mercoledì 30 settembre 2009

Supernatural Voyage Inc. (1a puntata)


La finirò? Non la finirò? Sapete cosa vi dico? Cazzi miei! Intanto ho scritto questa prima puntata, e mi ci sono pure divertito un sacco.

Ora che, da un bel po' di tempo, non faccio più parte di una lista che, almeno in linea teorica, ne parlava, non ho più molte occasioni per frequentare Fabrizio de André. Così, quando un mesetto fa, su alcuni quotidiani nazionali e su diversi importanti portali Internet, ho visto un annuncio della Supernatural Voyage Inc. di Cleveland, alla fine non ho resistito; Fabrizio de André era nel “pacchetto” offerto alla clientela italiana, e dopo qualche dubbio mi son detto che, in fondo, non facevo niente di male a volerlo incontrare, finalmente, dopo morto. Del resto, oh, ero andato avanti per anni e anni a dire bischerate del tipo Fabrizio non è mai morto, Fabrizio è vivo, Fabrizio qui e “Faber” là; la curiosità, insomma, era tanta, compresa quella di vedere se da morto diceva un po' meno cretinate che da vivo. Diceva, specifico; non scriveva o cantava. Ma, a questo punto, si impone una frase classica, trita, ritrita, sconfortante: andiamo per ordine. Una di quelle frasi che si tiran fuori quando non si sa più che pesci prendere per terminare un preambolo.

Presentare la Supernatural Voyage Inc. è inutile, forse persino ozioso; come presentare la NASA, la Ferrari o la Microsoft. È l'azienda leader mondiale nei viaggi nell'aldilà; fondata nel 1997 a Cleveland da un pool tecnologico di prim'ordine, si serve di speciali Ascensori Transienti Extracorporei (Extracorporeal Transient Elevators, ETE) installati esclusivamente presso la sua base di Parma, nei dintorni della capitale dell'Ohio. Chiunque desideri incontrare un personaggio oramai defunto (da un minimo di tre mesi), può rivolgersi alle agenzie della SVI sparse per il pianeta, previa consultazione di un catalogo che si va facendo di giorno in giorno sempre più ampio. Partita con un ventaglio limitato di offerte (John Fitzgerald Kennedy, Martin Luther King, Elvis Presley, John Lennon, Adolf Hitler, Giuseppe Stalin...), la SVI copre oramai un elenco di personalità capace di accontentare tutti i paesi, tutte le attività umane e tutti i “palati” (mi si passi la metafora gastronomica). Mancava però, ultimi fra tutti come sempre siamo, una succursale italiana: gli unici personaggi italiani finora offerti dalla SVI erano Giuseppe Garibaldi, Leonardo da Vinci, Enzo Ferrari e, piuttosto sorprendentemente, Albert Anastasia. L'istituzione di una filiale italiana (con sede a Parma, quando dagli headquarters si sono accorti che in Italia esiste una città con lo stesso nome del sobborgo di Cleveland) ha permesso finalmente di mettere a disposizione dei nostri connazionali tutta una serie di personaggi finora trascurati; tra di essi si segnalano Padre Pio, Gianni Versace, Enrico Berlinguer, Benito Mussolini, una insolita e piacevolissima Ave Ninchi e, appunto, Fabrizio de André.

Un po' titubante, e non amando affatto il contatto attraverso quella moderna diavoleria chiamata Internet, ho alzato la cornetta del telefono per chiamare il numero verde della SVI Italia Srl.; con insolita celerità, una gentile signorina mi ha enunciato con stringata precisione tutte le possibilità per l'agognato incontro con Fabrizio. Ovviamente, date le mie tasche non proprio floride, ho chiesto subito del conquibus: mi è stato risposto che per un'ora e mezzo di incontro al prossimo viaggio disponibile, a causa del non elevatissimo numero di richiedenti e della logica offerta promozionale, mi sarebbe stato offerto il viaggio (compreso il biglietto aereo A/R per Cleveland) a soli 2500 euro. Duemilacinquecento euro. All'anima della promozione! Ho detto seduta stante alla signorina che ci avrei pensato, con la promessa di richiamare.

Ma porca zoccola, 2500 testoni. Anche raschiando il fondo del mio asfittico conto in banca, ne avrei raggranellati si e no duemila; sempre la solita storia, it's the same old story, Richard. Però -mi sono detto- almeno un tentativo andava fatto; sì, lo so, poi sarebbero stati mesi di cinghia stretta, magari ti avrebbero staccato il gas e la luce elettrica, avresti fatto il solco alla LIDL a comprare würstel rosa shocking, birra dal sapore di decotto di malva e il nuovissimo shampoo Cristolucido®, però dove la ritrovi un'occasione del genere per andare a vedere Fabrizio de André nell'aldilà? E se poi ti passa la voglia? E se la SVI Italia non ha successo e chiude? E se la Chiesa Cattolica si mette a rompere i coglioni (cosa che, come dubitarne, ha già abbondantemente fatto)? Meglio cercare di rimediare i cinquecento euro mancanti, che in qualche modo si trovano. Il giorno dopo ho riagguantato la cornetta e mi ha risposto un'altra gentilissima signorina dall'accento foggiano.

Iscrizione rapidissima, dati personali, indirizzo per l'invio dei biglietti e della documentazione ed estremi per il bonifico bancario (pagamento anticipato, naturalmente!); davvero un modello di efficienza, debbo riconoscerlo. Anche le avvertenze per il viaggio, che in pratica si riducono ad una sola: quella di farsi trovare puntualissimi sia all'imbarco per la partenza che, soprattutto, a quello per il ritorno:

- Signor Venturi, è nostro dovere avvertirla che un ritardo, per qualsiasi motivo, all'imbarco nell'ascensore di ritorno costituirebbe un grave pericolo di non ritorno...

- Scusi...?

- Le spiego meglio. Per la particolare natura del viaggio e per la tecnologia ancora perfezionabile, è possibile soltanto un solo viaggio di andata e ritorno per il tàrgiett prescelto...

- A proposito, signorina: ma De André dov'è, esattamente?

- Aspetti che controllo....ecco, dunque, De André Fabbrizzio, Settore K5 X2E, Purgatorio...

- Purgatorio?

- Così mi risulta dal terminale... Per il Purgatorio, oltretutto, non avevo visto prima, esiste un'offerta promozionale supplementare data la sua minore distanza, le posso rilasciare tutto per 2.150 euro IVA compresa...

- Bene, bene! Anzi benissimo (devo farmi prestare solo 150 euri, carajo)! Diceva del ritorno, anzi, scusi, del non ritorno?...

- Esattamente...per semplificare la cosa, le dirò che l'ascensore deve ripartire esattamente al minuto e al secondo stabilito. Senza sgarrare di un picosecondo. Un eventuale ritardo comporterebbe...dunque mi lasci controllare...

- Prego...

- Ecco qua. Il viaggio di ritorno per gli eventuali ritardatari è previsto esattamente il 19 agosto 2670. Mi sono spiegata?

- Alla perfezione. In pratica...

- In pratica, non si attardi per nessun motivo. Altrimenti dovrà restare in Purgatorio fino al 2670. A tale riguardo, prima della partenza dovrà firmare una liberatoria di presa conoscenza del rischio, ma non si preoccupi eccessivamente: gli accompagnatori seguiranno il gruppo per tutta la durata dell'incontro e il rischio è soltanto teorico.

- Ho capito.

- Posso considerarla iscritto, signor Venturi?

- Senz'altro. Entro quando riceverò la documentazione?

- Entro due giorni dalla ricezione del bonifico, per corriere espresso UPS. Nella documentazione saranno contenuti i biglietti aerei in Pezzent's Class su volo di linea Baudel Air dalla Malpensa per Cleveland. Benvenuto nella grande famiglia della Sciupernèdural Vuaiàgge, signor Venturi, e arrivederci!

- Arrivederci!

