sabato 31 ottobre 2009

Troppe assenze, Montalbano


Ciao, Commissario.

Non ci conosciamo. Ma, stavolta, non è un modo di dire. Non ci conosciamo, perché, a rigore, io esisto e tu no. Esiste, casomai, il tuo autore; un vecchio pingue, intelligente, con delle incredibili pappagorge e un wit più che notevole espresso peraltro, e sempre, con una calma ed una proprietà di linguaggio che, in questo paese, sono merce rarissima.

Esiste però, e infinitamente più della mia di persona reale, la tua immagine collettiva. Grazie ai film, naturalmente. Senza film, se tu fossi rimasto tra le pagine dei libri, ognuno avrebbe avuto un'immagine diversa di te. Tante immagini quanti sono i lettori. Invece, nunc et semper, hai per tutti la faccia di un dato attore, del tutto inseparabile. Succede così. Nero Wolfe, per tutti, avrà in eterno la faccia di Tino Buazzelli. Quando morirà quell'attore, tutti diranno che è morto il commissario Montalbano. Lo scriveranno persino sui giornali. Lo diranno alla televisione. E, più che altro, sarà pensato, come un dato di fatto.

Hai un'immagine, quindi esisti. Hai una faccia, in questo tempo dove le facce sembrano contare anche più del solito. L'immagine è di gran lunga più esistente della realtà. Tocca, allora, relazionarsi a te come a una persona viva, e senza cadere nemmeno nei trucchetti degli autori, ché ne hanno inventati a bizzeffe. Tipo quello del personaggio che scrive al posto dell'autore. Preambolo chiuso, Commissario.

Vorrei porti, allora, una questione.

Mettiamo che, un giorno qualsiasi, bello libero e senza nessuna indagine importante da svolgere, te ne stai camminando per una strada di Vigàta. Sei, magari, appena uscito dalla Trattoria San Calogero dove ti sei sbafato qualche semplice delizia a base di pesce. Te ne cammini verso il molo fumandoti una sigaretta. Ti avvicina un tizio, del tutto ordinario; niente, in lui, risalta. Una faccia comune, un vestito normale, statura media. Un anonimo.

Non ti scanti perché è chiaro che lo sconosciuto non ha cattive intenzioni. Anzi, ti chiama gentilmente. Commissario! Lei è il commissario Montalbano? Ha un accenno di sorriso; e, comunque, potresti facilmente metterlo fuori combattimento in mezzo minuto. E se anche non fosse così facile, sei pur sempre armato anche se non ti piace per niente usare la pistola. Però, come dire, fra averla e non averla c'è una certa differenza, quando si fa il Commissario e ti avvicina uno che non conosci, sia pure apparentemente benintenzionato.

- Commissario, ci pozzu fari una domanda?

- Ma prego! -dici tu, con quell'aria a metà fra il cortese e la presa per il culo.

- Ecco, Commissario, ma a lei...

- Ma a me...

Lo sconosciuto sembra pensarci bene, forse troppo bene. Lo guardi, con quella faccia da attore che ti ritrovi. Mediti, naturalmente, se non sia meglio spedirlo via a base di rottura di cabasisi, oppure con qualche ironia.

- Ecco, ci volevo dire...a lei qualcuno ci ha mai detto che è un poliziotto di merda?

Rimani lì, coi cabasisi e con l'ironia a mezz'aria.

- Mi spiego...non un delinquente, che un delinquente lo capirei se ci desse a lei del poliziotto di merda...dico uno qualsiasi, uno come me, uno che non ha mai fatto del male a nessuno...

- E...e perché lei mi chiede questa cosa?...

- Perché sa, io mi sono fatto certe idee, e secondo me, lei non è altro che un poliziotto di merda. Anzi, addirittura di stramerda.

- Ma...ci ho fatto qualcosa a vossignoria...?

- Nulla! Assolutamente nulla! (Si fa il segno della croce). Però vedo che succedono cose...e mi sono fatto l'idea che la polizia è una gran merda. Che non è per nulla al servizio dei cittadini. E che chi ci continua a star dentro, anche se è la migliore persona di questo mondo (fa il gesto di baciare le mani), è comunque un pezzo di merda. Ci starebbe fuori, sennò! Anzi, non ci sarebbe nemmeno mai entrato! E le volevo dire che sono dei grandissimi stronzi curnuti anche Fazio, Augello e anche quel povero demente di Catarella. Arrivederci, Commissario! Mi scusi per il disturbo!

E se ne va.

E tu rimani lì, con l'aria inebetita, la sigaretta a mezz'aria a farsi fumare dal vento, e qualche certezza in meno. Ma come! Il Commissario Montalbano, quello che piace a tutti, persino agli anarchici, quello che in gioventù era extraparlamentare e andava alle manifestazioni, quello che ha persino avuto parole di condanna per i fatti di Genova, quello che crede nella Polizia democratica, o nella Polizia giusta, e ne racconta le avventure per mano del suo autore con le pappagorge intelligenti. Quello che sventa i traffici di organi, che aiuta gli immigrati, che scopre il merdaio politico-finanziario, che indaga persino su omicidi di cinquant'anni prima. E quello non ti ha nemmeno dato il tempo di rispondere; si è volatilizzato, lasciandoti lì, sul marciapiede.

E, del resto, il tuo autore progressista ce l'ha messa davvero tutta per farti amare. Guai a chi tocca il commissario Montalbano. Sei l'immagine di ciò che una società vorrebbe dalla Polizia. Ispiri fiducia. Non ti dipinge come un servitore ubbidiente e cieco. Sai trasgredire, dire di no e, all'occorrenza, mandare in culo i superiori. Sei un uomo che invecchia, coi tuoi dubbi, le tue debolezze le tue paure. Avevi quel tuo famoso codice della fedeltà assoluta a quell'ignobile pesce lesso alla genovese chiamato Livia, ma alla fine la hai sanamente cornificata -cornificando ancor più sanamente anche i codici. Puoi addirittura permetterti di essere vagamente di sinistra, anche se proprio comunista, no. Un Commissario comunista sarebbe stato troppo anche per il tuo autore. Meglio qualche vaga sessantottaggine, il senso della giustizia, un bel brodo di disillusioni, e anche uno stipendio decente erogato dallo Stato che ti permette di avere la meravigliosa villetta sul mare con annesse nuotate mattutine. Sì, Montalbano, sei proprio nato per farti volere bene. Hai davvero un tocco magico. Sei riuscito a mettere tutti d'accordo.

Però, devo dirtelo, ci sono delle cose che non mi tornano. Beninteso, non sono io il tipo che ti ha fermato per la strada.

Non mi torna, per esempio, che il tuo autore abbia più volte, interrogato al riguardo, dichiarato di credere nella Polizia. Come fa ancora a crederci? Genova, che pure ti ha fatto condannare, non gli è bastata? E continua a propinarci la tua favola? Destina, poi, l'intero incasso di un suo libro collaterale, dedicato ai pizzini di Provenzano, ai familiari dei poliziotti vittima del dovere. Quando ho letto quella cosa, mi son detto: ecco, lo doveva fare. Temo che il tuo autore, Commissario, abbia una discreta paura che lo prendano per un po' troppo sovversivo, lui che al massimo voterà per il PD. Sia mai che l'incasso di un altro libro sia devoluto, che so io, ai familiari delle vittime di Ustica. O, meglio ancora, a quelli di tutti i cittadini inermi ammazzati dai tuoi colleghi. Alla madre di Francesco Lorusso, alla famiglia di Giorgiana Masi, a quelle delle persone ammazzate dai tuoi colleghi della Uno Bianca (ma lì non s'era a Vigàta, s'era a Bològna). Al fratello di Giancarlo Del Padrone abbattuto sul tetto di un carcere. Ai parenti di Giannino Zibecchi o di Rodolfo Boschi. Ce ne avrebbe di libri da scrivere e da devolvere. Invece, sai cos'altro succede. La tua faccia, ovvero l'attore che la detiene, passa indifferentemente dalla tua persona a leggere un audiolibro scritto dal figlio di un tuo collega, uno che una sera di dicembre a Milàno era in una stanza dove un anarchico precipitò senza una scarpa. Poi quel tuo collega fu ammazzato. L'anarchico non lo ha, invece, ammazzato nessuno; e non ha avuto nessun figlio che scrivesse libri. Tu pensa se il tuo autore, in una tua vicenda, ne avesse fatto cenno. A quell'anarchico e al malore attivo. Poi gli attori sono strana gente: capaci di interpretare, a pagamento, un altro attore fascista e fucilato, in un suo tentativo di riabilitazione, e di leggere il giorno dopo Mio padre è morto a diciott'anni partigiano eliminando però la strofa finale dove spara ai fascisti. Una poesia che è stata resa famosa dall'interpretazione di uno che, poi, si è ritrovato a fare il buon maresciallo Rocca tutto famiglia, buoni sentimenti, cagnolini e cattivoni alla sbarra.


