venerdì 29 gennaio 2010

Invito alle fanciulle affinché riscoprano la nobile arte del veneficio


Nel video: l'angelica Véronique Chalot e la sua diabolica interpretazione dell'antica ballata francese L'Empoisonneuse (L'Avvelenatrice). Rigorosamente da ascoltare come sottofondo per questo post. Qualche anno fa Véronique viveva vicino a casa mia a Livorno, quindi state attenti: potrebbe essere sempre in giro con il suo dulcimer, la ghironda e qualche strana boccetta o fiala.


Non sto qui a ragionare troppo sulla tradizione: la tradizione la si può manipolare, piegare agli usi più svariati e, in diversi casi, addirittura inventare. Di tradizioni inventate se ne hanno esempi più che numerosi: uno, per quanto riguarda l'Italia, è la pasta. L'invenzione della pasta, alimento realmente tradizionale solo nel Meridione (e particolarmente in Campania), come "alimento nazionale" è opera di Pellegrino Artusi nella sua celebre Scienza in cucina e arte di mangiar bene, compilata alla fine del XIX secolo: e anche dopo la pasta non entrò davvero nell'uso nazionale prima del secondo dopoguerra. A pensarci bene, tutti i cosiddetti "simboli tradizionali" di questo paese sono in gran parte tradizioni inventate: la pizza (intendendo la pizza napoletana, anche se dovunque, e fin dall'antichità, si consumavano focacce più o meno simili), il mandolino (le cui origini non vanno oltre il 17° secolo) e persino la mafia, di cui non si ha notizia, neppure in embrione, prima della II metà del 18° secolo.

Con questo post, rivolto particolarmente alla popolazione femminile che vive in questo paese (cioè di qualsiasi provenienza, origine, nazione, etnia, religione eccetera), invito invece a riscoprire un'autentica e antichissima tradizione italiana: il veleno. Già in tempi remotissimi la penisola italiana e il veleno sono stati comunemente associati: ne fanno fede, ad esempio, le numerose ballate popolari (come Il testamento dell'avvelenato o Donna Lombarda) dove il veleno è protagonista assoluto: il veleno e le donne. Il veleno, in tutta Europa e da tempi remoti, è cosa italiana e da donne; non per nulla abbiamo dato i natali a Lucrezia Borgia, e almeno un papa è stato rispedito dal suo principale con un gustoso piatto di amanita phalloides (i pochi che l'hanno mangiata sopravvivendo dicono che è buonissima). Nel XVI secolo, in Francia si parlava del veleno come le poignard des italiens ("il pugnale degli italiani") e in Inghilterra l'assassinio per avvelenamento veniva detto Italian murder. Ce n'è di che riscoprire veramente questa bella e sentita tradizione, anche perché l'Italia attuale abbonda di veleni che non hanno, purtroppo, nulla a che vedere con la meravigliosa "Acqua di Perugia" e con tutti gli altri autentici veleni che, se usati coscienziosamente e con sapienza, potrebbero risolvere moltissimi problemi.

Sfruttando quindi una mia nascosta e annosa passione, quella per le piante velenose (le mie "belle sorelline", come le chiamo spesso) sono qui a suggerire in primis alle donne che vivono in questo paese dei sistemi economici (anzi, gratuiti), sicuri, puliti e, conoscendo la sensibilità al riguardo di molte fanciulle, rigorosamente vegan. Ragazze, volete sbarazzarvi di chi vi sfrutta, vi tiene in condizioni di lavoro pietose, vi fa oggetto di mercato fin da quando siete bambine, vi considera nient'altro che una fica con un po' di carne attorno, vi picchia, vi stupra, vi ammazza (specialmente nella famiglia cosiddetta tradizionale) eccetera, eccetera, eccetera? Seguitemi, e vi dirò delle cosine interessanti corredate da alcuni esempi.


La bella piantina in fiore che vedete sopra, comunissima nelle nostre zone montane e di alta collina, si chiama Aconitum napellus e va volgarmente sotto il nome di acònito. È una ranuncolacea con fiori ermafroditi dall'aspetto molto simpatico e gioioso, così come il vostro fidanzato o marito che vi ha fatto tanto la corte, un tempo, per poi trasformarsi in signore e padrone, che vi ha fatto cacare i regolari figli (un tempo si diceva "eredi"), che vi fa fare una vita d'inferno entro le mura domestiche e che, infine, se le cosine gli vanno male non esita a massacrarvi prima di botte e poi nei modi più svariati, e definitivi, magari assieme ai figli. Anche il vostro datore di lavoro è tanto simpatico e carino, tranne toccarvi il culo quando nessuno vede, farvi proposte leggermente ricattatorie per mantenere il posto, mettervi alla porta quando il marito vi mette incinte, e così via. Benissimo: ricorrete alla tradizione e servite con grazia al signore di cui sopra una fresca insalatina contenente alcune foglioline di questa pianta. Ne bastano poche: il mix di aconitina, mesaconitina, ipaconitina, delfinina, indaconitina e acido aconitico che contengono lo può spedire al creatore in pochi secondi. Soltanto sei milligrammi di quel piccolo alcaloide, l'aconitina, sono mortali per un adulto. Due o tre misere foglioline per prevenire stragi familiari, stalking, mobbing, botte, stupri coniugali e tutto il resto, e nel pieno rispetto della tradizione: le simpaticissime proprietà dell'aconito sono note da millenni.


Sì, lo avete riconosciuto tutte: è il mughetto. Il fresco e dolce fiorellino di primavera dal gradevole profumo con cui vi hanno tartassate fin dall'invenzione della pubblicità televisiva: casalinghe felici che spandono, in una linda casetta, deodoranti al mughetto sui mobili, nei cassetti, in bagno. Prima che il maritino arrivi affamato per la cenetta a base di doppio brodo Star e Simmenthal con le verdurine freschefreschefresche e mentre i bambini giocano, tu, donna, approfittane per scoprire un po' di più le caratteristiche di questa meravigliosa pianticella primaverile. Proprio perchè fiorisce in maggio, infatti, il suo nome scientifico è Convallaria majalis (ove "majalis" sta per "di maggio", cosa avete capito?) e la si trova particolarmente nelle convalli de' monti (da cui il nome); ma oramai viene coltivata anche come pianta ornamentale, e la si trova in vendita da qualsiasi fioraio. Ottimo, no? Anche perché le sostanzine contenute nel mughetto sono dei terrificanti glicosidi cardioattivi, compresi la convallarina e la convallatossina, che possiedono un'attività cardiocinetica superiore di 10 volte a quella, già potente, della digitale purpurea. Un bel tritino di mughetto al creativo autore di tutte quelle pubblicità in cui vi vogliono mogli-madri-spose-massaje, un plum-cake al mughetto per Pierferdinando Casini e tutti i familisti, un dolcetto ammughettato al fidanzatino che già a quindici anni vi caramella le ovaie con gelosie, ordini, comandi e roba del genere, e il suo cuoricino comincia a fare pumpumpumpumpum fino a fare BOOOOOM! E potrete anche dire che batteva per voi, anche se magari non propriamente come s'immaginava.



E anche questa la conoscete bene: magari ve ne hanno regalata una da mettere in salotto quando vi siete sposate, dato che si tratta di una delle più comuni piante da appartamento che si possono trovare. Talmente comune che viene chiamata genericamente pianta, piantona, pianta verde con le foglie larghe, pianta da salotto eccetera. Il suo nome verò è un po' complicato: si chiama dieffenbachia, appartiene alla famiglia delle aracee ed è originale del Brasile. Una pianta che sarebbe perfetta per politicanti e vescovi, specialmente quando sproloquiano un po' troppo di famiglia, procreazione, sessualità e via discorrendo: con due foglie di questa comunissima pianta da salotto li potreste mettere a tacere. Le foglie della dieffenbachia secernono infatti una linfa tossica caustica che farebbe assumere alle lingue e alle bocche dei suddetti politicanti e prelati delle forme piuttosto strane, tra bolle, pustole atrocemente urticanti, ustioni, eccetera. Se poi fate ingerir loro, che so io durante un family day o un'udienza vaticana, una pappetta a base di dieffenbachia (vi potreste travestire, ad esempio, da attiviste leghiste sfoggiando magari una fogliona della pianta, che è verdissima come piace tanto a loro; o da suorine brasiliane che offrono al Sommo Pontefice un prodotto tipico della loro terra), tutto ciò si trasferirebbe nelle mucose dell'esofago e nello stomaco, provocando dei dolori che farebbero passar loro ogni voglia di continuare a sfamiglieggiare sulla vostra pelle.

Potrei continuare non dico all'infinito, ma quasi: ad esempio, credete forse che il Conium maculatum sia una pianta rara? La si trova invece un po' dappertutto, e se non ci credete andate a chiederlo a Socrate. Chissà che la cicuta, in realtà, non ci avesse avuto voglia di fargliela bere la povera Santippe a quel rompicoglioni che, peraltro, la cornificava facendo figli con una schiava-concubina. Beh, io tutta una bella distesa di cicuta una volta l'ho trovata in un terrain vague vicino alla stazione ferroviaria di Friburgo, in Svizzera, in pieno centro. Con un campicello come quello, che ognuno di noi non esiterebbe a definire di erbacce, ci si potrebbero far fuori tanti di quei cristiani da non figurarselo nemmeno lontanamente. Con le erbacce si potrebbe camminare sulla testa dei re, ed anche su tantissime teste di cazzo; per questo è bene portar loro un estremo rispetto e, più che altro, sapersene servire al momento giusto. La nobile e tradizionale arte del veneficio può dire la sua oggi più che mai.

E basta anche con le mimose, l'otto marzo. L'otto marzo furono messe a morte operaie, lavoratrici, madri, donne. Non è una festa. Basta col fiorellino innocuo. Al posto della mimosa, aconito, mughetto, cicuta, elleboro, datura stramonium, solanum nigrum!

martedì 26 gennaio 2010

Giornate della memoria e ordigni dimenticati


Oggi sarebbe il ventisette di gennaio, vale a dire la cosiddetta giornata della memoria. Fossi uno degli oramai rarissimi sopravvissuti ai lager nazisti, magari uno zingaro o un omosessuale (così tanto per variare), irromperei in uno dei diecimila posti dove si commemora e farei come il giornalista iracheno che ha tirato le scarpe a Bush; ad esempio, le tirerei volentieri a Amos 'Oz e a tutta quella stucchevole e ipocrita intellighenzia "progressista" israeliana che memoreggia così tanto ma, al momento giusto, non manca mai di esercitare la propria sanguinosa ambiguità quando fonde il piombo. Quintali di scarpe ai David Grossmann e al suo figlio morto del cazzo, alle Achinoam Nini (detta Noa) e a tutti i personaggi del genere. Senza neanche nominare Gaza. Ogni scarpa tirata sarebbe una Gaza già di per sé. Magari, sulle scarpe da tirare ci si potrebbe disegnare un grappolo, come quello delle bombe.