Ecco, arrivederci. Chissà perché, riattaccata la cornetta, mi frullava in testa quella parola. In realtà lo sapevo benissimo, accidenti se lo sapevo. Anni prima avevo scritto una curiosa cosa in cui, tra gli altri, c'era Fabrizio de André. C'era anche Piero Ciampi, e c'erano anche tutta una serie di persone di cui..., ma vabbé, questa è tutta un'altra storia. C'era Fabrizio de André e c'era una bizzarra nave sulla quale era imbarcato. Mi guardavo attorno. La mia casa, le mie cose. Il gatto della vicina, Niccolò Machiavelli, che occhieggiava con la suo allegro muso da schiaffi. I piatti da lavare e il letto da rifare. Duemilaseicentosettanta euro. Ah, no, duemilacentocinquanta. Duemilaseicentosettanta è se....uhm, meglio non pensarci, tanto oramai sei iscritto.... Quella compagnia aerea, la Baudel Air, però, mi convince poco. Mai sentita nominare... vado sul suo sito, e vedo che ha un albatro come simbolo...

(1. continua)


29 settembre 2009


lunedì 28 settembre 2009

Ah, il Diciotto


Lo scorso anno, giusto di questo periodo qua (sarà la fine dell'estate o l'inizio dell'autunno?), mi ero messo a andare verso il Diciotto. Chiaro che, essendo fine settembre, quel diciotto doveva essere di un qualche mese dopo; altrimenti non sarebbe stato verso. Sarebbe stato indietro al, o qualcosa del genere; e invece no, era proprio verso.

Ci stavo andando, verso quel Diciotto, con una serie di post in cui avevo deciso, más o menos, di raccontare un bel pezzo della mia vita. Non che la mia vita interessi a qualcuno; ma un blog, almeno così come lo vedo io, non è nient'altro che un diario tendente allo zibaldone (senza ovviamente scomodare minimamente Giacomo Leopardi). In una cosa, però, sono sempre stato piuttosto rigoroso: essendo il mio diario (o il mio zibaldone), dall'Ekbloggethi sono banditi i copiaincolla, le citazioni più o meno interessanti e/o corpose, e quant'altro del genere. Certo, ogni tanto (ma veramente ogni tanto) c'è una canzone o una poesia; ma si tratta di rarissime eccezioni. Qui dentro c'è soltanto farina del mio sacco, ed è una cosa di cui vado schifosamente orgoglioso. Non credo che sia un male, a volte, provare un granello di orgoglio.

Vuol dire essersi messo, a partire dal 14 maggio 2007, a pensare e scrivere delle cose. Giuste, sbagliate, belle, brutte, squinternate o mediocri; ma sempre con due centesimi di ragionamento proprio. Senza delegare niente a nessuno, nemmeno al più grande scrittore, poeta o filosofo dell'umanità. Hanno tutto il mondo a disposizione, e beninteso anche centinaia di altri blog. Qui dentro entrano soltanto, e pochino, quando lo decido io. Arrogante? Presuntuoso? Prendetela un po' come volete; la cosa non mi tange neanche un po'.

Ci sono storie che, nessuno lo creda, non sono fatte per “strappare” alcunché. Le ho fatte leggere anche, a volte, a persone cui non sono piaciute affatto, comprese quelle elbane cui tengo smodatamente. Non importa niente. Anzi, è importantissimo che alcuni non le trovino né interessanti, né ben scritte. Fa stare coi piedi per terra, e non solo: fa continuare a scriverle per l'unica cosa degna di questo mondo: il gusto ed il piacere di farlo. Ci sono racconti, scemenze, prese di posizione, tutto quel che mi passa più o meno quotidianamente per la testa.

Ci sono anche storie che dovevano essere una sorta di ciclo (o un feuilleton) e che sono abortite dopo poco. Si vede che, per un motivo o per l'altro, avevo perso interesse a scriverle. È un rischio che esiste sempre per chi scrive cavando esclusivamente da se stesso. Rimane comunque quel che è stato scritto finché è durata accesa quella povera scintilla di creatività; quando la scintilla si spegne non c'è più niente da fare. Oppure ci possono essere episodi che cambiano il corso delle cose; episodi che, a loro volta, sono scintille, fiammate, bagliori. Di blog come questo ce ne saranno a centinaia di migliaia, per non dire a milioni; ma io l'ho sempre inteso come una registrazione fedele di me stesso. Gnudo e crudo. E, in questo, è del tutto unico perché io sono unico e non ci sarà proprio mai un cazzo di nessuno che mi somigli. E non desidero somigliare a nessuno.

Quando andavo verso il Diciotto, lo scorso anno, questo blog si chiamava ancora Sblògga te stesso. Ho sempre creduto, e lo credo tuttora, che fosse un titolo orrendo. Doveva essere una specie di gioco di parole tra blog e sblocca, tanto da averci addirittura creato sopra un finto verbo greco all'imperativo aoristo, che riproducesse il famoso γνῶθι σεαυτόν. Avevo, prima di questo, tentato di scrivere altri due blog: il primo era una specie di capostipite dei Black Blog (in realtà sicuramente ce ne saranno stati a decine prima del mio, ma mi ha fatto a volte ghignare vedere quanti poi ne siano venuti dopo) e il secondo un tributo a Galenzana. A un certo punto è finita la scintilla anche per loro. Come muore un blog? È semplice. Si comincia a non scriverci più niente. Perdi l'interesse a mandarlo avanti. Non te ne frega più un accidente. E mi era successo due volte. Al terzo tentativo, rinata la scintilla, mi ero ripromesso di sbloccarmi; da qui il giochetto di parole decisamente improvvido.

Appartiene ai misteri di una persona, ché una persona ne racchiude tanti in sé quanti l'universo, capire perché al terzo tentativo questa scintilla dura da quasi due anni e mezzo e non accenna a spegnersi. Lo sblòggo è avvenuto. Accettavo commenti, rispondevo, mi pigliavo approvazioni e ramanzine, considerazioni e spam, battute e deliri, tutto quanto. Un bel giorno, quando il famoso Diciotto era curiosamente già passato e mi chiedevo come risolvere la questione (andando naturalmente Indietro al Diciotto, Back to Eighteen eccetera), è cambiata ogni cosa. Non mi è andato più di interagire in rete. Ci sarà un motivo perché si chiama rete, e nelle reti di solito ci rimangono impigliati i pesci. Esattamente quel che mi stava succedendo: restare impigliato in una commedia, come un pesce grosso e goffo. E a me non mi si impiglia da nessuna parte.

Così, via lo Sblògga te stesso ed ecco l'Asocial Network. Via i commenti, così si torna a scrivere esclusivamente per farlo, e non per sperare in lodi, per temere una critica, per vedere come quella data persona reagisce. Rimane l'Ekbloggethi Seauton come una sorta di “marchio di fabbrica”; oramai c'è. Arriva la possibilità di contattare l'Asociale soltanto per telefono o di persona. Soltanto. In un anno di Rete Asociale mi è successo, in tutto, sei volte. Sei persone che mi hanno telefonato. Una di esse l'ho conosciuta, all'isola d'Elba lo scorso agosto. Ed è una cosa che non vi dico. Sentire squillare il telefono con qualcuno che ti dice d'averti letto e di volere scambiare con te due parole a voce, e magari darsi appuntamento da qualche parte. E con questo mi fermo perché detesto trarre “morali”. Non sono né un maître à penser né il titolare di nessuna “scuola”. Non ho nulla da insegnare a nessuno. Non desidero partecipare all'ipertrofia di comunicazioni, opinioni e esternazioni bene ordinate in caselline. Non me ne frega niente di farvi sapere cosa mi piace da mangiare o quali film o cantanti mi garbano. Ancor meno mi frega di farvi sapere cosa sto facendo o pensando in questo momento. Se vi interessa tutto questo, leggete quel che scrivo. Non ve lo presento in nessuna paginetta iniziale.

Ma mi ero dimenticato, corpo di una pipa, di quel povero Diciotto. Sapete, quella cosa cui andavo verso. Doveva essere tutto un ciclo di post che, il Diciotto d'un qualche mese, doveva concludersi con una sorta di lettera, o resoconto, o racconto ad una persona di cui non so più niente, e non voglio sapere più niente, oramai da anni e anni. Qualcosa che somigliasse un po' al finale del Pranzo di Babette di Karen Blixen. Una scompaginata resa dei conti. Qualcuno si chiedeva cosa fosse successo, in definitiva, quel Diciotto. Mandavano commenti, anche fasulli. Persino qualche piccola trollatina di periferia con nicknames falsi. Mi ero fermato. Mi ero accorto all'improvviso di una cosa fondamentale, basilare.

