mercoledì 28 aprile 2010

Plunder


Prima bisognerà sorbirsi una pur sommaria descrizione del posto. È il vialetto d'ingresso ad un istituto dove, praticamente ogni giorno, porto o vado a riprendere con un mezzo attrezzato dei disabili gravi. Credo di averne già parlato qualche volta, e sicuramente sarà così: sono una persona piuttosto limitata. Parlo sempre delle stesse cose, sovente banali, però con il vizio di viverle in prima persona. Non amo le glorie mai vissute e non ho unici periodi in cui è stato decente vivere. Vivo a Firenze nel duemiladieci, e stop.

Il vialetto in questione, sbarrato da due cancelli elettronici paralleli, è una cosa che fa bestemmiare. Per infilare bene l'entrata bisogna prima allargare a sinistra, poi mettersi completamente di traverso per la strada e, infine, scendere a suonare il campanello. A volte passa un minuto buono prima che aprano, e bisogna restare là, intraversati, a aspettare. Nel frattempo sfrecciano macchine e motorini; alla fine aprono. Il vialetto, lungo un centinaio di metri, è incassato fra muretti di pietra con delle sporgenze dove sono sistemati degli ulivi; a un certo punto c'è pure una curva. È talmente stretto, che una persona normale farebbe fatica a passarci con una Panda; a noi, invece, tocca passarci con un Ducato attrezzato gentilmente regalato dall'ATAC di Roma. Passo d'uomo? No, perché un uomo va più veloce. Ciononostante, i mezzi attrezzati che fanno quel tipo di servizio hanno delle fiancate che fanno pietà, ed anche la gioia dei carrozzieri.

Una descrizione pallosissima. Lo so. Cazzo ve ne dovrebbe fregare di quel vialetto. Un paio di giorni fa, ad esempio, alle otto e mezzo di mattina stavo cominciando la manovra d'ingresso, allargandomi sulla sinistra eccetera. Solo che stava passando una signora di mezz'età, a bordo di una Clio. Mi sono fermato, e ho compiuto un gesto irreparabile. Mi è venuto di farle segno di passare, con una mano fuori dal finestrino. Apriti cielo; e si è aperto.

La signora deve avere equivocato. Quel che voleva essere, ed era, un gesto di gentilezza, è stato preso come un'offesa mortale. Un insulto lesivo della dignità personale. Ha inchiodato. Ma lei vada a farlo a sua madre quel gesto! Io, esterrefatto. Volevo dirle che si era sbagliata, che era solo un cenno per dirle che l'avevo vista, e che stavo fermo -allargato sulla sinistra- per farla passare. Invece non ce l'ho fatta nemmeno a dire . Questa qui che dava in escandescenze. Poi mi è venuto di fare un gesto ancora più scemo: quello di indicare le persone che avevo a bordo. Le cui condizioni sono immaginabili (o forse no). Chissà. Forse volevo dirle: Signora, porti pazienza, non vede che cosa sto facendo, chi sto trasportando? Direi che ho fatto malissimo. Qualsiasi cosa accada, non sono persone che devono essere prese a pretesto. Nemmeno quando non si è fatto niente di male, e si ha solo davanti un'imbecille matricolata e arrogante.

La quale ha guardato un attimo, si è resa conto, e ha esclamato: Sì, bellini! Ma vai a buttarli nel cassonetto questi qui, che è meglio! Poi ha sgommato e se ne è andata via. Solo allora mi sono ripreso dal torpore primaverile. Lì per lì mi è presa la voglia di andarle dietro col furgone e di fare qualcosa di molto disdicevole. Mi sono tenuto, naturalmente. Sono rimasto là, due secondi, poi mi sono regolarmente messo di traverso, sono sceso per suonare il campanello e ho cominciato il malefico vialetto.

Dietro di me, sulle loro carrozzine, spazzatura. L'ha detto la signora sulla Clio. Non persone, ma rifiuti da buttare nel cassonetto. E, se tanto mi dà tanto, non sarà nemmeno l'unica a pensarla così; tutt'altro. Come ho detto prima, vivo nel duemiladieci; e questo è il duemiladieci. Bisogna prenderne atto e percorrere malefici vialetti lunghi migliaia di chilometri. Constatare che è sempre più valido quel che disse Brecht in A coloro che verranno: "Noi che volevamo approntare il mondo alla gentilezza, noi non si poté essere gentili". Non si può più, quando la stupidità incontra quotidianamente la crudeltà gratuita, sbattuta sul muso, normale, alle otto e mezzo di mattina di un giorno qualsiasi.

lunedì 26 aprile 2010

Famigghia & Amore


Giornali giornaletti giornaloni hanno oramai preso a commentare così la cosa: In Italia ogni anno le violenze in famiglia fanno più vittime della mafia. La mafia, insomma, sembra essere il metro di ogni cosa; ma basta scorrere ogni giorno i titoli, ad esempio, di Repubblica, per capire che il metro di paragone andrebbe casomai, e assai più opportunamente, rovesciato. In Italia ci possono casomai essere stati degli anni in cui, del tutto fortuitamente, la mafia ha fatto più vittime delle violenze familiari; e non è detto. Neppure la terribile estate dell'82. Neppure i corleonesi, la NCO di Raffaele Cutolo, la Stidda, la Sacra Corona Unita, i casalesi. Soltanto ieri, la strage nelle allegre contrade leghiste della Bassa Mantovana, la povera donna strangolata dal marito vicino a Udine (con la madre che, quarant'anni prima, era stata uccisa dal padre che l'aveva buttata giù dalle scale), uno che a Nuoro che ammazza con una calibro 38 la sorella e il cognato, un altro che vicino a Torino prende a martellate la moglie. E così via. Tutti i giorni che quel buffo essere che alcuni si ostinano a chiamare "Iddio" mette in terra.

