domenica 21 marzo 2010

La domenica delle Palle


E ci risiamo. Come non tutti sanno, abito esattamente di fronte a un campo sportivo; la cosa non rappresenterebbe certo un problema, se non fosse per il non trascurabile fatto che ogni domenica mattina, alle otto in punto, mentre io e la Dani stiamo dormendo come ghiri, al campetto cominciano a giocare a pallone; e sono berci, urla sanguinose, babbi e mamme che si accapigliano, slogan agghiaccianti, arbitri in fuga e, stamani, pure una pallonata mostruosa finitami nel cortile. Allora mi sono detto che era urgente una dura vendetta verso i pallonari "amatoriali" della domenica; eccola qui prendendo in prestito una nota canzone di Fabrizio de André. Quando ci va, ci vuole, perdiana!

LA DOMENICA DELLE PALLE

Tentò la fuga in tranvìa
verso le sei del mattino,
si cominciava a giocare
al campetto di Ugnano...
Alle otto berciavano
i genitori dei ragazzini
e si sentivano i "crac"
delle ossa rotte su ai campini
arbitrava un poeretto
venuto da San Godenzo
riuscì a salvarsi con molto stento
mentre infuriava il combattimento.
Gli spettatori non morirono subito,
mamme stremate da urla e cazzotti
si sfacevano i trucchi e le permanenti
costate dimolto care,
i trafficanti di steroidi
si districavano tra facce pest',
il centravanti del novanta
sputava al portiere del novantuno,

e slogan da terzo Reich

valicavano la recinzione,

tutto il quartiere si svegliava,

a dormire 'un c'era più nessuno

e bestemmie sanguinose

s'innalzavan nel cielo in quel giorno di festa

cristo per cristo

madonna per madonna

trequartista per trequartista.

La domenica delle palle

s'udiron pure fucilate,

il calcio amatoriale

invadeva le strade,

La domenica delle palle

si portò via riposi e amori,

e sopra il campo pieno di mota

si affollavano i barellieri.

Nell'isolato monolocale

e nel riposto sgabuzzino

noi si provava ancora a ronfare sodo,

ed era ancora di primo mattino

però intanto si erano messi

fanti cavalli cani ed un somaro

a abbaiare, ragliare, strillare sulle terrazze

come se non bastasse

il pallonaro

la massaia del terzo piano

in un tripudio di pentoloni

conversava con la su' zia

con la tovaglia a asciugare e il figliolo a penzoloni:

Voglio vivere in una città
dove all'ora dell'aperitivo
si levin tutti dai coglioni e vadano
a vedere Montolivo...”

A tarda sera io e la mia illustre vicina argentina

eravamo gli ultimi cittadini liberi

di questa famosa città civile

perché avevamo un pallone nel cortile.

un pallone nel cortile...

La domenica delle palle

ognuno si fece male,

ferite lacero-contuse,

conci come un maiale,

La domenica delle palle

si sentiva ancora berciare:

Su ragazzi, state calmi,
l'importante è partecipare...”

Gli ultimi giocatori

si ritirarono negli spogliatoi

accesero le docce e si misero a canticchiare

mentre tutti noi li si mandava a cacare...

Voi che avete calciato e vi siete rotti il ginocchio,
voi che avete chiappato palloni e cazzotti nell'occhio,

voi che giocate a Rifredi, a Sorgane e all'Argingrosso

svegliando tutti e rimediando fratture all'osso

sui campi sportivi

fra la melma e gli ulivi,

ora noi con voci potenti

ci si sfoga un poco e si batte il tamburo,

ora noi con voci potenti

vi si manda tutti affanculo.”

La domenica delle palle

noi, cazzo, s'avrebbe sonno,

si vorrebbe dormire almeno

fino a un quarto a mezzogiorno.

La domenica delle palle

andate a romperle un poco altrove,

s'avrà il diritto di ronfare,

che s'ha da andare a lavorare...