Che, quel, Diciotto, non era successo proprio un bel niente. Che era una data qualsiasi, lontana, sbiadita. Un ricordo d'un passato remoto. Una sciocchezza da adolescente. Un verdesporco esangue dai padiglioni lerci. Un altro me stesso. Un vero e proprio, questo sì, arrivederci a ieri. Una cosa che non merita più né di essere ricordata, né di essere un anniversario o qualcosa del genere. Il ritorno a quella frase con cui, una volta, firmavo i miei post sui newsgroup: Er muoz gelîchesame die leiter abewerfen, so er an îr ûfgestigen ist. Si deve buttar via la scala, una volta che ci si è saliti sopra. Ed è questa, in definitiva, l'autentica resa dei conti. I conti sono stati resi e pagati. La scala va, finalmente e sul serio, nella spazzatura.

E così, magari, saranno appagate anche le "curiosità" di tale "Luana" (la bebisìtter?) e di talaltro "Michele". O forse no? Pazienza. Tanto anche loro sono nello stesso posto della scala.


venerdì 25 settembre 2009

Castelgandolfo



I lettori di questo blog, e anche di tutte le altre cose pubblicate nell'orbe terraqueo, sono ovviamente (e fortunatamente) dispensati dal conoscere chi sia tale Gandolfo Giovanni; ma, in un impeto di precisazione, dirò che si tratta di un oltremodo oscuro capogruppo di AN prima (e del PDL poi) al Quartiere 3 della città di Firenze. Tale tempesta precisatoria resterebbe però comunque vana, se non si precisasse ulteriormente che in detto quartiere 3 ha sede il CPA - Centro Popolare Autogestito Firenze Sud. In via di Villamagna 27/A, per essere ulteriormente più precisi; e ora non preciso più niente perché m'è bell'e venuto a noia.

La scorsa settimana, il CPA ha compiuto i suoi vent'anni di vita e di presenza nel quartiere e nell'intera città. Poiché, pur facendone più o meno parte ma non essendo per nulla incline all'agiografia o alla vuota idealizzazione, questo luogo è una presenza che si rivela tanto più importante quanto più la standardizzazione e l'omologazione della vita cittadina procedono a passo militare, dirò soltanto che una presenza, e soprattutto un'attività militante come quella del CPA dovrebbero essere oggetto di pubblico ringraziamento, dato che una città dove da 20 anni esiste e resiste un posto del genere ancora non dev'essere del tutto defunta. Invece no. Periodicamente, ad esempio, personaggi come il tizio di cui sopra e i suoi caporioni ripartono in tromba servendosi di non meglio identificati (anzi, mai identificati) "cittadini esasperati" e ordinando alla "stampa cittadina" tronfi paginoni di idiozie precotte partendo regolarmente da episodi assolutamente risibili.

Stavolta è toccato nientepopodimeno che ai fuochi d'artificio. Durante la festa per il ventennale (a cui è intervenuto peraltro un personaggio del calibro e della stazza -in tutti i sensi- di Carlo Monni, uno che invece di declamare Dante, leggere la Bibbia assieme alla Carfagna e dirigere Pinocchi e Tigri nella Neve non si è per niente dimenticato delle sue radici) sono stati lanciati alcuni fuochi d'artificio, peraltro regolarmente autorizzati. I fatti devono essere andati così: qualche cittadino, magari neppure per "protestare", deve avere telefonato ai Vigili Urbani per domandare di che cosa si trattasse. Un par di giorni dopo, eccoti il Gandolfo Giovanni, con il gentile e prono ausilio de "Il Firenze" (indebitatissimo foglio della catena "E-Paperopolis") che si lancia nella consueta pugna a base esasperazioni, nonsipuoppiuvvìvere, eglieoradifinìlla eccetera. Tutte le solite cose trite e ritrite, con tanto di interrogazione al Consiglio di Quartiere. Che fine facciano poi tali interrogazioni lo si è visto in casi analoghi, in cui il Gandolfo e gli altri consiglieri piddièlli nemmeno si sono presentati alla discussione consiliare.

Vorrei a questo punto ricordare una cosina simpatica sia al sig. Gandolfo sia al "Paperfirenze". Durante tutta l'estate, e spesso a ore ben più tarde, in tutto il territorio comunale e nei comuni limitrofi, fin nell'ultimo dei paesini, si lanciano fuochi d'artificio per le feste di santarelli patroni, da Sant'Elpidio Martire a Santa Cunegonda vergine, a cadenza settimanale. Io stesso, che abito all'Isolotto, ne avrò sentiti perlomeno quattro o cinque. Mi si potrebbe obiettare che il CPA si trova "in mezzo alle case"; ma, fermo restando che tali fuochi sono stati lanciati non certamente per la strada o verso le case, non mi risulta che nei suddetti paesini si vada a lanciarli in mezzo alla campagna o in lande desolate, ché magari Santa Cunegonda se ne avrebbe pure a male e gli manderebbe la pestilenza, la carestia e la segale cornuta. Mi ricordo anzi, quando abitavo vicino a Colle Val d'Elsa, di aver visto un bel lancio di fuochi d'artificio in mezzo al paese di Castellina Scalo, con relativo e meraviglioso incendio di un gruppo di automobili parcheggiate, sulle quali era caduto un bel raudone abortito. Una scena da non perdere, coi proprietari che volevano fare giustizia sommaria della Premiata ditta Pasqualino Ajello o roba del genere. Al CPA, invece, facciamo tutto da soli -come per ogni altra cosa-, senza "premiate ditte" e senza dar fuoco a niente.

Come sempre, invece, un pisciatissimo fuoco alla polveri vorrebbero darlo i signori Gandolfo eccetera, al pari di quel suo capetto che mesi fa è andato a farsi pigliare a pattonate & picchi ne' denti mentre scassava la minchia a degli onesti lavoratori di un negozio. Ma, come sempre, e nonostante il servizio messo a disposizione dal "Paperfirenze" con tanto di richiamino in prima pagina, non prenderà fuoco un bel niente. Con la precisazione (maremma, quanto preciso oggi!) che tali personaggi dovrebbero mettersi in testa una cosa fondamentale, e una volta per tutte.

Poiché (anche nel sublime articolo dell'Arruffapopolis) si parla, per bocca del Gandolfo, di un luogo come il CPA che "vive nell'illegalità a spese dei cittadini", vorrei ricordare che il CPA non costa un centesimo alla cittadinanza e che tutto, là dentro, viene sostenuto solo grazie alla militanza e al quotidiano farsilcùlo come una capanna dei suoi frequentatori. Ciò che invece costa alla cittadinanza, e assai, sono gli stipendi e le diarie dei signor Gandolfo. Stipendi e diarie che, almeno, dovrebbero essere erogate affinché tali signori si occupassero di cose serie, e non di scemenze come questa, poi strombazzate da una "stampa" che di "libero" oramai non ha più nemmeno il nonno interpretato da Lino Banfi. Nella costante illegalità morale della loro perfetta inutilità e dannosità politica e sociale ci vivono questi signori, non il CPA.

In ultimo, vorrei dare al sig. Gandolfo un fattivo suggerimento.
Affinché, finalmente, si decida a fare qualcosa di veramente utile al mondo, abbracci la carriera ecclesiastica; e se lo dico io, che certo non sono un seguace di Santa Romana Chiesa cattolica e apostolica, ci può credere. Anche l'ultimo dei parroci di campagna svolge comunque un servizio più utile e intelligente di sedicenti "consiglieri di quartiere" che perdono il loro tempo, ma non a gratis, per presentare "interrogazioni" su dei fuochi d'artificio.

Una volta, finalmente, fattosi prete potrebbe pure ambire, un giorno, ad essere eletto al Soglio Pontificio. Altro che Consiglio del Quartiere 3! Con il nome che porta, potrebbe persino passare le vacanze (che per i papi, data la loro grave età, si chiamano "periodi di riposo") nella secolare tenuta che reca il suo nome. A Castelgandolfo il Gandolfo, qui sibi nomen imposuit Phantacalcii Primi. Nel frattempo, come semplice parroco, potrebbe guidare la festa patronale di San Teobaldo con relativa processione, cenone in piazza e spettacolo pirotecnico. Certo che nessun "cittadino esasperato" e nessun "Paperfirenze" protesterebbero.