Tra le vittime, una donna c'è sempre. Spesso e volentieri ce n'è più d'una. Che sia figlia, madre, sorella, moglie, compagna o una semplice vicina di casa che ha sistemato un pollaio sotto le finestre dell'uomo sbagliato. L'uomo (padre, marito, fratello, parente, vicino di casa...) si vede sempre riconosciuta qualche ragione, qualche motivo scatenante. Il divorzio, la separazione dolorosa, le condizioni economiche, la lite per questioni di eredità o di confini, o semplicemente la sua mentalità oramai regredita ad uno stadio ben oltre l'elementare. Possesso. Semplice possesso. Si comincia da adolescenti: la quindicenne contesa, l'occhiata a una ragazza, e volano le coltellate. Tutto questo mentre imperversano mielosi fabbricatori di romanzetti e filmini a base di lucchetti e altre idiozie del genere, e i muri delle nostre città sono impiastricciati ovunque di appassionate dichiarazioni d'amore. A Firenze, tra la via Salviati e via di Careggi, un tizio ha scritto sull'asfalto tutta la sua storia d'amore terminata. Un profluvio di tenerezze che, però, nel 98% dei casi vengono tirate fuori a storia finita. Offerte alla visione di tutti. Hai visto, brutta stronza, quanto ti amava...? E tu che hai osato mandarlo al gas? Te ne pentirai!

Se ne pentirà, un giorno, sposando o accompagnandosi al suo frequente assassino. Oppure ritrovandoselo come padre-padrone, come fratello geloso ("è attaccatissimo alla sorellaaaa"...), come vicino di casa coi problemi. Se ne pentirà, un giorno, ascoltando tutte le quotidiane atrocità a base di famiglia. Se ne pentirà leggendo certi siti (tipo "antifeminist.altervista.org", cui mi rifiuto di mettere un link) dove non si esita a dare addosso a una ragazzina di tredici anni per far vedere com'è stata ingiusta la società col povero "Billy Ballo", povero innocente traviato dalla perfida adolescente con la madre russa (un tocchettino di razzismo non fa mai male). Se ne pentirà in mezzo a tutte le geremiadi dei padri separati, che ora vanno così di moda. Ma mai che si sappia perché è avvenuta la separazione; ma l'importante è sempre presentare la donna come colpevole. La classica immagine della madre snaturata che nega al padre dei suoi figli ogni contatto. Inutile dire che, in buona parte dei casi, fa benissimo: cerca soltanto di salvaguardarli dal finire in cronaca sotto forma di cadaveri in cameretta. Uccisi nel sonno.

Stalking, minacce, vessazioni, botte, violenze psicologiche. Il viril maschio non accetta di essere messo in discussione. Hai voglia a fare leggi e leggine sul diritto di famiglia: la realtà è sempre quella del "capo". Del pater familias. Anche nelle famiglie "normali", anche in quelle dove fortunatamente non accade nessun episodio tragico. Qualche anno fa qualcuno, e soprattutto qualcuna, aveva provato a farlo presente. Aveva tentato di dire che il problema risiede nella struttura stessa della famiglia. Nei ruoli che essa deve per forza presentare. Non è questione di famiglia tradizionale o moderna: la famiglia consta comunque di imposizione, di minorità, di regole, di piccole e grandi violenze di tutti i giorni. Logicamente viene considerata come primo pilastro della società: è la preparazione dell'essere umano a quel che gli toccherà comunque nella vita. Obbedire e rigare dritto. Ci penseranno poi caserme, lavori, dèi, e tutti gli altri pilastri, sempre che la famiglia non ti spedisca prematuramente sottoterra. Caso, giustappunto, assai frequente.

Le metafore. La famiglia come azienda: bisogna far quadrare i conti a fine mese. La famiglia come target: dai pacconi di carta igienica ai programmi televisivi. La famiglia come pretesto politico, buono per tutti gli usi perché organicamente inattaccabile. E, visti certi paragoni, risulta del tutto naturale che la famosa mafia, quella che fa più o meno vittime, sia al suo interno strutturata in famiglie. Mi danno spesso del fissato con le etimologie e la storia delle parole, ma mi viene sempre a mente che la parola latina familia è strettamente imparentata con famulus, che voleva dire: servo. Lacchè. Nel migliore dei casi, il famulus era il cameriere che serviva a tavola il sor padrone. Dimodoché la familia è identificata fin dall'inizio con un sistema di padronato e servitù.

Intanto penso a quante vite umane, e specialmente vite di donne, di ragazze, di bambine non sarebbero state stroncate, in tutta la storia, se questo nucleo fondamentale non fosse mai esistito. Altro che "vittime della mafia": credo che l'unico paragone possibile sarebbe quello con le guerre più sanguinose (a proposito: Dio, Patria e Famiglia). E penso anche che l'opposizione totale, senza remore, senza ripensamenti a questo nucleo e a tutti gli altri pilastri sia l'unica, vera affermazione di vita che si possa fare. Perché non posso fare a meno di provare una rabbia cosmica di fronte ad ogni notizia come quelle che si leggono tutti i giorni. Non ce la faccio. Mi rivedo la povera donna fulminata nella sua automobile, mentre cerca di scappare. La povera anziana che voleva badare alle sue galline, e che dai giornali viene presentata come noiosa e petulante. E di tutte le donne, di qualsiasi età, oggetto del famoso Amore. Sempre amore. Sempre amatissime. Le canzoncine strappacore. I film strappalacrime. Love Story. Amore significa non dover mai dire "Mi dispiace". Attualmente, però, sembra che Amore significhi: Occhio, bella, ché se non mi ami quanto ti amo io, fai una pessima fine. Stai attenta, piccina. Ti amo tanto finché non mi strazi il cuore. E se me lo strazi, io ti strazio tutto il resto del corpo.

Manca soltanto, ma accadrà, che la sedicenne venga fatta fuori dal ragazzotto a lucchettate dell'amore sul cranio. Certo che succederà: basta aspettare. Ché quando a moderno simbolo in voga tra gli adolescenti viene preso un arnese che serve a rinchiudere in gabbia, si percepisce disperatamente tutto quanto.

sabato 24 aprile 2010

"Ti schiaccio perché sei piccola"


Alcun tempo fa, forse stanco dell'incular bambini a sangue, i' priore della chiesa di Sant'Alcool Denaturato, più nota come Santo Spirito, querelòssi con la gazzetta La Nazione tutt'a base dei consueti degradi & sihurezze. Cogliendo come al solito la palla al balzo, quell'improponibile e quotidiano ammasso di carta da culo (senz'offesa per la carta da culo propriamente detta, ché dieci piani di morbidezza son sempre meglio di centosessant'anni di menzogne di regime) iniziò la sua consueta geremiade sulla povera piazza, una piazza che lorsignori preferirebbero naturalmente consegnata alla Disneyland finto-rinascimentale dei salottini, dei dehors e dei localini stile Cavalli Club o Colle Pereto (la "p" è voluta), piuttosto che alla gente che se ne serve nel modo in cui da sempre esiston le piazze, ovvero per starci una sera a dimenticare la merda in cui ci fan vivere.

