lunedì 30 novembre 2009

Die Kreuzfahne hoch!


Ora che gli sguìzzeri hanno votato contro i minareti, la civiltà occidentale può finalmente tirare un sospiro di sollievo. Al posto delle abòrrite architetture islamiche, gli elvetici potranno dar prova di tutta la superiorità della nostra civiltà, che si esplica ad esempio nelle sobrie, misurate linee del Casinò di Mendrisio:


Naturalmente,
non poteva mancare al riguardo l'illuminante proposta leghista, forte del risultato del referendum dell'amatissima Confederazione e del fatto che la Svizzera la croce ce l'ha nella bandiera da qualche secolo. Oddìo, forse nel Carroccio ignorano che ancora verso il 1850, durante una guerricciola di secessione cantonale tra cattolici e protestanti (la cosiddetta Guerra del Sonderbund, ove "Sonderbund" sta per "Confederazione Separata"), si mettevano al rogo gli arcivescovi cattolici (triste sorte toccata al presule di Friburgo, che fu bruciato in piazza), oppure che, sempre in quegli anni, le monache di clausura del convento di Einsiedeln furono svegliate nel cuore della notte dalla truppa, cacciate vie a pedate e lasciate assiderare, mezze nude, sotto una tormenta di neve (che gusto c'è a cacciar via le monache di luglio? Bisogna farlo in gennaio! NB: Il monastero di Einsiedeln si trova a circa 2000 metri di quota). E poi dicono degli anarchici spagnoli; i cristianissimi svizzeri li hanno preceduti.

Ma si parlava della proposta leghista, che oggi è su tutti i giornali & giornalazzi. Ora vorrebbero mettere la croce nel tricolore. La foto che illustra questo post riproduce infatti fedelmente la croce che i nazisti di via Bellerio vorrebbero realmente mettere nella bandiera italiana, in attesa di togliere anche gli odiati colori nazionali e lasciare soltanto la svastica (magari abbinata al sole patàno). Non a caso questo post reca, come titolo, le prime parole del Calderoli-Wessel-Lied.

NB. Vorrei dedicare sentitamente questo post anche a tutti gli snobbini & snobbetti più o meno di "sinistra" che, durante la recente questione sul crocifisso, si sono dichiarati e continuano a dichiararsi "annoiati", "scocciati" eccetera, perché, secondo loro, si tratterebbe di una "questione di scarsa importanza" con la quale si "distrarrebbe l'attenzione da cose più importanti". Peccato che, in definitiva, su queste "cose più importanti" (lavoro, repressione, erosione progressiva dei diritti civili ecc.) generalmente queste personcine non muovano ugualmente un ditino dal loro augusto culetto. Così, a forza di snobbate e di dichiarazioni di indifferenza ("e chissenefrega del crocifisso, a me non dà noia, c'è sempre stato, basta ignorarlo, uffà uffà"), prima o poi quella crocetta uncinatina là ce la ritroveremo davvero nella bandieruccia. Io invece penso che nulla vada lasciato passare, assolutamente nulla. E i crocifissi stiano nelle chiese e nei luoghi di culto, non nei luoghi pubblici di uno stato che si professa, buffamente, "laico".

Chissà


Chissà se è Giuseppe Verdi quello che tamburella
coi pugni sui coperchi della sua bancarella.
Non lo sapremo mai: la via dei genitori
col camion fa i mercati, non i conservatòri.

Chissà se è Anna Magnani la ragazzina in pianto
che conta i suoi peccati con il ragazzo accanto.
Non lo sapremo mai: ben presto avrà uno straccio
per non stracciarsi il cuore nel petto un po' di ghiaccio.

Chissà se poi è De André l'ubriaco che fischietta
al cesso in discoteca mentre i compagni han fretta.
Non lo sapremo mai: nella sua compagnia
si va spesso a ballare, non si fa mai poesia.

Chissà se poi è Van Gogh quel tizio che graffitta
sul muro qui di sotto con la sua bomboletta.
Non lo sapremo mai: ha già un posto sicuro
e il sindaco farà sbiancare anche quel muro.

Chissà se è Che Guevara quello che volantina
davanti alla sua scuola nel freddo ogni mattina.
Non lo sapremo mai: già preme la famiglia
che dia una mano al bar, fottuta la guerriglia.

Chissà se poi è Gesù quello che hanno beccato
mentre stava rubando in un supermercato.
Non lo sapremo mai: povere foglie morte,
per un dio di successo, milioni fan da corte.

Allain Leprest.
(traduzione italiana di Alessio Lega)

venerdì 27 novembre 2009

Supernatural Voyage Inc. (4a puntata)


1a puntata - 2a puntata - 3a puntata

Lo cercavo, almeno per salutarlo. Sentivo che non lo avrei mai più rivisto, oppure che un nostro eventuale prossimo incontro avrebbe recato con sé un mannello di cose non facilmente dicibili. Sembrava, comunque, tutto normale; la pista, la passerella, il largo bus aeroportuale. Quel che normale non appariva, erano le dimensioni smisurate di quell'aeroporto. Mi ero sforzato di non avere con me che il bagaglio a mano; con la mia piccola borsa da mille occasioni di vita qualunque, j'avais l'air d'un con. E mi canticchiavo la canzoncina di Brassens che fa proprio così, nel ritornello.

Si accesero, all'improvviso, delle luci quasi accecanti. La serata era afosa, senza un filo di vento, e l'unico movimento dell'aria percepibile doveva provenire da qualche stormo di uccelli che resistevano imperterriti ai risucchi degli aerei. Sembrava essersi volatilizzato, quasi fosse volato via assieme a loro; e mi coglieva un'inquietudine sempre sull'orlo di mutarsi in terrore. Le finte allegrie dei miei compagni di viaggio, ignoti e conosciuti, avevano ceduto al silenzio; con le luci accese si vedevano altri aerei, ed altre comitive che venivano istradate verso il loro trapassato. Un bus li raccoglieva, con la dicitura della destinazione; e mi accorsi con qualche fatica che doveva essere il settore dedicato agli italiani e ai francesi. Poco più in là, un gruppo di una cinquantina di persone veniva fatto salire per Daniel Balavoine; altri gruppi che non mi riusciva individuare lasciavano il calpestio di questa terra quotidianamenta maledetta per andare a soddifare un'antico occorrere, che una volta comportava un discendere nell'Ade, e ora un ascendere a qualcosa che s'implorava sommessamente che non fosse.


Non c'era più, no. Si tentava, nel gelo di quell'afa, di pensare a che cosa veramente stessimo a fare. Una voce quasi insensata, non sapevo neppur dire se fosse d'uomo o di donna, parlava del check out. C'era chi s'era portato dei bagagli come se dovesse andare in vacanza, e si preoccupava falsescamente di ritrovarli regolarmente; voci altoparlanti in un italiano da Berlitz che risultava più incomprensibile dell'inglese che nessuno del resto capiva, dicevano intuitivamente che non ci sarebbe stato nessun out. Tutto già predisposto. Organizzato. Don't mourn for me, organize. Una lama secondaria d'una luce fece scorgere, all'improvviso, quel che sembrava una torre senza nessuna fine.

Di fronte ad una visione improvvisa, che pure sai essere la destinazione d'un viaggio (quella per cui hai pagato, quella che hai considerato con insouciance in un piccolo normaldì d'estate nel tuo limitato mondo consueto, il gatto, il computer, la maionese, le bollette da pagare, i tuoi quarantasei anni d'ordinarie avventure), ecco la torre ergersi. Capisci che non è affatto una torre, ché non avrebbe alcun senso. È l'Ascensore Transiente Extracorporeo che si è materializzato, proprio come si materializza un cancro o una vincita di ottanta milioni di euro alla Superlotteria. Non pensi che possa esistere, finché non ti senti tutto addosso. Neanche il vedere: è il sentirselo addosso. Il medico che ti dice “hai questo”, la schedina che ti penetra nei capillari; e la vita cambia. Cambiava la vita, anche in quel momento, per tutti; il pretesto era un tizio che canticchiava canzoni. Dal registratore “Gelosino” che sgranava note e parole in un'adolescenza lontana, fino all'Ascensore per l'Altro Mondo. Non ci sarebbe stato nessun check out, nessun controllo; si trattava soltanto di entrare là dentro. Ci guardavamo tutti. E non c'era molto da attendere; ci vennero incontro gli addetti, quelli che ci erano stati assegnati dalla Supernatural Voyage Inc.

Un uomo alto e magro, che mi sembrava d'aver visto non so dove e non so quando, con un'andatura barcollante ed una curiosa spilla con un numero “69” sul bavero della giacca blu, comunque inappuntabile. Pantaloni grigi, d'alta fattura; su una camicia bianca la cravatta, pure blu, con il logo della SV. Non pareva essere particolarmente a suo agio, seppure nulla in lui fosse fuori posto; profferì un prego, seguitemi, in un italiano venato da un accento che mi risultava vagamente familiare. Lo accompagnava una donna, dai larghi occhi, che teneva in mano un cartello giallo con una scritta nera: FABRIZIO DE ANDRE' GROUP – ITALY. È lei a prendere l'improvviso la parola, con una voce stranamente querula, dissonante, irridente.