Nella foto: L'ingresso della possibile nuova residenza del consigliere quartierale Giovanni Gandolfo.

lunedì 21 settembre 2009

*Dyauw


Τρελά κύματα σ'αυτές τις ημέρες. Fatica di lavoro, e tanta voglia di ricordare senza dare troppo a capire, senza esporsi eccessivamente. Periodicamente, tutto cambia; e mi fanno sempre più ridere (anzi, ghignare) coloro che si pascono nel superamento dell'esistente marxiano senza cambiare un milligrammo della loro vita. Nulla. Mai sentito parlare tanto di movimento quanto da coloro che stanno sempre, disperatamente, immobili.

La porta è, come quasi sempre, aperta nella notte. Rumore di traffico lontano, un bicchiere di vodka pensando al tequila. Mi ero troppo abituato al tequila, e allora ho sentito il bisogno di provarne nostalgia; le abitudini sono cosa che promana dall'inferno. Le abitudini sono segno di trista vecchiaia. Bisogna, scientemente, rinunciare a qualcosa che si ama molto per ritrovarla, un giorno che sa di sole, a segnare un nascosto trionfo di quelli che nessuno saprà mai perché non li si sa dire. Come Nancy che ti dice "amore, sono contenta che sei venuto" nel buio della notte, con un bicchiere colmo di Herradura in mano.

Vodka, sambuca, e qualcosa che assomiglia a dio. Ma etimologico. *Dyauw, come Franz Bopp ebbe a ricostruire basandosi sulle corrispondenze tra il sanscrito (dyauh), l'avestico (daevas), il germanico (*tiwaz) e il latino (deus, da un più antico *dewos). Tutto imparentato con la luce, con il giorno: "dio" e il "giorno" (dies) sono la stessa parola. Assomiglia a dio perché oggi è autunno, e il giorno scema, e la vendemmia sale, e il pensiero alle cose antiche aiuta a ricacciare via baschi rossi in testa a bambini piccoli, moderne idiozie comunicatazzanti, morti nel dodici d'agosto, immagini che si accavallano, tutto. La luce è una conquista dura.

Succede che, con queste cose in testa, entri in un negozio a comprare un po' di pane. È un negozio che conosci fin da bambino, nel quartiere dove sei nato. C'è, al banco, una signora rumena di mezz'età; ti ci diverti, ogni volta che ci vai, a scambiare due parole nella sua lingua; con gentilezza e anche un granello d'allegria. Arriva il signore anziano a commentare; ma sentili questi, sono in Italia e non parlano italiano, glielo farei vedere io a questi qui! Al che, *Dyauw mi prende per mano.

Mi sforzo di fare l'accento più sanfredianino che mi riesce. Gli metto soavemente una mano sulla spalla, e non ho le mani piccole. Senti, pallino, io so' nato qui che forse allora ti si rizzava ancora. Perché 'un tu compri icché tu devi 'homprà e ti levi da tre passi? La signora rumena mi lancia uno sguardo che quasi sembra che mi voglia sposare; il caponegozio ride sotto i baffi che non ha. L'anziano signore è un pochino spaventato. Quel dio etimologico della luce dovrò ringraziarlo di avermi fatto grosso grosso, prima o poi. Negli ultimi tempi me ne ero un po' scordato, colpevolmente.

Via dalla comunanza con l'accondiscendenza. Si passa oltre. Si comincia, o si ricomincia, a fare come nello Spiritual di De André: scendi dal cielo e vienimi a cercare. Mica dio; il tequila. Il tequila è qualcosa che torna incontro nelle sere d'inizio autunno, e la luce arriva a grappoli, e dà sguardi esatti come un coltello. Liquidi. Ventosi. Come quando il mare arriva a buttarti in faccia i primi spruzzi freddi, a testa bassa, di notte, spossato e millimetricamente invincibile.

venerdì 18 settembre 2009

Fatti del giorno


Fatti del giorno, in un giorno in cui non avevo la benché minima voglia né di restare a casa, né tantomeno di starmene al computer (per lavoro o per altre cose).

Innanzitutto, sembra che il buontempone (o i buontemponi) che, qualche mese fa, hanno fabbricato una finta pagina Facebook a mio nome si siano rifatti vivi, almeno momentaneamente. A suo tempo ebbi una reazione piuttosto violenta e scomposta; stavolta il metabolismo ha fatto il suo dovere (sempre con la doverosa avvertenza, per chi mi legge, che se per caso incontrassero in rete una pagina Facebook a mio nome e con la mia fotografia, comunque non sono io e si tratta appunto di quella falsa pagina “va-e-vieni”. Inutile quindi contattarmi, dato che su quella pagina non ho alcun potere né accesso).

Parlo di metabolismo, perché quando mi è stata segnalata la cosa ero in tutt'altre faccende affaccendato. Ne accennerò brevemente. Avevo con me, sopra un furgone attrezzato, tre ragazzi disabili gravi che stavo riportando a casa da un istituto specializzato, dove sono tenuti il giorno. Alla notizia non ho avuto nemmeno un moto di disappunto; si vede che, per me, la scuola di pensiero non è ancora ricominciata, e che devo essere ancora in vacanza. I facebucchisti potranno dormire sonni tranquillissimi e addirittura continuare, se proprio così loro aggrada, a provare a far finta di essere Riccardo Venturi. Oh, si vede che si divertono così! Si ritroveranno magari mie ex fidanzate, miei antichi compagni di scuola e altra roba del genere; magari nasceranno strani intrecci, con il finto riccardoventuri che si sposa con la ex del riccardoventuri vero, oppure il mio vecchio compagno di classe che scopre alla fine che sua moglie è l'amante del riccardoventuri finto (sperando naturalmente che non venga in via dell'Argingrosso a pugnalare il riccardoventuri vero). Proprio forte 'sto Facebook, in fondo. Sono rimasto tra le 14 persone al mondo che non vi sono iscritte, però fo e disfo coppie lo stesso!

Il bello è che, a un certo punto, spinto da un moto di legittima curiosità e trovandomi sul luogo di lavoro di mio fratello, che ha una sua pagina Facebook, gli ho chiesto di accedere alla “mia” e di farmela vedere. Mi sarebbe, ebbene sì, garbato vedere cosa era stato messo come mio panino preferito, e magari anche se il mio alter ego sa che impazzisco per le croste di parmigiano fritte nell'olio. Nulla da fare: nemmeno un'ora e mezzo dopo, la pagina era stata già tolta. Sembra quasi la statua del rivoluzionario Max Hoelz, che periodicamente scompare e ricompare; ritroveranno anche la “mia” pagina Facebook, un giorno, in una casa di Hettstedt?

Ma avevo detto fatti del giorno, al plurale. Altri fatti del giorno abbastanza importanti sono stati l'avere imparato finalmente come funziona quella maledetta pedana mobile dell'auto 42 e una cena al CPA con delle meravigliose bistecchine di maiale fatte veramente a regola d'arte. Ben innaffiate. Volevo, anzi, restare addirittura lì a dormire; poi ho visto in quali condizioni erano i dormitori e ho preferito affrontare il lungo viaggio verso casa mia sfidando le minacce degli etilometri. Mi è andata bene; d'altronde, se non mi fosse andata bene non sarei qui a scriverne.

Ci sono stati altri fatti, certamente, oggi; ma non intendo parlarne molto. Non mi interessano i cordogli e le lagrime in nome di stipendi che variano da circa 4000 a circa 8000 euro al mese, neppure quelli delle famiglie che, se fossero state veramente tali, avrebbero almeno cercato di impedire ai loro cari di andare in guerra, volontariamente, come mercenari. E poi mi chiedono come mai io detesti l'istituzione della famiglia: non è buona veramente a nulla. Leggo qua e là, come sempre, persino di ragazzi mandati a morire: i ragazzi mandati a morire sono quelli che si trovano là attorno, per caso, e che non c'entrano un accidente. Quelli che passano armati fino ai denti, fanno la guerra; e in guerra ci sono soltanto obiettivi militari. Così funziona il cocktail tra “obbedienza” e soldi: ha un deciso sapore di bara. No, questo fatto del giorno mi interessa davvero poco per non dir punto. Molto meglio Facebook con le sue pagine, finte o vere che siano. Molto meglio le bistecchine di maiale. Molto meglio addirittura i dormitori lerci del CPA. Tutto questo è vita. Non mi attengono né la morte, né le patrie, né le lacrime napolitane.


mercoledì 16 settembre 2009

Costruirono altiforni


In questo blog vi sono molte "storie elbane"; però, accanto alle storie, ogni tanto è bene raccontare un po' anche la Storia. Nelle storie si può e si deve usare l'immaginazione, mentre per la Storia ciò non è lecito; ed è per questo che se ne devono specificare chiaramente le fonti. Per me consistono, oltre che in alcuni racconti diretti di famiglia, nel vecchio e straordinario volume Come Eravamo, formato oltre vent'anni fa da una serie di dispense pubblicate dal quotidiano Il Tirreno, a cura della sua redazione elbana. Casualmente, poi, sul contenitore in rete Mucchio Selvaggio, ho ritrovato tutte le fotografie relative. Alcune di esse sono riprodotte in questo post. Ovviamente, poiché di Storia si tratta e non di storie, chi volesse segnalarmi imprecisioni, correzioni e/o integrazioni mi scriva (k.riccardo@gmail.com) o mi telefoni; sarà sempre gradito.