L'appello d' i' sor priore sortì i suoi effetti: il giorno dopo, alcuni calcianti, vale a dire una congrega di mentecatti coi muscoloni che per pochi giorni all'anno si dedicano a giocherellare a una stronzata ad usum turistarum, e per i restanti giorni dell'anno a spararsi misere seghe mentali & fisiche per esercitare la loro inutile esistenza fatta di credersi dèi in terra perché ci hanno i' bicipite, si offrirono per effettuare delle ronde nella piazza e per tenere a bada quegli sporchi esseri inferiori che la affollano per bere e suonare. Avreste dovuto vedere con quale enfasi La Nazione dava la notizia: ci avrebbero finalmente pensato loro, al servizio della popolazione e del santo priore!

Un esempio mirabile di quale razza di tipini siano codesti calcianti tutti sihurezza e priore ci giunge oggi da questa notizia, dalla quale appare tutta la loro maschia e virile concezione del mondo, totalmente dedita al bene comune e al decoro. Sì, davvero delle personcine adatte a mettersi al servizio della popolazione. Davvero dei ragazzotti perfetti per la Nazione e per i dementi che ancora la leggono. Il Taddei è il campione perfetto della maniera in cui questi qui intenderebbero trasformare Firenze, una piccola città da schiacciare come lo fu ai tempi degli squadristi, verso il '20 o '21. E invece, tiè e borda in culo. Domenica 25 aprile piazza Santo Spirito sarà piena di gente che non cede, di donne e uomini, di ragazze e ragazzi che non si fanno certo impressionare dagli stupidi muscoletti, siano essi di un calciante, di una gazzettuola o di un politicante qualsiasi. Con la forza, quella vera, che promana da due o tre idee ben chiare, e non con quella di gomma che fuoriesce da bave e da cervelli che farebbero schifo a un verme.

martedì 20 aprile 2010

Il tedesco Klöger (4)


La scena era bizzarra, con quei due vecchi che si fissavano sopra il terreno polveroso, fra le erbacce e quei maledetti forasacchi che all'Elba allignano in abbondanza; una volta appiccicati ai vestiti con le loro spighette irritanti, bisogna levarseli un per uno, con pazienza. Nonostante il caldo atroce, parevano composti, e non sudavano; Waldtraud li osservava senza capire ora mai più niente. Di tornare dentro il furgone non se ne parlava nemmeno; sarebbe morta per un colpo di calore. Disgraziatamente, il suo compagno s'era portato via le chiavi, altrimenti non ci avrebbe pensato un momento a mettere in moto e andarsene via da sola, lasciando tutti i suoi accompagnatori al loro destino che sembrava interessarli molto più di una donna oramai sfiorita e con gli occhiali sgraziati e troppo grossi. Si rifugiò nella baracca del distributore, lasciata aperta; anche lì faceva un caldo da schiantare, ma almeno era al coperto e forse era rimasta qualcosa da bere nel frigorifero. Non si accorse nemmeno che i due si erano messi a parlare, quasi sottovoce; non si accorse che avrebbe potuto capire, perché parlavano in tedesco.

“Tu non lo sai quanto tempo ci ho consumato a cercarti. Non lo sai.”

“No, Kurt, non lo so. E non m'interessa nemmeno saperlo.”

“Che non t'interessi saperlo, posso capirlo. Non ti è interessato più niente di niente, né di che cosa fosse successo, né di chi...”

“Senti, Kurt, al destino non ci si può opporre, ed il mio era evidentemente di finire su quest'isola. E ci sto benissimo. Sono trent'anni e rotti che non pronunciavo più di dieci parole di fila in tedesco; e sono deluso di me stesso, perché credevo di averlo finalmente scordato. Maledette le lingue materne. Si vede che era destino che a questa pompa di benzina dove non viene mai nessuno, un giorno ci capitassi tu con la tua famiglia o che diavolo è. Accetto tutto quanto. Ma non venirmi più a raccontare storie. Il mio destino sei stato tu, sei stato tu a metterlo in moto. Senza di te non sarei stato qui. Non mi fare perdere altro tempo, ti prego. Quel che stato è stato. Ma ora vattene. Il pieno al tuo furgone te l'ho fatto. Puoi anche non pagarmi, se ti va. Ma vattene via.”

Lentamente, l'uomo del furgone si alza cavando fuori dal portafogli alcuni vecchi articoli di giornale, ancora leggibili chiaramente; li getta per terra. Nella baracca, Waldtraud sta boccheggiando, sperando forse che passi qualcuno che le dia un passaggio per tornare a Porto Azzurro, per non dire addirittura a Portoferraio. Quel giorno, comincia a pensare, è tutto terminato. Non si può più usare un tempo passato, e il narratore, dopo una cena fuori orario, un bicchiere di sambuca ed uno strano insetto ricolmo di zampe che gli passeggia sul computer sporco di fumo e grassaglia del derma, passa momentaneamente al cosiddetto presente storico in mezzo ai salti temporali ed agli intrecci d'una sorte che è unica.

Il pezzo di trafila, acuminato più di una mannaia, oltre a decapitare il povero Lothar Guske, aveva sfiorato la carotide dell'obeso e anziano Armin Pögg, il padrone; per lo spavento, e per la visione del suo accompagnatore decollato di netto, era svenuto pur non essendo stato toccato. Qualcuno degli operai alle macchine più lontane era corso a cercare aiuto, qualcun altro a chiamare la Feuerwehr e i Malteser; i rivetti della Kratos 19, sparati come proiettili, avevano ucciso il capomacchina della trafilatrice di fronte, Eugen Thässe, e l'apprendista sedicenne Thomas Wartmann. All'improvviso, la barra orizzontale superiore della Kratos era collassata sul resto della macchina, fermando il trasportatore e aprendo una falla in corrispondenza del transition piece centrale; ne era stato espulso fuori, con una curiosa traiettoria ondulante, uno strano e piccolo oggetto circolare che somigliava ad una spilla. L'oggetto atterrò ai piedi del capomacchina di una Kratos adiacente, la 16, che tutti chiamavano “Karl” sebbene il suo vero nome fosse Andreas Zeck; somigliava però incredibilmente a Karl May, lo scrittore di romanzi d'avventure che in Italia viene chiamato il Salgari tedesco (mentre, in Germania, Salgari viene chiamato il Karl May italiano). Karl May era uno degli scrittori preferiti del giovane Adolf Hitler.