- Adesso farò un appello nominativo. È importante, per favore, che mi rispondiate tutti. L'eventuale assenza di una persona iscritta comporterà l'annullamento del viaggio. Siate precisi, vi prego.

E una sequela di nomi, tra i quali il mio. Mi venivano a mente quali e quante volte ero stato chiamato assieme ad altri, fin dalla scuola elementare, e rivedevo la maestra Marziali con gli occhiali neri, l'eterna nazionale in bocca e l'accento livornese. Rivedevo la visita militare quando un torbido medico militare mi tastava un po' troppo a lungo il mio cazzo di diciottenne. Rivedevo tutto quanto, come fossi in faccia a qualcosa che non si poteva dire e che andavamo peraltro ad incontrare.

- Bene. Ci siete tutti. Presumo che vi siano state spiegate le modalità del viaggio, ma se avete ancora qualcosa da chiedere, vi prego di farlo adesso. Eventuali rinunce sono ammesse fino all'apertura della porta dell'Ascensore. La vostra permanenza durerà esattamente novanta minuti, al termine dei quali dovrete presentarvi, con la nostra assistenza, alla porta di discesa; le conseguenze di un ritardo vi sono già state ampiamente illustrate. Durante l'incontro con Fabrizio De André potrete effettuare domande fermo restando che è facoltà del vostro targiett non rispondere oppure parlare liberamente, a suo piacimento.

Uno, due, tre, dieci, quindici, trenta secondi. Le porte si aprono.

Entriamo senza dire niente, anche se qualcuno, forse per farsi una bizzarra forza, si mette a cantare sottovoce Preghiera in gennaio. Non c'era.

Non c'era neppure fra i nomi chiamati all'appello. Un gruppo di trentacinque persone.

- Mi scusi!

- Prego, signor...

- Venturi. Riccardo Venturi.

- Signor Venturi, le porte sono già aperte. Non può rinunciare, ora.

L'uomo alto e magro mi guarda con un'aria strana. Sembra che voglia dirmi qualcosa senza poterlo fare.

- Signorina, non voglio affatto rinunciare. Però sono certo che manca una persona. C'era con noi un uomo anziano che...

- Signor Venturi, il gruppo risulta al completo. Di quale uomo sta parlando?

- Un uomo anziano, alto, le ripeto. Sedeva accanto a me durante il volo. Era con tutti noi all'imbarco. Non lo vedo più.

- Signor Venturi, probabilmente si sta sbagliando. Conosce il nome di questa persona?

- No. Non mi ha detto come si chiamava...

- La prego, allora, entri e non si preoccupi. Può darsi che lei abbia parlato con qualcuno dell'equipaggio...

- Non era dell'equipaggio. Era un viaggiatore come noi.

- La prego, signor Venturi, entri

- Ma...

- Entri, per favore.

Una mano ossuta mi spinge assieme agli altri. Un'altra mano mi fa cenno di tacere; è quella dell'altro assistente.

(4 - continua)



mercoledì 25 novembre 2009

Ultime notizie dal magico mondo di Feisbuk!


Oggi mi va di aggiornare un po' la favanovela della mia “famosa” falsa pagina Facebook. Da notizie fresche fresche, stavolta provenienti direttamente (e tramite il caro, vecchio telefono) addirittura da un artista, l'autore (che sembra essere sempre di più un'autrice) sta addirittura imperversando, o qualcosa del genere. Semba che la sua intelligentissima “tattica” sia questa: chiede “amicizie” a popolo e comune (cantautori, giornalisti del “Buscadero” o di “Mucchio Selvaggio”, musicisti eccetera) per poi mettersi ad insultarli pesantemente a mio nome. Così facendo, ovviamente, questo autentico genio (o genia) intende “mettermi in cattiva luce” in quel buffissimo “mondo parallelo”. Pare che il falso riccardoventuri abbia attualmente, e nientepopodimeno, che circa 600 "amici" (stavolta le virgolette ce le metto io): un autentico delirio, ma un delirio che la dice anche molto, ma molto lunga sul Social Network planetario.

Ignoro naturalmente su cos'altro “batta” quell'Einstein della tastiera, anche se posso facilmente immaginarlo. L'unica cosa che ho notato, tramite Shinystat, è che molti accessi a questo blog provengono proprio da Facebook: quasi un record per uno che, ostentatamente, nutre verso quella cosa un sovrano disprezzo. Così come lo nutre nei confronti di questi squallidi personaggini la cui parvenza di vita, oramai, non può essere separabile dall'invenzione del signor Zuckerberg, e da quello che verrà dopo di essa. Non si tratta oramai più neanche di una “Second Life”: quella è la loro First, and Only Life. L'unica vita che rimane loro.

Polizia Postale? Mon Dieu, che mi sono ritrovato a pensare qualche mese fa. Ora come ora, sono convinto che, se andassi a “denunciare” una cosa del genere, persino i poliziotti si piscerebbero addosso dal ridere. Andrebbe a finire che mi darebbero dodici ergastoli per aver fatto scoppiare un'intera stazione di Polizia Postale: sì, ma dalle risate. Mi vedo già i “Venturi Libero”, la mia fuga in Ecuador aiutato da Lorenzo Flaherty (purtroppo non tutti possono avere a disposizione un Gian Maria Volonté...), l'arresto, la battaglia sull'estradizione, La Russa che propone di boicottare l'amichevole Italia-Ecuador, i parenti delle vittime di via della Casella che non potrebbero mai perdonarmi. Ma non mi si chieda lo sciopero della fame. Quello no. Alla fine mi farei due o tre anni e poi mi butterebbero fuori di galera per disperazione, dopo che gli ho finito le scorte alimentari.

Ridere, sì. Mi dispiace per i sovente ignari feisbukkisti che si ritrovano sfanculati dal finto riccardoventuri (o dalla finta riccardoventuressa), ma del resto non glielo ha mica ordinato il dottore di infilarsi nell'autoschedatura mondiale. Per il resto, soltanto immaginarmi il tizio o la tizia che, in una data parte di ogni sua giornata, si mette alla tastiera per dedicarsi a fare un riccardoventuri inesistente, e a passare il tempo in questa santa crociata contro il sottoscritto, riesce a riempirmi soltanto di buonumore. Con la necessaria aggiunta che, se c'è qualcuno che si sta davvero sputtanando con tutto il mondo e condannandosi non solo alla solitudine, ma ad essere considerato soltanto un povero mentecatto, o mentecatta, questo o questa è lui o lei. Magari, chissà, stanno pure insieme, hanno messo su casa e faranno tanti bambini: ma san Cirillo Kornbluth ha indicato la giusta via.

(Anche se, a dire il vero, più che in marcia questi idioti mi sembrano simili ai Seduti del ragazzino di Charleville. Seduti alla tastiera.

Neri di pustole, butterati, gli occhi cerchiati da anelli
Verdi, le dita bulbose rattrappite sui femori,
L'occipite piagato da vaghe astiosità
Come le fioriture lebbrose dei vecchi muri;

Hanno innestato in amori epilettici
La loro bizzarra ossatura ai grandi scheletri neri
Delle loro sedie; i piedi alle sbarre rachitiche
Attorcigliati mattina e sera!

Questi vegliardi sono sempre intrecciati alle loro seggiole,
Sentono i vivi soli lucidargli la pelle,
Oppure, gli occhi ai vetri dove la neve sbiadisce,
Tremano del doloroso tremare dei rospi.

E le seggiole con loro sono cortesi: incrostata
Di bruno, la paglia cede ai lati delle loro reni;
L'anima degli antichi soli si accende rinchiusa
Nelle trecce di spighe in cui fermentò il grano.

E i seduti, le ginocchia sui denti, verdi pianisti,
Le dieci dita che tambureggiano sotto la seggiola,
Si ascoltano sciabordare tristi barcarole
E le loro zucche cominciano un dondolio d'amore.

Oh! non li fate alzare! È il naufragio...
Si ergono, mugugnando come gatti schiaffeggiati,
Aprono lentamente le scapole, oh rabbia!
I pantaloni sbuffano sui fianchi rigonfi.).




martedì 24 novembre 2009

La Storia? COMINCIA ORA!





FIORENTINA 12
Olympique Lyonnais 10
Liverpool 7
Debreceni Vasutas Sport Club 0

lunedì 23 novembre 2009

La voce della terra



Quella sopra è la voce della terra. E quando la terra parla, nessuno deve farsi illusioni. Non parla mai, la terra, in modo sommesso; parla con boati e reca distruzione e morte.

Il 23 novembre 1980, ventinove anni fa, una piccola radio locale di Avellino, Radio Alfa 102, stava registrando delle basi musicali da mandare poi in onda. Verso le 19,30 cominciò l'allegra mazurchetta che si sente nella registrazione; quattro minuti dopo, la voce della terra. In quel preciso momento, mentre la musica va, si ferma la vita di migliaia di persone. E la musica continua a andare, perché non c'è nessuno più a fermarla. Il nastro va fino alla fine, e registra l'agghiacciante connubio tra una musica popolare e il terremoto che cancella ogni cosa.