A proposito di bombe; anzi, di ordigni. Ventisette gennaio 2010. Fanno esattamente un anno e dieci giorni da quando un "pericolosissimo attentato" fu perpetrato ai danni della Chabad House di Firenze. Non se ne sa più assolutamente nulla. Persisto a non amare la memoria a senso unico, sia che si parli di Mauthausen (posticino dove, vorrei farlo presente, ho avuto un nonno rinchiuso), sia che si parli di qualsiasi altra cosa. Poiché, ai suoi tempi (17 gennaio 2009, ribadisco) tutti i maggiorenti della città di Firenze si scomodarono per una bomboletta di gas da campeggio mentre a Gaza morivano centinaia di bambini, sarebbe il caso che la "giornata della memoria" di oggi fornisse una risposta anche su questo episodio.

Si tratta, naturalmente, di una richiesta del tutto rettòrica. Il buon vecchio Carlo Michelstädter andrebbe riletto con attenzione, coi suoi meccanismi della persuasione. Quel libriccino che, assieme alla Società dello Spettacolo di Débord, è senz'altro il più importante scritto nel ventesimo secolo. Retorica perché non ci sarà proprio nessuna risposta. Il qui presente, per testardaggine innata, continua a parlarne dal suo blog di estrema periferia; ma inanemente. Dimenticanza. Rimozione. Acquisizione della verità massificata e effimera. Persuasione automatica. Silenzio perfetto anche da parte di chi, con un articolo giornalistico una volta tanto coraggioso, aveva paventato scomodissime evenienze. Gente che è stata sbattuta in galera per "attentati" anche molto meno gravi di questo, e che vi sarebbe finita in pompa magna se la consueta e criminale costruzione non fosse stata stoppata inopinatamente.

Non è Piazza Fontana. Non è Piazza della Loggia. Non è l'Italicus. Non è il Rapido 904. Non è Via dei Georgofili. Non è il Moby Prince. Ma è, nella sua infinitamente minore entità, della stessa natura. Nella sua bombolettitudine, è un misterino d'Italia sul quale non verrà mai fatta luce. È qualcosa che non si può dire. È qualcosa che deve essere messa a tacere. È qualcosa sulla quale è intervenuta la verità ufficiale, allontanarsi dalla quale è sovversione. La memoria, con le sue "giornate", è in realtà vuota celebrazione di un sistema che si serve della morte per giustificare repressione e altra morte.


lunedì 25 gennaio 2010

Faccia senza book




Contrariamente al solito, questo post non avrà nessuna illustrazione. È un po' di tempo che non parlo di me; un'abitudine che prima avevo e che considero, forse con una agudeza, l'esatta antitesi del narcisismo. Parlare di se stessi non significa specchiarsi, e neanche proporsi come oggetto di attenzione o di lettura: significa, semplicemente, fermarsi per un po' e dirsi due parole che possano avere una qualche ragion d'essere. Parlare di sé in pubblico (perché questo, nonostante la componente asociale, è e rimane un luogo pubblico, di libero accesso) è, poi, un esercizio assai proficuo di moderazione. Si deve immaginare chi possa leggere quel che si sta scrivendo, e dirsi: sono così, e così mi sento, in questo momento. Senza immagini. Senza fotografie. Senza occhi. Comincia la descrizione; e non ho mai scordato le parole di Aldo Palazzeschi.

Una volta chiesero a Palazzeschi come avesse imparato a comporre scrivendo. Rispose che, non avendo (come me) il benché minimo talento per la pittura e il disegno, aveva iniziato a "dipingere con le parole". Prendeva un oggetto qualunque (una mela, la maniglia di una porta, un vaso di fiori) e iniziava a descriverlo minuziosamente per iscritto. Ho letto quest'affermazione di Palazzeschi quando avevo quindici o sedici anni, e ho subito cominciato a fare altrettanto. Non riuscendoci, naturalmente. Sembra una cosa semplice, ed è invece tra le cose più difficili che esistano. Ora, poi.

Ora che tutto, assolutamente tutto, è immagine, e immagine immediata. Il trionfo della subitaneità. Ti fai scattare una foto, o te la scatti da solo (come io stesso ho fatto) con la fotocamera digitale, e la metti dove vuoi. Sul tuo blog, su un album online, su un sito e, ovviamente, su Facebook, nel regno incontrastato delle facce. Tutto oramai è faccia. Le campagne elettorali, ad esempio, sono diventate solo facce che hanno relegato i simboli nel dimenticatoio. Si "vota" per questa o per quella faccia, e per quello che sembra dirti, e non per il (peraltro finto) "raggruppamento" cui proclama sempre più stancamente di appartenere.

E, allora, in una certa notte che per me ha un dato valore che non intendo dire, voglio provare a riprendere in mano la matita, anche se si tratta comunque di una tastiera. Eliminare le immagini, compresa la faccia che ho in questo momento; perché, sapete, è già molto diversa da quella che avevo ieri, e altrettanto diversa da quella che avrò domani. Quel che i fissatori di facce non hanno ben capito nei loro networks più o meno "sociali", è che se volessero davvero dare un'idea di chi c'è dietro a quella pagina dovrebbero far sì che le fotine cambiassero dieci, venti, cinquanta volte al giorno. Quelle foto non fissano niente. Anche la foto autoscattata che ho qui su questo blog non significa più niente; è com'ero tre, quattro, cinque mesi fa quando ce l'ho messa. Dopo dieci minuti non è più una faccia, ma diviene un marchio di fabbrica, un simulacro di qualcosa che non c'è più, e che non potrà esserci più; ed è per questo che, sempre di più, sono convinto che tutte le raccolte di facce, di qualsiasi natura e dimensioni, siano dei disperati cimiteri in cui milioni di persone vanno a seppellirsi.

La mia faccia, in questo momento, ha un'espressione abbastanza assente; quella consueta, del resto, quando scrivo. La scrittura mi assorbe talmente da farmi generalmente assumere le espressioni più ebeti che si possano immaginare. Altra cosa consueta, è il mio tic, o vizio, di inumidirmi i baffi superiori con il labbro inferiore, di arcuare poi il sopralabbro superiore e di annusarmelo col naso. Non saprei esattamente dirne il perché, ma è un gesto che ho fin da piccolo. Mi piace quel particolare odore, che peraltro è assai variabile, e la sensibilità personale agli odori (anche ai propri) è un terreno generalmente inesplorato quanto minato (specialmente quando si cerca di parlarne: provate un po' a descrivere un odore tentando di darne un'idea sufficiente).

Ho i capelli (scuri, ma con fili bianchi che cominciano a vedersi), in questo momento, esageratamente lunghi per i miei standard; non me li taglio più da oltre un anno. Durante la giornata li tengo raccolti, dietro, in una coda di cavallo che sta raggiungendo una lunghezza ragguardevole. Ciò ha generato, e comporta, dei gesti nuovi, che non conoscevo quando mi tagliavo i capelli regolarmente (tenendoli peraltro piuttosto corti in estate, dato che sudo molto): per esempio, quello di raccogliere dietro agli orecchi le ciocche che "scappano" dalla coda di cavallo. Un gesto che fanno solitamente le ragazzine, e che va aggiungersi ai miei gesti femminei. Potrà far sorridere chi mi conosce, questa parola, dato che sono un "coso" grosso e peloso, e decisamente sgraziato (specialmente nell'andatura); eppure, abbastanza nascoste, ho tutta una serie di piccole eleganze che conosco soltanto io, e che mi tengo strette. Poiché non si vedono, sono ottime per impedire ogni forma di ostentazione, di affettazione; e preferisco di gran lunga che si creda che non esistano, piuttosto che mi vengano fatte rimarcare. Si vede forse, ora, questo gesto che però cerco di non fare quasi mai davanti agli altri; non per vergogna, ma perché dev'essere solo mio.

Quando mi sciolgo i capelli, ad esempio prima di andare a letto, li scuoto con la testa; oramai, più o meno, sembro il Cugino It della Famiglia Addams. La barba, che portavo un tempo "disegnata" a lasciare scoperte le guance (le famose guanciotte paffute che mi tartasseranno sempre) e, per un dato periodo, addirittura ridotta ad un misero pizzo sul mento, è ora stata lasciata libera. Copre guance e ogni cosa. Non avrò comunque mai una faccia scavata, neppure con il passare degli anni; la mia non è una faccia che esprime sofferenza. È larga, seppure abbastanza regolare, e magra non sarà mai. La barba è servita, fin dai primi momenti, a cercare di attenuare il prognatismo che è tipico della famiglia Venturi (mio padre lo chiamavano Il Bazza nel suo ufficio, e a volte Menturi); non ci è ovviamente mai riuscita del tutto. Ora, forse, un po' di più: sul mento è veramente folta. Me la devo un po' regolare con il curabarba elettrico, ma lo faccio in un modo curioso: senza mai usare i supporti pareggiatori forniti con l'apparecchio. A mano libera, anche per curarmi (oltre alla barba) uno dei miei poveri miti, quello della mano ferma. Ma sono tuttora capace di versare un liquido da una bottiglia all'altra senza imbuto, e senza farne cadere una goccia; è un peccato che non abbia mai avuto una gran mira, altrimenti non sarei stato male come sparatore.