Stava accorrendo alla Pögg tutto ciò che poteva accorrere, vigili del fuoco, polizia, autoambulanze, soccorritori improvvisati. Gli altri macchinari, abbandonati durante il lavoro dalle maestranze in cerca di riparo o di fuga, avevano continuato a sputare latta trafilata alla rinfusa, finché il vecchio Pögg, ripresosi dallo svenimento e resosi conto dello sfacelo, non aveva dato ordine a qualcuno che andasse in centrale elettrica a spegnere tutto quanto. Sangue, brandelli di tutto, cadaveri, la testa di Guske rotolata surrealmente verso un pezzo di latta trafilata che le si era quasi adagiata addosso come una specie di corona. Dalla Kratos 19 era stato espulso, senza che nessuno se ne fosse accorto, uno strano e piccolo oggetto.

Il conducente del furgone Volkswagen aveva un'espressione strana, a metà tra la disperazione e la sfida. Aveva fatto qualche passo per allontanarsi, ma poi era tornato indietro. Il benzinaio stava ancora seduto a terra.

“Ora mi ascolti per l'ultima volta, Anton.”

“Non ho nessuna intenzione di ascoltarti. Ti ho detto di andartene e di lasciarmi in pace.”

“No. Mi ascolti e basta.”

Anton Erwin Klöger von Ritzebüttel und Hadelheim fece uno strano gesto con la mano, quasi a dire: Parla, parla, tanto non ti ascolto. Kurt cavò fuori da una tasca dei pantaloni il portafoglio e ne trasse alcuni vecchi articoli di giornale, mezzi rovinati ma ancora perfettamente leggibili.

“Non te li do, ancora, vecchio caprone. Non te li do perché prima ho da raccontarti una storia. Ti devo raccontare quel che è successo dopo quel giorno, dopo l'esplosione alla Pögg, quando tu sei scappato via senza dare più notizie di te. Sarebbe bastato che tu fossi rimasto un giorno ancora, sai. Un giorno solo. Ti saresti evitato una vita di miseria in questo posto, e soprattutto una vita intera di rancore. E io avrei evitato di passare la mia, di vita, a cercarti per dirti che non avevo fatto niente. Che non te l'avevo rubata io quella maledetta spilla. Che non ce l'avevo affatto con te perché tu eri figlio di nobili, e io figlio di poveracci della Sandmoor da cui anche te facevi finta di venire. Che lo sapevo benissimo che facevamo la stessa fame in quel periodo schifoso. E poi che ne sono venuti anche di più schifosi, di periodi. Lo sai che fine ha fatto la Pögg?”

Anton continuava a non parlare, voltando ostentatamente la testa da un'altra parte.

“Te lo dico lo stesso, sai. Nel 1944 è stata rasa al suolo, completamente, da un bombardamento americano. Altro che Kratos 19. Non ci sono rimaste nemmeno le briciole, di quella fabbrica. E di quelli che c'erano a lavorare dentro, se ne sono salvati in quattro. E ora, to', leggiteli quegli articoli. Non penserai mica che li abbia fatti scrivere io, no?”

In mezzo al trambusto, era stato un altro apprendista, Oskar Dahnert, a trovare l'oggetto. Mezzo ammaccato, lo aveva portato al vecchio Pögg che lo aveva guardato con stupore.

“Ma dove lo hai trovato, questo?”

“Vicino alla macchina scoppiata, padrone...”

“Non era dentro, vero...?”

“No...però era proprio lì accanto...che cos'è, signore?”

“È una spilla. E io so di chi è. Devo andare a fare due chiacchiere con un tuo giovane collega.”

Anton e Kurt, ancora spaventati dall'esplosione, se n'erano rimasti in disparte, vicino alla porta del bagno che, per fortuna, era abbastanza lontana. Avevano visto avvicinarsi il vecchio Pögg, accompagnato da un tizio con un'impermeabile scuro che puzzava lontano un miglio di ispettore di polizia. “Ehi, Kurt, ma pensi che ce l'abbiano con noi?...”, aveva fatto in tempo a dire Anton; due minuti dopo erano arrivati altre tre agenti, e i due ragazzi erano sotto il tiro delle pistole.

“Senti, Winnesia, ma per quanto la dobbiamo mandare avanti 'sta commedia?...”

A parlare era stato il figlio di Kurt, Matthias, rivolto alla sorella gemella. Portava quello stranissimo nome, forse unico in tutta la Germania, per via di un pacifista neozelandese che, venti anni prima, si era incatenato davanti all'ambasciata USA di Wellington nel primo anniversario dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima: si chiamava James Winnes. La notizia, a dire il vero, non aveva fatto per niente il giro del mondo, anche se in Nuova Zelanda aveva avuto un certo risalto; ma Kurt Winckel l'aveva letta sulla rubrica Curiosità dal mondo del Cuxhavener Nachrichten. Così, quando sua moglie era finalmente rimasta incinta, aveva pensato di chiamare “Winnesia” la femmina dei due gemelli, nati il 17 giugno 1951. All'epoca, i due ragazzi avevano da poco compiuto sedici anni.

“Non lo so, Matthias, non lo so. Non cede, la vecchia. Si incazza, si incazza, ma poi rimane sempre con papà. Alla fine ci toccherà scopare sul serio per farla andare via...”

“Io non ne posso più. Oramai forse dovremmo accettarla. Non si può andare avanti così.”

“Sì, ma oggi mi sento che succede qualcosa. È uno strano posto, questo...”

“Tu e i tuoi soliti presentimenti. Questo è un posto come un altro, solo che fa un caldo pazzesco. Perché non torniamo al furgone e diciamo a quei due di ripartire e di andare a trovarci una bella spiaggia...? Ti giuro che, se mi butto in mare a fare il bagno, ci vorrà la polizia per farmi uscire...”

Winnesia sorrise al fratello, finalmente libera dalla recita. Si abbracciarono senza nemmeno sfiorarsi con le labbra. Chi non sorrideva affatto era Waldtraud, accaldata, sudata e senza più nemmeno un goccio d'acqua nella baracca del distributore. Oramai si era decisa: sarebbe andata dal suo compagno a tirarlo via di lì, senza nemmeno chiedergli perché se ne stesse ancora a parlare con un benzinaio sconosciuto. Era abituata alle sue stranezze. Uscì dalla baracca blaterando fra sé e sé delle male parole; li vide abbracciati.