Non c'erano, allora, videocamere agli angoli delle strade. Questa è probabilmente l'unica testimonianza di quel che accadde in quel momento in Irpinia, in Lucania, a Napoli. Cominciarono poi ad arrivare le prime notizie coi telegiornali di quella domenica sera di novembre; all'inizio la classica frase, non si segnalano danni a cose e a persone. Poi ci fu la telefonata del parroco di Balvano, che aveva visto crollare la sua chiesa e seppellire genitori e bambini che stavano festeggiando la comunione. Poi cominciò a delinearsi l'inferno. E l'inferno peggiore, ben peggiore anche del terremoto, doveva ancora arrivare.


Fate presto, titolava il Mattino di Napoli. Si fece presto, infatti, a trasformare il terremoto nel colpo di grazia a quel che restava non solo delle zone colpite dalla sciagura, ma anche dell'Italia intera. In quel 1980 e negli anni successivi, il 1981 della P2, il 1982 delle guerre di mafia, gli anni '80 dell'edonismo da bere, questo paese è morto.

Accanto agli slanci e alla solidarietà delle migliaia di persone che accorsero a cercare di fare del bene, quasi sempre nella confusione totale di uno stato che difendeva peraltro ferocemente la sua assenza e, al tempo stesso, la sua delinquenza. Il terremoto che diventava soldi, soldi a palate; la voce della terra che diventava quella di un potere la cui vera essenza, oramai, appariva chiara. Non disgiungibile dalle mafie, perché le mafie e il potere sono la stessa cosa. Eliminare chi tentava di portare alla luce l'inferno che, già il giorno dopo il terremoto, aveva spalancato doppiamente le sue porte sulla vita di chi era morto, e di chi era sopravvissuto.

Quante volte si è fatta sentire la voce della terra, in questo paese. Nella stessa zona dove ora i turisti vanno ad ammirare le vestigia pietrificate di una città sepolta da un vulcano duemila anni fa, hanno costruito di tutto. Se quel vulcano si risvegliasse, come già ha fatto nel 1944, fra duemila anni i turisti vedrebbero la vita fermata in mezzo ad una giornata di caos, agli scempi edilizi, ai dissesti, a facce sui muri che promettono cambiamenti sempre più vuoti, sempre più privi di ogni significato. Terre ballerine le hanno sempre chiamate.

Messina e Reggio, Avezzano, il Belice, il Friuli, l'Irpinia, l'Umbria. E poi L'Aquila. Ce ne saranno ancora, di terremoti. Sempre con le solite case costruite dove non si doveva. Sempre con le solite infrastrutture delinquenziali. Sempre con le solite facce messe a nudo. E sempre coi soliti tromboni che prosperano sulla morte. Consegnano casette in diretta TV, ospiti dei loro servi; e nel frattempo, laddove la voce della terra ha ucciso migliaia e migliaia di persone, progettano i loro ponti faraonici affinché si possa consegnare sempre più denaro al loro sistema. E le facce, inebetite, di chi è ancora vivo si affollano quando il Grande Capo si offre all'applauso dei poveri cani che ricevono le briciole dal padrone.

E allora è bene ascoltarla, la voce della terra. Sentirla bene, da quella misera registrazione di Radio Alfa 102. Capire che, domani, stanotte, potrebbe toccare anche a te. Un giorno qualsiasi. Un 23 novembre, un 6 aprile. E se avrai la ventura di non essere inghiottito e di sopravvivere, sai già quel che ti aspetta in questo paese il cui vero terremoto, quotidiano, senza tregua e senza scampo, si chiama potere, e si chiama servilismo, e si chiama anche con un terribile miscuglio di carogneria e rassegnazione.





L'infanzia


"L'infanzia nasce da un ritorno di se stessi,
giacché in uno strano eco s'immobilizza e s'allontana dai giorni;
anzi nasce proprio da una cosa 'specchiata'
con le ridenti spighe gialle e con i campanili conoscenza eterna
(di poco tempo), e sempre a sapersi da un tempo infinito
come a stare sempre sulla riva di un giorno."

Dino Campana.


domenica 22 novembre 2009

Un buon uso sapremo far


Non abbiamo, e non possiamo avere nessuna pretesa di buttare giù le loro galere, e il loro sistema-galera, con una e nemmeno con cento manifestazioni, iniziative, concerti, sensibilizzazioni. Non stiamo minimamente a contemplarci. Non ci diciamo mai di essere né dei resistenti né niente, anche se la Resistenza, in questi tempi di merda, cerchiamo di farla ogni giorno, ogni momento. Ognuno come può e come sa. Fare e basta, senza starsi tanto a chiedere se ne "valga la pena", senza farsi prendere nemmeno un momento dal pensiero di una resa. Senza rinchiudersi, uscendo fuori. Di nuovo davanti al carcere di Sollicciano, ad esempio; è la seconda volta in pochi mesi.


La prima volta è stata il cinque settembre scorso, dopo il terribile agosto delle rivolte. Ci siamo tornati ieri sera, con un compagno là dentro. Ma non soltanto per lui, perché così non può e non potrà mai essere; ed il Mannu è il primo a saperlo. Ci siamo tornati con un autunno di repressione in corso, coi morti tra le sbarre, con le minacce di sgombero, con le vite spezzate, con le sveglie all'alba, col divieto oramai appurato non soltanto di essere giovani, ma tout court di essere vivi. E noi, invece, non rinunciamo alla vita. Non ci rinunceremo mai. È la ragione per cui questa cosa sotto una galera si apre con la foto di una bambina appena nata, Bianca, in braccio al babbo e con in mano una lattina di birra più grande di lei. Là sotto, sotto quel posto di morte, noi, un sabato qualunque di novembre, portiamo vita e speranza. E portiamo voci e suoni. Portiamo musica, perché sia sentita non soltanto da chi è chiuso al di là di quelle sbarre maledette, al di là delle torrette con le guardie armate.

Un camion e dei ragazzi, i Kalamu, che non hanno esitato, per portare la loro solidarietà al Mannu e a tutti coloro che stanno in quella galera, a ficcarsi su un paio di macchine scassate e venire su a Firenze da Cosenza. Assieme agli altri gruppi di qui, ai Malasuerte FiSud, ai GuestSka, alla Banda K100. E a Fabrizio De André. Perché sotto una galera, Nella mia ora di libertà c'è sempre. Ma non per offrire un'ora o un secolo di libertà; c'è per dare un senso. C'è per dire che, al posto dei signori delle galere, noi non ci sapremo mai stare.

Non sapremo mai al posto di coloro che imprigionano, reprimono, ammazzano e suicidano. Coi loro articoli bis, ter, sexies che dilatano in senso sempre più generico le maglie entro le quali una persona si ritrova ingabbiata. Saremo sempre lì a inorridire di fronte anche a una sinistra che non trova di meglio che sbavare addosso agli eroici magistrati, vale a dire agli stessi mandaingalera che non esitano ad etichettare come terrorismo un petardo, e che hanno scatenato, dall'interno del sistema repressivo di cui fanno parte, una campagna di vero e proprio annientamento di ogni voce dissenziente, di ogni lotta, di ogni autentica opposizione. Basta che ogni tanto facciano finta di istituire un processino a Berlusconi, e diventano automaticamente fulgidi eroi della legalità. Ma sono i medesimi che, ogni giorno, incarcerano il Mannu per un raudo, una rissa mai avvenuta e una palma, e che mandano assolti con tante scuse degli assassini.


E così, eccoci ancora una volta sotto una galera. Al di là di sbarre che, comunque, oramai ci rinchiudono tutti quanti. Sacrificando quelli che dovrebbero essere i giorni di riposo dopo una settimana di lavoro malpagato, precario, inesistente, che del resto è una delle forme privilegiate della galera totale. La galera e il cimitero di chi muore ogni giorno, di chi non riesce e non riuscirà mai a condurre una vita degna di questo nome.

E, questo, proprio nel giorno in cui il potere cerca di farsi bello con una delle sue luride beffe. Non contento di prestarsi affinché tutti siamo messi a tacere, non contento di fare comunella coi peggiori fascistelli locali, tutti futurismo e questurini, non contento di minacciare sgomberi con ogni sorta di piccola e grande vessazione quotidiana, ora si mette pure a dare lezioni di libertà istituendo, nello spazio che fu della galera che ha preceduto questa sotto cui stiamo, addirittura una Casa del blogger perseguitato. Un "laboratorio di libertà", lo chiamano, mentre stanno eliminando ogni forma di libertà esistente in questa città. Basta, ovviamente, che il "blogger perseguitato" sia la finta "dissidente" modaiola cubana con tanto di sontuoso server e blog redatto in 18 lingue dal quale spara le sue balle che tanto fanno notizia. Basta naturalmente che la persecuzione avvenga dove fa comodo, e possibilmente molto lontano da qui; qui, invece, la persecuzione, la repressione e l'eliminazione fisica hanno ben altro tipo di "casa". Si chiama casa circondariale. Logico che le loro case della libertà le sistemino in una vecchia galera: è il loro cardine.