Gli occhiali li porto sempre, e fissi. Sono miope da quando avevo sedici anni, e ho sempre cordialmente odiato le lenti a contatto. Ultimamente, però, per leggere da vicino sono costretto a levarmeli perché ho delle difficoltà abbastanza grosse. Mi patullo con due paia di lenti, uno con la montatura ovoidale (e lenti più deboli) e l'altro con la montatura rettangolare smussata, con lenti più forti. Con quello devo guidare. Guidare, attualmente, è il mio lavoro. Ho letto, nella mia vita, una caterva di libri; e sempre con la meravigliosa capacità di dimenticarmeli tutti. Più vado avanti nella mia vita, è più mi accorgo che non si è affatto "quel che si legge", e che soltanto pochi libri (per non dire pochissimi) hanno avuto su di me un'influenza durevole, contribuendo a "farmi" nel modo in cui sono, giusto o sbagliato che sia. Quel che sono, sempre giusto o sbagliato che sia, me lo sono fatto da me; casomai dovrei parlare dell'influenza di certe persone, anche loro giuste o sbagliate che siano, o che siano state. Il resto sono fatti. Eventi. Episodi, anche apparentemente banalissimi. Bivi. Osservazione. Il dato libro mi ha potuto insegnare a scrivere (sempre tenendo conto che cos'è per me la scrittura) e a esprimermi, ma non mi ha mai sopraffatto. Mi sono sempre rifiutato di farmi pigliare la mano da un libro, perché io conto molto di più anche del più grande autore, o poeta, o saggista della storia. C'è un solo libro al mondo che mi ha parlato davvero; si chiama Gnanca 'na busia e lo ha scritto, raccontando la sua povera e difficilissima vita, una contadina delle campagne mantovane, mezzo in dialetto, mezzo in italiano sgrammaticato, e scrivendolo con la biro sopra un lenzuolo bianco. Riempiendolo.

Il naso e la bocca sono sempre quelli; dovrei dire "regolari", o qualcosa del genere; ma è una parola che non vuol dire niente perché, in una faccia, di regolare non c'è nulla. Ma non hanno caratteristiche salienti. Non ho labbra particolarmente carnose, e l'apertura buccale non è né piccola, né esagerata. Il naso non ha una particolare forma che lo faccia riconoscere: non è né "a patata", né "aquilino", non ha bitorzoli, non ha foruncoli, non ha nulla di particolare. Gli zigomi sono abbastanza rialzati, come è normale per i titolari di guance paffute; poi ci sono gli occhi, e parlare degli occhi è un'impresa.

Non avendo di quelle facce che esprimono gli stati d'animo da sole, agli occhi è affidato tutto. Ho gli occhi scuri, e piuttosto grandi, e discretamente mobili. Credo che vi si legga abbastanza facilmente come sto, sempre naturalmente a volerlo fare; ché non è mai detto che interessi a qualcun altro come stia Riccardo Venturi, e dove in realtà vadano i suoi sguardi, e a chi, e a che cosa oltre l'immediata circondanza. Spesso sono, però, assenti; o rivolti all'indentro, qualunque sia il significato che si voglia dare a quest'ultima espressione. Mi accorgo comunque senza problemi di quando, per una particolare circostanza, lieta o dolorosa, ho uno sguardo un po' fuori dall'ordinario; mai a comando, però. Non amo comandare agli occhi di assumere una determinata espressione; li lascio liberi.

Ovviamente, nessuno di chi legge (che mi conosca o meno, che mi abbia visto per l'ultima volta due ore o due secoli fa, che mi voglia bene, mi voglia male, mi ami, mi disprezzi o mi ritenga indifferente o insignificante) si sarà fatto un'idea esatta di come sono, vale a dire dell'aspetto della mia faccia in questo momento, davanti alla tastiera, il 25 gennaio 2010 alle ore 1.47 del mattino. Ed è questa, probabilmente, la cosa più importante. La descrizione, il dipinto a parole, lasciano campo libero all'immaginazione pur dando qualche elemento assolutamente reale. Si può così esercitare l'arte mentale del figurarsi, che può in alcuni casi generare il desiderio e la curiosità (come può, ovviamente, non generarlo affatto). Era così, tra le altre cose, che funzionava ai primi tempi di Internet, quando la possibilità di inserire immagini era fortemente limitata. Si pigliava, a un certo punto, il treno, la macchina, il carretto, i piedi o qualunque altro mezzo di locomozione, e ci si andava a conoscere. "Ma guarda te! Ti immaginavo proprio così!"; oppure: "Non avrei mai creduto che tu fossi così!". Mi sono capitate entrambe le cose. Era una di quelle piccole cose belle: doversi riconoscere a lume di naso, e per immaginazione.

Non è più così. Ora si va sul sicuro. L'immaginazione ha lasciato il posto, anche in Internet, ad una cupa sicurezza tristemente omologata. Le realissime fantasie di una volta, che venivano capite al volo e fruite, hanno lasciato il posto ad una serie di codici talmente rigorosi da poter essere definiti tranquillamente codici fiscali. Si dev'essere quel che si è, e basta. Un ufficio anagrafico, una carta di identità con tanto di faccia bella spiattellata ovunque. Le storie che si raccontano devono essere sempre documentate e ben illustrate, sennò arriva qualcuno a dirti che ci ricami sopra; osservazione fatta generalmente da chi non sa nemmeno come si comincia a raccontare una storia, né ha mai preso in mano un ago per ricamare. Le storie devono venire da libri, libriccini, filmini, televisioncine, e mai dalla propria vita che dà tutti gli strumenti per elaborarle oltre la realtà dei fatti; un mondo fatto di piccoli sputasentenze che non sono né storici, né inventori. Bel servizio hanno fatto loro, le loro gran letture.

E, allora, stanotte ho parlato della mia faccia, senza nessun book. Potrebbe anche darsi che non sia così e che mi sia rapato a zero. Che non abbia più un pelo nemmeno a cercarlo. Potrebbe darsi tutto quanto, e pensare che sei qui a cento metri da me e te ne stai là rinchiuso a terminarti la vita su facce e faccette riquadrate. Brutta fine, caro mio, cara mia. Pessima. E, devo dirlo, ci hai anche una discreta faccia a culo. Almeno quella che si vede sul tuo blog o sul tuo network del cazzo.


giovedì 21 gennaio 2010

Spazzatura 2, ovvero Il signor D.T., il "razzismo" e il Modello Prào


È cosa buona e giusta ('άξιον έστί), anche se magari non sarà fonte di eterna salvezza, colpire nel segno. Quando si colpisce nel segno, non lo si vede da eventuali reazioni positive da parte di persone che hanno almeno un barlume di comune sentire; lo si vede, al contrario, dalle reazioni opposte. Come, ad esempio, quella che al mio post di ieri (il link non lo metto, basta scorrere la pagina) ha avuto un signore pratese di cui, ovviamente, riporterò soltanto le iniziali: D.T. Per onestà, però, e anche ad onore del signor D.T., dirò che si è palesato con nome, cognome, indirizzo e numeri di telefono; e questa è una cosa che io apprezzo sempre oltremodo.

Il signor D.T., per farla breve, mi ha spedito la seguente e-mail che mi pregio di riportare integralmente:

Salve Volevo ringraziarLa perchè, come dicono gli odiati yankee ha " raised the bar ", dei luoghi comuni dell'invidia anarco-sinistroide, ovvero quella area di pensiero talmente slegata dal sentire comune, così distante dalle necessità reali delle persone e dalla serena visione delle cose, che ormai neanche suscita quella rabbia che tanto cerca. Il divertente di tutto è che, al di là di alcuni Suoi commenti magari condivisibili nel merito sia pure non nella forma, traspare dalle Sue parole una violenza ed un razzismo assolutamente incomparabilmente più grande dei disperati esasperati cittadini pratesi. Nella speranza di vederLa abitare accanto ad uno stanzoncino di PERSONE cinesi La saluto cordialmente.

Mi sono premurato di inviare immediatamente tre righe di risposta al signor D.T., che peraltro vorrei ringraziare in pubblico: chi aderisce comunque all'invito di contattarmi personalmente merita sempre un ringraziamento. Però la mail del signor D.T. mi dà lo spunto per addentrarmi un po' più nella questione, cosa che vado a fare.

Il signor D.T. mi accusa in primis di fare ricorso ai luoghi comuni dell'invidia anarco-sinistroide, cosa che a suo dire sarebbe slegata dal sentire comune e dalle necessità reali. Così facendo, ohimé, usa a sua volta tutta una serie di luoghi comuni. Mi pregio invece di non appartenere, orgogliosamente, a nessuna "area di pensiero", tranne il mio. Ciò detto, bisognerà che faccia presente al signor D.T. alcune cose, e lo farò in forma di domande retoriche. Del tutto serene, come la visione invocata dal signor D.T.

1) Dov'erano, i disperati esasperati cittadini pratesi quando, prima della calata dei cinesi, tolleravano che nelle ditte e dittarelle tessili si lavorasse venti ore al giorno, con gli operai che a volte dormivano in locali improvvisati all'interno dei capannoni? La cosa non li toccava? La consideravano legale? Invocavano le retate? A Prato, fùlgida isola felice, non esisteva il lavoro in nero? Erano tutti regolari, i lavoratori che invece di venire da Guangdong, Pingpong o Kingkong, venivano da Castrovillari, Marcianise o Tricarico? E come mai, ben prima dei cinesi, c'erano così tanti incendi di capannoni? Tutti corti circuiti? Autocombustione?

2) E dov'erano, i cittadini pratesi disperati esasperati quando qualcheduno, sicuramente anch'egli tacciato di essere slegato dalla realtà e magari anche anarco-sinistroide, diceva loro che il "modello di sviluppo" basato su un solo settore, senza alcuna diversificazione e perdipiù frammentato in miriadi di ditte con meno di quindici dipendenti (al di fuori, quindi, dello Statuto dei Lavoratori), avrebbe prima o poi portato ad una crisi drammatica? Preferivano, i cittadini pratesi e in particolare il loro illuminato ceto imprenditoriale, accumulare, accumulare, accumulare senza rendersi minimamente conto (per miopia, per scarsa intelligenza, per ingordigia) che nel mondo stava nascendo e crescendo una concorrenza a bassissimo costo di manodopera che li avrebbe prima o poi travolti. Un ceto imprenditoriale serio avrebbe programmato dei sistemi per fare fronte a tale evenienza che si stava profilando sempre di più; macché. Gran discorsi, spesso arroganti, tronfi e boriosi, sulla locomotiva trainante, un senso di superiorità assolutamente fuori luogo, progetti faraonici (poi andati al macello), eccetera, eccetera.