Mentre il cuor di Firenze

da Gavinana all'Isolotto

si gonfiava in un coro:
“Questi qui ci hanno rotto!”



venerdì 19 marzo 2010

Rivoluzionari



Monty Python, Brian di Nazareth.

lunedì 8 marzo 2010

Il tedesco Klöger (Scuse non richieste)



"Continua venerdì 5 marzo", c'era scritto alla fine della 2a puntata. Sempre ammesso che a qualcuno 'nteressi, ovviamente; se così per caso fosse, almeno a qualcuno, purtroppo mi sono beccato uno dei miei ricorrenti malanni febbricitanti e fluenti assai. La pubblicazione riprenderà non appena mi sentirò un po' meglio; colgo l'occasione per chiedere scusa
, ma so' ridotto veramente a uno straccio. Saluti a tutte e tutti.

mercoledì 3 marzo 2010

Il tedesco Klöger (2)


A chiedere della coppietta era andata, scendendo alla fine dal furgone con aria contrariata, la passeggera con gli occhiali scuri; aveva come inforcato la strada cocente, ma senza un filo di sudore, per dirigersi verso dove quei due se n'erano andati. Senza neppure chiudere la portiera, si era allontanata mentre il benzinaio aveva quasi terminato il suo servizio. Il conducente del furgone, bevuta la sua aranciata, aveva richiuso con un po' di fatica il decrepito frigorifero “Philco” col pedale e si era fermato sulla porta della baracca; guardava sempre più fisso il benzinaio, che si era avvicinato alla canna dell'acqua per dare una risciacquata al furgone ricoperto dalla polvere delle strade sterrate elbane. Nemmeno una parola.

Due o tre parole sole aveva rivolto Daniel ai cinque ragazzi che erano attorno a lui, tutti gli apprendisti della giornata. Di ragazzi c'era bisogno, perché alla trafilatrice gli operai specializzati avevano bisogno di aiuto e di non mettere troppo a repentaglio mani che avevano famiglie intere sulle spalle. Daniel era un vecchio operaio; le mani le aveva perse tutte e due circa dieci anni prima, per un momento di distrazione, e il macchinario non glielo aveva perdonato. Le lamine di latta che si estrudevano a formare i contenitori circolari dalla Kratos, inventata da pochi anni, gliele aveva tranciate di netto. Lo avevano tenuto perché era il più bravo, e lo avevano quindi destinato all'istruzione degli apprendisti; della Kratos lui conosceva tutto. “Ragazzi, venite con me”. Seccamente. Accanto a Anton c'era un altro ragazzo, più o meno della stessa età, ma un po' più basso e gracile; si misero a camminare senza fiatare, credendo di fare un breve tragitto. Invece, per arrivare al capannone delle trafilatrici c'era da fare un percorso abbastanza lungo attraverso una serie di piazzali dove sorgevano altri capannoni tutti uguali, alcuni dei quali semidistrutti.

Sottovoce, i due ragazzi si erano messi a parlare, presentandosi. Il compagno di Anton disse di chiamarsi Kurt Winckel.

“Da dove vieni tu, Kettingen?”

“Dalla Sandmoor.”

“Anche io vengo dalla Sandmoor, ma non ti ho mai visto. Dove sei andato a scuola?”

“Mio padre è morto quando avevo cinque anni e mia madre mi ha portato a Amburgo. L'ho fatta là la scuola, per questo non mi hai mai visto. Siamo tornati a Cuxhaven da poco.”

Kurt fece finta di crederci, anche perché non era bene farsi sorprendere a chiacchierare da Daniel. Aveva un'aria, l'operaio istruttore monco, di non gradire troppo le chiacchiere. Alla fine arrivarono al capannone delle trafilatrici, dove i ragazzi si aspettavano di essere accolti da un rumore d'inferno; ma non era così, non era affatto così. Non era un rumore, ma uno strano sibilo intermittente, che non aveva niente di infernale ma tutto di inquietante. Non un fracasso grossolano, ma una sottile angoscia. Ai macchinari, degli operai comandavano delle manovre eseguite perlopiù da giovani di un'età poco maggiore di quella degli apprendisti, che guardavano le sedici trafilatrici con stupore mentre Daniel, ancora, non diceva una parola. Voleva, forse, che quei quindici o sedicenni provassero un ultimo momento di infantile meraviglia prima della quotidianità della fabbrica, dei turni di lavoro, dell'obbedienza, del pericolo affilato. “Le manovre sono semplici”, disse all'improvviso. “Per questo molti ci hanno rimesso le mani”; e mostrò ai ragazzi i suoi moncherini ricuciti.