(continua mercoledì 21 aprile)


lunedì 19 aprile 2010

Vulcanico intermezzo


Il vulcano islandese non ha provocato soltanto il blocco del traffico aereo in mezzo mondo, ma anche notevoli crisi di lingue intrecciate, di sputacchiate sul viso degli interlocutori (è o non è l'argomento del giorno?), di braccia allargate per lo scoramento. Il bello gli è che, proprio oggi, si è messo a ruttare un altro vulcano dal nome sicuramente più abbordabile: Hekla. Ma porco Odino, non poteva chiamarsi così anche quell'altro? E invece no. Eyjafjallajökull. Chi si azzarda a andare fino in fondo, almeno a Firenze, lo chiama generalmente eiafiallaiocùl, e oggi, al lavoro, un giovanotto mi ha fatto notare che ha un'interessante e precisa assonanza con infilàlla in cùl. Il che è esattamente ciò che il vulcano islandese ha combinato. In compenso, però, sembra che in certi aeroporti siano stati organizzati spettacoli teatrali e performances per i viaggiatori costretti a rimanere a giornate intere a zimbracconi. Poi c'è stato anche il supermanager rimasto bloccato a Bologna, che ha chiesto al Radiotaxi locale di riportarlo in Svezia. Ce lo hanno riportato. Tanto mica paga lui, lo avrà scaricato all'azienda.

Un tempo, sicuramente non avrei perso l'occasione. Mi sarei fiondato sul newsgroup di linguistica per spiegare come si pronuncia davvero Eyjafjallajökull ["ejja"fja(h)dla'jœkü(h)dl, con le bieche preaspirazioni e le ancor più bieche dentali desonorizzate islandesi] e che cosa vuol dire davvero. Ha un nome curioso. Significa "ghiacciaio a cupola (jökull) dei monti (fjalla, genitivo plurale di fjall) delle isole (eyja, genitivo plurale di ey)", probabilmente nel senso di "monti isolati". Sicuramente qualche giornale ci avrà già pensato, ma mi fa un po' di piacere rinverdire il caro vecchio islandese. I toponimi islandesi vogliono quasi tutti "dire qualcosa": il più bello, a mio parere, è quello di una enorme distesa di lava nel centro dell'isola, che si chiama Óðáðahraun: vuol dire "campo di lava dei misfatti". Però ci sono anche dei toponimi della cui origine non si sa veramente nulla. Hekla è uno di questi. Il fatto è che l'Islanda, come tutti sicuramente sanno, fu colonizzata nell'anno 874 dopo Cristo da un gruppo di liberi norvegesi che volevano sfuggire alla tirannia del re Aroldo Bellachioma (Háralðr Hárfagr). Prima che arrivassero, era completamente disabitata, a parte qualche eremita irlandese che vi si era rifugiato per starsene veramente da solo. Le saghe però dicono che certi posti avevano già un nome; e se non glielo avevano dato gli eremiti irlandesi né i coloni norvegesi, chi accidenti glielo aveva dato? Chi c'era "prima"? E se c'era, che fine aveva fatto? È una delle questioni più appassionanti e dibattute della linguistica e della storia islandese.




mercoledì 14 aprile 2010

Il tedesco Klöger (3)


Immobili, per qualche secondo. Immobili e, entrambi, con una di quelle espressioni ebeti che sottitendono domande di una qualche gravità. Kurt appariva più immobile del recente amico, mentre Anton si lasciava cogliere in quale impercettibile movimento delle labbra e di una mano. Alla fine Kurt cominciò a parlare, sottovoce:

“Perché, Anton? Perché ti sei voluto nascondere?”

Anton non rispose niente, assumendo un'espressione che cercava di far capire ogni cosa senza dover ricorrere alle parole; non c'era, probabilmente, nient'altro da fare. Bisognava che l'amico capisse senza confessioni, senza ammissioni; è una cosa che viaggia sul confine tra la speranza e l'esigenza che una persona che si considera amica ti capisca penetrando nei recessi più profondi; ed è così che le amicizie viaggiano a loro volta, costantemente, sul confine tra l'accrescersi ed il terminare. Ma qualcosa andava detta.

“Mi sono nascosto perché non posso fare altro, Kurt. Se vuoi capire, capisci. Altrimenti, ti prego, non mi tradire perché ora come ora non c'è altro né da dire, e né da fare.”

“Io ti posso anche capire. Ma a me dovevi dirlo subito. Non ti avrei mai tradito.”

“Me lo stai dicendo ora. Ma io non ti conosco. Qui siamo in un posto e in un periodo dove ognuno pensa soltanto a sé, Kurt. Lo sai bene anche tu. Io ho bisogno di lavorare. Ieri sera ho dovuto dirlo a mio padre. Non siamo della vostra classe. Tu non sei della mia. Ma abbiamo la stessa fame. Non c'è nulla da mangiare in casa. Tocca a me procurarlo.”

Kurt non disse niente. Stava cominciando a farsi tardi, e non presentarsi in orario al primo giorno di lavoro avrebbe comportato l'immediato licenziamento; prese l'amico a braccetto, gli tirò una botta sulle spalle e gli fece un sorriso. “Källingen”, disse. “Mi dovrò abituare a chiamarti così, caro il mio Klöger von Qualcosa und Qualcosaltro”; e risero tutti e due. Il tragitto a piedi verso la fabbrica non era brevissimo, e si misero a correre come due ragazzi, perché erano due ragazzi e correvano a perdifiato verso una dura giornata in una città livida.

Waldtraut tornava al furgone, stizzita e ancor più cupa, maledicendo il momento in cui aveva accettato che quei due venissero anche loro all'Elba. Il vecchio benzinaio non si vedeva più alla pompa; sembrava scomparso, e con lui il suo compagno. Ebbe, la donna, un moto di sconforto, non sapendo più che cosa fare; si mise a cercare i due, togliendosi finalmente i suoi ridicoli occhiali da sole, e addentrandosi nel terreno incolto dietro il distributore; faceva talmente caldo da non essere più nemmeno percepito, come se stesse fondendo anche la coscienza. Alla fine li vide, a sedere per terra, sporchi, sudati, immobili a guardarsi. Anzi, uno dei due era immobile; l'altro muoveva impercettibilmente un labbro e una mano.