3) Dov'erano i citoyens pratois esasperati & disperati quando, alle prime calate dei cinesi, affittavano loro case, casette, capannoni, capannucce, locali, sgabuzzini, laboratori, stamberghe e appartamenti, senza storcere tanto il nasino perché i cinciampài arrivavano con paccate di soldi che passavano direttamente nelle loro mani? Chi ce li ha attirati i cinesi a Plào? Ci sono arrivati in massa perché hanno visto il terreno fertile, e gente che per il denaro era disposta a farli arrivare a migliaia. Nel frattempo, in Cina si stava sviluppando un'enorme industria consimilare, con una forza lavoro in confronto alla quale Plào fa la figura del Prato Calcio rispetto al Real Madrid. Ma che importa: bastava averci i sòrdi, i quadrìni, i' conquibus. Spesso utilizzato per ostentare un benessere e una ricchezza che si stavano trasformando in un boomerang. E lo si è visto.

4) Dov'erano i Pratese citizens disperesasperati quando qualchedun altro (sempre anarcosinistroide & slegatodallarealtà, ça va sans dire) diceva loro: "Beh, occhèi, la Cina sta diventando la prima potenza economica mondiale, voi ci state già facendo affaroni, ormai ce li avete in casa: fate da ponte, in qualche modo. Dimostrate di essere aperti, sia dal punto di vista economico che da quello culturale, ché non ve ne potrebbero derivare che benefici." Nulla da fare. Si è preferito insistere sui luoghi comuni, quelli sì autentici, dell'isolamento, dell'autosegregazione, dei cinesi tutti uguali, delle mafie, del puzzo di fritto, del rumore 24 ore al giorno. O che non ce n'erano, di puzzo e di rumore a Prato, anche prima dei cinesi? Cos'era, un Eden che olezzava di verbena? Le mafie cinesi sono diverse dalle mafie "imprenditoriali" al di fuori di ogni controllo sindacale, con la complicità di un potere politico che faceva finta per di più di essere "comunista"? Com'era la qualità della vita quando gli operai non avevano altra prospettiva che lavorare, lavorare, lavorare e basta? Glielo rinfacciate ai cinesi, ora?

5) Infine, che tipo di "società modello" sarebbe quella pratese, fatta esclusivamente di denaro, di famiglie intere che fanno a gara a buttarselo nel didietro tra genitori, figli, cugini, zii nel nome del profitto (sono peraltro stato, in termini che non posso rivelare, testimone diretto di un clamoroso caso del genere), di lussi di arricchiti, di vuotezza, di ville e villette, di macchinoni, di matrimonioni con 600 invitati, di corna istituzionalizzate? Sarebbero questi i famosi valori?

Queste le domande retoriche alle quali il signor D.T., e chiunque altro, potrà dilettarsi -se lo vorrà- nel rispondere. Ve ne sarebbero molte altre, ma per ora mi fermo qui -anche per non far assumere a questo post le dimensioni dell'elenco del telefono.

Ovviamente è stato comodissimo, a un certo punto, fare dei cinesi il capro espiatorio di tutti i mali di Prato. Comodissimo, perché il pratese non ha mai amato ripensare a se stesso, al proprio "modello" dove si specchiava e rimirava come Narciso, alla propria scarsa capacità di previsione, e in parecchi casi anche alla propria boriosa stupidità. Noi 'e s'è sempre andahi avanti, A noi 'un ci fa le scarpe nessuno, Noi s'è sempre trovaho i' sistema, Tutti i cenci prima o poi hanno da passà pe' Prào, 'E ci s'ha Curzio Malaparte, i' Cihognini, i' Buzzi e i' Museo Pecci co'i bananone, 'E ci s'ha Pratilia e via discorrendo. Argilla. A Prato ci sono tanti cinesi quanti ce ne stanno in tre isolati di Pechino o di Shanghay, e gli sembrano pure tanti. Questi stanno oramai conquistando il mondo, e i' ssindaho 'e gni fa cancellà' le insegne.

Io trovo logico, e questo lo dico del tutto sinceramente al signor D.T., che a un certo punto sia stata abbandonata la farsa della "sinistra" in una città che di sinistra non aveva, e probabilmente non ha mai avuto, assolutamente niente. Tutto è accaduto in un momento in cui, grazie anche alla minuziosa e criminale preparazione mediatica, alla crisi che puntualmente si è abbattuta come un maglio su Prato (mettendo a nudo tutta l'inconsistenza, la fragilità e la falsità di un "modello" economico e sociale superato dalla storia, e in un mondo dove volenti o nolenti non esiste oramai più nemmeno la geografia) e all'insorgere di paure, insicurezze, razzismi e intolleranze mai viste prima, il cambiamento tanto agognato si è verificato nelle modalità oramai consuete.

Fumo negli occhi. Le "retate", la "lotta contro l'illegalità" (ma da una parte sola: l'illegalità cinese viene "retata", quella italiana viene non solo tollerata ma addirittura incoraggiata), le "ordinanze spettacolari" che fanno tanto notizia (non soltanto a Prato, ovviamente), la carogneria oramai senza più freni. E, ovviamente, l'esaltazione da parte di qualcuno. Vorrei a questo punto chiedere al signor D.T. che effetto gli fa essere additato, proprio oggi, a "modello", da quest'altro signore qui -che ha parlato esplicitamente di "modello Prato":


Sì, proprio lui, con tanto di cravatta verde, nonché ministro dell'interno. Lo chiedo al signor D.T., visto che Meadow (come direbbero gli yankee, e visto che io ho rasato i' bàrre o come cazzo si dice) sta funzionando da perfetta "testa di ponte" per lo sbarco dei padani in terra di Toscana; o stai a vedere che, prima o poi, il Bisenzio verrà deviato per andare a sfociare nel Po. E stai pure a vedere che, magari, un giorno o l'altro i cinesi se ne andranno tutti quanti via da Prato, lasciandola marcire nella sua meritatissima merda. Se ne andranno a far cenci in Cina, sommergendo il mondo di stracci cinesi, e spanciandosi dalle risate a proposito di un'insignificante cittadina vicina a Firenze, che annaspa e affonda senza più né rumore, né puzzo, né capacità di reinventarsi. Prato aveva una una sua funzione, una sua ragion d'essere ed una sua utilità in un mondo e in un mercato che non esistono più; ed è simpatico che questa cosina, assolutamente elementare, la debba far presente un anarcosinistroide ad un "realista" come si presenta il signor D.T. Prato, nel mondo d'oggi, non serve più a un cazzo. I cenci li fanno e li lavorano dappertutto. Un tessile di qualità mediobassa come quello in cui Prato è sempre stata specializzata, esiste oramai ovunque e a prezzi concorrenziali. Prato paga la sua cecità; altro che "cinesi".

E lo dico forte e chiaro al signor D.T. che mi dà di razzista "viulento". Glielo chiedo anche perché, en resumidas cuentas, non mi sembra affatto un "leghista", un "fascista" o roba del genere; tutt'altro. Sono anzi relativamente certo che sia (o sia stato) un elettore o un simpatizzante del Partito Democratico, con il suo richiamo al "sentire comune" e alle "necessità reali". Addirittura un ex adepto del grande Partito Comunista Italiano; e, del resto, pure Maroni era di "Democrazia Proletaria". Ma tanto, se non saprà rivoltolare davvero e completamente le sue radici, guardando dentro se stessa, Prato è fottuta lo stesso. Si figuri il signor D.T. a cosa serviranno le "retate", l'assessore Milone, i' ssindaho Cenni, il Morganti legaiolo e tutti questi altri buffi personaggi (ivi compresi i ministri) di fronte a un paese di due miliardi di abitanti che si avvia ad essere la prima potenza mondiale. Allora la collina di Spazzavento adempierà al suo nome.

mercoledì 20 gennaio 2010

Spazzatura, ovvero Quando Prào doveva chiudere


Ditemi un po', ve lo ricordate di quando Prào doveva chiudere? Nemmeno un anno fa, per la precisione. Il caso Prato che ebbe risonanza nazionale, con tanto di Santoro e Ballarò. L'accorata manifestazione con il bandierone tricolore lungo un chilometro o roba del genere. La crisi che stava uccidendo Prato. I piagnistei collettivi degli imprenditori e della gente comune, dall'ultima delle radiacce locali fino alla stampa nazionale. S'era, naturalmente, in campagna elettorale. Bisognava fare i' cambiamento. 'E gli era ora di hambià, perdìe. Soprattutto con tutti quegli sporchi cinesi.

È passato un po' di tempo. A Prào c'è stato il tanto agognato cambiamento, ben preparato, ottimamente strombazzato e realizzato sia pure per un pugno di voti. Prào è diventata l'avanguardia in territorio nemico, il fortino, la testa di ponte; e così, anche in Toscana, finalmente sappiamo che cosa sono i legaioli, che cosa sono le retate a Chinatown e tutto il resto. Hanno cominciato con le insegne in italiano (ovvero: basta che non siano in cinese, poi possono essere in tutte le altre lingue del mondo). Niente più manifestazioni. La crisi? Puff, scomparsa da un giorno all'altro. "Prato riparte", è diventato lo slogan; e come sia ripartita lo si percepisce bene nelle parole di non mi ricordo nemmeno quale parlamentare del PDL che oggi, dalle righe della Nazi(st)one, esulta per l'ennesima "retata contro l'illegalità": "A Prato è tornata la legge", dice. Già, la legge dei padroni. La legge dei bifolchi arricchiti. La legge della sopraffazione. La legge dell'idiozia.

Il sistema è collaudato. Si parte sempre col degrado, con la sihurezza e con la legalità. Paladini di queste cose, oltre naturalmente ai soliti servi mediatici, sono generalmente coloro che sono stati e sono in prima fila nel degradare la società per i loro interessi, nel fomentare la paura criminale e nel dispregio della legge: gli imprenditori pratesi ne sanno qualcosa, e molto bene. Dopo il battage, si parte con le geremiadi. Arriva la crisi, e l'occasione non può andare perduta. Una crisi che, a Prato, ha come cause principali la miopia, la stupidità, l'ingordigia e l'assenza di qualsiasi autentica programmazione economica, (secondo il principio del basta fa' quattrini, compràssi i' Suvve, fa le vahanze alle Seicèlle, i' viaggiodinozze alle Mardive e avècci la ganza), viene trasformata nel metodo per "regolare i conti" con quei musi gialli; i quali, nel frattempo, lavorano, mandano avanti la baracca e, soprattutto, ci hanno alle spalle quella che ormai è la prima potenza economica mondiale. Ma a Prào che gliene importa; che non se ne sbarazzeranno affatto lo sanno benissimo, e anche che non gli fa punto comodo. Solo che c'è da dare fumo negli occhi a' cittadini, previamente istupiditi a forza di giornaletti, di trasmissioni, di degradi, di sihurezze, di paure, di efferati crimini, di cronaca di merda.