Ma noi, come cantava Alfredo Bandelli, sappiamo bene quale uso farne davvero delle loro galere. E anche dei tetri vialoni di periferia che le circondano, dedicati magari, come nel caso di Sollicciano, a qualche magistrato eroe vittima del terrorismo, quando alle centinaia di vittime che questi eroi continuano a fare assieme al loro Stato e alla loro polizia non è dedicato nemmeno un viottolo di campagna. Ogni qual volta sia necessario, riempiamo quei vialoni di musica, di suoni, di vita e di sorrisi. Nonostante tutto. E sono cose che stanno talmente sul gozzo a Lorsignori, e che fanno loro talmente paura, da desiderare ancora più repressione e morte. Perché sanno che sono cose terribilmente contagiose; altro che un' influenza annualmente trasformata in pandemia per far fare più soldi alle multinazionali farmaceutiche e a quelle della paura. Eccolo qui, invece, il vaccino:




venerdì 20 novembre 2009

Estintori



Notte fra il 19 e il 20 novembre 2009.

Ci sono notizie curiose e tragiche, come si confà ad una tranquilla notte di regime. Questa immagine benniana mi è venuta in mente percorrendo il viale Guidoni, fra puttane nigeriane e puttane ucraine, fra barracci aperti e repressioni più aperte dei bar.

Notizia curiosa n° 1: il Placanica, quello di Carlo Giuliani, sembra essere indagato a Catanzaro per violenza sessuale su una bambina di 11 anni. Dalle foto appare una specie di schifoso bozzolo inculato a Fito. Probabilmente è anche lui una specie di vittima offerta oramai al pubblico ludibrio. Più o meno come il figlio dell'orafo Torreggiani. Si potrebbe dire che il famoso estintore che gli è stato tirato addosso poteva servire per calmargli i bollenti spiriti; e si potrebbe dire anche che non è tuttora ben chiaro quanti abbiano sparato addosso a Carlo. Una facile battuta e un macello da offrire al potere, che macelli esige.

Si potrebbero dire tante cose. Il fatto è che, ora, c'è una ragazzina di undici anni che prova sulla sua pelle che cosa voglia dire avere a che fare con un maschio da povera prima pagina, e che il maschio da prima pagina intuisca almeno obnubilatamente che cosa voglia dire essere tritato per fare il servo.

E servo armato.

Carlo, di sicuro, da quel nulla in cui è non se la ride affatto perché aveva e ha un'umanità che a questi fossi biologici non compete.

Eppure al Placanica avevano già mandato qualche avvertimento. Chissà chi gliela ha sabotata la Ford Focus dello zio. Secondo me sono stati quelli del maresciallo Rocca o della stazione di Gubbio del prete don Matteo, così tanto pour faire une blague.

Poi c'è l'articolo 270. Bis, ter, quater, quinquies, sexies.

Ce l'ha spiegato un giovane avvocato di Viareggio, a un'assemblea alla SMS di Rifredi. La SMS, a Rifredi, si ostina a voler significare Società di Mutuo Soccorso, e non messaggino sul telefonino. Ed è una storia terribile, di terrorismo generico, di genericità che si espande fino a catapultarsi nelle nostre vite. Nella mia, nella tua, in quella di tutti. Tutti siamo passibili di essere schiacciati.

L'articolo 270 che, da una conservazione della classe dominante espressa da un codice fascista, si dilata ancora di più, passando per le leggi speciali, nella cosiddetta democrazia. La democrazia che supera il fascismo, con i suoi adattamenti espressi mediante gli avverbi numerali latini. Nelle lucide parole di un avvocato, la percezione esatta e, al tempo stesso, inesprimibile, della galera sempre più vasta che stiamo vivendo e che dobbiamo affrontare. Ho forse sbagliato a nutrire una grande avversione verso lo studio e la comprensione del diritto. Stasera, nelle parole di quel giovane nervoso e chiaro, con addosso un impermeabile dove stava tre volte, ho capito davvero con che cosa si ha a che fare.

Ho addosso una lucida e allegra disperazione.

Estintori, sì. Ma i veri estintori ce li dobbiamo sudare. Sono caricati a schiume che non si trovano facilmente, e che costano carissimo. Costano, a volte, il dover considerare di rinunciare a molto, e forse a tutto, per una scelta.


mercoledì 18 novembre 2009

Un uomo morto


Cosa si scrive su una cosa del genere?

Si potrebbe dire che non si sa se Cesare Battisti abbia o meno commesso i crimini per i quali è stato condannato; ma non è questo il punto.

Si potrebbe anche dire, se si ha ancora un minimo di discernimento e di umanità, di andare a leggersi tutto quel che è stato scritto su Carmilla On Line, una delle poche voci (e forse la sola) a non essersi adeguata. Andateci, sì, se volete. Anche se non lo farete perché avete paura. Ma non è nemmeno questo il punto. O perlomeno non lo è del tutto.

Si potrebbe dire che il sig. Gilmar Mendes, il "giudice della corte suprema" brasiliana che, col suo voto, ha spalancato a Battisti le porte delle carceri italiane, è tutto quel che si vuole, con tendenza alle peggiori cose. Ma proprio non è questo il punto, no davvero.

Si potrebbe ancora dire che, finalmente, giustizia è stata fatta; ma parlare di giustizia in Italia è come parlare di frigoriferi al Polo Nord. In Italia la giustizia è quella delle stragi, dei servizi deviati, delle mafie. Ma ancora una volta, non è questo il punto.

Il punto è che Cesare Battisti si appresta a divenire un uomo morto. Perché è stato condannato a morte.

La cosa, a molti, potrà anche fare piacere. Farà senz'altro piacere ai parenti delle vittime, o meglio a quelli delle vittime di serie A. Quelli che servono ai disegni del potere. Quelli che vengono intervistati di continuo. Quelli che contribuiscono a far sì che la storia di questo paese rimanga ferma.

E se qualcuno mi dice che io non ho rispetto verso queste persone, rispondo semplicemente che nessuno è mai andato a intervistare i parenti di Francesco Lorusso, o di Giannino Zibecchi. Nessuno sa che faccia abbiano i parenti di Rodolfo Boschi. Quelle, come altre centinaia di persone, non sono vittime. Non esistono. Non hanno diritti. Nessuno ha alcun diritto quando l'assassino, pur con diecimila testimonianze più attendibili di quelle che stanno portando alla forca Cesare Battisti, si chiama Stato.

E allora non mi si chieda rispetto verso nessuno.

Si abbia solo il coraggio di dire che Cesare Battisti è un condannato a morte, un dead man walking. Poi se ne gioisca pure, come del resto la classe politica italiana, senza eccezione alcuna, farà e già sta facendo, ben coadiuvata dalle sue fanfare, dai suoi tamburi e dalle sue televisioni di merda.

Oppure, se non se ne gioisce affatto, e se si considera tutto questo come un assassinio legalizzato, non ci si nasconda. Non si volti la testa dall'altra parte per timore di essere considerati complici. Non si pensi alla propria immagine da difendere, ché dire le cose che io sto dicendo in questo momento fa, sicuramente, perdere molta "considerazione".

Lo so benissimo quanta "stima" perdo. Ma come, il Venturi delle "storie elbane" e di tutto il resto, che si schiera perché un maledetto terrorista cui vengono fatte pagare le sue malefatte. Ma il Venturi risponde soltanto alla sua coscienza, e la sua coscienza gli dice questo.

Non servirà, naturalmente, a niente. Nel voto del senhor Mendes ci sono tante cose, e nessuna ha a che fare con la giustizia. Ha a che fare con rapporti internazionali, con affari, con petroli, con commesse. È semplicemente un prezzo per mantenere buone relazioni. Così come la libertà di Silvia Baraldini è stata barattata coi morti del Cermis. Il cadavere di un Cesare Battisti può ben servire a cementare gli ottimi rapporti fra due stati amici. Qualche libbra di carne, di fronte agli Stati, non è niente.

A maggior ragione se il cadavere è quello di un volgare assassino (secondo la definizione del camerata Gianfranco Fini, talmente camerata che lo hanno fatto presidente della camera).

E non serve più nessun'altra parola.

Del resto, nel paese dove si può finire in galera per una scritta su un muro, per venti fotocopie non pagate o per un petardo, altre parole potrebbero essere molto pericolose.

E in galera si muore.

Fate conto quindi che questo post non sia stato scritto da me, ma da chi in galera è morto e continua a morire. Senza essere nessun volgare assassino. Basta essersi fumati una canna o addirittura non avere fatto niente di niente. Lì dentro, si è solo carne da macello.

Tornerà in Italia, Cesare Battisti. Cui il destino non ha risparmiato neppure di essere omonimo di un cosiddetto eroe della Patria. Uno che, però, dal tribunale austriaco che lo aveva giudicato e mandato a morte, fu definito un traditore e un terrorista. I terroristi sono sempre fabbricati dal Terrorista vero, vale a dire dallo Stato. E sono sempre uomini morti.

