, forse qualche speranza di vincere perlomeno il Goncourt ce l'ho anch'io. Seicento pagine di pretenziosa rottura di palle che, per fortuna, hanno dato adito al ridere permettendomi di arrivare in fondo perché odio comunque lasciare un libro a metà.

Il libro in assoluto più umoristico che abbia mai letto è il Mein Kampf di Hitler. Lo leggevo e mi pigliavano conati di risate. Ritenevo impossibile che una serie talmente scientifica di comicissime stronzate fosse stata scritta sul serio; ma sembra, disgraziatamente, che per quell'umorismo (per giunta scritto da cani) ci siano stati svariati milioni di morti a giro per il mondo. Ma lasciamo stare e torniamo ai Tre uomini in barca. Per non dir del cane, of course.

Il suo Deus ex machina è stata la Daniela, che lo aveva letto da bambina e cui era piaciuto un sacco; e, a forza di parlarmene, una volta che sono andato da mia madre l'ho ritirato fuori dalla pila in cui giaceva dormendo tranquillo, e me lo sono portato a casa. E ho rivisto quell'oramai lontana giornata in cui lo avevo acquistato al chiosco piombinese, facce passate, situazioni distanti; perché questo riesce a fare un libro, anche se mai letto. Lo prendi in mano e mette in moto comunque ricordi e immagini, al semplice tatto. Può succedere, certo, con qualsiasi altro oggetto; ma un libro è fatto comunque per essere letto, e questo, finalmente, ho cominciato a fare. Un bel sabato svaccato su un prato vicino a Montefiridolfi, con i panini e una bottiglia di vino, la stuoia e tutto il resto. Era il momento giusto.

Tre uomini in barca, come dicono le storie della letteratura, non era nato per essere un libro “umoristico”. Doveva essere una sorta di guida turistica del Tamigi, con tanto di descrizioni e racconti storici dei luoghi, e con alcune parti “leggere” a far da intermezzo. Il suo autore, però, era un tipo particolare; era uno che aveva fatto la fame, l'attore girovago in una compagnia di guitti (poi fallita come d'ordinanza), il giornalista di quart'ordine e mille altri mestieri prima che qualcuno cominciasse a pubblicargli quel che scriveva. Ebbe a dichiarare: “Non intendevo scrivere un libro divertente. Non sapevo di essere un umorista. Nel medioevo avrei probabilmente continuato a predicare e sarei stato messo al rogo o impiccato. Doveva esserci un 'alleggerimento comico', ma il libro sarebbe dovuto essere 'Il racconto del Tamigi' con i suoi scenari e la sua storia.” Jerome Klapka Jerome era uno cui la vita aveva insegnato ad osservarne i più minuti e insignificanti particolari, sia delle persone che delle cose; e questo dice molto, forse tutto.

Dice, in primis, che l'umorismo, quello vero, è sempre involontario. Gli umoristi di professione mettono malumore e non fanno ridere o sorridere nemmeno i polli. Chi vaneggia e sproloquia di sense of humour ne è spesso totalmente privo. Jerome, invece, nella sua sequenza di gags ora surreali, ora iperreali legate da un'incredibile catena di associazioni mentali, ha messo in scena l'esistenza ordinaria, i piccoli disastri della vita di tutti i giorni, la sua minuziosa osservazione della realtà che lo circondava e di cui aveva esperienza. Tre uomini in barca fa sorridere, ridere, e pensare. Presa finalmente al volo l'occasione di farsi leggere, lo ha fatto in modo talmente bello e coinvolgente da farmi stare fino alle due di notte a parlarne, con un lunghissimo preambolo e con nessuna voglia di terminare questa cosa; senza contare che, in mezzo allo zio Podger che sventra una casa per attaccare un chiodo, alle stazioni ferroviarie che fanno scomparire i treni, alle scatolette di ananas che rifiutano di aprirsi e alla trota in gesso che tutti sostengono di aver pescato, c'è -e lo dico da animale notturno- una delle più belle pagine sulla notte che abbia mai letto:

Eppure sembra che la notte porti conforto e forza. Al suo cospetto, le nostre piccole contrarietà svaniscono come se si vergognassero di esistere. La giornata ci è parsa piena di ansie e di preoccupazioni, il nostro cuore è stato popolato da pensieri cattivi e amari, e abbiamo avuto l'impressione che il mondo fosse duro e ingiusto verso di noi. Poi, la notte, come una grande madre amorosa, ci pone con dolcezza la mano sulla fronte febbricitante, c'induce a volgere verso di lei il viso rigato di lacrime, e sorride...e benché non parli, sappiamo ciò che vorrebbe dirci: appoggiamo le gote scottanti e congestionate contro il suo seno, e ogni dolore si placa. Talvolta il nostro dolore è profondo, reale. Noi stiamo in silenzio al cospetto della notte, poiché non vi è linguaggio, al di fuori di quello delle lacrime, che possa esprimerlo.”