Arrivano loro, e tutto è risolto. Il bandierone tricolore viene riposto, avendo assolto al suo compito: quello di essere il ridicolo simbolo di una massa di stronzi. Vengono cancellate le insegne in cinese. La cosiddetta "opposizione" viene ridotta a quel che è, ovvero una congrega di balbettanti poveracci che fanno sempre di più a gara per somigliare a coloro cui si dovrebbero "opporre". Ogni settimana una retata, espulsioni, galere; i fascisti scorrazzano liberi e impuniti, i leghisti cominciano ad ammorbare anche l'aria toscana con il loro puzzo di democristiani nazisti verdognoli, e le opposizioni autentiche, quelle poche, vengono fatte tacere.

È, se ci si pensa bene, lo stesso che è accaduto con la famosa spazzatura a Napoli. Viene prima creata l'emergenza che, per un certo periodo, è la notizia principale. Diventa un'emergenza nazionale. Telegiornali, giornali, dibattiti, tutto è occupato da questa emergenza; la cui colpa è sempre, ovviamente, della parte "avversa" al Signor Padrone, al Dvce di Villa Certosa (metto "avversa" tra virgolette, perché in questo sistema oramai nulla è avverso a nulla). Arriva la farsa delle elezioni, i pecoroni con la matita copiativa obbediscono come automi, e la spazzatura scompare due giorni dopo. Silenzio. Spazzata via tutta. Così come il terremoto in Abruzzo, così come qualsiasi emergenza che viene sfruttata soltanto a fini di potere. E così è stato per la crisi pratese, quella per cui la bidonville delle coscienze che è diventata quella città doveva "chiudere", oh tragedia, oh catastrofe! Si è visto bene cosa nascondevano quelle parole, "Prato non deve chiudere". Significavano in realtà: "Datecela, ché ora vi si danno un po' di retate, un po' di razzismo e un po' di crasse imbecillate che vi garbano tanto, e noi si fa meglio quel che cazzo ci pare".

E allora non resta che rispondere in un linguaggio chiaro. E in cinese:

去地狱,肮脏的人 !

Ovvero:

ANDATE ALL'INFERNO, LURIDI!

martedì 19 gennaio 2010

A Livorno ci si va


Quando posso, io a Livorno ci vo sempre. Ci andrei anche a piedi, se fosse necessario; ma non credo che mi riuscirà mai spiegare bene il rapporto che ho con quella città, anche se a volte ci ho provato. Non è fatto di Vernacolieri e di macchiette, è fatto di notti buie e di mattine abbaglianti; ma mi fermo qui. Mi hanno detto che c'era una manifestazione, a Livorno, sabato scorso; una manifestazione alla quale avrei ritenuto importante partecipare anche se fosse stata a Pisa, o a Bologna, o dovunque. Ma era a Livorno. Ritrovarsi in piazza del Voltone in una mattina di gennaio, con un sole abbagliante raggelato dalla tramontana; la grande piazza. Casa mia. Le mie strade, la Fortezza, gli Scali delle Cantine, via Pelletier; e ogni volta che mi ci ritroverò, fino all'ultima, quella sarà sempre casa mia. Casa mia come la tramontana di gennaio, casa mia come la statua nella piazza, casa mia che non lo sarà mai più. Ce ne avrei anche avuto la possibilità, di tornarci a stare; ma non avrebbe avuto senso. Sarà per sempre casa mia perché lo è stata fino a un'alba in cui, andandomene, mi dicevo che un giorno sarei tornato.

Poi mi sono accorto che quel giorno, e quel ritorno, si chiama ricordo; e che il tornarci ogni tanto, per una manifestazione, per un trasporto in automedica, per una mangiata o per nessun motivo, mi ha posto in una condizione del tutto particolare: quella di esser sempre lì a volteggiare. E non la si cambia più, questa condizione. Se l'Elba è la mia barca con la quale continuo imperterrito a navigare ovunque vada, Livorno è diventata l'aliante; e la piazza era piena di gente. Ho incontrato qualcuno che mi ricordava, compresa una persona che, con tutta probabilità, mi ha aperto la prima sliding door. Ho incontrato, come sempre, quel mestesso che ancora gira con lo spigato grigio e una bottiglia di qualcosa in tasca; ma non ci siamo salutati. Ho incontrato, infine, una città che faceva sfilare, nel sole e nel vento, delle pene che non si possono forse neppure immaginare.

Ché si manifestava perché dei ragazzi ammazzati di carcere, di polizia e d'altre istituzioni, non fossero più dimenticati. C'erano le loro madri, i lori padri, i loro fratelli, le loro sorelle. Uno di questi ragazzi era proprio di Livorno, come il Dario della canzone di Piero Ciampi; e sentivo sfilare altri nomi, alcuni conosciuti, altri no. Sentivo sfilare il dolore, pensando a cose elementari. In questo paese cui piace, per bocca di orrori con sembianze umane, cianciare di famiglia, famiglie intere sono state distrutte dallo Stato. Per niente. Per un semplice istinto di sopraffazione su chi è nelle loro mani e non può chiedere aiuto. Sfilare il dolore in una città blindata, costretti a vederceli a fianco tutti belli nelle loro divise e armati fino ai denti. Sorridevano. Alcuni, addirittura, ridevano.

Livorno è quella cosa che, ancor oggi in questi tempi oscuri, riesce ad aprire una finestra. Fa affacciare tre signore di mezz'età che si sbracciano, applaudono, urlano. C'è anche una Livorno del tutto indifferente, però; una Livorno che continua a fare la passeggiata del sabato mattina sotto i portici di Via Grande, schivando i poliziotti e i carabinieri in assetto antisommossa. Come se fosse normale. Come se una manifestazione di cittadini che chiedono qualcosa a proposito di alcuni ragazzi assassinati fosse un pericoloso bubbone da tenere a bada, da isolare con un cordone militare, da segregare. In cima, da un furgone, qualcuno parla in mezzo alle canzoni di De André; e quelli ai lati, ridono dai loro manganelli e dai loro scudi.

E ora vorrei dire una cosa. Perché, a un certo punto, dei ragazzi del movimento antagonista livornese riconoscono uno della DIGOS, in borghese, che sotto i portici fa gesti, sghignazza e provoca; e gli si fanno attorno, urlandogli che quella sua bella ghigna a tagliola andrebbe spaccata. Tutto dura due minuti, poi finisce lì. La manifestazione ha da essere pacifica. Ci sono delle contraddizioni feroci. Da una parte, va all'altoparlante qualcuno che dice che una manifestazione del genere è un atto politico; dall'altra si sentono parole come apolitica, apartitica e così via. Non mi sento a mio agio, eppure in quel sentimento è contenuta anche la necessità di essere là. Assieme, magari, anche alla madre di uno di quei ragazzi assassinati, proprio quello di Livorno, che invita a “non fare casino” e a non “rovinare il carattere pacifico della manifestazione”. Insomma, come si dice, a restare nella legalità.

E tutti hanno una gran paura non solo a dire, ma persino ad accorgersi, che tutto il corteo sfila circondato dall'illegalità. Quella vera. Quella che non si fa nessun problema ad ammazzare dei ragazzi inermi, compreso il figlio della signora che invita alla calma. Si rimane ingabbiati tutti nella loro “legalità”, che ha assunto le stesse forme e le stesse caratteristiche di una galera; non si scappa. Si cammina per dei ragazzi assassinati, ma in mezzo allo scherno e alle esibizioni di muscoli degli assassini; assassini che non possono essere non dico toccati, ma nemmeno insultati. E allora mi viene terribilmente a mente che fanno bene, a ridere. Sanno bene di essere loro, a decidere. Fanno manifestare in mezzo alla paura. Hanno fatto davvero un deserto, e lo hanno chiamato pace.

È bene esserci, per vedere coi propri occhi. Vedere gli striscioni che reclamano verità e giustizia quando si sa bene che non ci sarà mai nessuna verità, nessuna giustizia. Succede quando si presuppone che uno Stato voglia autoprocessarsi, cosa che persistono a credere in molti. Anche quando i loro figli sono stati massacrati. Non si manifesta contro uno Stato assassino, ma per cercare una “verità” che non verrà mai rivelata, e una “giustizia” che semplicemente non esiste perché non può esistere e non potrà mai esistere finché verrà delegata agli assassini stessi. Tutto quanto diventa un tragico impasse. Ho il sospetto che ne verrà fuori, apolitica e apartitica, la solita “associazione di parenti delle vittime”, e perdipiù di vittime di serie D. Non si sono accorte, le madri, che i loro figli non intaccano le relazioni fra Italia e Brasile.

Forse una, una sola. Una madre, non mi ricordo nemmeno di chi, che davanti al Municipio parla per ultima dicendo finalmente un po' di cose come vanno dette. Dicendo che omicidi e suicidi in carcere sono la stessa cosa, cioè che sono tutti degli assassini. Prendendo persino il coraggio di nominare una “terrorista”, Diana Blefari Melazzi, morta come un cane disprezzato. Prima di lei, una commovente testimonianza di un'altra madre, che racconta la storia di una famiglia normale con un figlio che viene incarcerato per una “truffa informatica”, e che non torna più a casa. Commovente, sì, e terrificante. Ma, intanto, quella commozione che prende tutti sta in mezzo a un cordone di carabinieri che ridono, ridono, ridono. E nessuno di chi è presente può sperare di spegnerlo come sarebbe doveroso, quel sorriso beffardo. Bisogna stare fermi e calmi. È una manifestazione pacifica e civile, e quindi è necessario, pacificamente e civilmente, essere presi per il culo mentre si piange. C'è il tempo persino per una polemica fa “antipsichiatri” e il padre di un ragazzo triestino che accusa, per la sua morte, “due politici, due psichiatri basagliani e un prete”.