Tornerà in Italia e la sua morte lenta sarà accompagnata dalla farsa dei perdoni, come di consueto. Ben presto se ne smetterà di parlare. Avrà adempiuto alla sua funzione di pedina di scambio. E a quella di servire da monito. Una certa "stagione" non può essere chiusa. Deve rimanere sempre aperta perché fa un comodo terribile a Lorsignori. Ma non si parli mai di giustizia: si parli sempre e solo di vendetta infinita.

Scrivono, sulle gazzette, che l'ultima parola sull'estradizione di Battisti spetterebbe a un presidente, tale Inácio Lula Da Silva, che un tempo faceva pure l'operaio. E anche uno che, una volta presidente, non ha trovato di meglio che ripetere la solita battuta idiota che fu pronunciata anche da Yves Montand: "Chi è non è di sinistra a vent'anni è senza cuore, chi lo è a sessanta è senza cervello". Lo abbiamo visto, il Lula operaio, recentemente al solito "vertice". Non c'è naturalmente nulla da sperare da un tipo del genere. Anche se ha detto di essere personalmente contrario all'estradizione. Ma anche che non si opporrà alla decisione della "Corte Suprema". Così, bellino lui, si salva pure la faccia.

Bene. Questo è quanto. Si dia pure inizio all'esecuzione.

E se qualcuno vede, durante un viaggio a Tokyo, il signor Hagen Roi, gli chieda magari come ha fatto ad avere la cittadinanza giapponese.





domenica 15 novembre 2009

A Pontassieve grandina


A Leningrado nevica, a Pontassieve grandina; così David Riondino in una sua famosa e dissacrante parodia di Franco Battiato.

Ma il 15 novembre, in una strana domenica pomeriggio grigia e calda al tempo stesso, a Pontassieve grandinavano soltanto la rabbia e la voglia di non arrendersi mai. Il Mannu è di Pontassieve. A Pontassieve è stato tirato giù dal letto dalla Polizia, come il peggiore dei delinquenti, mentre dormiva con la sua ragazza. Ora è dentro una cella di una galera, accusato di essere un terrorista perché - dicono- ha messo un fuoco pirotecnico liberamente in commercio (così recitano gli atti) alle sei di mattina di un 1° maggio all'ingresso dell'Agenzia delle Entrate. In un paese dove ancora ben altri fuochi pirotecnici, e per nulla liberamente in commercio, piazzati nelle banche, sui treni, nelle piazze e nelle stazioni, hanno fatto centinaia di morti senza nessun colpevole.


Una manifestazione organizzata da altri ragazzi di Pontassieve, le Voci dalla Macchia. Quasi col tam tam della foresta. Si pensava, sabato sera al CPA, di essere in trenta o cinquanta, bene che andasse; eravamo in più di cinquecento. Una domenica pomeriggio in un paese di diecimila abitanti, che forse non aveva mai visto una cosa del genere. C'era chi, all'avvio della manifestazione, scherzava macabramente dicendo che quella poteva essere la Bloody Sunday di Pontassieve; ma non è scorsa, fortunatamente, nemmeno una goccia di sangue. E' scorsa, invece, una marea di gente sull'antico ponte della cittadina. Con la gente alle finestre e i ragazzi a dare volantini perché si potesse capire che cosa era accaduto e, soprattutto, che cosa sta accadendo quotidianamente.

Si chiama repressione. Della repressione non ti accorgi finché non ti piomba addosso, una mattina presto. C'è una canzone di José Afonso che forse la descrive meglio di ogni altra cosa. Si chiama Era de noite e levaram. Ecco cosa è successo a Francesco Mannucci, detto Mannu, un ragazzo di 25 anni:



Era di notte e portarono via
era di notte e portarono via
chi dormiva in questo letto
in questo letto, in questo letto.

Gli imbavagliarono la bocca
gli imbavagliarono la bocca
con panni di fredda seta
di fredda seta, di fredda seta.

Era di notte e rubarono
Era di notte e rubarono
quel che c'era in questa casa
che c'era in casa, che c'era in casa.

Restaron solo corvi neri
Restaron solo corvi neri
dentro nella casa vuota
la casa vuota, la casa vuota.

Rosa bianca, rosa fredda
Rosa bianca, rosa fredda
nella bocca del mattino presto
mattino presto, mattino presto.

Un giorno dovrò piantarti
un giorno dovrò piantarti
nel mio petto, bruciata
nel mattino presto, mattino presto.

Senza cambiare una virgola. Nella dittatura fascista portoghese che più volte si portò via José Afonso, e nella democrazia italiana per la quale un ragazzo che mette un petardo davanti all'Ufficio Imposte (e torniamo a chiamarlo come si deve chiamare!) è un terrorista, con tanto di ubbidientissimi pennivendoli che lo martellano nelle coscienze a perdere della gente.

La gente alle finestre, in questa domenica pomeriggio. Mentre il corteo sfila per una piazza intitolata a Quindici martiri che, no, alle finestre non ci stettero affatto. In una cittadina che, come tutte in questa regione cosiddetta "rossa", continua a commemorare ogni anno resistenze e venticinquiaprili privi oramai di ogni senso, e senza accorgersi che la Resistenza bisogna farla ora. Il venticinque aprile non è una ricorrenza!, suona uno degli slogan più diffusi. Questo era un paese dove, un tempo, il sindaco democristiano di Pisa, un galantuomo che non aveva perso il senso della dignità, faceva abbrunare le bandiere ed era presente, in testa, ai funerali dell'anarchico Franco Serantini ammazzato impunemente dalla polizia. Oggi il sindaco "di sinistra" di Pontassieve non spende nemmeno una parola per un suo giovane concittadino prelevato con accuse ridicole.

Un ragazzo, con un bell'accento meridionale, cerca ad un certo punto di farli scendere dalle case, i pontassievesi, i concittadini del Mannu. Di un ragazzo che hanno portato via e rinchiuso a marcire in una galera. La ragazza di Francesco non se ne sta certo a piangere; è lì a volantinare, a parlare, a entrare nei negozi aperti per spiegare. La stessa cosa che fa sua madre, senza tremare, con voce ferma e calma, ad un altoparlante.

Dall'angolo di un palazzo sembra stare ad ascoltarla, forse solo apparentemente immobile e di pietra, persino Giuseppe Garibaldi:


E chissà se persino lui non sarebbe volentieri sceso in piazza per il Mannu, invece d'essere là a starsene a incancrenire nel tempo addosso a un palazzo che ospita una Sezione distaccata del Tribunale.

Sì, proprio così. A Pontassieve grandina. E continuerà a grandinare, dovunque sia necessario. La grandine manda in malora i raccolti, e c'è da far marcire, per sempre, le velenose semine del fascismo, della repressione poliziesca, dell'asservimento, dell'omologazione a oggetti da centro commerciale. Una grandine di mobilitazione e di solidarietà. Ultimamente questa parola gode di un destino curioso. Da una parte è letteralmente sconciata a base di vuota e comoda carità più o meno "cristiana", che perlopiù serve a tacitare coscienze sporche mediante offertine per i sinistrati di turno. Dall'altra viene derisa a base di snobismi più o meno arzigogolati. Quando c'è da esercitarla sul serio, ad esempio per un compagno sbattuto in galera ingiustamente, gli snob arzigogolatori la domenica se la passano bel belli al cinema o alla tivvù. Per tutti costoro i vaffanculo non saranno mai troppi.

Al prossimo corteo, ci deve essere anche il Mannu.

Corteo, o iniziativa, o lotta, o qualsiasi cosa sia necessaria. Deve uscire da quella maledetta cella, e assieme a lui gli altri compagni arrestati a Pistoia, a Livorno, ovunque.

Ci dev'essere a vedere come ci siamo anche divertiti, perché senza allegria non c'è lotta, e senza lotta non ci sarà mai allegria. Lo pensavamo quando vedevamo chiudere qualche finestra impaurita, coscienti di aver crudelmente strappato diverse persone a Domenica In, o Domenica in Famiglia, o Domenica Sport, o Domenica delle Salme. Come un imbecille che dalla sua finestrella ci gridava di andare a lavorare. A gente che in massima parte si fa il culo dalla mattina alla sera. Divertiti a andare in giro con roba del genere:


Divertiti anche, verso la fine del corteo, a pigliare per il culo un paio di pettoruti vigili urbani che "guidavano il percorso", facendo un bello scarto di lato in massa ("via!") e entrando dentro un centro commerciale quasi funereo, berciando a squarciagola Mannu libero! E quelli lì a rigirarsi come du' poeri bischeri, in mezzo alla strada, lasciati soli con le divise piene di peneri, i fischietti e i berrettoni che troverebbero miglior uso come padelle; e non mi riferisco a quelle per friggere.