Deve proprio credere nello Stato, il tuo autore. Quello Stato che si arresta a vicenda, che si avvelena reciprocamente, che si ammazza e si riammazza. Ché anche tu, caro Montalbano, volente o nolente sei un suo servitore. Certo, umano e persino troppo umano. Paure e debolezze. Incubi e incertezze. Disillusioni e invecchiamenti. Ma mai una carogneria di quelle grosse. Mai una giornata di ordine pubblico, mai un comando antisommossa: o che in quel cazzo di Vigàta, tutta buone trattorie, non ci sarà mai stata una manifestazione studentesca? Una dimostrazione di disoccupati repressa pesantemente? Un derby Vigàta-Montelusa dove un altro commissario viene fatto fuori in modo poco chiaro? L'avresti arrestato, tu, l'ultras sacrificale che poi non c'entrava per niente? L'avresti coperto Augello, se si fosse venuto a sapere che col suo Defender aveva beccato in pieno il commissario, spedendolo all'altro mondo? Un bel casino. La scelta tra continuare a fare il Montalbano, oppure vomitare, andarsene, denunciare.

Ché sarebbe interessante vedere un Montalbano schifato buttar via tessera e ogni cosa, rinunciare al suo stipendio sicuro di statale e fare il protagonista di un romanzo da ex poliziotto che ha smesso di crederci, nello Stato. Scoprire che, magari, Fazio è un torturatore di detenuti, che Mimì Augello in quei giorni di luglio non era affatto dietro a qualche gonnella ma a Bolzaneto, e che persino Catarella, dietro l'aria da finto idiota, era uno spedito là a sorvegliarti e riferire.

Ma non si può. Queste sono cose troppo reali.

Per questo ho smesso di comprare e leggere i tuoi romanzi. Mi appassionavano troppo, per la miseria. Cominciavo anch'io, sotto sotto, a sperare che da qualche parte esistesse un Montalbano, con le sue battute fulminanti e con quell'eroismo da antieroe. Ci hanno pensato centinaia di fantasmi, di persone che erano vere, a farmi risvegliare. A non credere più nelle storie e nelle storielle di chicchessia. Non rinnego certo di averti letto, e con piacere. Non lo rinnego, ma c'è troppo sangue che è scorso, e che continua a scorrere, per mano di persone che fanno parte della tua istituzione e del tuo Stato. E, a quanto mi risulta, tu e il tuo autore non avete fatto nulla per impedirlo. Ci sono i questori rompicoglioni cui fare il muso duro, nel tuo mondo; non ci sono gli altri poliziotti assassini. Non c'è il questore Guida. Non c'è Perugini che massacra di botte un ragazzino di quindici anni. Troppe assenze, Montalbano.

Mi hanno detto che il tuo autore, saggio e previdente per la sua grave età, ha già scritto la tua ultima storia, depositandola presso l'editore. Morte dovesse sopraggiungere, il tuo ultimo capitolo è bell'è scritto. Nessuno sa come andrà a finire. Se con un cupo e quieto pensionamento o con un colpo di pistola. Pare che la storia si chiami Riccardino. Proprio così. S'ignora chi sia questo Riccardino, ma ho qualche inquietudine. Non vorrei che, finalmente, tu sposassi quella querula deficiente di Livia e che tu la mettessi incinta in extremis, chiamando Riccardino vostro figlio. Ho già dovuto sopportare un Riccardo Venturi carabiniere, e chiamarmi come il figlio di Montalbano sarebbe troppo.

E lo capisco bene quel tizio che, in mezzo di strada, ti ha dato del poliziotto di merda.

Forse avrà letto di certe pallottole vaganti, di certe cadute dalle scale, di certe morti naturali certificate da medici che non assomigliavano manco un po' al dottor Pasquano.

Vorreste, tu e il tuo autore, farci vedere come dovrebbe essere la Polizia. Solo che la Polizia non può esserlo. Mai. E lo sapete benissimo.

E allora, se sei davvero Montalbano, torna a casa. Fatti una bella pasta 'ncasciata, o una nuotata lunga lunga. Poi vai in ufficio e dai le dimissioni.

Sennò ci prendi tutti per il culo.




venerdì 30 ottobre 2009

I loro ragazzi


Ora li chiamano i nostri ragazzi. No, io non li voglio, quei "ragazzi". Sono vostri. Sono loro. Miei non sono. E non sono neanche ragazzi. Essere ragazzo è disordine e vita; questi sono ordine e morte.

I loro ragazzi sono quelli di Marcello.


Quelli di Stefano.


Quelli di Federico.

Quelli di Gabriele.
Quelli di Genova.
Quelli della Diaz.
Quelli del vicequestore Perugini.


I loro ragazzi. Quelli che vanno a obbedire per un misero stipendio di merda. Quelli che ci hanno sempre il pretesto della disoccupazione, del popolo, della giovane moglie (sempre incinta quando crepano). Quelli che a volte lo stipendio non è nemmeno poi così di merda, anzi talmente allettante da andare a saltarci in aria per andare a far la guerra a della gente che non l'ha mai fatta a noi.

Quelli che, ai funerali, hanno le lacrime napulitane di quel vegliardo che, un tempo, approvava gli aiuti fraterni. "Partigiano" sì, ma sempre e solo di una cosa: del potere.

Quelli che su Twitter o su Facebook dicono di essere troppo di destra, che sono iscritti al Partito Nazionale Fascista, che scrivono di essere lì a fare la guerra, ma che sui giornali e sulle televisioni di regime diventano "eroi di pace".

Quelli che hanno, sempre ai loro funerali, i figli di due anni col basco rosso che fa tanta audience, tanta vita in diretta, tanto schifo suo malgrado.


(Ché portare un bambino di due anni al funerale del padre sarebbe già un atto inqualificabile di per sé; portarcelo a fare da pupazzetto di regime è ancora più orrendo. E chissà cosa avevano in testa le centinaia di bambini uccisi per la pacificazione e la democratizzazione dell'Iraq o dell'Afghanistan, vale a dire per gli oleodotti, per i gasdotti, per la Raffineriyah, per gli investimenti).

(Ora che ci penso: chissà se il piccolo Simone, quando sarà grande, ce lo ritroveremo sempre col basco rosso della Folgore, in mezzo a tanti altri baschi rossi, a fare una bella foto di gruppo come questa:)


Eccoveli in tutto il loro splendore, i loro ragazzi.

Quelli da cui vanno a frignare i ribelli futuristi di Casapound. Quelli sempre pronti a arrestare i compagni e a proteggere i camerati. Quelli che La Russa. Quelli che, tanto, se la cavano sempre. Quelli che spaccano le rotelle prendendo la mira a due mani. Quelli che fanno gli incidenti con la Focus dello zio, e la Focus non prende fuoco, sennò ci voleva l'estintore. Quelli che ci hanno anche le canzoncine della minchia e del signor tenente, nelle quali non si riesce a capire dove sia il tenente e dove sia la minchia (forse nella testa del suo autore). E le fiction in mezzo a preti e buoni sentimenti.

Guardateli qui, i loro buoni sentimenti. E questa non è una fiction. Non c'è don Matteo. Non c'è il maresciallo Rocca. E nemmeno il commissario Montalbano. Non c'è il Distretto di Polizia. Qui c'è il Distrutto dalla Polizia.

Quelli che no, non verrà il giorno.

Quelli dei "grazie ragazzi" sui muri, per i loro quattrinovembri, per le loro armi, per le loro parate, per i loro ordini, per le loro sicurezze.

Tutti martiri. "Martire" vuol dire "testimone". In qualche caso, infatti, li hanno fatti eliminare come testimoni scomodi.

I loro ragazzi. Sono tutti loro.


Miei, no di sicuro.




giovedì 29 ottobre 2009

Supernatural Voyage Inc. (3a puntata)

1a puntata - 2a puntata

Sono decisamente a disagio, con il volo meccanico: in realtà ho sempre una sottilissima paura fottuta, e cerco di evitare i viaggi in aereo come la peste bubbonica. Per somma di cose, aborro dover stare per ore e ore fermo a diecimila metri da terra su una pur comoda poltrona, come un salame, senza poter fumare, a leggere cose di cui dopo un po' non me ne importa più niente o a guardare filmetti in massima parte noiosissimi. Insomma, la prima parte del mio viaggio si stava rivelando assai poco supernatural: un normalissimo rioplano, sia pure di una compagnia abbastanza sui generis, i passeggeri che chiacchierano, qualcuno che cerca di dormicchiare (sempre con il retropensiero di risvegliarsi, si fa per dire, già direttamente a destinazione; e non più come passeggero, ma come ospite eterno di quel posticino che stavi andando a visitare per incontrare il tuo cantautore morto preferito). Si cerca di ingannare il tempo, ma il tempo è come San Giovanni: non vuole inganni. Ho il sacro terrore che qualcuno proponga di omaggiare il defunto con qualche canzone da cantare in coro; e menomale che a bordo non si possono portare chitarre o altri strumenti musicali. Nutrendomi di questa vana speranza, e impegnato in un principio di inquieto appisolamento, sento partire dalla seconda fila delle poltrone una voce femminile:

- Ehi, ma che mortorio! Che ne direste se cantassimo tutti insieme una canzone di Fabrizio?

Mi sveglio di soprassalto. Inutile. Mi gratto un momento la testa in un gesto a metà fra la rassegnazione e la bestemmia non detta, e mi accorgo che l'anziano signore con cui avevo parlato in aeroporto mi siede accanto. Si è infilato un paio di occhiali molto spessi, fuori moda, e legge attentamente un libro con eleganza, scorrendo le righe con l'indice destro. Si accorge che mi sono svegliato, e volta la testa verso di me; impercettibilmente, ma di quel tanto che basta per rivelare un sorriso ironico. Non dice niente e torna a leggere il suo libro. Non mi ero nemmeno accorto che si era messo a sedere accanto a me. Proprio in quel momento un'altra voce, stavolta maschile, si sovrappone ai consensi che provengono da una metà buona della congrega di viaggiatori soprannaturali alla ricerca del perduto mito e genovese; e, stavolta, la riconosco.