Il padre di un altro ragazzo triestino, che si chiamava come me, sembra invece uscito da un altro tempo e da un altro mondo. Curvo, con un bastone e, sulla testa, un assurdo berrettone di lana. Parla in un italiano stentato, mezzo in dialetto, leggendo da un foglietto. Racconta a modo suo quel che è successo in una sera maledetta. Racconta di un mondo semplice, di un figlio che lavorava assieme a lui un pezzo di terra, e che è stato massacrato da sei poliziotti; e conclude dicendo che queste cose non possono succedere in un paese “come l'Italia, che è civile e democratico”. Sì, un altro mondo; ma nessuno osa scuotere la testa. Nemmeno io. A questo ci hanno ridotti; io ci sono nel mezzo, cerco di berciare qualcosa all'indirizzo di quegli stronzi che continuano a ridere, ma nessuno mi viene dietro. Troppo rischio. E anch'io farò bene a starmene bello zitto, che ci ho già i miei guai. Basta poco. Ché la definizione di Stato di Polizia ce l'hai là davanti, in carne ed ossa. Lo Stato, la sua Polizia che ride, i ragazzi morti, i genitori pacifici; ma un ragazzo di quelli là, il figlio della più famosa di tutte le madri, non era pacifico. Lui in piazza c'era andato a tirargli addosso, a quei pezzi di merda. Si farebbe bene a non scordarsene. E che l'unico senso vero a tutta la manifestazione, forse, lo hanno dato proprio quei ragazzi livornesi che hanno, sia pure per un momento, cancellato il sorrisetto dalla bocca del digossino sotto i portici di via Grande. Accorgersene, comprendere, e poi andare avanti, non sarebbe costato niente. Soprattutto da parte della madre di Marcello Lonzi. Non stigmatizzare. Lo sa benissimo da chi è stato ammazzato suo figlio. La “verità” e la “giustizia” permesse dal sor prefetto sono consistite in una camminata da piazza del Voltone fino ai Quattro Mori, e ritorno. Passando per via San Giovanni, per la zona nera del dopoguerra, interdetta a tutti fino al '52 perché ancora minata. Passando davanti a bacheche sgangherate dal tempo, con sopra scritto “Partito Comunista”.

Tutto si dissolve, alla fine. Tutti via alla spicciolata. Mi ritrovo in un bar, assieme alla mia compagna, a mangiare due panini schifosi. Le racconto di come, in quello stesso bar al Logo Pio, all'angolo col viale Caprera, ci sia stato una volta a bere un bicchiere di vino e un caffè con uno che ricarica minimi termini; sarà stato duemila anni fa. Ancora una volta di fronte a Livorno, a raccontarla. Ancora una volta a aspettare qualche minuto prima di andarmene di nuovo. Ancora una volta a dirmi che sarebbe arrivata notte sui Fossi senza che in quella notte io ci fossi; ma la notte e i Fossi mi hanno salutato, e mi hanno detto di portare pazienza e di tener duro, ché tutto cambierà. E ché vinceranno l'incredibile luce di Livorno, e i suoi panni stesi al vento a drappeggiare libertà sconfinata, e a sbattere sul muso alla morte un tempo in cui tutto saprà essere restituito.

venerdì 15 gennaio 2010

Prezzemolo


2 ottobre 1937. Una popolazione di circa 40.000 persone che vive oltre un confine bizzarro, su una grossa isola che, dice la storia, fu la prima visitata da un navigatore d'oltreoceano al servizio di Sua Maestà Cattolica di Spagna. Il navigatore passa per essere d'origine genovese, anche se le sue lontane radici risiedono forse sulle alture di Piacenza. Ha uno di quei nomi che, caso piuttosto raro, vengono tradotti in tutte le lingue. In portoghese si chiama Cristóvão, in spagnolo Cristobal, in sloveno Krištof, in maltese Kristofru, in islandese Kristófer, e in italiano lo avete capito tutti.

Una popolazione di negri, quasi tutta di negri, odiata dal dittatore di là dal confine. Confine su un'isola, e confine tra due lingue. Da una parte il castigliano, parlato probabilmente in qualche variante locale; dall'altra, ufficialmente, il francese e, come lingua parlata, un creolo che piglia le parole della lingua madre frullandole in Africa, coi toni, l'assenza del plurale, le particelle, i complementi numerali. Il dittatore è un tipo strano. In gioventù definito semideficiente dai suoi insegnanti, fa -in maniera abbastanza logica- un'ottima carriera militare. Prende il potere nella sua parte di isola sotto lo zoccolo di una grande unione di stati (non vi dirò quale) posta da qualche parte più a nord. Si distingue per la sua totale assenza di razzismo, tanto che durante una successiva guerra mondiale fa rifugiare talmente tanti ebrei da essere proposto per il premio Dinamite per la pace. Al contempo instaura un culto della personalità totale quanto tragicamente comico, al pari del suo pomposo nome: Rafael Leónidas Trujillo Molina.


Trujillo fa ribattezzare la capitale del suo stato Ciudad Trujillo. Il monte più alto del suo stato, che si chiamava Pico Duarte, viene ribattezzato Pico Trujillo. La città dov'era nato, San Cristobal, proprio dal nome di quel famoso navigatore, cambia nome in Trujillo e la provincia di appartenenza viene chiamata, incredibilmente, Trujillo. Sposa una bella ragazza di origine italiana, che di cognome fa Pittaluga, ma divorzia presto. Si risposa con una più ispanica Martínez, dalla quale ha due figli maschi; appassionato delle opere liriche di Giuseppe Verdi, e in particolare dell'Aida, li fa battezzare uno Rhadamés e l'altro Ramfis.

Non soltanto gli ebrei. Trujillo accoglie nella sua mezza grossa isola un numero impressionante di esuli antifranchisti. Fior di anarchici passano l'oceano per andare a stabilirsi in quella specie di Filibusta, che di Filibusta aveva quasi tutto. Quasi, dico, perché la Filibusta, quella vera, era storicamente nell'altra parte dell'isola, quella dove si parla francese e creolo. Ma tant'è, così per fare, durante la guerra il suo stato è rifugio anche per migliaia di giapponesi fuggiti dalla grande Unione di Stati dopo un certo attacco aereo al Porto-di-Perla. E tromba come un assatanato. Le varie mogli succedutesi devono stare zitte, perché lui è il padrone assoluto. È Dio. Sui colli del paese compaiono scritte cubitali: Dios y Trujillo. Il motto ufficiale è: Dios en cielo, Trujillo en tierra; il popolo, tra una sua figlia e l'altra datagli da chiavare, a costo della vita rovescia il detto in una forma elementare e sotterranea di resistenza. Realizza, come ogni dittatore, opere pubbliche, scuole e ospedali. Chi viene sorpreso per strada senza la palmita, il simbolo del partito unico, rischia la vita. Ma senza razzismo. Tranne.

Trujillo ha un odio feroce verso i negri dell'altra parte dell'isola. Non verso i negri: anzi. Lo sport nazionale della sua parte di isola è il baseball, e visto che nella grande Unione di Stati più a nord, all'epoca, i negri non li fanno giocare nelle grandi squadre, li fa ingaggiare lui. Campioni come Leroy "Satchel" Paige trovano alla sua corte i successi negati in patria dalla segregazione razziale; la squadra dove militano, e che vince tutto, si chiama Trujillo. La squadra nazionale diviene in breve la seconda del mondo. Ma i negri dell'altra parte, quelli che parlano francese e creolo, li odia. Solo loro. I negri della porta accanto.

La maggior parte di loro sono nati dalla sua parte di isola, e in quell'altra parte -poverissima e disgraziata- non sognano neppure di mettere piede. Non si parla nemmeno di "integrazione": sono cittadini come gli altri, anche se continuano a parlare quel maledetto e strano francese massacrato. Soprattutto sono incapaci di pronunciare la "r" castigliana, quella specie di feroce ruggito, e la "j", vale a dire la "acca aspirata". Li odia perché pronunciano il suo nome trüzhiyò. Li accusa, nel 1937, di rubare il lavoro, di sedizione, di furti di bestiame, di stupri. Non so, ma ho come l'impressione che mi ricordi qualcosa; ma forse mi sbaglio. Sono cose del passato: siamo nel 1937. Settantatré anni fa. Il 2 ottobre di quell'anno pronuncia un discorso alla nazione in cui annuncia che la soluzione del problema è in corso. La soluzione consisteva in uno shibboleth.

In lingua ebraica, shibboleth significa, a seconda dei casi, "torrente" oppure "spiga di un cereale". Secondo il Libro dei Giudici della Bibbia, i Galaaditi, dopo una battaglia, vollero impedire la fuga ai loro nemici, gli Efraimiti. Questi ultimi dovevano per forza passare il fiume Giordano, ma non era semplice riconoscerli; i Galaaditi ricorsero allora ad uno stratagemma linguistico. Nel dialetto degli Efraimiti, il fonema [ sh ] (la "sc" italiana di "scemo") non esisteva; pronunciavano una "s" semplice. Chiunque diceva sibboleth al posto di shibboleth veniva ucciso sul posto. Uno stratagemma usato più volte nei secoli: nella Sicilia dei Vespri, ai francesi veniva chiesto di pronunciare la parola ciciri ("ceci"), assolutamente impossibile. Fino alla seconda guerra mondiale, dove agli asiatici a Mindanao o a Iwo Jima gli americani chiedevano di pronunciare Lollapalooza. I filippini ci riuscivano, ma i giapponesi -che non hanno la "elle"-, cominciavano a dire rorra- e venivano seccati prima di finire.

Così nel 1937 in quella grossa isola. I soldati del dittatore Trujillo, sorpresi i negri, mostravano loro un mazzo di prezzemolo, vero o in effigie. In castigliano, "prezzemolo" si dice perejil. In francese, si dice persil; e, in creolo, pèsi. Tutto, in ultima analisi, proveniente dalla parola latina petroselinum, a sua volta dal greco πετροσέλινον. Alla base anche del nostro "prezzemolo" (con vari accidenti fonetici) e del fedelissimo siciliano petrosino (quello di Joe, il poliziotto ammazzato in piazza Marina, a Palermo, nel 1909). Come viaggiano le parole, eh! Qui siamo in una lontana isola, alla Filibusta. Divisa in due. Quelli di una parte, a pronunciare perejil correttamente proprio non ce la facevano; e vennero sterminati su ordine del dittatore.

Sterminati in sei giorni, dal 2 all'8 ottobre 1937. Qué es eso?, domandavano i soldati; chi sapeva rispondere perejil viveva; chi rispondeva persil o pèsi, moriva nei seguenti modi:

- decapitato a colpi di machete;
- bastonato a morte;
- bruciato vivo;
- impalato;
- sparato a fucilate o revolverate, però pagando.