Poco più di cento anni prima della Thyssen Krupp, il 27 agosto 1907, le acciaierie di Portoferraio erano oramai in piena attività produttiva. Lo erano da quasi cinque anni; la prima pietra del nuovo complesso industriale era stata posata nel 1901, nell'area delle vecchie saline di San Rocco. Nell'Isola del Ferro era stato deciso, così com'era già avvenuto a Piombino, dall'altra parte del canale, di cominciare a fabbricar l'acciaio; a Genova, nel 1899, era stata costituita la Elba Società Anonima di Miniere e Altiforni. Nel 1902 erano stati montati i gasometri; alla fine dello stesso anno iniziò la produzione, la prima in Italia con il processo di fusione Bessemer.

In una zona di saline, frutteti e case coloniche era venuto su un orrendo stabilimento con gli altiforni e due enormi ciminiere, proprio di fronte alle fortificazioni medicee; Portoferraio, e tutta l'Elba, oramai avrebbero accolto con quel panorama.



Ma era un panorama che significava lavoro per tutti gli elbani, e non soltanto per loro: negli anni più floridi arrivavano lavoratori da tutta Italia, e persino dalla Corsica. Un'autentica rivoluzione sociale per l'Elba, vissuta per secoli ripiegata su se stessa nonostante il lustro e la fama datale dal breve regno di Napoleone; da un giorno all'altro, si ritrovò popolata di amiatini, di sardi, di lombardi, liguri, napoletani, emiliani. Fino ad allora, i
lombardi erano stati soltanto i lavoratori stagionali; un mio zio acquisito, Borzino Pietro, vi era arrivato con la famiglia all'età di due mesi, da Robbio Lomellina in provincia di Pavia.

Dall'antico nome latino dell'isola, quello ricordato già da Virgilio nell'Eneide, prese nome anche lo stabilimento; si chiamò Ilva. Ma che sull'isola, fin dalla più remota antichità, si lavorasse il ferro lo si vede anche dal suo ancor più antico nome greco, Αἰθαλία, che probabilmente vuol dire “scintillante”; oppure, com'ebbe a intitolare l'ammiraglio Antonio De Giacomo un suo oramai introvabile libretto, “l'Isola dei Mille Fuochi”. Le “scintille” che avevano colpito la fantasia degli antichi dovevano essere proprio i fuochi delle primitive fornaci dove si fondeva il ferro, viste dal mare nel buio della notte; ed è per questo che intere generazioni di traghetti in servizio nel canale si chiamano Aethalia.

All'inizio del XX secolo, Portoferraio (o, come si usava scrivere allora, Porto Ferrajo) diventa una città industriale; sembra la fine della miseria per la città e per tutta l'isola. I contadini si fanno operai e vengono a contatto con altri lavoratori arrivati da realtà che più diverse non si possono immaginare; nascono le prime tensioni sociali, il primo associazionismo, il sindacalismo. Si formano i quartieri popolari attorno a via Carducci e a Carpani; nasce un proletariato urbano. Quando si costituisce la prima Camera del Lavoro dell'Elba, nel 1904, la maggioranza va immediatamente all'anarco-sindacalismo. La paga dell'operaio, relativamente all'epoca, è decente; il lavoro, però, è massacrante e pericoloso. Le norme di sicurezza sono pressoché inesistenti.

All'Ilva, poi, si producono soltanto i materiali grezzi, da inviare poi ad altre acciaierie per l'ulteriore lavorazione. Dal punto di vista tecnologico, gli esperti dicono che, nonostante l'innovativa fusione Bessemer, si tratta di uno stabilimento nato già vecchio; la concorrenza adopera tecniche più all'avanguardia, più complete. Ma Portoferraio beneficia comunque della grande spinta alla siderurgia data dalle guerre coloniali italiane, prima di tutte quella in Libia del 1911; lo stesso anno in cui, all'albergo L'Ape Elbana, muore Pietro Gori (ma, secondo altre fonti, sarebbe morto invece al secondo piano del Palazzo dei Merli, sulla Calata Italia, poi totalmente distrutto dai bombardamenti del 1943). Una copia manoscritta di Addio a Lugano è tuttora conservata presso l'archivio comunale. Ma all'Elba si vedono in quegli anni i padri nobili dell'anarchismo italiano, a cominciare da Errico Malatesta.

Con gli stabilimenti, Portoferraio e l'isola tutta vivono un periodo di relativo benessere; o, perlomeno, escono da una fame di secoli. Completati gli stabilimenti e avviata la produzione, viene costruito un ponte Hennin per il trasporto dei carrelli dell'acciaio dalla fabbrica fino all'imbarco; si trovava, più o meno, dove ora attraccano i traghetti davanti all'Hotel Massimo. In una foto, sotto al modernissimo ponte Hennin si vede però un cavallo; all'interno dello stabilimento, i trasporti più faticosi e pesanti si fanno ancora con robusti cavalli da tiro e coi carri.


La città si espande, per la prima volta nella sua storia, oltre le mura; se nel 1890 aveva poco più di 3000 abitanti, nel 1911 ne ha già quasi diecimila (in pratica, quelli attuali). In un'altra foto si vede invece un altro mezzo utilizzato per i trasporti all'interno dello stabilimento, un carrello elettrico dalla forma bizzarra che tirava dei piccoli vagoni; gli operai lo chiamavano La Mariannina, forse perché ricordava, in maniera non certo lusinghiera, le forme di una qualche portoferraiese. In seguito si usarono addirittura delle locomotive a vapore e furono costruiti dei binari: gli unici treni che siano mai stati visti all'Elba.




Niente fu mai acquisito a buon mercato. Quanto costasse quel poco di prosperità, e quanto costasse avere un padronato, Portoferraio e l'Elba lo vide quasi immediatamente. Quella mattina del 27 agosto 1907, ad esempio. Uno dei nuovi altiforni, all'improvviso, si spacca. La ghisa liquida sfonda la camicia come burro e entra a contatto con l'acqua delle vasche di raffreddamento; esplode ogni cosa. Tra i lavoratori si contano tre morti e 59 feriti; tutta la città si accalca ai cancelli dello stabilimento, disperata. L'esercito dei morti e dei feriti sul lavoro che è sempre in marcia, senza fermarsi mai. Il giorno dopo, sui muri di Portoferraio, si legge un'espressione mai vista prima sull'isola: Sciopero generale. Viene fatto; poi si ricomincia a lavorare. Non si può fare altro. Guerre, padroni e fascismi vogliono acciaio su acciaio.

Prezzi da pagare, per tutti. Per la mia famiglia, che ha anch'essa un morto in quello stabilimento: mio nonno materno. Un altro incidente; come risarcimento toccò una mesata “straordinaria” di lire quattrocentoundici, tanto perché non si dica che una vita non ha un prezzo ben preciso. Quello era il prezzo in vigore agli Stabilimenti nell'anno 1935, quando avvenne il fatto; mia madre, cioè sua figlia, non aveva nemmeno due anni all'epoca. Lei non si è mai ricordata di suo padre, e per me un nonno non è mai stato altro che poche fotografie sempre più ingiallite, custodite in una vecchia scatola di metallo nel canterano di casa.