Ecco, anche una cosa del genere, al pari dei volantini, degli slogan, degli appelli e di tutto il resto, è solidarietà. È grandine di libertà.




sabato 14 novembre 2009

Buoni e Cattivi, ovvero Crocifissi e Manganelli


La foto che vedete qui sopra è stata scattata in via della Colonna, a Firenze, lo scorso 11 maggio, davanti al liceo classico Michelangelo. Vi si vede, senza tanti preamboli, un gruppo di studenti medi fiorentini impegnati nell'essere presi a manganellate, a calci e a cazzotti dalle forze dell'ordine, durante una manifestazione. Una vera propria caccia al liceale, quell'undici maggio: DIGOS, forze antisommossa, Squadra Mobile, una quindicina di fermi, venti denunce. In una parola sola: repressione. Quando i ragazzini e le ragazzine non fanno i bravi e le brave, ci pensa la Polizia a far capire loro come va il mondo. Il mondo va come vuole che vadano i bravi presidi-carcerieri, come tale Massimo Primerano, il quale ha trasformato la sua scuola (il liceo Michelangelo, giustappunto) in una galera: per rendersene conto, basterebbe leggere il regolamento interno che ha imposto agli studenti.

Ci sono, ahimé, tanti, troppi studenti cattivi di questi tempi. Stanno tornando ad alzare la cresta, a non volerci più stare. Ad opporsi anche all'erosione delle ultime libertà, alle ultime superstiti conquiste dei loro genitori; genitori che, va detto, in diversi casi, passati gli anni, hanno messo la testa a posto e che, quando i figli e le figlie occupano la scuolina per protestare contro condizioni di studio e di vita che oramai somigliano a quelle di autentiche prigioni, non esitano a farla sgomberare. Sempre così: con l'eterno aiuto del signor preside-kapò e della DIGOS. Minacce, intimidazioni, manganelli, arresti. Sul blog della Rete dei Collettivi la situazione attuale è fotografata nella sua interezza:

"Le reazioni le abbiamo viste: presidi e questura si sono immediatamente mobilitati e riuniti al fine di accrescere i fascicoli che questi spioni hanno già da tempo creato sulle nostre teste, al fine di farci credere che tutto sta andando bene, al fine di reprimere queste lotte che sono ribellione, analisi e crescita. Si sono sprecate minacce di denunce, convocazioni da parte della DIGOS, invio di volanti davanti alle scuole occupate, in un clima di intimidazione che ci fa ricordare come ogni giorno le scelte sulla componente studentesca sono prese arbitrariamente da qualcun altro, che i rapporti negli istituti non sono paritari, che l'autoritarismo scolastico prepara lo studente a quando sarà reso precario, sfruttato e instabile da una città militarizzata e da un datore di lavoro. L'azione repressiva è andata in crescendo negli ultimi tempi, partendo dalle denunce e sospensioni agli studenti nell'Ottobre 2008, passando per i fermi senza nessun capo d'imputazione agli studenti diretti alla manifestazione contro il g8 di Luglio scorso (con relative perquisizioni in casa e deportazioni in questura per 12 ore) e le cariche agli studenti di Maggio, finendo con le irruzioni in 15 case di venerdì 6 e l'arresto immediato con isolamento a Sollicciano di Francesco."

Ma si sa: per tutti questi studenti cattivi che ancora non hanno perduto il desiderio ed il senso della lotta, ce ne sono -somma fortuna!- di buoni e virtuosi che portano avanti le vere battaglie che contano, finendo addirittura con nome e fotografia sui giornali cittadini. Ve ne presento uno, che in questi giorni ha ottenuto molta réclame da parte dei pennaioli cittadini di regime. Un bravo, santo e illuminato studente che ha trionfato nell'importantissima pugna di rimettere il crocifisso in classe.



Eccolo qua: si chiama, a quanto si legge, Guido Scatizzi ed è allievo della classe 1a A del Liceo Classico "Galileo", sempre a Firenze (e come dubitarne? In tutti i licei classici, la sezione A è quella dei "bravi"). Ha avuto persino l'onore di un articolo sul Corriere, che vale la pena di leggere. Contiene tutto ciò che da un bravo ragazzo di sedici o diciassette anni si aspetterebbe questa società. Per chi non abbia però voglia di leggersi tutto l'articolo, farò un piccolo riassunto contenente i fatti salienti.

Guido Scatizzi, che naturalmente è un bravo studente cattolico osservante, si è accorto con orrore che nelle aule del suo liceo non c'era più il crocifisso. In questa scuola attuale, naturalmente, questo è il problema basilare: e il prode Guido è partito in tromba. Democraticamente, va da sé: tutto l'articolo è permeato da quintali di assemblee, discussioni e dibbbàttiti con i compagni. Sia mai che il Guido venga presentato come un bigotto ragazzetto con una faccia da similprete (che, invero, ha tutta quanta): dev'essere invece fatto rimarcare il suo autentico anelito democratico, con tanto di votazione. Ovviamente, per lo Scatizzi, "Togliere il crocifisso dalle aule è un'ingiustizia contro le nostre radici culturali"; e per dire tutto questo ha dovuto iscriversi al liceo classico. Sarebbe bastato che avesse comprato tutti i giorni La Padania. Ma come sono presi, 'sti ragazzi cattolici, dalle radici culturali; e dire che, ad un liceo classico, se proprio vogliono le radici culturali che dicono di studiare, invece dei crocifissi dovrebbero appendere in aula i ritratti di Platone, di Catullo, di Aristofane, di Seneca.

Ma, naturalmente, il Guido è anche un ragazzo di oggi: poteva, ad esempio, per sostenere la sua santa battaglia, non ricorrere a Facebook? Detto, fatto: ed ecco l'immancabile gruppo Facebook, da lui fondato ed intitolato: Il crocifisso nelle aule è un diritto. Mediante discussioni e votazioni, per le quali -afferma orgoglioso- è andato persino a rispolverare un Regio Decreto del 1924, lo Scatizzi è riuscito a convincere la maggioranza. Un vero e proprio Pierferdinando Casini in sedicesimo. Una Binetti sui banchi di scuola. "Si rimette solo se c'è la maggioranza", afferma solenne il Guido Scatizzi. Intanto, però, l'iniziativa viene approvata con gridolini orgasmici dalla preside, tale Lucia Anna Calogero (la quale, con un nome del genere, non poteva fare che la preside: nomen, omen):

"Personalmente — dice — sono feli­ce della loro scelta. Però quando mi hanno chiesto il permesso di discuter­ne non ho espresso la mia opinione. Hanno deciso liberamente, senza con­dizionamenti. Nel 2002, quando sono arrivata qui, qualcuno li aveva tolti, ma ci sono ancora e se me li chiedono sono a disposizione. Sono un simbolo di civiltà, e non vedo perché debbano essere messi da parte".

Un "simbolo di civiltà". Esattamente così, infatti, pochi giorni fa il crocifisso è stato definito da Carlo Giovanardi. Lo stesso che, poi, non ha esitato a insultare un ragazzo morto, ammazzato, e stavolta davvero messo in croce, da un gruppetto di fedeli servitori dello stato. Ma come sono bravi e democratici, questi crocifissanti, sia che siedano sui banchi di un liceo, sia su quelli del parlamento. E com'è felice la signora Preside, la quale peraltro non esiterebbe un momento a chiamare i manganellatori per fare sgomberare la sua scuola da altri studenti, da quelli cui non importa una sega nulla né dei crocifissi, né dei simboli di una civiltà che altro non sa dare che repressione, schiavitù e morte.

E se proprio il bravo Scatizzi Guido volesse far appendere qualche cos'altro nella sua classe, gli suggerirei l'immagine di un suo coetaneo. Un ragazzo di diciotto anni che l'ha incontrata sul serio, la civiltà. Questa:


E non ho alcun dubbio che quel simbolo di civiltà cui lo Scatizzi tiene tanto, sia sempre regolarmente appeso nelle aule di tribunale, nelle caserme dei carabinieri, nelle questure, e nei sottosuoli dove si tortura. Chissà quanti ce n'erano, di quei simboli di civiltà, in una certa scuola di Buenos Aires.

mercoledì 11 novembre 2009

L'inglese


Vi racconto una storia un po' lontana, che non c'entra proprio nulla con l'attualità, che non c'entra nulla con nulla. E' cosi' che l'ho sentita dire nella mia famiglia fin da quand'ero piccino, e a codesta maniera la poteva raccontare nel portico la mia bisnonna Giuseppa Dini, classe 1888. Qualche parola forse non la capirete, ma non importa.

"Sapete, bisogna rianda' indietro ar mille...ar mille e novecentocinquanta....Ulisse, sarà stato 'vell'anni li'..."

"Eh...prima! Ner quarantasette o quarantotto, mamma, quando s'aveva le vigne in Barbatoia [1]..."

"...e si ronzicava li tonchi 'or pane. 'Nzomma, la guèra 'unn'era finita da tanto e allora 'un ce ne veniva tanti di foresti, bamboletti. Una vòrta, di giuglio, s'era in vigna 'or mi' povero marito [2] e cosa ti si vede ariva'? Un macchinone, ma un macchinone che 'un se n'era mai visti pe' di qui. O che macchina sarà stata, Ulisse?..."