- Ma lo sapete che qui con noi abbiamo uno che sa cantare De André in tutte le lingue?

Stavolta niente può più porre un freno ai sudori freddi, specialmente quando la tua condanna te la sei fabbricata giorno dopo giorno, credendo di coniugare due passioni brucianti. La voce è peraltro quella di un tizio che, agli inizi della mia partecipazione attiva alla Lista, mi aveva, con meritata nonchalance, fatto rimediare una delle peggiori figure di merda linguistiche della mia vita. Non che non ne abbia fatto altre; una volta, completamente nel pallone, sono riuscito a scappare da una cabina di traduzione simultanea perché avevo accettato un lavoro che non sapevo fare (accadde, per la cronaca, all'auditorium del Porto di Livorno durante un convegno di autorità marittime; credo che la mia disgraziata datrice di lavoro, una simpatica signora iraniana trapiantata a Livorno da una vita, mi cerchi ancora con qualche arma tradizionale del suo paese per conficcarmela in quel che del mio corpo ci sia di conficcabile). Però, debbo dirlo, quella rivelò tutta la mia latente supponenza, che è una parte di me. C'è anche quella. In pratica, De André aveva cantato assieme a un gruppo delle valli occitane piemontesi, i Troubaires de Coumboscuro, un'antica ballata provenzale intitolata Misamour. Siccome nessuno ne capiva le parole, e in Lista c'era il principe dei linguisti, una sera a casa d'un altro partecipante mi occupai di fornire la mia emerita e definitiva trascrizione e traduzione. Ora, dovete sapere che io non ho mai parlato mezza parola di provenzale, né antico e né moderno, e che l'ho studiacchiato solo superficialmente; nonostante questo mi cimentai con impegno, certo che nessuno mi avrebbe smentito, proponendo una fantasiosa traduzione che aveva un quid della famosa decifrazione dei geroglifici di Athanasius Kircher.


Applausi in Lista, finalmente ci ha pensato il Venturi! Il giorno dopo, o un paio, ecco che compare una mail proprio a firma del signore che ora educe i passeggeri sulle mie linguate deandreiane, nella quale viene trascritto il testo corretto della ballata, ripreso dal libretto dell'album Canti randagi (l'omaggio a De André degli artisti di strada). Dice di non aver seguito molto la discussione, di essersi appena accorto che tutti cercavano il testo di quella canzone, e lo posta. Naturalmente ci avevo azzeccato una parola su dieci, e forse nemmeno quella.

- In tutte le lingue? Ma è bellissimo!

Invocavo, inutilmente, un vuoto d'aria che facesse pigliare un coccolone a tutti quanti, distraendoli da quei malsani propositi; cominciavo a pensare che rischiare di rimanere chissà dove, e chissà in quale dimensione, fino al 2670, per dover fare una specie di gruppo vacanze Piemonte? Si parte! non valeva poi così la pena; ma bisogna essere sempre curiosi e andare avanti. Anche far buon viso a cattivo gioco. Vogliono De André in tutte le lingue? E sai cosa si fa, si va a cantare proprio Misamour. Il viaggio in aereo, in fondo, non dura poi così tanto.

Si alza, per la prima volta dritto come un fuso vincendo l'incurvamento dell'età, l'uomo che siede sulla poltrona accanto alla mia; ha ancora quei suoi occhiali spessi, tiene il libro in mano, ma non ha più il minimo accenno di sorriso. Ha un'aria grave, mesta; sta in piedi non appoggiandosi a niente.

- Scusate se mi intrometto. Non state andando ad una gita di piacere, ma ad incontrare una persona che non è più. Forse sarà meglio che cantiate al ritorno, e starvene tranquilli.

Si rimette a sedere. Mi colpisce lo strano uso della seconda persona plurale, che è escludente; come se sentisse, o sapesse, di far parte solo del viaggio di andata. Mi risiedo anche io; nessuno parla più.

Sul retro di ogni poltrona è installato un piccolo schermo con una tastiera portatile; gli aerei della Baudel Air sono provvisti di collegamento Internet intrasatellitare, e mi viene in mente di andare alla pagina Soulbook di Fabrizio. Fondato solo due anni prima da due studenti della Indiana University, uno di origine bhutanese e l'altro di Rignano sull'Arno, Soulbook è diventato in breve tempo il principale Sepulchral Network della Rete; un vero fenomeno di massa che non conosce arretramenti. Qualsiasi defunto può, con poche e semplici manovre, avere la sua pagina dove tenere aggiornati i viventi su ciò che può essere definito altra vita, anche se gli utenti generalmente preferiscono non usare tale espressione per paura di confondersi con Second Life. Da quando Soulbook, sette mesi fa, è stato acquisito da Gargoogle®, il suo uso è stato esteso ai vivi che, così, possono crearsi liberamente la propria morte, e il proprio status parallelo di non vivi: un boom senza precedenti. Fabrizio, come tutti, ha una sua pagina; in Italia è una delle principali, con oltre 780.000 contatti.

Come sempre, la pagina è intasata. Mai una volta che, per caricarla interamente, ci vogliano meno di dieci minuti. Ma l'atterraggio si avvicina, si scorgono già le luci di Cleveland e il signore accanto a me, ora, si è addormentato con un'espressione di magnifica serenità. Una finta voce femminile ripete, in italiano e in inglese, l'avviso standardizzato: Ladies and gentlemen, we are landing to Cleveland. Passengers are kindly requested to carefully fasten safety belts. Stiamo momentaneamente tornando sulla terra per allontanarcene di nuovo, poi, in un modo molto, troppo diverso. La pagina Soulbook si è piantata, e ripenso per un attimo, curiosamente, tremendamente, a tutta la mia vita che sta per varcare una frontiera un tempo invalicabile.

(3. continua)



martedì 27 ottobre 2009

Dante


Sarebbe opportuno che Guccini, in una delle sue prossime canzoni, facesse imparare a memoria ai suoi montanari pavanesi questo qui, di Dante, invece del solito Alighieri. All'Alighieri ci pensi quell'emerita fava di Benigni; anche perche questo qui, di Dante, di mestiere fa esattamente il macchinista ferroviere presso il deposito locomotive di Roma-San Lorenzo. Uno che, però, non si è impadronito di nessuna locomotiva per andare a farsi stiantà addosso a un treno di signori; anzi, ha denunciato che proprio un treno di lusso, lontana destinazione, un ETR per la precisione, il 14 luglio 2008 si spezzò mentre, vuoto, veniva trasportato dall'officina della Martesana, a Milano, alla stazione centrale. E, chiaramente, alla stazione centrale di Milano sarebbero saliti i passeggeri. E se si fosse spezzato coi passeggeri a bordo, non ci sarebbe stato alcun bisogno di una locomotiva come una cosa viva per farlo fuori. Ci avrebbero pensato direttamente le Ferrovie dello Stato Comatoso.

Il macchinista ferroviere, Dante De Angelis, raccontò e denunciò pubblicamente l'episodio. Disse che tale episodio era stato "un incidente potenzialmente molto pericoloso", mettendo l'accento sulla questione della manutenzione , della progettazione e dei controlli sugli ETR. La risposta della dirigenza delle Ferrovie: licenziamento in tronco. Motivazione: Dante De Angelis avrebbe "reso dichiarazioni contrarie alla verità". Traduzione: Liberiamoci alla svelta di questo scomodissimo lavoratore che, colpa gravissima, pensa realmente alla sicurezza dei passeggeri e del personale invece di cianciare di sicurezze ad usum pennajolorum.

Ieri, il Tribunale del lavoro di Roma ha tirato una bella ciaffata alle Ferrovie italiane e ai loro padroncini "privatizzati". Licenziamento illegittimo e antisindacale. Reintegro immediato di Dante De Angelis con risarcimento di tutte le retribuzioni perdute. Le Ferrovie sono state condannate anche al pagamento delle spese di giudizio: una cosa che, da altre parti, dovrebbe provocare il sollevamento immediato di tutti i vertici dell'azienda. A casina dirigenti, supermanager e tutti quanti questi stronzi delinquenti che, nel frattempo, bucherellano il paese con le loro inutili TAV provocando dissesti idrogeologici e quant'altro per risparmiare venti minuti fra Roma e Milano, e tenendo le ferrovie al Sud in condizioni vomitevoli per non far dispiacere alle mafie delle autolinee private.

Sembra che ieri, fuori dal Tribunale del Lavoro di Roma, ci fossero circa un centinaio di persone che hanno accolto la sentenza con un boato. E che ci fossero anche dei rappresentanti dei comitati sorti dopo la strage di Viareggio. Il vero boato sarà il giorno in cui le Ferrovie verranno messe in mano a persone come Dante De Angelis, e non a dei servi superpagati per tenerle in condizioni da fare schifo al maiale.

lunedì 26 ottobre 2009

Imputato, alzatevi!