Prezzi da pagare, per tutta l'isola. Stabilimenti che producono acciaio a fini bellici sono obiettivi militari primari, e attirano sull'Elba tutti i bombardamenti di questo mondo. Cinquant'anni di storia, di scontri, di formazione di una coscienza di classe, di morti, di racconti, di cazzottate fra gli operai e i marinai inglesi che portavano il carbone, vengono cancellati nel 1943 dalle bombe dell'aviazione Alleata. I quartieri popolari formatisi attorno alla fabbrica sono duramente colpiti; il 16 settembre 1943, gli Stukas tedeschi faranno il resto, abbattendo mezza Portoferraio. Esattamente sessantasei anni fa; pochi giorni dopo toccherà al piroscafo Sgarallino, silurato da un sottomarino inglese, lo HMS Uproar, davanti a Nisportino. Delle 334 persone a bordo, fra passeggeri ed equipaggio, se ne salvarono solo quattro.

Gli Stabilimenti sono completamente distrutti, sventrati, morti. Nel dopoguerra si parla di ricostruirli, ma non viene giudicato realizzabile.


Il 1° agosto 1948 l'Ilva suona la campana: chiusura definitiva della fabbrica, smantellamento e licenziamento degli oltre mille dipendenti. Gli operai occupano quel che ne rimane, ma è tutto inutile nonostante la lotta sindacale senza quartiere e dei violenti scontri. L'Elba ripiomba nella miseria, nell'arrangiarsi, nei campi e negli orti; mentre già sbarcano da qualche traghetto rugginoso e malandato delle persone che, passata Portoferraio semidistrutta, si addentrano in una specie di paradiso incontaminato che i loro successori, poi, contamineranno.


sabato 12 settembre 2009

Compagno Mike, presente!


Fischia il vento, fiato alle trombe
tante domande, eppur s'ha da rischiar
per conquistare trecento bei milioni
che ci servon per il nostro avvenir

...per conquistare trecento bei milioni
che ci servon per il nostro avvenir

Studio 10, s'avanza il Campione
ogni donna a lui dona un sospir
mentre Mike sfoglia le cartelle,
ci sa dir cosa sono i menhir?

...mentre Mike sfoglia le cartelle,
ci sa dir cosa sono i menhir?

Or che l'ha colto la crudele morte
portano a spalla il grande partigian
Pippo Baudo, Fiorello e qualche escòrte
si cordoglia anche Napolitan

...Pippo Baudo, Fiorello e qualche escòrte
si cordoglia anche Napolitan

Cessa il vento rosso come il vino
l'ultimo addio al fiero partigian!
Ci beviamo una grappa Bocchino
vittoriosi, e alfin liberi siam!

...ci beviamo una grappa Bocchino
vittoriosi, e alfin liberi siam!


martedì 8 settembre 2009

Il Manuale delle Giovani Marmotte



Oggi ho fatto una buona azione.

Stavo tornando a casa dopo aver fatto un servizio d'ambulanza. Portare a una casa di riposo una vecchina di cent'anni secchi, incazzata nera. Da non tenerla, povera donna. Così hanno deciso i figli, vecchi a loro volta; e non c'è nulla da fare. Hai voglia a avere cent'anni ed essere campata per cinquanta o sessant'anni nella stessa casa; ti vietano di morirci. Ci stavo pensando quando, per strada, ho visto una MG verde del 1966 (non che sia così esperto: me lo ha detto il proprietario, che era del 1966). Qualcuno saprà della mia passione per le vecchie auto, su cui ho fatto pure un blog (mi pubblicizzo? Ebbene, mi pubblicizzo!); mi sono fermato a fotografarla.

Mentre fotografo, accosta un'auto di grossa cilindrata, targata Roma. C'è una coppia, a bordo, di mezz'età. Vestiti entrambi di tutto punto; lei, addirittura, elegantissima. Io sono vestito ancora da ambulanza: pantaloni gialli con le bande fosforescenti, maglietta gialla e, tanto per aggiungere un tocco che manca, pure una passata gialla tra i capelli. Oramai ce li ho talmente lunghi che, senza la passata, sembrerei il cugino It della famiglia Addams. Mi chiedono un'indicazione; ed è difficile figurarsi di essere talmente fuori strada. I due sono totalmente nel panico.

Tutti hanno chiesto, almeno una volta nella loro vita, un'indicazione. Tutti ci siamo smarriti in una città che non conosciamo, e nel senso più vasto della cosa. Arriva qualcuno e, con fare sicuro, ti dice: giri la prima a sinistra, poi dritto fino al quinto semaforo, poi giri a destra, poi la seconda a sinistra, si ritrova in una piazza con il monumento a Janis Joplin che fa la calza, di là prenda la seconda a destra in senso orario e poi chieda a qualcun altro. Mi è capitata spesso una cosa del genere. Per questo, ostinatamente, quando mi perdo in qualche posto che non conosco preferisco andare a lume di naso. Anche perché non c'è traccia di Janis Joplin che fa la calza, e sono invece davanti ad un ottaedro di bronzo da cui fuoriesce una carota col ciuffo, intitolato Questioni irrisolte.

Mi guardo due secondi attorno, poi decido di accompagnarceli io, in quella via dove vogliono andare. Mi guardano in modo strano; con un sorriso assolutamente ebete (li so fare benissimo, i sorrisi ebeti) dico loro di seguirmi e rimonto in macchina. Parto. Mi seguono. Con le quattro frecce ancora accese. Me ne accorgo e, dal finestrino, faccio loro segno di spengerle; il gesto passepartout di alzare e abbassare le dita della mano, quello che vuol dire “spengi o accendi qualcosa”. Non le spengono. E pensare che, preso dall'impeto della buona azione, sto persino facendo delle vie traverse per evitare i viali intasati dal traffico. E sinist', dest', front' avant'e indrè; fino ad arrivare, finalmente, nella via desiderata. Faccio cenno alla targa stradale e accosto per salutare i due.

Accostano pure loro, tiro giù il finestrino e dico semplicemente: Ecco, la strada è questa, siete arrivati. Mi guardano. Ringraziano. Ma a me interessano gli sguardi della gente. Hanno, negli occhi, un senso palese di sollievo; ma di quel sollievo che coglie quando si è avuta paura.

Chissà che avranno pensato, in quei dieci minuti di strada. Ma questo da dove è piombato? Ma dove ci starà portando? E se ci porta in un vicolo cieco dove i suoi compari lo stanno aspettando armi in pugno? Ne succedono di tutti i colori...te l'avevo detto di guardare bene la cartina! E ora questo qui...hai visto i pantaloni gialli da lavoro? Ce li hanno sempre quelli che rapinano i portavalori, per travestirsi da operai!

Tirano a diritto. Mentalmente faccio loro tanti auguri, visto che trovare da parcheggiare in quella strada, e in quella zona in generale, è un'impresa assolutamente epica. Mi fermo un secondo a fumare una sigaretta prima di ripartire. Magari, certo, sarà stata tutta una mia costruzione mentale. Magari era soltanto stupore, quello che i due avevano negli occhi; non si trova tutti i giorni, e lo so, un bischero per cui il tempo non è denaro e che può pure decidere di perderlo ad aiutare due sconosciuti smarritisi con il loro macchinone. Eppure mi sembrava proprio paura, a ripensarci. Pazienza. La mia buona azione l'ho fatta. Forse almeno una cacatina di due minuti in paradiso me la sono guadagnata; anche se il Padreterno, con un ghigno satanico, mi farà andare in un cesso alla turca.

domenica 6 settembre 2009

Grande Cristina!


Questo blog non esiste per riportare cose scritte da altre o altri; è uno dei suoi "princìpi fondanti", mi si perdoni tale espressione decisamente pomposa. Il copiaincolla è bandito rigorosamente. Però, per una cosa del genere, è un dovere e un piacere fare un'eccezione, e riportarla così com'è.