Daniel. Quel giorno di due mesi e mezzo dopo, non c'era; era rimasto a casa per un malessere improvviso, forse un attacco della declinante “spagnola”, non mortale ma sufficiente a non farlo andare in fabbrica per qualche tempo. Aveva insegnato rapidamente ai ragazzi le manovre che sarebbero loro spettate; la più pericolosa era la raccolta dei contenitori tubolari grezzi, non ancora saldati, all'uscita dall'estrusore laminare. Quando aveva perso le mani, non doveva esserci lui alla raccolta; l'apprendista incaricato aveva chiesto il permesso di andare cinque minuti in bagno e lui gli aveva detto di sbrigarsi. Si era sbrigato, il ragazzo; ma quando era tornato dal bagno aveva visto il sangue, sentito le urla dei compagni di lavoro e visto Daniel a terra che tremava senza dire niente, con le mani mozzate. Le aveva appoggiate un istante al carter mentre passava un contenitore malformato che aveva fatto inceppare un finecorsa. Daniel. Se lo rivedeva.

Il benzinaio Klöger aveva riavvolto la sistola e si era avvicinato al guidatore del furgone, che ancora stava fermo sulla porta della baracca a guardarlo.

Avevano fatto amicizia senza chiedersi più niente sulle loro provenienze, Anton e Kurt. Di quelle amicizie da adolescenti che si ritrovano non sui banchi di una scuola, ma in una fabbrica a lavorare duro in anni schifosi. Non era Berlino, Cuxhaven. Non era la febbrile, malata e folle repubblica di Weimar. Era una cittadina di cinquantamila abitanti dov'era rimasta in piedi una fabbrica. Quando Anton, dopo il primo giorno di lavoro, era tornato a casa, suo padre, il Freiherr Woldemar Christian von Ritzebüttel und Hadelheim, gli aveva chiesto dov'era stato tutto il giorno.

“Sono stato a chiedere lavoro alla Pögg, babbo.”

“Che cosa!?!”

“Alla Pögg. Come apprendista operaio.”

Al vecchio Freiherr era quasi venuto un colpo: “Ma sei matto? Un Ritzebüttel und Hadelheim a lavorare in fabbrica? Ci vado a parlare io con Hermann...”

“Babbo, Hermann non ti rivolge più nemmeno la parola. Lui è rimasto ricco, noi siamo poveri in canna. La casa casca a pezzi. Alla Sandmoor i lavoratori mangiano due volte al giorno, noi non mangiamo nulla. Che c'è in dispensa, babbo? Stasera cosa mettiamo sotto i denti? Me lo sai dire tu, babbo?”

Woldemar Christian von Ritzebüttel und Hadelheim si era lasciato andare su una poltrona polverosa, prendendosi la testa fra le mani e cominciando a piangere; Anton aveva rispettato il suo dolore, la coscienza della sua rovina, e anche lo stupido orgoglio secolare di chi era abituato a campare del lavoro degli altri, ripagato con uno sprezzante senso di superiorità. Lo aveva lasciato piangere; quando era parso calmarsi, aveva detto pacatamente al padre:

“Mi hanno preso. Non sono voluto andare dal signor Pögg e ho dato un nome falso.”

Il padre aveva aspettato qualche secondo: “Un nome falso? E non te li hanno chiesti dei documenti, qualcosa?...”

“Credevo che lo facessero, e che non mi avrebbero preso. Evidentemente non fanno così tante storie, specialmente con degli apprendisti.”

“E dove ti avrebbero messo a lavorare?”

“Alla trafilatrice Kratos, babbo.”

“Che diavolo è?”

“Un macchinario da dove escono i barattoli di latta non saldati. Se non si sta attenti, ci si rimettono le mani. L'istruttore è un vecchio operaio monco.”

“L'ho visto qualche volta in giro, si chiama Daniel Markwald. Stai attento, figliolo. Alle tue mani e anche a quello lì.”

“Perché, babbo?”

“Perché non mi piace quel tipo. Non ti devo nessun'altra spiegazione, sono sempre tuo padre anche se non ho più nulla. Venderemo anche questo palazzo, non ha più senso tenerlo oramai. Qualcuno lo comprerà. Rischia di caderci addosso.”

“Se diventerò operaio effettivo qualche soldo ce lo avremo. E...”

“Cosa vuoi dirmi?”

“Niente, babbo. Niente.”

Voleva dirgli che, a quarantotto anni non ancora compiuti, poteva trovarsi anche lui qualcosa da fare. Nel 1909 il Freiherr aveva preso la patente di guida, e in tutta Cuxhaven saranno stati sì e no un centinaio ad averla. Ma sarebbe dovuto andare a fare da chauffeur a qualcuno che aveva denaro, che avrebbe così avuto un nobiluomo ridotto alla fame come autista; e Anton capì che era chiedere troppo a suo padre. Lo salutò dicendo che andava a dormire, perché il turno di lavoro cominciava alle sei del mattino; e alle cinque e mezzo, come fu uscito di casa, trovò a aspettarlo il suo amico Kurt. I due ragazzi rimasero immobili a guardarsi.