Un messo della Procura della Repubblica mi ha notificato oggi, dopo oltre 2 anni, che le indagini su di me (e su altri coimputati) sono concluse.

Sono quindi ufficialmente imputato di quanto segue, in base al procedimento n° 13754/07 istituito dal Pubblico Mi(ni)stero, dott. Ubaldo Nannucci:

PROCURA DELLA REPUBBLICA
FIRENZE
Sede di Viale Lavagnini 31

Procedimento n. 13754/o7

Il Pubblico Ministero
Visti gli atti del procedimento n. 13754/07
nei confronti di (...omissis...) I) VENTURI RICCARDO, nato a Firenze il 25.09.1963 a FIRENZE residente in FIRENZE, VIA TOZZI 3 (*) in ordine al reato di cui al foglio allegato

IMPUTATI:

del reato di cui all'art. 18 I parte e III co. TULPS per aver manifestato contro il divieto imposto dall'amministrazione comunale sull'esercizio abusivo di lavavetri, effettuando attività di volantinaggio nei confronti degli automobilisti seguita da attività di lavavetri, senza averne dato avviso almeno 3 giorni prima al Questore di Firenze (**).

Reato commesso in FIRENZE, piazza della Libertà, 28.08.2007

(*) Vecchio indirizzo, ancora non si sono aggiornati (ndr)
(**) Si noti che l'ordinanza anti-lavavetri dell'ex assessore Graziano Cioni, poi impantanatosi in ben altri guai giudiziari, era stata emessa la mattina dello stesso 28 agosto 2007. Come avremmo fatto a dare comunicazione di una manifestazione contro una data ordinanza tre giorni prima che fosse stata emessa, è un pubblico mistero.

Sono quindi stato, assieme ad altri cittadini, rinviato a giudizio per lavavetrismo abusivo.

In attesa del processo, che non promette affatto di essere quello "del secolo" ma, comunque, uno dei più ridicoli che siano mai stati istituiti in questa città (ed al quale presenzierò, ché un'occasione del genere non me la perderei per nessuna ragione al mondo), debbo fare alcune considerazioni.

1) Adoro un geniale lavavetri, non so originario di dove, che si è sistemato ad un semaforo cruciale della città, ma esattamente sul confine tra il territorio comunale fiorentino e quello di un altro comune. Quando vede passare un'auto dei vigili, anche se oramai l'ordinanza mediatica cioniana per la quale sono tratto davanti alla giustizia è "bucherellata" un po' ovunque (e l'assessore ha terminato ex abrupto la sua carriera politica ad un passo dal culmine, e bordancùlo!), fa un saltello (oplà) e si sposta nel territorio del'altro comune, continuando imperterrito a lavare i suoi vetri.

2) L'unico processo per violazione dell'ordinanza anti-lavavetri sarà istituito contro dei liberi cittadini italiani che stavano manifestando solidarietà a delle persone per lo più clandestine, prive di qualsiasi diritto giuridico a parte quello all'espulsione.

3) Qualche notazione (oh! qual termine queneliano!) sul viale Spartaco Lavagnini, da dove il dott. Nannucci Ubaldo mi manda a processo. Vi hanno sede anche un vecchio centro traduzioni per il quale ho lavorato, tenuto da una simpatica signora francese che tanti anni fa, mentre mi lamentavo con lei di certe mie pene d'amore, ebbe a dirmi con uno squisito accento transalpino: Ma basta Ricardò per la madonna! Io ho avuto tre mariti e scinque amonti, mi hanno sempre piontata e sono ancora viva e sto benissimo!; il notaio (anzi, la notaia) dalla quale ho firmato l'atto di acquisto per il parallelepipedo ipogeo dove abito attualmente e dove mi è stato notificato l'atto del Nannucci; e una bellissima Alfa Romeo Duetto giallo limone, che a suo tempo è già stata immortalata nel Treggia's Blog. Inoltre proprio stasera, nel viale Spartaco Lavagnini, ho rischiato di essere travolto, assieme a un'altra fila di macchine, nientepopodimeno che da una Lamborghini Diablo che circolava a circa 150 all'ora emettendo un boato avvertibile fin da Bologna. Possibile che si trattasse di uno dei famosi giovani banchieri russi che in questi giorni imperversano a Milano, Firenze e altre città, noleggiando fuoriserie, lanciandosi in corse sfrenate a gara e rimediando multe monstre e ritiri della patente. Mi ricordo che in piazza della Libertà, il 28 agosto 2007, c'era un anziano lavavetri russo al quale Cioni voleva sequestrare secchio e pulivetro. Indi per cui, i primi sono banchieri e il secondo è un extracomunitario. C'è Russia e Russia.

4) Alla lettura della sentenza, spero che il giudice mi rivolga la fatidica frase: "Imputato, alzatevi!" Al che mi sarò già premurato di alzarmi un minuto prima.

- Non posso, Vostro Onore!
- E perché?
- Perché son già ritto!



domenica 25 ottobre 2009

Sandra e Fortunato


Si chiamano Sandra e Fortunato ed oggi, dopo essere stati sposati civilmente per ventisei anni, hanno deciso, da credenti, di sposarsi in chiesa. Non sono due ragazzi: hanno, entrambi, più di sessant'anni. Hanno le loro storie, le loro vite e il loro amore. Dovrebbe essere, ed è, tutto normale; lo è anche per me, che pure non sono credente e non sono affatto favorevole all'istituto contrattuale del matrimonio, civile o religioso che sia. Normalissimo con il rispetto che è dovuto a chi, non certo per routine, per la bella cerimonia e per il viaggio di nozze in qualche finto paradiso, ha deciso di dare un seguito, per essi logico, ad un'unione che dura da decenni.

Solo che Sandra è nata uomo. Negli anni '70, con un'operazione, decise di cambiare sesso, di installarsi liberamente in ciò che più intimamente si sentiva. Ed anche questo è normale, o dovrebbe esserlo. Cianciano di contronatura, certi signori, quando l'unica vera natura è quel che ciascuno di noi si sente addosso. La natura di costoro è sinonimo di galera; come, del resto, sono galere le loro famiglie, le loro scuole, i loro valori, e il loro dio. Sono gli stessi che costringono al celibato i loro sacerdoti, che sono uomini normali, persone normalissime come Sandra e Fortunato (salvo provvedimenti ad hoc quando si tratta di fare campagna acquisti presso la Chiesa d'Inghilterra). Sono gli stessi che, da millenni, conculcano, mortificano, reprimono ed uccidono una delle cose più naturali della persona umana, vale a dire la libera sessualità che proprio la natura ci ha dato. Sono gli stessi che fabbricano morali, dogmi, canoni. Infatti, proprio al canone 155 del Diritto Canonico si appellano per far invalidare il matrimonio religioso di due credenti. Come credente era Piergiorgio Welby, al quale fu negato il funerale cristiano proprio nei giorni in cui si scopriva che un assassino della Banda della Magliana era sepolto addirittura dentro una basilica romana.

C'è, a Firenze, un sacerdote cattolico coraggioso. Si chiama Don Santoro, è parroco in uno dei quartieri più difficili della città, Le Piagge, e qualche tempo fa gli è stato distrutto il Centro Sociale annesso alla sua parrocchia da un raid fascista, con tanto di croci celtiche e scritte inneggianti a Mussolini. E' lo stesso parroco che, in una zona dove è fortissima l'immigrazione cinese, ha tentato in qualche modo di stabilire un ponte, ricavandone insulti, offese, le solite fiaccolate e quant'altro. E non ho nessun motivo di dubitare che don Santoro sia un uomo di fede, come lo sono stati Giorgio La Pira, don Facibeni, don Leto Casini. E come lo sono stati e lo sono, probabilmente, migliaia di cittadini che non hanno mai coniugato Dio con l'ipocrisia ed il potere.

Don Santoro, stamani, è andato contro. Ha preso e, nella sua chiesa, ha sposato Sandra e Fortunato davanti a quel Dio in cui credono, credendoci nella sofferenza e nell'impegno quotidiano che a Sandra, esponente storica del movimento transessuale, è costato lacrime e sangue. Chi era in quella chiesa, come l'anarchico credente Pierluigi Ontanetti, di cui mi pregio di essere amico, ha parlato di una cosa grandiosa, e di gioia autentica. Al telefono, prima, mi ha ripetuto una cosa fondamentale, un principio anarchico cui non è disposto a rinunciare: Nessuno è padrone di niente e di nessuno. Eppure, già due anni fa, l'arcivescovo Antonelli aveva impedito la cerimonia. Ci ha provato anche l'attuale arcivescovo, ma stavolta non ce l'ha fatta. Anche se, ovviamente, in tempi rapidi provvederà, dalle sue alte sfere, ad invalidare il matrimonio. E ripenso a quanti santi matrimoni perfettamente rispondenti al Canone 155, magari pronunciando corrette omelie, avrà celebrato quel fulgido esempio di prete chiamato don Lelio Cantini.

Ditemi voi, quindi, come mai oggi io dovrei parlare, come fanno tanti e tanti, di quel signore, ex giornalista “al servizio dei cittadini” e poi “governatore del Lazio”. Non me ne importa niente, né di quel signore, né delle sue “istituzioni”, né delle sue frequentazioni e neppure della sua "democrazia". Preferisco parlare di Sandra e Fortunato, porgendo loro i miei migliori auguri, i miei normalissimi auguri di persona umana.