Il quinto giorno di lavoro alla trafilatrice Kratos, Daniel si era accorto che c'era qualcosa che non andava in una delle macchine. La trafilatrice faceva sì un rumore infernale, ma regolare; una specie di zang zang koot koot che, al tempo stesso, opprimeva e rassicurava. Aveva chiamato gli operai che si trovavano attorno alla Kratos n° 19, e aveva detto al responsabile d'aver sentito un rumorino che non gli pareva affatto buono. Poiché i turni degli apprendisti cambiavano giorno dopo giorno, proprio quel giorno Anton e Kurt si erano ritrovati insieme alla stessa macchina; e il caso aveva voluto che fosse proprio la 19. “Oh, ci sei tu, oggi!”, aveva detto Anton all'amico; e si erano messi ad eseguire i loro compiti contenti di poter lavorare per un turno assieme. “Devo fermare la macchina?”, disse a Daniel il capomacchina, un ometto segaligno che lavorava alla Pögg da una vita e che si chiamava Lothar Guske. “No, Lothar”, risponde Daniel. “Se fermi la macchina non sento bene che cos'ha. Fai allontanare i ragazzi e dammi una mano.”

Senza dare nell'occhio, perché il rischio di incidente a una macchina avrebbe fatto fermare tutta la fabbrica, Lothar disse a Anton e a Kurt di andare più in là e si mise ad armeggiare sulla 19, assieme a Daniel. In realtà era più un armeggiare a parole, perché i due non si decidevano: se avessero fermato la trafilatrice, tutti gli altri se ne sarebbero accorti e si sarebbero fermati anch'essi; ma senza fermarla non era possibile fare niente senza il rischio di finire affettati.

“Che cosa te ne sembra?”, disse Lothar a Daniel.

“Non lo so. Fa come dei piccoli sibili. Sembra che qualcosa strusci sul trasportatore, ma da qui non si può vedere niente. Quando avete cominciato il turno, lo faceva?”

“No, Daniel, era tutto a posto. Nessun rumore, davvero. È davvero una strana cosa.”

“Strana sì, e pericolosa. Se dentro si è sganciato qualcosa, o c'è entrata qualcosa che fa attrito, rischia di saltare ogni cosa. Dobbiamo fermare la macchina, Lothar.”

“Non me la prendo la responsabilità. Dobbiamo andare a sentire il padrone, prima.”

“Se non la fermiamo entro poco va tutto in malora.”

“Io vado a chiamare Pögg. Tu resta qui, e fai come se niente fosse. Vado e torno.”

Era partito alla svelta, e Daniel era rimasto alla Diciannove, preoccupato e ansioso che il capomacchina tornasse subito con gli ordini del padrone. Nel frattempo, Anton e Kurt si erano infilati in un bagno, ché era il pretesto più sicuro per stare lontani dalla macchina in modo plausibile. Anton si frugava nelle tasche.

“Senti, ma secondo te che diavolo sta succedendo?”, disse Kurt.

“Ne so quanto te. Ci dev'essere un rumore strano nella trafilatrice, e credo che non sia una cosa di poco conto. Altrimenti non ci avrebbero fatti allontanare...”

“Hai ragione...ma senti, come mai ti stai continuamente frugando nelle tasche?”

“Non trovo più il mio blasone”, disse sorridendo Anton.

“Il tuo che?!?!....”

“Il mio blasone, Kurt. Lo so, ti sembrerà una cosa idiota. È una specie di spilla con lo stemma della mia famiglia, che mi è stato regalato alla nascita da mio nonno. È una specie di usanza nella mia famiglia: alla nascita di un figlio maschio, il nonno gli regala lo stemma di famiglia. Lo so, la troverai un'idiozia...”

“Non la trovo un'idiozia, solo che non ho mai avuto a che fare con un apprendista trafilatore con il von davanti al cognome...”

Waldtraut aveva conosciuto il suo compagno negli anni '50, ad un raduno antitutto davanti a una base militare americana dalle parti di Hildesheim. Li chiamava, scherzando, raduni antitutto perché non c'era nemmeno una cosa contro la quale non si contestasse: erano i primi vagiti di quel che sarebbe venuto dopo, di quei vagiti ancora generalmente inquadrati nelle organizzazioni dei partiti ma che davano l'occasione e l'illusione di radunarsi per uno scopo. Bisognava cacciarle via, quelle basi, con le buone o con le cattive; e il tipo, pur non essendo oramai più un ragazzo, era attivissimo. Gli era piaciuto fin da subito, e avevano fatto amicizia; ma aveva la fede coniugale al dito. Lo osservava da lontano, immobile a sedere davanti al vecchio benzinaio, chiedendosi che cosa stesse succedendo e dando la colpa a quel maledetto e feroce sole mediterraneo. Dei figli di lui, i gemelli incestuosi, non v'era traccia; ma che andassero pure all'inferno, loro e tutto il resto. Voleva capire, e non ci riusciva. Tutto le stava sfuggendo di mano, mentre il furgone era oramai ridotto a una specie di forno che, a toccarlo inavvertitamente, ci si sarebbe ustionati. Ripensava a come lui gli parlava della moglie, una ragazza di salute malferma, e al desiderio di avere dei figli; e intanto se ne stava innamorando quietamente, tra uno slogan e un'accenno di carica della Bundespolizei. Cosa c'era che non andava? Avevano mantenuto i contatti senza potersi dire nulla, finché un giorno non aveva ricevuto una telefonata da lui, in cui le annunciava allegro che i medici avevano dato parere favorevole, e che sua moglie era incinta; gli aveva fatto le sue felicitazioni, cercando di mettersi l'animo in pace.

La trafilatrice n° 19 era saltata in aria all'improvviso, senza nessun aumento del rumore sospetto. Lothar stava arrivando assieme al vecchio Pögg, Daniel era là fermo con le mani i mano, picchiettando nervosamente col piede sinistro sul pavimento, tutti gli altri operai lavoravano alle loro macchine assieme agli apprendisti, e Anton e Kurt se ne stavano in bagno a scherzare sul blasone di famiglia. Anton stava spiegando all'amico come fosse fatto: due colline (*) sormontate da un fiore rosso, e racchiuse da un muro in pietra. L'esplosione fu graduale. Si sentì come una specie di scarica di mitraglia; un pezzo della lama di trafila decapitò sul colpo il capomacchina Lothar Guske, che stava arrivando assieme al padrone della fabbrica. Saltarono i rivetti dei carter, trasformandosi in proiettili; Anton e Kurt si precipitarono fuori dal bagno, trovandosi davanti ad una scena apocalittica.