Immobili a guardarsi ancora, senza sentire nemmeno più il caldo, mentre da lontano si sentiva confabulare in lingua tedesca. “Siete una vergogna, tutti e due, senza nessun pudore. Siete fratelli gemelli, e non vi contentate nemmeno di scopare. Dovete fare anche i fidanzatini innamorati davanti a tutti, mentre si viaggia, al mare, dovunque. Tornate subito indietro.”

“Ascolta, Waldtraut”, fece la ragazza. “Tu non ne sai nulla di noi, né di chi siamo, né di come siamo, né di cosa vuol dire quel che c'è fra noi. Non sai niente e non sei niente. Torna tu indietro, noi ci siamo stufati di te, della tua faccia, dei tuoi occhiali. Nostro padre lo sa e non dice niente, ed è quello che ci ha messi al mondo. Se ci fosse ancora nostra madre quei tuoi occhiali te li avrebbe già fatti ingoiare con tutte le lenti, o cacciati nel culo. Le tue morali valle a fare da un'altra parte, hai capito? Noi non ti facciamo niente di male, e se commettiamo incesto, come ti piace dire, sono affari nostri. Siamo venuti a goderci una vacanza, non a sentire i tuoi ordini.”

Impietrita, la donna tornò verso il furgone, con un improvviso desiderio di vomitare. Alla pompa di benzina, i due uomini si guardavano ancora, senza dire una parola. Il nome della Fanta deriva dal termine tedesco per "immaginazione", Fantasie o Phantasie, perché l'inventore riteneva che occorresse immaginazione per sentire il gusto di arancia in quello strano miscuglio.

(continua venerdì 5 marzo)


lunedì 1 marzo 2010

Il tedesco Klöger (1)


Il tedesco Klöger aveva una pompa di benzina dove pochi si fermavano; a metà fra Portolongone e Rio nell'Elba, dove la strada comincia a salire. Che fosse tedesco, non se ne curava praticamente nessuno; con una sorprendente rapidità era riuscito a imparare l'elbano, e neppure con una lieve inflessione: Longonese nato e spiccicato. Si faceva chiamare Antonio, o Toni; abitava in una catapecchia non lontano dalla pompa, tanto che si muoveva a piedi. Nessuno lo aveva mai visto, né a Rio e né a Portolongone, a bordo di un qualsiasi mezzo di trasporto, neanche una bicicletta. Le poche volte che andava a Portolongone per andare a far la spesa (di andare a Rio non se ne parlava neppure, data la salita che c'è) ci andava a piedi, e a piedi ritornava con le borse; mangiava, del resto, pochissimo ed era magro come un chiodo. Accanto al suo tugurio, che peraltro teneva ordinatissimo con le scarne cose che c'erano, aveva un orto che coltivava con cura ma soltanto a cavoli, patate e rutabaga; non beveva vino, poca birra e aveva un debole per la Fanta.

Si chiamava Anton Erwin Klöger von Ritzebüttel und Hadelheim ed era nato, quando si verificò l'episodio che segue, sessantadue anni prima a Cuxhaven, in Bassa Sassonia; proveniva da una delle più nobili e antiche famiglie anseatiche. Se arrivava qualche rara automobile con targa tedesca, si guardava bene dal parlare nella sua lingua materna e, anzi, faceva generalmente finta di non capire nulla limitandosi a dei gesti per le operazioni di lavoro: il pieno, controllare i livelli, pulire i vetri. Soltanto all'anagrafe comunale un paio di impiegati sapevano da dove venisse per davvero, anche se diceva tranquillamente a tutti di essere nato da qualche parte in Germania; ma già padrone della parlata locale e cittadino italiano, li aveva pregati gentilmente di non dire mai nulla a nessuno promettendo loro un vitalizio di benzina a gratis. E quelli se ne servivano, invero con moderazione e andando spesso a riempire il serbatoio da qualche altra parte per non dare nell'occhio. Avevano capito che al tizio non doveva riuscire gradito il suo passato, o qualcosa del genere; e, naturalmente, avevano pensato che fosse un vecchio nazista. Ma non dava noia a nessuno, faceva il suo lavoro, campava con il suo rutabaga e la sua Fanta e al resto ci avrebbe pensato, un giorno, il Padreterno.