La foto e la trascrizione del manifesto di Cristina di Roma provengono da Femminismo a Sud, uno dei blog che più seguo e che si trovano anche nell'elenco di links a fianco. Ne parlerò sicuramente, e ben più compiutamente, in un futuro discretamente prossimo; per ora mi limito a dire che è una delle migliori cose che esistano in rete. Migliori, degne, incazzate, intelligenti, dure, autentiche. Vi sono scritte tutti i giorni delle cose che, come si suol dire, non "vanno più per la maggiore"; e, più che altro, si avverte che tali cose sono scritte sempre sulla pelle di chi le scrive, eliminando ogni minima cosa che assomigli anche da lontano a giri di parole. Quanto basta. Non ci conosciamo, l'autrice o le autrici del blog non sanno nemmeno che esisto, ma la cosa non ha nemmeno un filo d'importanza. Importa la comunanza, profonda. Mi sento di averla con ciò che quotidianamente viene espresso, discusso e raccontato in quel luogo; e qui mi fermo, perché il limite con il proclama ed il panegirico è labile. Proclami e panegirici sono cose che non desidero mi attengano.

Invito chiunque a andare a leggere il post completo; e, una volta fattolo, a andarsi a leggere tutti gli altri, e a seguire "Femminismo a Sud" quotidianamente. E ora passo a Cristina di Roma e al suo manifesto che ha affisso a Napoli. Semplicemente grande. Riporto anche il commento iniziale dell'autrice/delle autrici del blog.

Questo è un manifesto personale e politico scritto da una ragazza che si firma "Cristina di Roma". Chiara delle Degeneri ne ha fatto una foto e dice: "è uno dei manifesti apparsi a Napoli, scritto da una donna lasciata dal compagno, immagino. Ad una prima lettura. Ad una seconda lettura forse è l'analisi anche abbastanza lucida di una relazione -sentimentale e di potere- (sentimentale quindi di potere?) all'interno di una comunità -Politica o sociale-."

Contiene delle verità innegabili che potrebbero essere dedicate a tanti altri compagni di cui scopri l'estrema incoerenza proprio guardando il loro privato. Perciò è vero: siamo tutte Cristina di Roma. Buona lettura!

Piccola Storia Ignobile

E' facile dirsi compagni, innamorarsi delle parole scritte sui libri che parlano di chi la rivoluzione l'ha vissuta davvero.

E' facile, persino banale, fingersi emuli, di Durruti, Sabatè, Argala, per poi rivelarsi nella vita di tutti i giorni dei piccolo borghesi, reazionari e conservatori che nei fatti tradiscono gli elementi fondamentali di un rapporto reale tra esseri umani: la fiducia e il dialogo.

E' troppo facile fuggire di fronte a quell'io inconfessato e incoffessabile (anche a se stessi) che in realtà cerca la famiglia, la proprietà privata e il possesso. Non la vita e la libertà.

E' troppo facile dire: "è solo una storia d'amore finita" perchè proprio nell'infame genesi della sua fine (questa, si, infame), risiede il vero tradimento (questo, si, tradimento) di quei valori di un'altra umanità possibile, valori esibiti (come abiti alla moda) nelle chiacchiere serali davanti ad una birra con gli amici, ma calpestati nella pratica.

Chi per paura di se stesso scappa abbandonando l'altro alla violenza del gesto compiuto.

Chi è pronto alla mediazione col padrone rimandando al domani di un improbabile conflitto il superamento della propria, misera, condizione.

Chi attacca il compagno-compagna che gli tende la mano.

Chi non accetta il dialogo e il confronto, punti fermi di qualsiasi legame collettivo:

Chi è così non merita né rispetto né comprensione. Come non ha meritato la forza di un amore totale.

Tu che sei piccolo come il tuo soprannome cosa temi? Te stesso? La libertà?

Scrivevi:

"fidati di me, ho capito che hai ragione, non ci si può chiudere in rigidi schemi, ciò che conta è l'essenza profonda del rapporto, camminare nel mondo insieme, da compagni, tenendosi sempre per mano", "per me il personale è politico, cioè parte proprio da questo percorso di liberazione dalla schiavitù d'ogni vincolo legale, e stimolato da te mi si è messa in moto una maggiore conoscenza della libertà".

Hai sempre recitato parole che non ti appartengono. Ora taci.

Perchè tanti altri compagni hanno speso e spendono la loro vita per portare avanti queste parole con dignità e coraggio.

Cristina di Roma.


Di dentro, di fuori



Quella che vedete in questa foto è una galera. Non importerebbe neppure il suo “nome”, perché il nome di ogni galera è galera e basta. Viene distinta dalle altre con l'appellativo di “Sollicciano”, da un'antica plaga di campagna e di case coloniche, violentata dalla città che si è espansa; galera è.

Cliccate sopra la foto. Ci vedrete: un lenzuolo con un cuore rosso, o un asso di cuori; altri lenzuoli che sventolano dalle sbarre; qualsiasi cosa possa, dalle celle, dire che oltre quelle sbarre di quei blocchi di cemento armato disposti in diagonale, ci sono delle vite umane. Firenze, Sollicciano, 5 settembre 2009. Il 18 agosto, con 40 gradi di temperatura, questo ed altri carceri hanno preso fuoco.

Mille e passa detenuti in un carcere fatto per contenerne la metà. Anche otto persone in una cella. Docce inesistenti, temperatura infernale. Cibo da fare schifo a un maiale. Colloqui ridotti al minimo o aboliti. Condizioni di vita inumane, disumane. Questa è la galera. Chi ci è dentro, ha detto basta. Nel silenzio mediatico, perché il 18 agosto è meglio occuparsi d'altro, hanno protestato, incendiato, rivoltato. Pagheranno. In galera, qualsiasi cosa è un reato. Pagheranno di altro carcere, e di soldi loro. A Firenze e dovunque.

Tanto varrebbe che la facessero finita con la loro “Costituzione” di uno stato di merda, dove si dice che la “galera deve tendere alla rieducazione del condannato”. Tragiche balle, schifose idiozie. Che cancellassero una buona volta quell'articolo, e scrivessero: la galera tende all'annientamento, psichico e fisico, di chi vi è rinchiuso. La galera è un luogo di punizione e ad altro non tende. Sarebbe, perlomeno, una cosa non ipocrita.

Chi è fuori, davanti alla galera, prova un senso di smarrimento e di angoscia. Specialmente quando, da vicino, a occhio nudo, vede la presenza di persone manifestata da lenzuoli, da cose che sventolano senza che si possa vedere chi lo fa. Ben più vicino, ben più visibili, inferriate altissime e elettrificate, torrette, guardie armate. Mestieranti che hanno come attività quella di privare esseri umani della libertà, e non solo di quella. Privarle di ogni umanità, della pulizia, del cibo, di ogni residuo di dignità personale. Per uno schifoso stipendio mensile. Mai disprezzo sarà sufficiente nei confronti di questi servi.

Mai disprezzo sarà sufficiente verso lo stato, verso gli stati. Chi è fuori si ritrova lì, con un camion, un altoparlante, musiche, voci. Alcuni di coloro che sono là fuori, sono stati anche dentro. Conoscono, sanno. E sono lì.

Sono lì per tutti. Sono lì anche per persone a loro volta disprezzabili. Sarebbero lì anche per il cretino del “localino” alla moda, per l'imbecille ammiratore di Lapo Elkann. Per lui come per l'immigrato clandestino, per lui come per il disgraziato, per lui come per l'ultimo reietto di questo mondo. Per tutti. Per chiunque, un pomeriggio di fine estate, si rivolti e sventoli un asso di cuori e un lenzuolo. Per chiunque affermi la sua umanità parlando l'unico linguaggio comprensibile in un luogo del genere: quello della violenza.

Macché ideali, macché rivoluzione. Macché “contropotere”. Qui si sta parlando di condizioni di vita elementari. Belli i discorsi di tanti, compresi quelli che dicono che “non basta distruggere i muri per trasformare i detenuti in uomini”. Provino un po' a dirglielo ai detenuti; anzi, a uno solo di loro nel carcere di Sollicciano, senza doccia, senza niente e a quaranta gradi. Ho come l'impressione che, a pattonate nel muso e a calci nei coglioni, sarebbe chi lo dice che si ritroverebbe trasformato rapidamente in uomo. Alla velocità della luce.

Ché, davanti a quei muri, l'impeto alla distruzione è il primo. E chi è là fuori, non deve “manifestare” e urlare inutilmente. Deve pensare, e pensare per agire. In qualche modo. A partire dalle cose più semplici. “Migliorare le condizioni di vita” non dev'essere un palliativo, dev'essere una partenza. E, intanto, alle musiche e alle parole urlate dall'altoparlante, sventolano lenzuoli e bandiere. Significano: vi sentiamo. Anche se non possiamo vedervi. Significano: qualcuno non vi lascia soli, nel silenzio, nell'indifferenza, nel caldo atroce. Pochi con un camion, un altoparlante, delle bandiere il cui rosso vuol dire ben più che una posizione politica.