Ristàilingh


Grandi opere di ristàilingh sull'Ekbloggethi in concomitanza con il primo anniversario del passaggio all'Asocial Network: cambiano i colori, un po' i caratteri e finalmente anch'io, dopo aver traversato tutto questo periodo tra bracchetti rossoneri, penne spadate (o spade pennate), visioni desertiche, sonatori d'armonica, amene città orientali, omìni con la telecamera & farfalline (altrui), mi son detto che forse era il momento di fare un uppodataggio. Il risultato è quello che vedete: e se non vi garba, sappiate che garba a me e che, quindi, dovrete portare pazienza.

Due parole, però, sulla foto che d'ora in poi accompagnerà il titolone (maggiorato) del blog. Poiché questo è un Asocial Network con tanto di nome, cognome, indirizzo e telefono del blogger, che sono manifestazioni (permettendo, naturalmente a chi lo desidera, di bypassare ogni sorta di stronzata retaiola e di constatare che chi scrive ha una voce, un fisico, una topaia dove dorme e sogna, un frigorifero, dei libri e persino una cucina, pensate un po'), ho pensato bene di inserire la foto, appunto, di una manifestazione. Anche in omaggio all'Isola d'Elba e alla sua storia, dalle quali provengo, si tratta del corteo dei lavoratori a Portoferraio, il 1° maggio 1945. Un corteo durante il quale si ebbero scontri con i Carabinieri: era imminente la chiusura definitiva degli altiforni, e la tensione sociale era enorme.

Così questa foto, che tutto è fuorché asociale, sarà legata all'Asocial Network di un tizio un po' bizzarro che, si dice in giro, è pure assai contraddittorio. Le si osservino e studino bene, però, le contraddizioni. Dicono una marea di cose, e sono tutte quante vere. E sono, probabilmente, anche le uniche cose del tutto coerenti che esistano in una persona, nella sua storia e nella sua vita.

venerdì 23 ottobre 2009

Москва находится в Хорватии


Come ho già avuto modo di specificare, tengo in casa mia alcuni libriccini piuttosto curiosi, dai quali mi sforzo a volte di estrapolare una parvenza di storia minore, che poi sarebbe la Storia maggiore vista attraverso piccole essenze di quotidianità passata. Un libro di scuola per le medie, ad esempio; nella fattispecie si tratta di un manualetto scolastico di lingua russa per una classe che, grosso modo, potremmo far corrispondere ad una nostra seconda media. Siamo esattamente nel 1959, nella Repubblica Socialista Jugoslava di Croazia.

Il libriccino in questione si intitola Ruska Vježbenica (qualcosa come “Libro di esercizi russi”), gli autori sono tali R.F. Poljanec e S. Madatova-Poljanec (probabilmente sposo e sposa, con lei di origine russa) e la casa editrice, tanto per ribadire l'uso della pubblicazione, si chiama Školska Knjiga (“Libro Scolastico”). Una cosa che salta senz'altro ai nostri occhi è l'assenza totale del prezzo di vendita: i libri scolastici per la scuola primaria erano infatti forniti gratuitamente a tutti gli alunni dal Ministero dell'Educazione della Repubblica Socialista Jugoslava di Croazia, come specificato in una piccola dicitura in terza di copertina. La stessa dicitura specifica che qualsiasi commercio privato del libro era severamente vietato. La casa editrice aveva ovviamente sede a Zagabria. Non mi ricordo come sono venuto in possesso di questo libriccino, anche se sicuramente dev'essere stato in qualche modo abbastanza pittoresco.

Lo scopo di questo mio post è dimostrare inequivocabilmente che Mosca si trova in Croazia e che la Storia penetra anche nelle pagine gratuite di un libriccino scolastico, peraltro assai ben fatto e che, a condizione di sapersela un po' cavare con il croato, permetterebbe a tutti di impadronirsi dei principi basilari del russo senza alcuna difficoltà. A questo punto, però, è bene fare intervenire brevemente la Storia.

Ci dice, la Storia, che nel 1959 la Jugoslavia di Tito e l'Unione Sovietica erano ai ferri corti. Essendosi liberata praticamente da sola dai nazisti, senza l'intervento dell'Armata Rossa, la Jugoslavia del croato Josip Broz (detto Tito) non aveva accettato di entrare nell'orbita Sovietica. Da qui le reciproche scomuniche, ed anche un discreto numero di jugoslavi filosovietici inviati a fare uno sgradevole soggiorno nella per niente amena isola dalmata di Dugi Otok (“Isola Lunga”). Da qui anche tutta la vicenda del Movimento dei Paesi Non Allineati, fondato con la conferenza di Bandung del 1955, a capo dei quali si pose idealmente proprio la Jugoslavia di Tito; paesi che, in qualche modo, rifiutarono la logica dei due blocchi, la guerra fredda e l'equilibrio basato sulle prove di forza atomiche e “spaziali”.

Tornando alla storia dei libriccini scolastici, c'è da dire che il serbocroato (allora si diceva ancora così, anche se in Serbia si preferiva dire croatoserbo) è una lingua slava. Anche il russo è una lingua slava. A parte il bulgaro e il macedone, che all'interno delle lingue di questo ceppo fanno un po' razza a sé, le lingue slave restanti si somigliano tutte quante; e il russo, storicamente e quantitativamente, è la loro principale. Neppure nella Croazia di Tito, nonostante tutti i problemucci politici, nonostante Milovan Đilas (o Gilas), nonostante l'Isola Lunga e tutto il resto, non si pensò nemmeno un momento di dare l'ostracismo allo studio ed alla conoscenza del russo. Solo che lo si adattò leggermente, diciamo così.

A pagina 7 della Ruska Vježbenica per le scuole medie croate del 1959, lezione n° 1, si vede un'illustrazione con una bella classe jugoslava, il ritratto di Tito, un'improbabile Torre Eiffel, la bandiera Jugoslava e l'insegnante di russo. I classici ragazzi protagonisti del corso si chiamano Ivan e Elena, nomi che possono essere benissimo sia russi che jugoslavi. La prima lezione verte, in russo, sull'importanza dell'amore per la Jugoslavia. A pagina 22 (Lezione n° 4), in russo, assistiamo ad una parata militare dell'Armata Nazionale Jugoslava per le vie di Zagabria; la lezione verte sull'uso dei numerali, e vi si fa cenno che i anche i paesi vicini (Bulgaria, Romania ecc.) sono stati liberati dagli antifascisti; del paese titolare della lingua russa, però, ancora, non si fa alcuna menzione. Seguono alcune lezioni sulla famiglia, sui giochi dei ragazzi, sulle vacanze al mare con scene mediterranee, sulle stagioni e sugli animali; neanche una volta compare la dicitura “Unione Sovietica” o anche “Russia”.

A pagina 40, nel bel mezzo di un dettato incentrato sull'uso del caso preposizionale, il maestro Ivan Petrović (Иван Петрович) -nome che, anch'esso, può essere benissimo sia russo che jugoslavo- tiene agli alunni, in russo, un commosso ricordo del patriota comunista croato Ivo Lola Ribar; gli alunni rispondono in coro, e ovviamente in russo, con grida di “Viva la Jugoslavia socialista!”. A pagina 46 si passa invece agli auguri per il nuovo anno, con un curioso albero di Natale agghindato con il Babbo Natale della Coca-Cola sormontato da una Stella Rossa circondata da bandiere tricolori jugoslave. Attorno, un festoso girotondo di ragazzini e ragazzine croate si fa gli auguri in russo; segue una commovente poesiola su un cagnolino abbandonato che ritrova la strada di casa nella neve.

La lezione successiva (pagina 48) è, in russo, una dettagliata descrizione della città di Zagabria, seguita da alcune lezioni sui successi dello sport jugoslavo dove si spiega il differente uso del genitivo russo rispetto a quello serbocroato. A pagina 60, invece, si ha l'autentica costruzione di un complesso di industria pesante sulle rive della Sava, con gli operai che sgobbano festanti in russo per illustrare l'uso dei verbi impersonali. Segue, a pagina 68, una lezione dedicata interamente all'aratura in russo della pianura danubiana presso Osijek (e presso Vukovar); della Russia ancora nessuna parola. Si raggiunge il clou a pagina 80 (36a Lezione), con la cronaca del 1° maggio per le vie di Zagabria, in russo. Nell'illustrazione, un corteo di lavoratori che procede con un gigantesco striscione che inneggia al primo maggio, al compagno Tito e al popolo lavoratore, in lingua russa (Да здравствует Первое Мая! Да здравствует товарищ Тито! Да здравствует наш трудовой народ!).