(continua venerdì 16 aprile)


(*) Sia "Büttel" che "Hadel" sono termini dialettali bassotedeschi per “collina”. (ndr)



lunedì 12 aprile 2010

Gasolio


Non si può dire che la notizia non sia stata data; anzi, la hanno riportata, più o meno, tutti i giornali. Al tempo stesso, è una non-notizia. È qualcosa che, oramai, viaggia sulla linea di confine, o sul baratro, della banale normalità. Non serve a niente. Non suscita. Non provoca interrogazioni né a un parlamento, né alla propria coscienza. È un fatto. Cose che accadono.

In provincia di Frosinone c'è un uomo che lavora, al nero, in un'autorimessa. Si chiama Ivan Misu. È un uomo, un essere umano, che il destino ha fatto nascere in un dato paese; il paese si chiama "Romania". Si può prendersela forse con la sorte, che ti fa nascere in un posto invece che in un altro? Dev'essere, peraltro, la stessa sorte che, un dato giorno di una data vita, fa scappare via dal paese dove si è nati. La stessa sorte che ti fa approdare in un posto chiamato Piedimonte San Germano, e che ti ci fa approdare per morire.

Lo so che sbaglio a chiamare troppo in causa la sorte, perché in realtà -in questa storia come in parecchie altre- al destino non possono essere affibbiate gratuitamente troppe colpe. Quello che nei resoconti giornalistici viene chiamato titolare, tale Vincenzo Nappi, e che io invece chiamerò padrone, ad un certo punto crede di accorgersi che colui che gli stessi resoconti giornalistici chiamano lavoratore al nero, e che io invece chiamerò schiavo, gli ha rubato due litri di gasolio, prendendoli dal camion della ditta.

Le parole sono, a mio parere, importanti. Importanti, e che chiedono di essere liberate da ogni sorta di eufemismo, di squallido understatement. Padrone e schiavo. Il padrone ha diritto di vita e di morte sullo schiavo: ce lo dicono, fin dalle scuole elementari, quando ci spiegano quanto sono lontane l'antica Roma e gli stati del Sud. La schiavitù, ci dicono, non esiste più. È stata abolita. La sua eliminazione è stata, continuano a dirci, un frutto del progresso e della civiltà. Bisognerebbe però, ora, andare a raccontare tutto questo ai parenti di Ivan Misu.

Poiché lo schiavo Ivan Misu ha rubato due litri di gasolio del padrone, merita la morte. Anzi, no: merita la morte dopo essere stato torturato. Il padrone lo fa sequestrare da alcune persone che i resoconti giornalistici chiamano complici, e che io invece chiamerò scagnozzi, picciotti o come vi pare, i quali lo seviziano tagliandogli un orecchio. Lo portano poi nelle campagne di Avellino e lo ammazzano. Poi sciolgono il suo cadavere nell'acido. Tutto questo accade nel 2007. Lo schiavo, che è una cosa nelle mani del padrone, non esiste più.

La sorella dello schiavo vuole sapere che fine ha fatto il fratello. Insiste, non molla. Alla fine, certo, il padrone viene arrestato e messo in galera: che gran trionfo della giustizia. Ma chissà se alle orecchie della sorella di Ivan Misu arrivano i commenti della gente; quella nei bar, nei negozi, per la strada. Quella che, in fondo in fondo, il Nappi padrone mica ha fatto male. Un maledetto ladro in meno, e così impara a rubare. I caldi deschi della sera, le cene familiari, la pastasciutta col sugo fatto dalla mamma e la tivvù che gracchia, per quindici secondi, la notizia. Il capofamiglia che sentenzia, con la forchetta in mano, che ce n'è uno in meno.

Non vorrei nemmeno più mettere la questione su immigrazioni, italiani, rumeni o quant'altro. Non ne vale nemmeno più la pena. La questione è che oramai si vede come perfettamente normale che il lavoro sia tornato all'elementare e primitiva sua natura di schiavitù, di tripalium. Normale e perfettamente comprensibile. Si dà la notizia perché è una specie di obbligo cronachistico, ma anche se non la si desse sarebbe lo stesso. Le coscienze, anch'esse, sono entrate in regime di servaggio. Sembra che l'unico protagonista degno di nota di questa vicenda sia il gasolio, l'unica cosa che la farà ricordare per cinque minuti, ciò il cui furto può far decretare giusta ed approvata morte anche dal consiglio del barbiere e della famiglia a cena. Si ripristini a questo punto, ufficialmente, la schiavitù. Si faccia piazza pulita dei Lincoln e di tutti quanti.

Gasolio. Mi viene a mente il Petrolio di uno che aveva previsto con esattezza in quale direzione saremmo andati. Ci son passati sopra, una notte di novembre, sul suo cadavere, con le ruote di una macchina.

lunedì 5 aprile 2010

Tagatroum

È arrivata, venerdì scorso circa alle ore 21, la solita telefonata. È una consuetudine tra me e la Daniela: quando il treno arriva a Prato, mi telefona e parto per la stazione centrale di Santa Maria Novella per andarla a prendere. Facciamo sempre così dati i frequenti ritardi dell'intercity Milano-Terni: inutile che parta per essere alla stazione alle 21.23, quando a volte il treno ha mezz'ora, un'ora, anche un'ora e mezzo di ritardo.

Quando arriva la telefonata da Prato, accendo la macchina, parto e mi metto a sognare qualcosa. I sogni ad occhi aperti mentre guido sono tra i miei passatempi preferiti, da sempre; la fantasia e il desiderio, evidentemente, mi si coniugano bene con l'andare in macchina. Il rumore del motore, i gesti del cambio di marcia, il pigiare dei pedali scatenano il subliminale. Così, all'improvviso, fatti pochi metri per via dell'Argingrosso, mi sono messo a fucilare leghisti; ed ho provato una celestiale serenità nella sera d'aprile, per tutto quel percorso che mi è più che consueto.

All'incrocio tra via dell'Argingrosso e via Torcicoda, ho cominciato con Castelli. Avete presente l'ex ministro della giustizia, quello con quella faccetta da professorino di applicazioni tecniche nella scuola media unificata? L'immagine mi è venuta all'improvviso. Un'ordinaria fucilazione in un posto qualsiasi, come più si confà ad un anonimo personaggio del genere. Una breve scarica nella schiena, senza nemmeno aspettare che il prete si scansi; tanto, un prete che va a confessare un Castelli magari assolvendolo pure, non merita così tante premure. E quell'immagine mi è garbata così tanto, mi è parsa talmente consolatoria, che ho voluto continuare, assaporandomi la Diana Blé con un sorriso stampato sul viso.