In quei sei giorni morirono trentamila persone che non sapevano pronunciare perejil. Anni dopo, su pressione internazionale (e particolarmente di quella grande Unione di Stati più a nord), il dittatore accettò di risarcire le famiglie di quelle persone, dall'altra parte dell'isola. Il prezzo pattuito per quei trentamila prezzemoli fu di 750.000 dollari; però ne furono distribuiti circa 525.000 perché il resto se lo presero i funzionari statali di quella parte che diceva persil o pèsi. Così va.

Circa venticinque anni dopo, quel dittatore che non era razzista tranne, commise un errore. Si era invaghito di tre bellissime sorelle, le Mirabal, che avevano il vizio dell'opposizione. Aveva fatto incarcerare i loro mariti, ma quelle non cedevano. Non gliela davano. Le fece massacrare. Poi tentò di fare ammazzare il presidente del Venezuela. Il suo consigliere, il grandunionistadelnord Johnny Abbes, lo lasciò a marcire nella sua merda; il 30 maggio 1961 un gruppo di oppositori bucherellò una Chevrolet Chevy del '57 con un centinaio di colpi di fucile; l'agguato avvenne in Calle San Cristobal. Sempre Cristobal. A bordo rimase la carne macinata del dittatore Trujillo.


Dimenticavo un particolare. I nomi. Quella grossa isola e quei due stati, quello dove si parla castigliano e si dice perejil, e quello dove si parla francese e creolo e si dice persil o pèsi.

Il primo si chiama Repubblica Dominicana, e va generalmente sotto il nome di Santo Domingo.

Il secondo si chiama Haiti.

E, in conclusione di questa storia, il primo che mi dice che il terremoto è una calamità naturale, gli rompo il muso.


mercoledì 13 gennaio 2010

Mr Earthquake


Lo so che non si dovrebbe dire, e nemmeno pensare. Però il terremoto è quasi sempre uno stronzo e un vigliacco della peggiore specie. Non batte quasi mai dalle parti dei ricchi, e le poche volte che lo fa si premura di andare regolarmente nelle zone più povere dei paesi danarosi. Va a Messina, a Avezzano, in Irpinia, nel Belice; mai una scossettina che avesse raso al suolo Sondrio, e che magari avesse fatto fuori Tremonti da piccolo. Sai bellino. La classica foto con l'orsacchiotto tra le macerie, e ci sarebbe stata risparmiata quella sua maledetta erremoscia.

E che sia mai di svegliarsi la mattina e leggere del rovinoso terremoto di Hannover, del catastrofico sisma di Oslo, dello tsunami di Boston. Solo in Giappone ci sono abituati, ma lì ci hanno i dindini per fare tutto antisismico. In California sono cent'anni che ci rompono i coglioni col Big One, ci hanno fatto pure il film-catastrofe (con relativa esaltazione del prodigioso Chevrolet Blazer che aveva sei marce indietro), e intanto il terremoto dove va? A Haiti. Rade al suolo una bidonville di tre milioni di abitanti nel paese più povero del mondo, o quasi. Uragani, alluvioni, fame, dittature, tonton macoutes, e tutto il resto.

Un pezzo di merda sì, ma stavolta il sor terremoto si è davvero superato. La catastrofe naturale che però va a battere su una delle peggiori catastrofi della disuguaglianza planetaria; perché le condizioni in cui si trova Haiti, e assieme a lei mezzo mondo, non sono per nulla frutto della natura. Cancellato tutto. Spazzati via gli slums di Port-au-Prince e le migliaia di disgraziati che li abitavano. Cancellata la memoria storica, la cattedrale in stile "eclettico", le case gingerbread, la statua di Toussaint Louverture, i resti del Fort Dimanche che aveva visto torturati e massacrati centinaia di oppositori.

E così, con questo colpo di grazia, Haiti si troverà a spostarsi. Via da lì. Lì non c'è più niente. Nemmeno quelle minime condizioni di vita disperata. Via ad accrescere le masse di relitti umani che bussano alle nostre porte chiuse. Arriveranno i soliti aiuti umanitari da parte di un mondo che non ha più niente di "umanitario", e nemmeno di umano; poi Haiti la ritroveremo sparsa da chissà quante parti, a lavare vetri, a frugare nei bidoni, a raccogliere pomodori, a crepare nel freddo dei paesi dove il terremoto non batte mai.

Così, magari, un bel giorno Haiti sarà finalmente libera per farci solo alberghi per i ricchi, davanti a quel mare bellissimo. A che servirà mai una Port-au-Prince; non ci ha nemmeno uno straccio di musica da rimpiangere, come a New Orleans. Haiti è inutile per il mondo d'oggi, uno dei tanti bubboni da cancellare; ci pensa il terremoto a eliminarla. Via quelle persone prive di qualsiasi permesso di stare al mondo, e largo ai milioni di nuovi schiavi a disposizione di tutti.

Ore dodici, s'affaccerà l'omino vestito di bianco dal suo terrazzino, dicendo di pregare. Ore quindici, una schiera di pop star si attiverà per fare il disco di beneficienza. Ore venti, le viscere della terra si sposteranno di un altro millimicron, e mai nella giusta direzione, mai con epicentro dieci chilometri sotto il FMI, mai cinque chilometri sotto un vertice del G8. Se n'è sempre guardato bene, Mr Earthquake. Ci ha da andare a Port-au-Prince a seppellire i poveri; e se Dio c'è, stavolta sarebbe davvero bene che si levasse definitivamente fuori dalle palle. Se n'andasse a terremotare un altro universo, ché qui ci ha bell'e divertiti.

lunedì 11 gennaio 2010

Dell'inutilità dello schifo


Parto da un presupposto, già enunciato del resto nel titolo del post. Lo schifo è diventato del tutto inutile. Può darsi che ci siano state epoche, periodi, frangenti in cui manifestarlo, esprimerlo, dichiararlo più o meno a gran voce abbia rivestito una qualche utilità; ora non serve più a niente di concreto. Serve, al massimo, a dire "io non ci sto" o "io non sono come quelli"; ma, a pensarci bene, gliene importa qualcosa a qualcuno? Nella pratica, serve a mobilitare? Serve a smuovere? Serve a far cessare gli schifi, o quantomeno a moderarli? No.

Spiace dirlo, senz'altro; ma tutto questo grand'ischifo che si legge e si "percepisce" ovunque, puzza sempre più di vuoto. Gli schifi, che sono giornalieri, vengono attraversati e dimenticati con la massima facilità. Da Stefano Cucchi si passa alle mostresse di Pistoia; dalle mostresse di Pistoia al "paese dell'amore"; dal "paese dell'amore" a Rosarno. Da Rosarno si passerà, domani, a qualcos'altro. Sempre con il suo codazzo di dichiarazioni schifate, indignate, rassegnate, eccetera. Lo schifo non sedimenta più in ribellione, in rivolta; e, allora, diviene un semplice esercizio di stile.

Fa schifo "essere italiani"? Ci sono caterve di francesi cui fa schifo essere francesi. Plètore di americani cui fa schifo essere americani. Ho abitato in Svizzera per alcuni anni e ho conosciuto persino degli svizzeri cui faceva un immenso schifo essere svizzeri. Il cosiddetto schifo nazionale, nelle modalità in cui viene ora generalmente espresso, comincia a non attenermi più. Non mi fa più schifo "essere italiano" di quanto non me ne faccia appartenere alla razza umana. Allora, forse, sarebbe meglio (ri)cominciare a cambiare registro.

Ad esempio, com'è possibile esprimere roboanti schifi per la classe politica italiana, e poi continuare a andare a votare? Si ha presente il famoso detto argentino, Que se vayan todos!? Eppure mi sembra di notare, e anche fortemente, un desiderio del genere; salvo poi, ad ogni "elezione", mettersi in fila diligenti al seggetto e andare ad avallare quella stessa "classe politica" che fa tanto schifo. Bene, allora basterebbe starsene a casa, o andare da qualche altra parte. L'espressione autentica della sfiducia dei cittadini in una "classe politica" non può essere altro che non stare al suo gioco. E non sto invitando tutti a una vaga "anarchia" o roba del genere; sto invitando ad esprimersi seriamente affinché il non-voto abbia una precisa valenza politica. Inequivocabile. Andatevene tutti affanculo.

E lo stesso vale per gli schifi ondivaghi che seguono gli eventi quotidiani. Lamentazioni e basta. Che cosa si fa, nella merdosa pratica delle cose? Ci si mette a una bella tastiera, si pigia e si pigia e vengono fuori, ogni giorno, delle belle cose che ci leggiamo a vicenda. A che servono, se non accendono micce? A proposito di Rosarno, ho dei forti dubbi che gli immigrati che si sono ribellati tenessero dei blogghini o delle paginette Facebook. Così come non credo che li tenessero i ragazzi delle banlieues francesi. Ci vogliono far credere che le rivolte "viaggiano per la Rete", ma quando scoppiano sul serio, scoppiano nel caro vecchio modo. Fucili, spranghe, fuoco, coltelli. Per la Rete non viaggia proprio un cazzo, a parte i commenti e i commentini di chi se ne sta generalmente col culo bello al caldo, me compreso.

Credo che siamo oramai arrivati ad un punto in cui, in condizioni normali d'altre epoche (e nemmeno poi lontane) i germi di una rivolta generalizzata dovrebbero esserci tutti. Mi guardo attorno, e niente riesce a convincermi che il '68 è scoppiato per molto meno. Giro per città militarizzate, impaurite, ridotte a falsi decori uniti ai degradi. Con il pretesto della sicurezza trasformano una società in una galera. Le scuole ridotte a "regolamenti" un decimo dei quali avrebbero, verso il '69 o il '70, dato luogo non alle okkupazioni, ma a un trattamento di sani calci nel culo ai signori présidi-sceriffi; scuole che avviano al precariato, alla vuotezza di un "lavoro" che da schiavitù perlomeno stipendiata è passato ad essere schiavitù dell'incertezza sottopagata. Ci hanno fatto credere che l'ideologia è male, che la coscienza di classe è male, che lo scontro sociale è male, che tutto deve essere improntato alla legalità; ed eccoci qua. Ad esprimere il nostro "schifo" sui blogghi. A bearci e a pascerci di Internet come "ultimo baluardo" (ma de che?!?) e a credere di "poter fare". Beh, guardate che anche Internet ce la stanno puppando.