Tre uomini in barca è un libro che mi è parso tagliato addosso. A me, che in barca non so minimamente andare. Però, a ripensarci bene, questo blog è come il mio viaggio sul Tamigi. Ci ho raccontato le mie piccole catastrofi, gli amori e le amicizie finite male, le storie dei luoghi che amo. Jerome era innamorato del suo fiume come io lo sono della mia isola e del mio quartiere. Non ho mai inteso essere “umoristico” in questo; tutt'altro. Continuerò allora a raccontare senza preoccupare di essere questa o quella cosa, e lo dico in un giorno come tanti e, al tempo stesso, speciale. Ordinario e particolare come sono tutti i giorni.

Sono, è vero, fissato con le date e con le ricorrenze. Tre giorni fa questo blog ha compiuto due anni. Volevo scrivere qualcosa al riguardo, ma sono in uno di quei periodi in cui mi viene pochissimo in testa; quasi nulla. Non me ne curo. Questo non è un blog di canzoncine, di citazioni, di fotografie, di copiaincolla, di attualità o di cronaca: qui dentro c'è tutta roba mia. E basta. Bella o brutta che sia. Cupa o divertente. Reale, irreale o surreale. Per “festeggiare” i suoi due anni, mi sia permesso di fargli questo piccolo omaggio con tre giorni di ritardo. In una notte con le gambe indolenzite, perché trovo giusto andare a manifestare quando la polizia pesta e umilia dei ragazzini; in una notte in cui a quei tre uomini in barca se n'è aggiunto un quarto. Umoristicamente, col mio peso, forse creerei diverse difficoltà; inoltre sono sgraziato, impacciato, imbranato e nel fiume ci ho fatto il bagno una sola volta in vita mia, per tre minuti di numero. Eppure quel libriccino mi ha toccato il cuore, e non è mai cosa da poco quando un libro, une fois l'âge venue, si fa amare e mette nello scrigno dei tuoi luoghi anche un Tamigi mai visto e che non si vedrà forse mai.


mercoledì 6 maggio 2009

Il viaggio di Leon (1a parte)



Altri luoghi si occupano di canzoni; ma dietro a ogni canzone c'è una storia. Mi va, in questa sera, di cominciare a raccontarne una. E' una storia lunga più di un secolo, con dei personaggi che forse non ci si aspetterebbe di vedere riuniti tutti assieme; a partire dal gruppo punk-psychobilly estone Vennaskond, che nel video qua sopra interpreta una canzone, molto bella, intitolata Leon Czolgosz Song, su immagini di manifestazioni antifasciste e contro la guerra nella Germania di Weimar.

La storia è questa.

Nel febbraio del 2003, John Mellencamp, un noto folksinger americano, fa viaggiare per Internet una canzone che vive un quarto d'ora di notorietà. La canzone si chiama To Washington:



Si tratta di una canzone di protesta contro l'amministrazione di George W. Bush; sui giornali di mezzo mondo compare la notizia che la canzone sta “viaggiando” per Internet, in libero scaricamento, perché l'autore "non trova nessuno che gliela pubblichi." È lo scandalo: se ne pubblicano le traduzioni anche in Italia (ad esempio, sia sul Manifesto che sull' Unità), si invita a scaricarla e a diffonderla e, soprattutto, si inveisce contro la “censura” che colpirebbe un coraggioso artista che, a pochi giorni dall'inizio della guerra in Iraq, osa sfidare il Presidente scrivendo una canzone inequivocabile. In breve, To Washington, questa nuovissima canzone, diventa un "caso": Solo che, in realtà, la canzone non aveva nessun bisogno di essere “pubblicata”. Certo, Mellencamp ne aveva rielaborato il testo per adattarla alla situazione corrente; solo che circolava da un secolo e passa. Con testi diversi, ma con la stessa musica. Si tratta di un cosiddetto borrowed blues, che Mellencamp affida probabilmente alla libera diffusione proprio per dargli maggiore visibilità, e creando lo "scandalo" della mancata pubblicazione. Tanto è vero, più tardi, lo inserirà tranquillamente nel suo album Trouble No More, senza nessun disturbo. Insomma, per farla breve: nonostante il lodevole intento, ed in piena mobilitazione, si tratta di una perfetta operazione promozionale nel quale mezzo mondo abbocca.