Quel che non ti aspetti, avviene a pagina 84. Forse presi da un qualche piccolo scrupolo, il signore e la signora Poljanec decidono -a loro rischio e pericolo- di inserire una lezione (la n° 39) incentrata nientepopodimeno che su Mosca (Москва), periferica cittadina dove, al pari di Zagabria, si parla il russo (ma, probabilmente, in una forma dialettale e del tutto aberrante dal buon uso croato). Nella lezione si danno preziose informazioni su quella lontana e insignificante città, tipo che nel suo centro si trova tale “Cremlino”, una non meglio precisata “Piazza Rossa”, che vi sono dei “larghi viali” e, in ultimo, che vi è nato Aleksandr Sergeevič Puškin e che vi si trova una metropolitana simile a quella di Zagabria. Evidentemente preoccupati per tanto ardire, gli autori dedicano le ultime due lezioni del corso alla eroica biografia del Maresciallo Tito, alla costruzione del socialismo jugoslavo e alla nostra patria Croata. Da specificare però che, nella biografia di Tito, il signore e la signora Poljanec si concedono ancora due righe di trasgressione, nominando tra gli ispiratori di Tito addirittura tale Vladimir Il'ič Ul'janov (generalmente noto come Lenin), capofila di una misteriosa “Rivoluzione d'Ottobre” sulla quale non si fa peraltro alcun'altra menzione. Il tutto, ovviamente, in lingua russa; lecito immaginarsi l'effetto che farebbe, ad esempio, una grammatica norvegese interamente ambientata a Bologna, oppure una grammatica estone anticomunista completamente situata all'interno di una piccola università delo stato dell'Indiana; solo che, debbo dirvelo, quest'ultimo esempio è assolutamente reale. Si tratta del Basic Course in Estonian di Nicholas Poppe, pubblicato nel 1961 dalla Indiana State University di Bloomington (Indiana). Ho pure quello.

Con questo, spero di avere inequivocabilmente dimostrato l'assunto di questo post, vale a dire che, almeno nel 1959, Mosca si trovava in Croazia in qualità di lontana appendice di Zagabria. Ci sarebbe forse da immaginare anche che un imprecisato numero di alunni abbiano appreso più o meno correttamente la lingua russa convinti che si trattasse di una specie di dialetto del croato scritto con l'alfabeto serbo. La Storia, quella con la “S” maiuscola, irrompe dovunque; anche nelle pagine di un libriccino scolastico per le Medie. Ci parla del passato, del presente e del futuro, imperfettivi e perfettivi, durativi e momentanei. Ce ne parla coi suoi contraltari, come la grammatica della vicina lingua slovacca, anno 1955, che inizia con una citazione di Stalin e che procede imperterrita con lo Džugašvili da Gori che spiega anche la declinazione degli aggettivi e l'uso del dativo di possesso (un capitolo indimenticabile, lo giuro). O come la Grammaire Espagnole pubblicata in Francia nel 1937 e contenente esercizi antifranchisti. Posizioni defilate e particolari, ma la Storia parla, e parla in modo crudo. Può anche dirci che Mosca si trova in Croazia, e con tutti i suoi più plausibili motivi.



lunedì 19 ottobre 2009

Traffico


Ehi, tu.

Non è, ci mancherebbe altro, che voglia metterti fretta. Non ci tengo nemmeno un po' a fare il solito automobilista italiano che, non appena scatta il verde, comincia a strombazzarti dietro. Però, me lo dici di cosa stai cianciando al telefonino? Il verde, oramai, è scattato da una trentina di secondi e non ti muovi; alla fine, giocoforza, la strombazzata te la becchi, demente d'un camiciascollata sulla Smart; cazzo ti scollerai, poi, ché fa un freddo che si pela. E poi, tanto, se non te la faccio io, la strombazzata, te la fa la coda di 458 macchine che hai fatto sulla Salviati.

Ma lui no. Ciancia e ciancia. Un immenso bla bla bla che sembra fuoriuscire dalla macchinina tutta fluo; alla fine, come volevasi dimostrare, riscatta il rosso. Quasi mi accascio sul volante del pulmino, ché devo fare pure la Badia dei Roccettini e, magari, prendere un po' d'aìre m'avrebbe fatto anche comodo. Bisogna pensare ad altro, quando si deve stare tutta la giornata nel caos del traffico, come monsieur Hulot. Bisogna fabbricarsi delle storie per passare il tempo, senza però lasciarsi troppo prendere. Se le storie fossero troppo serie, ci si potrebbe distrarre; e non ci si può distrarre con della gente a bordo. Ci vogliono storie leggere, lievi, soavi.

Il cianciatore, del resto, non è che uno dei tanti. Da quando, in Italia, è severamente proibito parlare al telefonino alla guida (se non con il viva voce, e non ho mai capito questa denominazione: uno che parla senza l'auricolare ha la voce morta? Boh!), la percentuale di coloro che passano ore a sproloquiare al cellulare con una mano sul volante e buffe contorsioni quando devono cambiare marcia è aumentata a dismisura. L'osservazione degli automobilisti nel normale casino di una giornata qualsiasi è non solo istruttiva, ma riesce a dare molte misure di questo tempo. Oltre, naturalmente, a fornire l'ispirazione per le famose storie leggere di cui parlavo prima. Quelle che ti fanno, in certi frangenti, sopravvivere; e, forse, fanno sopravvivere anche diversi altri. Quelli, ad esempio, come il cianciatore fermo col semaforo verde; gli istinti omicidi sono una cosa sicuramente disdicevole, ma a volte prendono e, altre disgraziate volte, vengono pure esplicati.

Attaccando la Badia dei Roccettini (che, sia detto per i non fiorentini, è una salita veramente della madonna) in prima con quel furgone a nafta -non mi va in questo caso di dire diesel-, e mentre il cianciatore aveva invece svoltato a destra in via Faentina, mi sono immaginato la storia leggera di quel tipo. Trenta o trentacinqu'anni, giacca marrone, camicia bianca scollata, capelli di taglio medio sapientemente spettinati. Siccome il furgone è più alto, riuscivo a vedere sul sedile passeggero una valigetta 24 ore, delle cartelle sopra, e un libro il cui formato -anche se ovviamente non riuscivo a leggere cos'era- mi ricordava quello di un codice. Penale, o civile, o di procedura, o di qualche altra leguleiata.

La durata della telefonata, del resto, autorizzava a pensare che si trattasse di una complicatissima questione giuridica; all'altro capo del telefono, l'avvocato Maria Eletta Carotenuto, più o meno la stessa età, di un luogo imprecisato fra Bisceglie, Andria e Corato, laureata a pieni voti con una tesi sulla legislazione comunitaria per l'imbottigliamento delle acque minerali (con speciale riguardo all'aggiunta di anidride carbonica e altri additivi), regolare tirocinio, esame di stato, gavetta e finalmente il gran salto come socia del neocostituito Studio Legale Barigazzi, De Maria & Carotenuto. Lei, l'unica donna. Si faranno sicuramente strada. C'è da sgobbare. Non esistono orari. Cause improbabili. Di tutto. Il Barigazzi, iniziatore e socio anziano, è sposato con due figli; il De Maria e la Carotenuto non hanno tempo per impegnarsi in cose del genere. Magari si garberebbero anche, però c'è quella maledetta causa:

...ma insomma, Maria (guai a chiamarla anche Eletta, ndr), vengo ora da casa della Salvini, va sempre peggio con quella lì...aspetta un attimino che prendo la cartella...mann...eccola qui...come faccio a convincerla che il marito lo hanno ritrovato e fotografato a Cuba assieme a due ragazzotte?...” (Sì, lo so benissimo, questa l'ho ripresa pari pari da un romanzo del commissario Montalbano, ma mica sto scrivendo niente: mi sto semplicemente immaginando qualcosa così per fare, e allora posso anche copiare di sana pianta)

A proposito, Ernesto....a proposito...qui fra un po' succede un bel casino, te lo dico io. Altro che marito della Salvini a Cuba con le ragazzotte. Ma lo sai che il Bari (abbreviazione di Barigazzi, ndr) mi ha proposto di uscire con lui?....” (risatine)

Ma daiiiiiii......! Io lo sapevo che prima o poi ci provava con te, e pensare che la su' moglie...ma aspetta, ti dicevo della Salvini, oggi m'ha fatto una scenata di quelle che non t'immagini, a casa, ecco perché mi ha voluto vedere non in studio....”

Sì, ma ti dicevo....capisco...aspetta un attimo, ho uno SMS....”

(Ma ti mòòòovi, brutto stronzooooo....!!!!!)

“Eccomi...ma che è tutto questo bordello, Ernesto...?”

“Nulla...nulla, tranquilla, i soliti imbecilli che ti suonano dietro al semaforo...ma dove cavolo ci avranno da andare... (a potare siepi, a raccomodare caldaie, in ufficio, a affettare mortadelle, a calarsi in un tombino, a dormire, a scrivere il libro della propria vita, a suicidarsi eccetera, ndr)...aspe...ecco...ti dicevo...una scenata terrificante...il sor Salvini rischia grosso, stavolta...”

“Ma l'hai calmata un po' e avete studiato la questione...? Sì, sai com'è... Insomma, io non so cosa fare...”

“Nemmeno io....non è la classica cosa di lei che ha i soldi e lui che l'ha sposata per quello, lo sai...una quota nell'azienda ce l'ha anche lui, e in proprio, però ci sto lavorando per metterglielo in quel posto...ah ah ah....sì dai tanto si sa che....”

“Sì sì, poi ne parliamo stasera quando ricompari...però io dicevo che non so cosa fare...per quella cosa del Bari, mi mette un po' nei casini...”

“Casini per modo di dire...mica avrai qualche dubbio, no? Ma dai, Maria, è sposato....e poi....aspe....madonna ma come sono nervosetti tutti quanti oggi....”

“E accosta un secondo, che ti devo parlare....insomma....io avrei anche accettato...se poi gli dico di no e quello mi....”

“MA SEI MATTA??!?!?”