Il 5 luglio 1967, poco dopo l'apertura pomeridiana della pompa, si fermò un furgone Volkswagen arancione, con una scritta sulla fiancata destra, pitturata con della vernice bianca: Kein Atomwaffen! Alla guida c'era un tipo più o meno della stessa età, vestito curiosamente da hippy; era sudato come un maiale per il caldo terrificante del primo pomeriggio, e aveva addosso un paio di pantaloncini verdi bisunti e una maglietta gialla completamente intrisa, sulla quale si leggeva una qualche frase contro qualcosa. Accanto a lui una giovane donna dall'aria incupita e un paio di occhiali scuri troppo grossi; sul sedile posteriore un'altra coppia, visibilmente più allegra, composta da due giovani che uno avrebbe preso per fratello e sorella gemelli tanto si somigliavano come due gocce d'acqua; senonché si stavano baciando appassionatamente, scientificamente, senza spiccicarsi nemmeno per un secondo. Il guidatore scese, parlando in un italiano stentato e chiedendo tremila lire di benzina, una sistolata al furgone impolverato e se per caso c'era qualcosa da bere di fresco. Il vecchio Toni, nell'aprire il tappo del serbatoio, disse che nel frigo aveva una bottiglia d'acqua e un'altra di Fanta già ammezzata e mezza svampita; l'altro, di tutto questo, capì soltanto “Fanta” e sorrise ringraziando, guardandolo in viso. Entrò nella baracca dirigendosi verso il frigorifero, mentre un pensiero lontano cominciava a prendere la rincorsa nella sua testa.

L'inverno del 1920, a Cuxhaven, era stato qualcosa di più che terrificante; a paragone di quei mesi, persino negli anni disastrosi del secondo dopoguerra c'era ancora chi diceva che non era nulla “di fronte al Venti”. Nel suo palazzotto Jugendstil della Böllkindstrasse, a due passi dall'estuario dell'Elba e da dove si vedeva l'isola di Neuwerk, la famiglia von Ritzebüttel und Hadelheim era costretta, come tutti, a mangiare una volta al giorno patate lesse condite con poco sale, o poco più. Il palazzotto stava cominciando a cadere a pezzi, e il quindicenne Anton aveva appena comunicato al padre di avere trovato un lavoro come operaio apprendista in una fabbrica di contenitori di latta, la Pögg und Söhne Blechhälter GmbH. Era una delle poche attività industriali rimaste in piedi, e un posto là, per un ragazzo, significava avere uno stipendio sufficiente per dar da qualcosa mangiare a una famiglia; non aveva chiesto niente a nessuno, si era presentato con dei vestiti mezzi laceri e con un nome inventato “Anton Kettingen”, e aveva domandato se c'era da lavorare. Era alto e ben fatto, e probabilmente uno sguardo meno disattento avrebbe rivelato che, sotto gli abiti lisi da proletario, c'era un giovane che aveva passato ben altra infanzia. Ma l'addetto, un uomo tarchiato che teneva sempre in bocca una cicca spenta per accendersela ogni tanto, fare due tiri e rispegnerla, non ci aveva fatto caso. Gli aveva solo chiesto se sperava davvero di trovare lavoro lì, dato che mezza città andava non a chiederlo, ma a implorarlo. A supplicarlo. Gli chiese anche se conosceva qualcuno, in fabbrica.

Il tipo del furgone arancione si era versato mezzo bicchiere di aranciata svanita; continuava a guardare il vecchio che faceva benzina sotto il sole, senza berretto, e la rincorsa di pensieri che aveva in testa era diventata una corsa. Nel furgone, la coppietta sul sedile posteriore aveva smesso di baciarsi e dava qualche segno di impazienza; la donna sul sedile anteriore, invece, rimaneva impassibile, cupa, imperscrutabile dietro i suoi occhiali scuri. Passò una seicento tirando dritto; a bordo c'era il postino di Rio nell'Elba, Gianfranco Schezzini, che si sorprese di vedere qualcuno a far benzina dal tedesco e sorrise pensando che almeno si sarebbe guadagnato due o tre bottiglie di Fanta con l'incasso.