"Doveva èsse...boh...una macchina ameriàna...blé."

"Blé e tutta imporverata...chissa' come ce l'avevano imbarcata sur Pola [3]. 'Nzomma....scende uno tutto vestito perbene, e 'ntugnimò che ir tu' povero babbo s'avvicina pe' chièdeni 'osa vorebbe, questo 'ni si mette a parla' in una lingua stragnera 'e un ci si 'apiva nulla manco pè'..."

"Era ingrese, mamma. Ingrese d'Inghirtèra."

"E lo so che era ingrese, ma tanto poteva èsse anco la lingua der sole o della luna, 'un ci si 'apiva nulla lo stesso. E 'nzomma....si riesce a capi' colle mani 'e questo cercava da sta' quarche giorno, e arberghi allora 'un ce n'era da nessuna parte. Dignelo un po' te, Ulisse, 'osa si fece noi..." (rideva)

"(Rideva anche Ulisse) De', ci s'aveva la 'asa che poi 'unn'era una 'asa ma un magazzino che ci si teneva la roba, e c'erano du' o tre brande militari...ehheheeh!..."

"....e ni si fece 'api' se si volevano accomoda' lì, e lulì va a parla' co' uno e una che stavano d'indentro la macchina...e sorte fòra uno 'o 'una faccia da bambolino, e di' che ciavrà avuto piu' di trent'anni...ma tutto rosso rosso in faccia 'e sembrava l'avésseno preso a pizzicotti du' minuti prima...e lei tutta bianca, ma bianca...sembrava un bisquì! Che te l'armenti, Ulisse..? Com'era bianca..."

"Se me l'armento, mamma. E quelli a di' ièsse, ièsse, quanto costare, quanto costare...e noi scemi di guèra a dinni: Nulla costare, nulla, v'assistemate 'ome volete e fate quer che desiderate..."

"Dé...se 'ni si domandava una somma, 'velli ce la dàveno...o vallo a sapé'! O seondo te, Ulisse, chi èreno?"

"Lui, 'vello 'olla faccia rossa, doveva èsse uno scrittorone...la mattina si svegliava e se n'andava sulla spiaggia e scriveva, scriveva, scriveva...su de' fogli ...'vell'artro si vedeva poo ma lei solo quando andava giù ir sole....dé, se ne pigliava un po' 'vando picchiava, alla su' pelle bianca 'ni poteva da' l'arivederci eheheheh! "

"O cosa scriveva?"

"Puesie dìono. Dice varcuno che 'ni sembra d'avé' visto una fotografia su un lìvero, un ingrese che pigliava li premi. Mamma, ma ve l'armentate 'vella della bìra?"

"Oh, de' se me l'armento! La sera esciva e voleva sempre la bìra e quella 'osa...'ome si chiama?..."

"Ir guischi! ehehe!"

"Gia', ir guischi! E sa' noi indove ci s'aveva la bìra e ir guischi! Ha' 'apito te perche' era rosso, te! 'Ni garbava ir gottino e poi scriveva le puesie eheheh! (ridevano tutti). Noi 'ni si dava ir vino nostro, un po' lo beveva ma 'ni dava de' belli stiaffi sur topezzo, artro che guischi. Una vorta deve ave' letiato 'olla su' moglie...."

"...ma seondo me era la ganza..."

"...aveva a' èsse chi voleva...'nzomma 'vella sera si stava pe' anda' a chiama' la guardia, boia di 'vell'urli, ma di 'vell'urli...! Sembrava s'ammazzàsseno! "

"Ma quanto ci saranno stati...?"

"Mah...una settimana. Una mattina ci fèceno tenchiù tenchiù e se n'andarono...de' 'unni s'era fatto paga' manco una lira, armeno 'varcosa ce la potèveno lascia'..."

"O cosa t'aspetti da' signori....?"

"Nulla, Ulisse. Noi da' signori 'un ci semo aspettati mai nulla. Ehhehehe!"

"E vadano a pigliasselo tutti ner culo.".


« Nella primavera del 1947 Dylan Thomas sorte per la prima volta dalle isole Britanniche e si ferma con la moglie per qualche settimana in Italia, a Villa Beccaro, Scandicci (Firenze), dove tuttavia non si trova a suo agio. [...] Si intuisce che a Firenze il Thomas trovò soprattutto da far le spese del pittoresco. Gli piacque invece Roma, dove trovò a mentore il poeta Ronald Bottrall, allora direttore del British Council in Italia, e l'americana Marguerite Caetani, principessa di Bassiano, che pubblicò per prima alcune delle sue ultime e più grandi poesie nella rivista "Botteghe Oscure".

Dopo un breve soggiorno all'Isola d'Elba nell'estate, del quale si sa poco, torna in Inghilterra. Nelle sue lettere v'è traccia di qualche emozione per il paesaggio italiano -visto tuttavia sotto la canicola- ma nessuna significativa per quanto riguarda le arti figurative. [...] E da ultimo non è da sottovalutare, probabilmente, la difficoltà di adattare l'abito dipsomaniaco al vino italiano: la costante ricerca di ebbrezza in Dylan Thomas non è mai disgiunta dalla naturale atmosfera del pub britannico [...] senza contare che la bassa gradazione alcoolica della birra lo costringeva a inghiottire esorbitanti quantità di liquido: il vino italiano lo disorientò perche' l'ebbrezza lo coglieva prim'ancora che la quantità di liquido a cui era abituato fosse raggiunta, con un conseguente immaginabile grave squilibrio psichico, deleterio per un soggetto gia' tanto duramente provato. »

(Dall' Introduzione di Ariodante Marianni alle "Poesie" di Dylan Thomas,Milano, Mondadori, 1971; pagina 16).

Qualche nota.

[1] Ora detta Fetovaia.

[2] Dini Menotti, nato il 2 giugno 1882, morto il 29 marzo 1962.

[3] Il traghetto "Pola" fece servizio tra Piombino e Portoferraio tra il 1947 e il 1964. I camion venivano sistemati nel corpo della nave, ma le macchine venivano imbragate con una fune e tirate su sul ponte scoperto. Qualche volta qualcuno ci rimetteva l'automobile, schiantata sul molo o volata direttamente in mare.

Fagiolini lessi


Dopo il blitz di ieri dei vigilantes del prode sig. Landi Samuele contro i lavoratori che occupa(va)no la Agile (ex Eutelia), molti hanno parlato di squadrismo.

Secondo me c'è un errore di fondo. In questo paese che non ha mai superato la sua storia, i termini che da essa derivano sono spesso utilizzati a sproposito. Non è squadrismo, quello del Landi e dei vigilantes che ha assoldato per sgomberare l'azienda occupata. Nessuno è andato lì con gagliardetti, fasci littori e nemmeno con la tartaruga di Casapound. Questo presupposto squadrismo limita quel che è successo e lo riconduce a un episodio.

Per quel che mi riguarda, io parlerei piuttosto, e più semplicemente, di capitalismo. Di metodi consueti. Che poi il signor Landi sia anche, probabilmente, un fascista appassionato di paracadutismo (chissà come avrà pianto i suoi ragazzi folgorini morti in Afghanistan!) è un fatto del tutto ordinario, almeno per chi si ricorda un po' di come andavano le cose negli anni '60 e '70, e di certi sistemi utilizzati dal padronato per cercare di stroncare le proteste e gli scioperi nelle fabbriche. Il Landi non ha fatto che rinverdire una lunga tradizione di questo paese, mettiamola così. Non un fascismo ideologico, ma un fascismo padronale.

Non è un'eccezione. Il Landi è rivolto a un'agenzia privata, la Barani Group, che gli ha messo a disposizione una banda composta da alcuni ex paracadutisti (sempre loro) e da ragazzotti vari che hanno finto di essere carabinieri per buttare fuori venti lavoratori che dormivano nell'azienda occupata. Quando poi sono arrivati i tutori dell'ordine veri, che li hanno portati in Qvestvra assieme al padroncino, si sono qualificati come addetti al portierato. Probabile anche che il vero scopo del blitz non fosse tanto lo sgombero, quanto il recupero di certo materiale assai delicato, custodito in dei server di una stanza blindata.

Metodi consueti. La stanza blindata che custodisce i troiai del sor padrone. 1200 persone che stanno perdendo il posto di lavoro. Il Capo de' Capi che urla e fa urlare ai suoi fidi che la crisi è passata. Tutto un sistema che avrebbe bisogno soltanto di una cosa: di essere spazzato via. Per questo dico che non si deve parlare di squadrismo, ma di una prassi. Il Landi Samuele non viene dal nulla, non è il cattivo in mezzo ad un oceano di virtù: è semplicemente un padrone. Non è più merdoso o più fascista degli industrialotti pratesi che nelle loro aziende hanno sempre utilizzato gli stessi sistemi per tenere a bada i lavoratori, votando poi magari per il glorioso Partito Comunista Italiano.