“Non so che dirti....sai, ho fatto due con....”

“Maria! Ma....non mi dire che ci esci davvero....”

“Fra due sere...ovviamente ti volevo chiedere....beh te lo chiedo da amica oltre che da collega...se tu potessi coprirmi....nel senso, se sei in studio e chiama la moglie del Bari, magari gli dici che siamo da un paio di clienti rognosi....sai gli orari, poi lei c'è abituata....”

“Maria....ma....hai presente....?”

“Mi stavi dicendo della Salvini....ci sono speranze....?”

“MA MI IMPORTA UNA SEGA DELLA SALVINI! Tu non puoi....no...!”

“Come non posso...? Scusa, ma ti metti a fare moralismi, proprio tu, che quando eri tirocinante ti sei portato a letto la figlia dell'avvocato Pasquinetti, e manca poco che....”

“Ma era una cosa diversa! Del tutto diversa! Io mica ero sposato...”

“Sì, ma la figlia stava per sposarsi con il figlio del Trapanese...”

“D'accordo, d'accordo, d'ac-cor-do! Però non puoi....Tu lo sai...”

“Senti, qui ci sto quasi seccando la scheda...ne parliamo stasera, va bene? Tu ora dove sei diretto?...”

“Dal Tirinn....no aspetta, accidenti... E BASTAAAAAA....! Ora se scendo, a te ti fo un culo, brutto stronzo....”

“Scusa?....”

“Nulla, nulla, ce l'ho con uno dietro che mi lampeggia....Non puoi!”

“Ma non vedo perché tu debba pigliartela così tanto! Mica ci vai di mezzo te! Caro il mio avvocato De Maria, quella che ci rischio sono io, vorrei ricordartelo!”

“No, cara avvocato Carotenuto, ci rischio anche io! E brava la mia colleghina, ora ti fai il socio anziano e poi lo so come vanno a finire 'ste cose...ma mi credi nato ieri....?”

“Brutto stronzo, ecco a cosa pensavi! Finalmente hai gettato la maschera! Hai paura che vogliamo farti fuori dallo studio! L'amico!...”

“Maria....”

“Cosa c'è, brutto stronzo? Vai dalla Salvini, vai! Io qui che ti confido una cosa tremendamente difficile, e lui pensa che glielo voglio schiaffare in culo! Allora lo sai cosa ti dico? Io col Bari ci sono già stata a letto! E neanche una volta sola! Hai capito?!?! “

(Rumore di inchiodata. Stridore di freni. Crash.)

“Ernesto...?!?!?”

(Silenzio.)

“Ernesto, perlamordiddìo....rispondi...!”

(Si sentono dei confusi rumori di persone inferocite e delle disperate grida di aiuto. La voce dell'avvocato De Maria Ernesto è concitata: “Fermi...! Non l'ho fatto apposta...Ma cosa fateee!? Scusate stavo parlando al telefono....era una questione di lavoro....fermi maledetti....! Non toccatemi la macchina!!!)

“Maria, ci sei! Ti prego, chiama il 113....qui mi stanno sfasciando la Smart a randellate...”

“Ma dove sei...?”

“Via Faentina...angolo via....so un acc....via del Lapo...fai alla svelta....ti prego!!”

“Ecco, vedi, io il piacere te lo faccio, però non dovrei farlo a uno stronzo come te...!”

“Maria, ti prego...aiutooo...!!!!”

“Non so...aspetta...sto finendo il credito.... (probabile ghigno diabolico dell'avv. Carotenuto Maria Eletta)

“Maria....perdonami....io ti amo! Ti amo, hai capito! Non puoi avermi fatto questo...Non puoi! Ti prego amore mio....lo so non è il momento....CHIAMA 'STO CAZZO DI 113, MI STANNO DISTRUGGENDO LA MACCHINA LA DEVO ANCORA FINIRE DI PAGARE!!! Poi vai a letto con chi ti pare, ti amo, ti perdóno, la Salvini...che cazzo dico...non avevo mai avuto il coraggio...il lavoro...i codici...”

“Ernesto....tranquillo...ho già chiamato....ora arrivano...”

“Ora prendo un taxi....volo in stu....”

(Silenzio ancora. Un corpo inerte giace sull'asfalto, con la camicia sbottonata; preso in pieno mentre era al telefono in mezzo di strada, da un Gasolone che stava superando la fila interminabile di macchine che si era creata. Alla guida, il manovale albanese Mehmet Haxhilleçi, che tornava in ritardo mostruoso al cantiere con un carico di mattoni forati. Stava parlando al telefono col capocantiere che lo stava cazziando dandogli, naturalmente, di albanese di merda e minacciandogli il licenziamento in tronco. Si sentono rumori di varie sirene. Il traffico è completamente impazzito: sulla Salviati si è creata una coda che oramai ha investito la Bolognese nei due sensi, fino al Ponte Rosso da una parte e a Trespiano dall'altra. Mehmet Haxhilleçi ha 22 anni, viene da un paesino vicino a Valona, è sposato e la moglie è incinta; perdere il lavoro sarebbe una tragedia, per lui. Gli toglieranno la patente, forse lo arresteranno e corre pure il rischio di essere linciato. La Smart dell'avvocato De Maria è stata completamente distrutta da vari corpi contundenti. L'avvocato De Maria è morto. L'avvocato Carotenuto Maria Eletta ha finito il credito. I vigili urbani sono imbottigliati in piazza delle Cure, l'ambulanza del 118 è imbottigliata all'angolo con via Trento e la Polizia sta guardando lo stradario per capire dove sia quella maledetta “via Pontina”, finché dalla centrale non comunicano che via Pontina è a Roma. L'avvocato Barigazzi, in quel momento, è in un'elegante gioielleria del centro a scegliere un regalino adeguato per la sua amante; sua moglie è al telefonino da 122 minuti con un'amica cui sta confessando che suo marito non la cerca più, dando ovviamente la colpa allo stress per il troppo lavoro. Riccardo Venturi, invece, è riuscito a sgamarla tirando su appena in tempo per la Badia dei Roccettini e ghighando inspiegabilmente; anche per oggi, con una storiellina leggera leggera, è riuscito a calmarsi e addirittura a procedere serafico rispettando tutte le regole del codice della strada, ché i codici esigono rispetto. Oddio, mica tanto, poi. Anzi, vadano persino affanculo; e pensare che quel poveraccio che cianciava al telefono, al semaforo verde, magari aveva sul sedile l'ultimo ponderoso best-seller di Wilbur Smith. Che, forse, era un disoccupato che s'era indebitato per comprarsi la Smart. Che stava al telefono con la figlia che non vede mai, separato da due anni, la moglie andata via da quello spiantato, ma questa è un'altra storia. Storie di tutti. Nel traffico bestiale, siamo delle bestie. Godiamo del male altrui, regoliamo conti sorridendo e ci plachiamo soltanto immaginando, a cuor leggero, distruzione e morte.)


mercoledì 14 ottobre 2009

Due sarti


Tutti i giorni, io o degli altri, li andiamo a prendere con dei pulmini attrezzati; si tratta di disabili gravi, assolutamente non deambulanti, che il giorno vengono tenuti in un istituto specializzato sulle colline attorno a Firenze. A vederlo dal di fuori, sembrerebbe a tutti un bel posto: ma l'ingresso è protetto non da uno, ma addirittura da due cancelli elettronici, e per accedervi con quei grossi pulmini muniti di piattaforma di sollevamento per le carrozzine a rotelle, bisogna vedersela con uno strettissimo vialetto murettato da entrambi i lati. Una manovra e un percorso difficilissimo, sebbene di nemmeno cento metri, prima di arrivare al piazzaletto dell'istituto dove la mattina scarichiamo quelle persone, e il pomeriggio le andiamo a prendere per riportarle a casa. A quel piazzaletto possono accedere soltanto gli addetti, e non saprei dire se sia un bene o se sia un male; ho costantemente dei sentimenti contraddittori al riguardo. Da un lato penso che a tutti farebbe un gran bene ricevere un salutare shock nel vedere che cosa significhi far parte di un certo tipo di umanità, ed anche come lavorano quotidianamente coloro che se ne occupano (in questo caso egregiamente, lo devo dire); dall'altro, però, penso che non dovrebbe mai essere uno spettacolo, e men che mai edificante o roba del genere. Non sarebbe comunque un luogo che lascerebbe indifferenti. Ma, tanto, sono questioni puramente teoriche; per entrare in quel posto non ci sono che tre modi. O ci lavori, o sei autorizzato a trasportarvi le persone, oppure sei un disabile grave. Quartum non datur.

È un cosiddetto servizio sociale che svolgiamo (e svolgo) da anni e anni. Un “giro” piuttosto lungo che impegna, se c'è traffico, quasi due ore; una volta sistemate le carrozzine nel pulmino con la piattaforma di sollevamento, devono essere ancorate con dei ganci speciali a “cric” che farebbero bestemmiare anche san Francesco d'Assisi, e poi si deve procedere al massimo a quaranta all'ora. Sempre lo stesso percorso, e sempre le stesse persone; tra di esse un ragazzo, che abita in un quartiere di là d'Arno. Proprio accanto alla porta di casa sua, c'è un negozio; anzi no, una bottega. Comincia qui questa piccola storia d'un giorno qualunque, che potrebbe essere ieri, un anno fa o forse anche domani. Chissà.