Saltiamo al 20 settembre 1926, quando uno dei più grandi virtuosi del banjo, Charlie Poole (nato nel 1892 e morto nel 1931) incide a New York, assieme ai suoi North Carolina Ramblers, una canzone intitolata White House Blues:



La canzone parla di un episodio famoso e drammatico nella storia degli Stati Uniti d'America: l'assassinio del presidente William McKinley, avvenuto nel Temple of Music di Buffalo il 6 settembre 1901 (in realtà, nell'attentato, il presidente rimase ferito: morì però il 14 settembre). A compiere l'attentato era stato un anarchico di origine polacca, Leon Frank Czolgosz; chi abbia letto attentamente questo post, si sarà già imbattuto in questo nome.

McKinley he hollered, McKinley he squalled
The doctor said "McKinley, I can't find that ball"
From Buffalo to Washington

Roosevelt in the White House, he's doin' his best
McKinley in the graveyard, he's takin' his rest
He's gone a long old time

Hush up little children, now don't you fret
You'll draw a pension at your papa's death
From Buffalo to Washington

Roosevelt in the White House, drinkin' out of a silver cup
McKinley in the graveyard, he never wakes up
He's gone a long, long time

Ain't but the one thing that grieves my mind
That is to die and leave my poor wife behind
I'm gone a long old time

Standing at the station, just lookin' at the time
See by it you're running by half-past nine
From Buffalo to Washington

Pay in the train, she's just on time
She'll run a thousand miles from eight o'clock till nine
From Buffalo to Washington

Yonder comes the train, she's comin' down the line
Throwin' them a station message, McKinley's a-dyin'
It's hard times, hard times

Look a-here, you rascal, you see what you've done
You shot my husband with that Ivor Johnstone gun
Carry him back to Washington

The doc told the horse, he tore down the rein
Said to that horse, "You've got to outrun this train
From Buffalo to Washington"

Doctor came a-running, taked off his specs
Said "Mr. McKinley, better cash in your checks
You're bound to die, bound to die"

Ancora prima, nel 1923, il folklorista e studioso della musica country Bascom Lamar Lunsford, aveva riferito nella sua opera Songs and Ballads of American History and of the Assassination of Presidents di aver sentito cantare da Willard Randolph un blues intitolato Zolgotz (chiara storpiatura del difficilissimo cognome dell'attentatore). Si noti come, all'interno della tradizione popolare americana (così sarebbe necessario tradurre la vaga etichetta di musica "country", a mio parere: semplicemente musica popolare), esista tutto un filone dedicato all'assassinio dei presidenti: McKinley era il terzo a subire tale sorte, dopo Abraham Lincoln nel 1865 (per mano di John Wilkes Booth) e James Garfield nel 1881 (per mano di Charles A. Guiteau). Toccò, poi, a John Fitzgerald Kennedy, con le relative canzoni.

Anche Zolgotz è la stessa canzone, forse nella sua forma originaria e "cronachistica":


Zolgotz, cruel man
He shot poor McKinley with a handkerchief on his hand
In Buffalo, in Buffalo

Zolgotz, you done him wrong
You shot poor McKinley when he was walkin' along
In Buffalo, in Buffalo

The pistol fired then McKinley he did fall
The doctor says "McKinley, I can't find the ball"
In Buffalo, in Buffalo

They sent for the doctor, the doctor come
He come in a-chargin', he come in a-runnin'
In Buffalo, in Buffalo

He saddled his horse and he swung on his rein
And he trotted the horse till he outrun the train
To Buffalo, to Buffalo

Forty-four boxes all trimmed in braid
A sixteen-wheeled driver, boys, it couldn't make the grade
To Buffalo, to Buffalo

Forty-four boxes trimmed in lace
Take him back to the baggage, boys, where I can't see his face
In Buffalo, in Buffalo

Mrs. Mckinley took a trip, and she took it out west
Where she couldn't hear the people talk about McKinley's death
In Buffalo, in Buffalo

The engine whistled down the line
A-blowing every station - McKinley was a-dying
In Buffalo, in Buffalo

Seventeen coaches all trimmed in black
Took McKinley to the graveyard but never brought him back
To Buffalo, to Buffalo

Seventeen coaches all trimmed in black
Took Roosevelt to the White House but never brought him back
To Buffalo, to Buffalo

SPOKEN: That was Theodore Roosevelt.

(1. continua)