Come rispondono? Alle condizioni schifose di vita nelle carceri rispondono con le promesse di altre carceri. Rispondono con “certezze della pena”, che certa è soltanto per chi non ha niente, per i paria, per i nulla con due gambe e due braccia. Rispondono con forche e “giustizie”. Da là fuori si sentono grida di solidarietà; ma “solidarietà” è una parola che non significa nulla se non è seguita dal fare. Il nostro fare deve tendere ad abbatterle, quelle mura. A eliminare quelle sbarre. La società dello stato e della galera non deve esistere. La società dello stato mette in galera tutti.

E guardate ancora una volta quella foto; seppure, come tutte le fotografie, fissando un attimo lo uccidono. Provate per un attimo a immaginare di essere là dentro. Di sentire voci, urla, canzoni; ma di essere là dentro. Qualsiasi cosa abbiate fatto o non fatto. Provate a immaginare la vostra sensibilità. Provate anche a dire: Sì, bravi, intanto sono per una strada di merda, ma fuori. Poi provate per un attimo a immaginare di essere là fuori, a stabilire una forma elementare, rudimentale di comunicazione. L'unica possibile. In un tempo dove tutto si “comunica”, spesso in forme inutili e cretine, siamo là in duecento a cercare di comunicare sparando parole e suoni al massimo volume possibile. E loro rispondono, sventolando. Le parole e i suoni sono arrivati, ma non bastano. Comunque vada, qualunque cosa abbiamo dentro collettivamente e singolarmente, non ci fermeremo.


Magari, a certe festicciuole private, qualcuno si diverte a cantare questa vecchia canzone:




Però il 5 settembre 2009, alle ore 18, in via Girolamo Minervini, Sollicciano, Firenze, non s'è visto.

venerdì 4 settembre 2009

Settembre andiamo


Settembre andiamo, è tempo di migrare. Settembre poi verrà, ma senza sole. September morn. Settembre nero. Settembre è il mese dei ripensamenti. Settembre di qui e settembre di là; che mese, madonna. Arrivati a settembre, tutti ci hanno da andare, da rimpiangere, da annerire e da ripensare; devo dire che, in passato, anche il sottoscritto ci si è volentieri lasciato andare, alle settembràggini. Coadiuvato dal non indifferente fatto di esserci pure nato, in settembre; ed anche, why not, dall'ennesimo “must” telematico rappresentato da questo mese. Un po' come il “congedo estivo”, un po' come l' “anniversario del blog”, un po' come tutti questi appuntamenti fissi che, mentre li si scrive, si scuote il capo con una specie di sorriso. Una specie, chiaramente.

Oggi mi sono accorto che è tornato il traffico, in città. Si fa alla svelta, a disabituarcisi; si rivedono gli ingorghi celermente dimenticati, i tappi ai semafori cruciali, le battaglie per il parcheggio davanti al Penny Market. Vado, da un po', a questo discount che vide, qualche anno fa, un efferato fatto di sangue (colonnello Kurtz, ebbene sì, fu efferato!). Un bischero di dipendente, padre di famiglia con la passione del videopoker e altri giochini del genere, essendosi del tutto rovinato pensò bene di vuotare la cassa, alle sette di mattina. Fu beccato in pieno dalla direttrice, la quale si ritrovò intrasatt' spedita all'altro mondo, poveraccia. E il padre di famiglia all'ergastolo, per la somma di euro quattromila. Famiglie, soldacci miseri, periferie. Ma accadde, se ben mi ricordo, in dicembre. Non c'entra con settembre, ma m'era venuto a mente; oggi, mentre facevo una copiosa spesa (ivi compresa la vodka Janoka, purissima vodka piemontese), guardavo leggermente trasognato. È un'espressione che, almeno mi hanno detto, ho abbastanza spesso. Non lo so nemmeno io, poi, cosa trasogno.

Però è un settembre a modo suo, questo. Prima di tutto non ho da fare nessun ripensamento; oramai ho ripensato ad ogni cosa o quasi, e mi sono, come dire, fracassato gli scroti. Sembra che quando arriva 'sto settembre del cavolo, il mio aumenta-anni, occorra per forza dedicare mezza giornata ai bilanci. Mi ha fatto piacere invece, oggi, proprio quando 'sto pensierino stava per comparire classicamente, dedicarlo alla bilancia. Quella per pesare le banane, che mi fanno tanto bene ai crampi. E i pomodori. E cosa vuoi ripensare, benedetto figliuolo; oramai la tua vita te la sei scelta, hai seminato il tuo bene e il tuo male, ci son persone che ti vogliono bene e altre che non te ne vogliono, e festa finita. Si tira avanti a pesare banane, che è decisamente meglio; fallere nostra vetant et falli pondera, mecque pondero cum ponderat ipse Deus. Curioso che una delle "frasi della mia vita" sia un invito fatto a dei mercanti a pesare bene la merce. La lessi, tanti anni fa, sulla facciata del palazzo Sponsa, a Ragusa. Ma non quella siciliana; la Ragusa dalmata, Dubrovnik. Non me la sono più scordata. Non ho pesato quasi mai bene. Ora, forse, un po' ho imparato.

Mi spiace che sia settembre, perché in fondo sa essere un bel mese. Per ventuno giorni è ancora estate. Però si comincia a pensare che sta per finire, e io detesto che finisca l'estate. Più passa il tempo, e più divento metereopatico; sarà un segno di vecchiaia, chissà. Non me ne frega praticamente più niente di niente, a parte quattro o cinque cose di cui mi frega sempre di più. Sul tavolino d'un bar ci sono i giornali; tiene banco una buffa vicenda di giornalisti, di veline, di chiese. Una ragazza non c'è più per colpa d'un tizio che andava, in moto, a cinquemila all'ora; avverto il vuoto che ha lasciato in tante persone. O, forse, sono i vuoti che domandano, che esigono di essere colmati. In qualche modo. Altro che dieci domande; questa è una sola, fondamentale, carogna. Il mio problema è che, in faccia e in culo a tutto e a tutti, non mi avverto dentro nessun vuoto. Mi accontento di poco, ma quel poco è tutto. Senza tirare in ballo né la “felicità”, né l' “infelicità”. Ogni giorno, ultimamente, mi viene un gatto in casa. Non è mio, ma di una vicina; però casa mia è aperta, anzi spalancata. Arriva, si fa i suoi disastri (quando lo trovo dentro il cestello della lavatrice, quando addirittura dentro il forno a microonde), due coccole e poi mi si mette a dormire sul letto.

Che vada il mondo e che vadano i suoi andatori. Vadano le loro storie, le loro illusioni e delusioni, le loro rabbie. Vadano anche le loro musiche e tutto il resto. I loro mestieri, i loro amori, le loro facce. Io me ne resto qui a settembrare di settembre, e penso anche che ottobrerò d'ottobre. Scoppierà un giorno la famosa rivoluzione, ma nel frattempo devo far bene attenzione a non scoppiare io. Sennò che cazzo aspetto a fare. Condurrò, allora, un gigantesco corteo che percorrerà ben tutta via dell'Argingrosso, ma credo che mi fermerò all'angolo con via dell'Isolotto. Lo so che la rivoluzione non è un pranzo di gala, ma ho conosciuto troppe persone che me l'hanno servita in insipidi crackers, o in merendine preconfezionate.

Ora fo di testa mia, e basta. Rivoluziono un cortile, con un gatto e una porta sempre aperta, anche di notte. Intanto cammino senza paure. Intanto ho tirato un calcio in culo alle sicurezze, e di quelli tirati bene. E può pure venire settembre, andandosi però a farsi ripensare altrove. Oggi è venerdì; ho altro cui pensare. Gira la pala del ventilatore. Le diciannove e ventiquattro. La birra in frigo, ma bisogna aspettare che diacci un po'. La vodka Janoka. E qualcosa di sospeso cui non è bene dare eccessiva importanza. Tanto, prima o poi, cade giù. Tanto, prima o poi, con tutto e con tutti si fanno i conti. Cum ponderat ipse Deus.