La bottega accanto alla porta di casa di quel ragazzo, è d'un sarto. Anzi, di due sarti, piuttosto anziani: un siciliano corpulento, e sempre sorridente, e un fiorentino che se ne sta sempre su una sedia a imbastire, a segnare col gessetto, a ritagliare pezzi di stoffa. Non è una boutique, è proprio una sartoria artigianale, con due uomini che vi svolgono, con la porta aperta, il mestiere o l'arte del sarto. Poiché ci capito da anni quando riporto a casa quel ragazzo disabile dall'istituto, è andata a finire che, con quei due sarti, prima ci ho scambiato qualche cenno; poi un buonasera; e, infine, s'è fatta non dico amicizia perché questo è un termine che non ho più nessuna intenzione di sprecare quando non si deve, ma diciamo almeno una lieve conoscenza. Quando l'accompagnatore riporta in casa il ragazzo, io di solito mi infilo nella bottega per scambiare qualche parola coi due sarti, e particolarmente con quello siciliano; quello fiorentino è sempre occupato a lavorare sulla sua seggiola, e alza raramente la testa. Oramai è diventata una consuetudine, una di quelle abitudini che a lungo andare mancherebbero; a forza di cinque minuti alla volta, ci si è conosciuti, si parla magari non di gran cose (ivi compreso il tempo che fa e le stagioni che cambiano), e ogni tanto ci si fuma una sigaretta assieme. A volte gliela offro io, a volte me la offre il siciliano. Intanto li guardo lavorare, ogni volta. Assolutamente rapito. Segnare, tagliare, cucire con precisione. Con il pensiero che non si vedono quasi più cose del genere, in una strada non certo centrale, in un'epoca in cui il lavoro artigianale sta scomparendo.

Il sarto siciliano, a un certo punto, se ne è accorto e mi ha chiesto come mai mi piaceva così tanto starli a guardare; allora gli ho raccontato, in tre minuti, una storia di famiglia. Una di quelle che, nelle famiglie, si raccontano sempre. Gli ho detto per prima cosa che li guardavo perché io non so fare nessun mestiere, a parte tradurre dalle lingue e guidare le ambulanze; e poi che il mestiere del sarto ce lo avevo avuto lontanamente in famiglia, e per via diretta. Sarto era il mio bisnonno dalla parte della nonna paterna, Aldrovandi Ede, e sarto ambulante nelle campagne del Mugello. Di quelli che partivano da casa battendo ogni contrada e fermandosi alle case a chiedere se c'era da fare un vestito, da rammendare qualcosa, e persino da raccomodare o risolare un paio di scarpe perché sapeva fare anche il calzolaio. Costume voleva, specie se aveva da fare un vestito intero o comunque più d'un lavoro, che rimanesse ospite della famiglia per tutti i giorni che ci volevano; lo sistemavano da qualche parte, gli davano da mangiare, e poi lo pagavano. Non sempre con denaro: anzi, era più comune che rimediasse un presciutto, un paio di galline pelate, o una balla di fagioli. Una volta, sia detto semplicemente, si fermò a lavorare in una cascina vicino a Sant'Agata del Mugello; fece il suo lavoro, e quel che ne ricevette stavolta fu una delle figlie dei contadini. Il padre e la madre di mia nonna, insomma. Nata, se ben mi ricordo, nel 1903: siamo comunque più di un secolo fa.

In questo modo c'entra il mestiere del sarto nella mia vita; da qualche parte anch'io sono stato tagliato e cucito, per così dire. E non è nemmeno una cosa nuova che mi sia garbato fermarmi a veder lavorare dei sarti: mi ricordo, quand'ero ragazzino e mi capitava di passare per via Lamarmora, di essermi fermato spesso alle vetrine di una grossa sartoria artigianale ancora esistente, da dove si vedeva lavorare. E così gliel'ho raccontato ai due sarti che lavorano accanto al portone del ragazzo disabile, e il siciliano mi ha chiesto se non avessi mai voluto imparare il mestiere. Gli ho risposto ridacchiando che era stato assai meglio di no. Credo che, mettendo metri, forbici, aghi e fili in mano mia, l'arte della sartoria ne avrebbe ricevuto un colpo mortale. Poi così ho aggiunto, guardando la bella roba esposta, che se avessi avuto i soldi necessari mi sarebbe garbato farmi fare un vestito da loro.

Il fatto è che, pur con tutta la sartoria ambulante che devo avere nel DNA, col vestire ho un rapporto, come dire, particolare. In pratica, non me ne è mai importato niente. Non per affettazione o per snobismo, ma perché davvero non la reputo una cosa importante. Inoltre ho anche il problema delle mie dimensioni: oltre a essere un armadio, sono pure sproporzionato. Ho un' “apertura alare” che a volte riesce a coprire i due lati di certi vicoli del centro storico; comprarmi un vestito già confezionato è un'impresa non soltanto economica. Se mi va bene di lunghezza, quasi sempre le maniche della giacca sono troppo corte; oppure se le maniche vanno bene, i pantaloni o non mi stanno o sono talmente corti da farmi sembrare “con l'acqua in casa”. Alla fine, ci ho rinunciato. Eppure, ogni tanto, il vestito della festa mi servirebbe; un paio di volte all'anno ho anch'io delle occasioni in cui dovrei almeno cercare di sembrare meno sciamannato del solito. Ma farmi tagliare un vestito su misura non me lo posso permettere, men che mai ora. Così ho tirato ai due sarti quella che voleva essere, ed era, una semplice battuta. Una cosa che si dice così per dire. Il siciliano mi ha guardato, e ha acchiappato un metro. Senza nemmeno lasciarmi il tempo di ragionare.

Avrà una cinquantadue”, ha detto il fiorentino sulla seggiola, alzando impercettibilmente il capo. “Cinquantadue un accidente”, gli ha risposto il siciliano mentre misurava. “Questo qui ha una cinquantotto”; e io non sapevo che fare e che dire. Ero vestito da servizio, con il pile verde e i pantaloni gialli fosforescenti; l'accompagnatore era ancora in casa del ragazzo disabile. Il sarto siciliano ha posato il metro, è andato nel retrobottega e ne è tornato dopo pochissimo con una bella giacca grigia e un par di pantaloni di fattura perfetta. “Su, forza, vada a provarselo”, mi ha detto. E ci sono andato, vista l'aria imperiosa che aveva assunto all'improvviso.

Avete presente un vestito che sembra tagliato e cucito addosso? Mai avuta una giacca, mai avuti un paio di pantaloni belli che mi stessero meglio. Come se ci fossi nato. Sono uscito fuori vestito di tutto punto, guardato in modo esterrefatto dall'accompagnatore che nel frattempo era uscito e stava tornando a ritirare su la piattaforma di sollevamento del pulmino. Il siciliano mi ha chiesto se mi piaceva e se mi stava bene. Gli ho risposto che non avevo mai avuto addosso qualcosa di migliore, e mi ha fatto un sorrisone battendomi una mano sulla spalla: “Ecco, allora se lo tenga pure”.

Mi sono messo a farfugliare qualcosa, completamente imbarazzato. Devo avergli chiesto qualcosa come “Ma...come mai?”, oppure, “Ma no, non pos...”; mi ha interrotto. Dicendomi semplicemente che dovevo tenerlo e che gli faceva piacere regalarmelo, ribattendomi una mano sulla spalla. E io, allora, mi sono rimesso la divisa di servizio, mentre quello mi impacchettava il vestito piegandolo in due secondi come a me non riuscirebbe fare nemmeno in un'ora. Sono uscito, ringraziandolo a voce bassa; l'impulso sarebbe stato quello di abbracciarlo, ma non si poteva. Passava troppa gente sul marciapiede, e poi non lo so nemmeno io. Ero anche un po' stordito. Magari lo farò un'altra volta. Ancora ringraziando piano, sono uscito dalla bottega e sono rimontato sul pulmino col vestito impacchettato; c'era ancora da completare il giro e riportare a casa l'ultimo dei disabili. Uno che non è un affatto un ragazzo, ma un uomo di cinquanta e rotti anni, che non abita accanto a nessuna bottega, ma a una ferrovia. L'accompagnatore era già rimontato.

Venturi”, mi ha detto.

Sì...”

Me la spieghi questa?”

Ti arrabbi se te la spiego un'altra volta?”

No, no, ma...”

Ecco, allora te la spiego la prossima volta, d'accordo?”

Va bene, va bene. Ma ora che si va a riportare il ******, cosa fai, ti fai regalare una locomotiva da un macchinista che passa?”

In effetti ho sempre desiderato avere una locomotiva tutta per me; ma andrà a finire che non gli spiegherò un bel niente, ché tanto i blog non sa nemmeno che cosa siano. Andrà a finire che ora dovrò assolutamente cercare un'occasione qualsiasi per infilarmi quel vestito meraviglioso; e pensare che a volte mi sono presentato in pantaloncini corti anche per fare degli interpretariati. Andrà a finire pure che, un giorno, arrivando davanti a quella bottega per riportare a casa il ragazzo disabile dal posto in collina protetto da due cancelli, la troverò chiusa. Sono vecchi tutti e due, i sarti; e qualcosa mi dice che non ce ne saranno di nuovi. E può essere anche che quel vestito, standomi così bene, avrà un giorno un'occasione che non potrò proprio evitare.