Anton Erwin Klöger von Ritzebüttel und Hadelheim conosceva qualcuno, in quella fabbrica. Conosceva il padrone in persona, il signor Pögg, che ancora negli anni della guerra veniva spesso a cena al palazzotto della Böllkindstrasse; addirittura, qualche volta gli aveva portato dei regali, e non mancava mai di fare omaggi floreali alla padrona di casa. Si fermò in tempo prima di dirglielo; conoscere il padrone in persona avrebbe significato il lavoro certo, ma anche l'odio di tutti gli altri, la vita impossibile in fabbrica. Disse di non conoscere assolutamente nessuno e di sapere bene che non c'erano speranze di essere preso, e che era solo un tentativo perché la sua famiglia faceva la fame. Gli rispose l'addetto che a Cuxhaven, in quel frangente, le uniche famiglie che non facevano la fame erano quelle dov'erano tutti morti, e che avevano così risolto il problema; e, nel dire questo, tirò una risata sguaiata, volgare, battendo un pugno sul tavolo. Si interruppe all'improvviso, accendendosi per l'ennesima volta la cicca che teneva fissa in bocca. “Non conosci nessuno”, gli disse; e lo squadrava da cima in fondo, come volesse soppesarlo. Anton non si muoveva, cercando al contempo di non assumere l'espressione fiera inculcatagli dalla sua educazione nobiliare. Non si doveva vedere né la fierezza, né la vergogna.

“Senti, ragazzo, come hai detto che ti chiami?”

“Anton Kettingen, signore.”

“E da dove vieni?”

“Dalla Sandmoor, signore”

“Brutta zona. Ce li hai i genitori?”

“Soltanto mia madre. E due sorelle piccole.”

“E tuo padre?”

“È morto in guerra, signore. Sul fronte francese.”

“Dei documenti ce li hai?”

“No, signore. Non ce li ho.”

“E chi mi dice allora che sei Anton Källingen?...”

“Kettingen, signore.”

“Lo sai fare questo lavoro? Lo sai che è pericoloso?”

“Non lo so fare. Però imparo alla svelta.”

“Senza documenti come farei a prenderti?”

“Non lo so, signore. Ce li hanno tutti quanti gli operai che lavorano qui, i documenti?”

L'addetto, che si faceva chiamare Martin Eckerberg, si chiamava in realtà Lars Bengtström ed era svedese di nascita. Nascita che aveva dovuto dimenticare alla svelta nel 1905, quando era sbarcato a Cuxhaven di nascosto dopo aver provocato di proposito una frana che aveva seppellito la casa del vecchio Jasper Gresenius, il padrone della miniera di Ormsväg, vicino a Skellefteå. Nella frana era morta tutta la famiglia del vecchio, che si era però salvato. Sui motivi della sua azione si era scritto molto, in Svezia, attorno a quegli anni; non ce ne dovremmo occupare qui, ma in quella miniera succedevano cose piuttosto strane e dolorose, e a farne le spese erano costantemente i minatori. Giù nella fossa non si poteva fumare, ed era per questo, forse, che l'addetto fumava di continuo; nessuno lo aveva mai visto senza la cicca in bocca. Di documenti non ne aveva, e se li era fatti fabbricare; sarebbe stato curioso chiederli ad un ragazzo che, sicuramente, non aveva né mai fatto il minatore, né aveva seppellito una famiglia intera sotto una frana fatta staccare ad arte.

Aveva cominciato a guardare anche il vecchio, mentre continuava lentamente a fare benzina. Il distributore era malandato ed erogava quasi col contagocce, e il serbatoio del furgone Volkswagen sembrava essere senza fondo; il caldo si era fatto insopportabile e, ora, anche l'impassibile passeggera sul sedile anteriore stava dando qualche segno di mala tolleranza; la coppietta di innamorati era invece scesa dicendo qualcosa, e si era allontanata sulla strada verso Portolongone. Il vecchio parve non curarsene, e guardò di nuovo verso la sua baracca, dove il guidatore si era versato un altro mezzo bicchiere di Fanta.

“Va bene, ragazzo, va bene. Cerca quando puoi di portarmi un po' di scartoffie. Intanto vai là in fondo e chiedi di Daniel. Sarà il tuo caposquadra, quello che ti insegnerà a lavorare alla trafilatrice. Ci saranno altri ragazzi con te. Guarda che alla fine soltanto meno della metà saranno tenuti. In bocca al lupo. C'è da rimetterci le mani, e anche qualcosa di più. Stai sempre attento.”

“Cercherò di fare del mio meglio, signore.” E se n'era andato, là in fondo, a chiedere di Daniel.

(continua mercoledì 3 marzo)