Con tutto ciò, non vorrei che mi si equivocasse. Anzi. Ad una personcina come il Landi non posso che augurare le peggiori cose. Lo farò a modo mio, nel solco della Prima Internazionale cui si rifà esplicitamente questo blog. Gli auguro che i lavoratori, con sollecitudine, lo acchiappino e gli facciano mangiare con l'imbuto chili di fagiolini lessi. Persino sconditi. Che glieli facciano calare nello stomaco col un paracadutino, visto che gli piace tanto. Cosa peggiore non posso desiderare per qualcuno. Ma una volta fagiolinizzato il Landi, si dovrebbe andare ben più a fondo, e ricominciare a mettere paura sul serio a questi signorini.



lunedì 9 novembre 2009

A Portrait of a Politicant as an old Pezzo di Merda


Dison. Lur. Vomit. Carlo Giovanardi.

domenica 8 novembre 2009

Il petardo, la palma, l'operaio e la sorellina


Oggi ci sono state due manifestazioni. Ad una c'ero. All'altra c'ero lo stesso, anche se si teneva in una città distante duecentosettantacinque chilometri.

Alla manifestazione dove mi trovavo fisicamente, nella città dove abito, si protestava per un atto di repressione poliziesca, l'ennesimo, che ha colpito chi ancora non si rassegna a starci. La possiamo oramai, tranquillamente, chiamare repressione preventiva, esattamente come durante il ventennio fascista. Perquisizioni. Un ragazzo arrestato, un militante, con addosso una caterva di capi di accusa più un tentativo, da parte del procuratore, di affibbiargli una sua fantasiosa interpretazione della cosiddetta aggravante di terrorismo. Il suo nome è Francesco Mannucci, detto Mannu.

Il principale capo d'accusa riguarda un gravissimo attentato: l'aver, secondo loro, piazzato una bomba carta (denominazione giudiziaria e mediatica di un arnese che fa molti meno danni, ed è molto meno pericoloso, di un qualsiasi botto di Capodanno) all'ingresso dell'Agenzia delle Entrate. Alle sei di mattina, vale a dire quando tutto era vuoto. Un raudo, o poco più. Secondo i criteri degli inquirenti, il 31 dicembre centinaia di migliaia di persone dovrebbero essere messe in galera, senza contare che a tutti i capodanni ci sono decine tra morti e feriti, e danneggiamenti veri.

Tra i fatti per i quali il Mannu è a Sollicciano ci sono anche una rissa seguita all'aggressione subita da parte di alcuni fulgidi ribelli futuristi, o roba del genere; vale a dire come ai fascistelli piacerebbe al giorno d'oggi farsi chiamare. Va da sé che codesti ribelli, alla prima occasione buona, vanno a far querele e lai presso i loro (numerosi) amichetti in Qvestvra; i quali intervengono immediatamente. E via con perquisizioni, repressione, arresti. E così i vigliacchetti dal cuore nero girano più o meno indisturbati, mentre i compagni vanno in cella. Davvero dei ribelli, sono. Ben protetti dai questurini, come sempre. Bastano due buffetti e una frignatina, e scatta il pronto intervento, come a Pistoia lo scorso ottobre.

Non è finita. Forse non tutti sanno che il Mannu è in galera anche per un altro gravissimo atto. Il furto di una palma. Sto parlando proprio di una palma, sapete, quell'albero con le foglione spioventi, il tronco a tasselli e che fa i datteri. Per riassumere: carcere, aggravante di terrorismo e immancabile gogna mediatica (i padroni ordinano e i servi con la penna obbediscono) per un petardo, due cazzotti a dei fascisti e l'appropriazione di un alberello. Potreste provare anche voi: domani mettete un raudone fischione all'ingresso, che so io, dell'Ufficio del Catasto, date una manata a Giovanni Donzelli (che già se ne intende) e fregate un ulivo. Brutti terroristi che non siete altro.

Lo Stato. Quello dell'Agenzia delle Entrate. E anche quello di ferrovie che non funzionano un cazzo, che licenziano lavoratori scomodi, che provocano dissesti idrogeologici. E la loro bella dose di morti sul lavoro. Era anche per l'operaio Domenico, questa manifestazione. Morto mentre lavorava su un binario alla stazione di Rifredi. Se si chiede la libertà per un compagno arrestato e sbattuto in galera con delle accuse ridicole e strumentali, non è possibile dimenticarsi di chi muore, tutti i giorni, per la quotidiana schiavitù del lavoro. E a chi dice e pensa che queste manifestazioni non servano a nulla, rispondo che, oggi come oggi, decidere di scendere in piazza immediatamente e gridare forte queste cose in faccia a tutti, ha un'importanza la cui sottovalutazione, condita con una dose più o meno massiccia di snobismo, equivale a complicità.


Contemporaneamente a questa manifestazione, se ne stava svolgendo un'altra. Quella nella città lontana, ma al tempo stesso vicinissima. Tutte le città sono vicine, ora, in qualsiasi parte del mondo. Una città dove si manifestava per l'uccisione di un ragazzo qualsiasi, avvenuta in una galera. Un ragazzo andato dentro per due stupidissime canne, ed uscito morto. Non solo morto. Sconciato. Massacrato. Un assassinio per il quale tutti fingono di indignarsi; tra due giorni sarà dimenticato. Resteranno a ricordarlo, e a gridarne il nome, soltanto pochi. Senza chiedere però alcuna giustizia allo stesso Stato che lo ha ammazzato. Ancora non lo si vuole capire che chiedere giustizia agli assassini è soltanto un tragico controsenso. Totalmente inutile che i familiari proclamino di volere giustizia: non ne avranno, mai, alcuna. Lo Stato non si autocondanna. Decine e decine di episodi analoghi, oramai, dovrebbero averlo più che ampiamente dimostrato; dai più lontani ai più recenti.

È quindi inutile continuare a cianciare di legalità e ad implorare giustizia agli stessi che hanno coscientemente mandato a morte una persona. Durante la manifestazione per Stefano, vi sono stati -come si legge sulla stampa di regime- dei momenti di tensione con la Polizia. E vorrei anche vedere che non vi fossero stati. Qui si sta parlando di un giovane di trent'anni ammazzato in stato di detenzione, senza un perché. C'era uno striscione, a quella manifestazione, che riportava il verso di una canzone di De André: Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte.

Non so se le guardie che hanno ucciso Stefano siano o meno bigotte, ma è certo che per il loro agire ricevono un regolare stipendio e che di “giustizia” non ve ne sarà alcuna.

Mi domando allora che cosa sia passato per la testa della sorella di Stefano Cucchi. Dichiara infatti costei: “La mia famiglia comunque si dissocia da qualsiasi gesto sconsiderato e offre la sua solidarietà alla polizia. Qualsiasi gesto fuori dalla norma può compromettere la situazione." Da restare allibiti. A questa qui le ammazzano il fratello, e cosa fa? Offre solidarietà ai suoi assassini. La situazione non è già abbastanza compromessa? Eppure lo avrà visto come è stato ridotto Stefano. Chiama gesti sconsiderati due bottiglie lanciate contro dei blindati e tre cassonetti della spazzatura arrovesciati. E l'omicidio del fratello, cos'è allora? Proprio mentre un manifestante, con un megafono, urla quanto segue: “E' passato dalla Stazione dei carabinieri di Tor Sapienza e loro non sono stati, è passato per Regina Coeli e loro non sono stati, è passato per il tribunale e non sapevano niente e alla fine è morto in un letto dell'ospedale Pertini". Insomma non è stato nessuno; ma che importa. Basta offrire solidarietà alla Polizia e rispettare la legalità. La legalità è quella cosa che la si deve rispettare solo quando dall'altra parte non ce n'è neppure la minima parvenza. Bisognava che qualcuno fosse andato a dirlo, alla sorella di Stefano Cucchi; oppure, meglio ancora, a dirle di tacere. Non è bastato il fratello? Vuole per caso che le ammazzino anche qualche cugino? Ché, tanto, anche lei lo sa benissimo che la giustizia che tanto invoca non la avrà. Lo vada a chiedere a degli altri familiari d'un morto ammazzato, quelli di Gabriele Sandri. Non sono bastati cinque testimoni che hanno visto un poliziotto prendere la mira a due mani in mezzo a un'autostrada e sparare. No, piccinino, mica lo voleva ammazzare. Fa bene lo Spaccarotella a chiedere di essere reintegrato in servizio: quello per cui è pagato, lo ha svolto benissimo. Una mira infallibile.

Così va, oggi. Persino la sorella di un ragazzo ammazzato si preoccupa di non dispiacere troppo ai servitori dello Stato; e quando la giustizia non la avrà, pazienza.


Ci saranno già chissà quanti altri ragazzi uccisi, e quante altre sorelle a chiedere, domandare, invocare, e magari anche a
esprimere solidarietà a quelle brave persone tutte ordine e dovere. E poi chiede che “altre persone non debbano passare quello che ha passato Stefano”. Spero soltanto che il fratello le appaia in sogno facendole delle tragiche risate in faccia.