Ogni tanto, scoppia una rivolta. Disperata o meno, scoppia. Ed è sempre lontanissima da noi. Le banlieues sono lontane. Anche Rosarno è lontana. Gli Zapatisti del Chiapas? Ma ve ne rendete conto dov'è il Chiapas? E, oltretutto, siamo anche noi sempre più lontani da noi stessi. Ci rinchiudiamo invece di uscire. Chi nelle proprie malinconie, chi nelle storie passate, chi nelle musiche, chi in mille e mille altre cose. Abdicando così al nostro essere vivi. Siamo morti. Scoppiasse domani una rivolta accanto a noi, ce ne staremmo probabilmente a guardarla come uno spettacolo. Non sapremmo prendere posizione. Non sapremmo dove stare. Altro che "barricate". Figurarci poi se la rivolta fossimo noi a doverla far scoppiare, nonostante tutti i nostri begli schifi. Preferiamo "far viaggiare le idee", ma il viaggio si conclude presto e sempre allo stesso modo.

E, allora, smettiamola anche di provare così tanto "schifo", perché ci siamo nel mezzo anche noi. Affogati fino al collo. Mai disposti a rischiare. Mai disposti a metterci o rimetterci in gioco. Abbiamo le nostre formulette buone per ogni uso, i nostri pretesti, le nostre ragioni sempre valide. Comunque vada, un piatto di minestra ce lo abbiamo, al pari di un letto, di una televisione e di uno stadio. Poi ci diciamo invariabilmente, e con il massimo schifo, che quei poveri immigrati sfruttati "hanno fatto bene" a ribellarsi; ma dovremmo un po' provare a vivere come loro. A non aver più nulla. Eppure c'è stato un tempo in cui tutto questo non era necessario. In cui la ribellione era una rigenerazione. In cui la confusione era, in realtà, una trasfusione. In cui si era vivi. Anche in questo paese. E se prendessimo di nuovo questa idea in considerazione, invece di sdilinquirci in schifi, schifetti e schifoni?

venerdì 8 gennaio 2010

Effetto Domino


La vicenda narrata in questo post è autentica fino ad un certo punto; oltre il punto in questione diviene "di fantasia". Sta a chi legge individuare dove stia il punto esatto, il limite tra la realtà e la fantasia [*Nota]. La parte autentica è avvenuta nelle primissime ore del mattino del 7 gennaio 2010 a Firenze e ne sono stato testimone diretto.

Ore 03.10. Firenze, via A.F. La signora Pierina F., arzilla vecchietta di anni 87 che abita da sola, si sveglia per andare in bagno a fare un bisognino. Diméntica di avere il pannolone, scende giù dal letto e scivola per terra, incapace di tirarsi su da sola pur non essendosi fatta fortunatamente niente. Vicino a sé ha il cordless; disgraziatamente, proprio quella sera ha detto alla badante di andare a dormire nell'appartamento accanto. Chiama l'assistente domiciliare sul cellulare, e questa non risponde.

Ore 03.15. La signora Pierina, visto che la badante latita, chiama il 118.

Ore 3.20. Il 118, ricevuta la chiamata, invia sul posto un'autoambulanza. Tra tutte quelle in giro becca per l'appunto Delta 9 di rientro da un altro intervento (e dal porchettaro notturno). Su Delta 9 c'è il sottoscritto alla guida.

Ore 3.25. Delta 9 arriva sul posto, tranquillissima strada di una zona residenziale della città. La squadra scende e si attacca ai due campanelli con il cognome che è stato comunicato. Uno non risponde perché la signora Pierina è per terra e non può alzarsi; l'altro non risponde perché sarebbe quello dell'appartamento con la badante dentro, irreperibile.

Ore 3.35. Dopo dieci minuti di furibonde scampanellate notturne, il 118 ordina, con decisione altamente empirica, di attaccarsi a tutti i campanelli del condominio per entrare perlomeno nello stabile. Il sottoscritto risponde che a quell'ora rischiamo quantomeno una fucilata. L'operatrice risponde gentilmente: "Pazienza".

Ore 3.40. Finalmente qualcuno apre; è un inquilino del terzo piano (la signora Pierina e la badante abitano al primo), svegliato crudelmente nel suo giusto sonno da tre energumeni vestiti di giallo e verde che berciano senza ritegno. L'inquilino, il signor E., dal simpatico accento napoletano, conferma che solo la badante ha le chiavi della signora Pierina.

Ore 3.45. La squadra del 118 e il signor E. constatano con orrore che la badante non risponde perché il campanello non funziona. Viene deciso di richiedere alla centrale del 118 l'intervento dei Vigili del Fuoco.

Ore 4.15.
Dopo un'attesa durante la quale vengono compiuti altri infruttuosi tentativi fumando mezzo pacchetto di sigarette, e mentre la strada intera sta cominciando a svegliarsi preoccupata, arrivano i pompieri a sirene spietate. Tutta la strada vola giù dal letto e si affaccia alle finestre; si intravedono diversi segni della croce. I vigili del fuoco, con l'autoscala, chiedono se l'appartamento della signora Pierina ha le finestre che si affacciano sulla strada; il signor E. risponde di no, ma che avrebbe una finestra su una terrazza interna in comune con tale signor C.

Ore 4.20. Anche il povero signor C. viene poco cerimoniosamente svegliato nel cuore della notte, vedendosi piombare in casa, nell'ordine: sei pompieri, tre centodiciotti e anche una pattuglia della polizia che passava per la zona e che era stata inviata là per vedere che cazzo stava succedendo. Il signor C. rischia un collasso per l'emozione.

Ore 4.35. Viene individuata la finestra. I pompieri cominciano lo scasso della serranda e penentrano finalmente nell'appartamento della signora Pierina. Trovano le chiavi della porta blindata e cercano di aprire alla squadra di soccorso sanitaria; la chiave si incanta nella serratura. I pochi ancora addormentati nella strada vengono svegliati dalle bestemmie. Finalmente la malefica chiave cede e entriamo. La simpatica signora Pierina è tranquillissima per terra e la tiriamo su in tre secondi rimettendola a letto. Un pompiere coi capelli lunghi un metro e mezzo le dice: "Ma signora, porca m*****, non poteva tenersi una padella accanto al letto?!?!?"

Ore 4.50. Come da prassi, alla signora vengono presi i parametri vitali (saturazione, battito cardiaco, pressione). La signora sta palesemente meglio di me, e anche di te, lettore o lettrice di questo post del cavolo. Nel frattempo, si sparge una voce tra i condòmini accorsi: nell'appartamento dove dovrebbe esserci la badante sarebbero tutti morti.

Ore 5.00. Un moto di terrore si impadronisce di tutti: siamo di fronte a una specie di X-File, il mistero della badante-zombie (detta familiarmente zombadante)? Un poliziotto comincia a prendere a manate la porta, e dopo un po' si sentono dei rumori. Apre una giovane donna straniera, mezza ignuda e palesemente accaldata. Si sente anche una voce maschile.

Ore 5.10. La badante, la quale era stata regolarmente congedata dalla signora Pierina, torna nell'appartamento e riprende a occuparsi della sua assistita. Sono passate due ore dalla chiamata. Nel frattempo, approfittando della pattuglia dei tutori dell'ordine impegnata, tre misteriosi individui penetrano nella vicina gioielleria "Gioielli & Orpelli", svuotandola completamente per un bottino di quasi 200.000 euro.

Ore 5.30. Espletate tutte le formalità e informate le rispettive centrali del termine del complesso e curioso intervento, si constata che tutta la strada è oramai completamente in piedi, ostruita da un'ambulanza coi lampeggiatori accesi, da un mezzo dei Vigili del Fuoco di traverso e da una volante della Polizia che blocca ogni cosa. Si raccolgono voci incontrollate, tipo che c'è stata una sparatoria, un omicidio-suicidio, un accoltellamento e un'irruzione in un covo delle Brigate Rosse Anarcoinsurrezionaliste Pedopornografiche.

Ore 5.45. Effettuata la rapina con scasso presso la gioielleria, i tre ignoti autori del colpo si ritrovano presso la sezione fiorentina di Al-Qaeda della quale fanno parte; la rapina serve infatti come autofinanziamento. Il responsabile della sezione si congratula con un compagno per la brillante idea di telefonare alla signora Pierina facendole "pisccc pisccc piscccccc" e inducendola così a andare in bagno, occupando al contempo tutte le forze di soccorso presenti in zona.

Ore 6.10. Il frutto della rapina viene inviato tramite un corriere clandestino in una località ignota del Pakistan centrale: dovrà contribuire all'acquisto di uranio arricchito per la fabbricazione di una bomba atomica. Ovviamente del tutto ignari di quel che sta accadendo, i membri di Delta 9 se ne tornano in sede discretamente sfiniti e intossicati da un quantitativo imprecisato di sigarette. Al ritorno in sede incrociamo una troupe di Voyager messa in preallarme per il cosiddetto caso dei badanti morti viventi.

Ore 6.40. Finalmente viene lanciato l'allarme per il furto alla gioielleria "Gioielli & Orpelli"; il colpo viene classificato inequivocabilmente come opera di professionisti. Sul posto viene reperito un misterioso volantino redatto in caratteri arabi; viene chiamato l'interprete arabo che dichiara di non capirci una sega, perché il testo è in urdu. Nel frattempo, la signora Pierina F., con accanto la badante, è tornata a dormire beata.

Ore 7.00. Le prime agenzie cominciano a battere la notizia della rapina e del misterioso volantino. Trovato un interprete dall'urdu, ci si accorge della rivendicazione del misfatto. Sul posto interviene la DIGOS, dando il colpo di grazia ai residui dieci minuti di sonno della povera strada.

Ore 7.20. La strada viene isolata dal resto del mondo. L'intero pianeta è col fiato sospeso. Primi interventi di Magdi Cristiano Allam, del ministro Frattini, di Ferruccio de Bortoli. Commenta ironico il blog Kelebek: "Il mondo in allarme per una pisciata, ma perlomeno era assai più autentica delle armi di distruzione di massa di Saddam".


[*Nota.]
Ho qui avuto in mente anche le esigenze del "finto facebuccaro", cui piace tanto moraleggiare su realtà e fantasia (o su "verità" e "falsità"). Poi non dica che non collaboro alla sua fatica, eh!