All'incrocio tra via Torcicoda e il viale delle Magnolie, la cosa si è fatta ancor più interessante. Ho fucilato Maroni davanti al quartier generale di via Bellerio, a Milano, servendomi di un plotone di extracomunitari misti e facendo comandare l'esecuzione a un Rom, nella sua antichissima lingua. Ho capito soltanto jag! (che penso significhi fuoco!), mentre vedevo afflosciarsi quei baffettini brizzolati e quei labbruzzi ministeriali. A mo' di scherno, mentre il palazzo di via Bellerio ardeva in un rogo purificatore, dei giovani sventolavano in faccia al fucilando gli emblemi di Democrazia Proletaria, formazione politica di cui il Maroni aveva fatto parte in gioventù.

Mi aspettava il complicato attraversamento della tramvia in piazza Pompeo Batoni. Un doppio semaforo che, a certe ore, è un'apocalisse. A quell'ora serale va certamente un po' meglio, però se si becca il rosso c'è da aspettare comunque un bel po'; e si dà il caso che abbia incocciato proprio un rosso. Quale migliore occasione per fucilare Calderoli? Mi son visto la scena nei minimi particolari: gli viene fatta indossare prima la famosa maglietta con le vignette danesi anti-Maometto, e poi viene legato a un palo davanti a un plotone formato da integerrimi fedeli musulmani. Costoro, naturalmente, non sparerebbero mai ad un'immagine del Profeta, seppure addosso ad uno spregevole personaggio come colui che la indossa; i fucili sono quindi caricati a salve. Ma basta il rumore. Calderoli, tremante, si affloscia colpito da un attacco cardiaco, come il cavallo in Animal House. Nel contempo, si diffonde un cospicuo puzzo di merda; a questa immagine è scattato finalmente il verde, e il mio animo sfiorava oramai l'esaltazione.

Sono arrivato in piazza Pier Vettori, dove casualmente si trova la sede fiorentina della Lega Nord. Lì, come sempre, ho sbagliato strada. Siccome, per andare a lavorare, tiro a destra e poi proseguo per il primissimo tratto di via Pisana fino a Porta San Frediano, mi son ritrovato a dover fare mente locale e girare invece a sinistra per via del Ponte Sospeso e il Ponte alla Vittoria. In vista del ponte, approfittando di un breve rallentamento, ho fucilato Borghezio. In un tripudio di bandiere rosse, dentro un campo sportivo, con il debordante e flaccido condannato trascinato da una serie di ragazzotte di qualche centro sociale che gli urlavano ma quanto sei brutto, dé! Poi la scarica che mette fine alla sciagurata esistenza di quel nazista, e un camion che ne porta via il cadavere per darlo in pasto a un paio di leoni di bocca buona dello zoo di Pistoia.

Al semaforo tra il viale Fratelli Rosselli e via Alamanni, anch'esso costantemente rosso, c'è stato un intoppo. Mi è venuto da fucilare Magdi Cristiano Allam. Mi son detto: Ma cavolo, quello mica è leghista! Però, oramai, la frittata era fatta. Il plotone, formato da Miguel Martínez, Io Non Sto Con Oriana ed altri tipacci del genere, era stato già approntato. Con occhi luciferini, i fucilieri inquadravano l'orante ex-vicedirettore del Curierul Serii, che si apprestava finalmente a dover fare i conti con quei suoi due dèi del cazzo che peraltro aveva fino ad allora preso entrambi per i fondelli a suo tornaconto. Un'espressione comunque abilmente studiata, in modo che il prossimo papa Giampaolo Benedetto I lo inserisse celermente nel novero de' martiri e de' beati. Un santino già pronto. Un instant book già scritto sul suo sacrifizio. Bang! E il Martínez che, con fare discretto, si avvicina sorridente a pisciare sul suo cadavere.

Alla fine, eccomi alla svolta per via Valfonda. È una svolta che non tutti possono compiere, essendo una corsia preferenziale; ma con lo scassato automezzo che mi è dato in dotazione, posso farlo. Tale privilegio dev'essere in qualche modo sottolineato: ed in quel momento, ho preso la grave decisione di fucilare il Gran Capo in persona. Quello che ce l'ha duro (splòp, splòp). Fucilato rigorosamente con pallottole provenienti dalle riserve della Val Brembana, e con in mano il diploma della Scuola Radio Elettra. Senza grandi preamboli. Da spedire immediatamente nell'eternità. Perché gli è inutile fare: attualmente siamo in mano a queste persone. Sono questi qui che decidono. Sono questi qui che hanno il popolo dalla loro parte. E allora sono, finalmente, arrivato alla stazione centrale.

Sono sceso davanti al giornalaio, ancora aperto, dove è possibile oramai acquistare La Padania. A Firenze. E magari c'è persino chi la compra. Guardavo l'orrenda pensilina di Toraldo Di Francia. Avevo, anche, negli occhi le file di disgraziati, di derelitti, di homeless che fino a qualche mese prima dormivano tutte le notti, coperti di cartone, fuori dall'ingresso della stazione: sloggiati da una giunta di sinistra. Disturbavano. Degradavano. Avevo negli occhi tutto lo sfacelo che mi è stato dato di vedere negli ultimi trent'anni. E avrei voluto continuare a fucilare.

"Tagatroum" è parola decrepita. Proviene dall'idioma alto tedesco antico, che ha dato il termine moderno "Tagtraum". Corrisponde perfettamente all'inglese "Daydream". L'ho tirata fuori da un mio passato, oramai lontano, oramai finito. Il Longobardo, con tutta probabilità, era un dialetto di quella lingua. In irlandese si dice "Aisling". In bretone, "Marsoñj".

domenica 4 aprile 2010

A giro per blog (5 e fine): Ἐκβλόγγηθι Σεαυτόν Asocial Network


Prima di riprendere i miei raccontini lasciati in sospeso, vorrei con questo post mettere fine ad una delle cose che avevo iniziato. In realtà non doveva terminare qui, anche se l'intenzione primitiva era quella di parlare di un altro po' di blog altrui: il post in cui parlavo del mio doveva essere comunque l'ultimo. Poi, forte del vecchio detto per cui la via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni, mi sono convinto a soprassedere. Non è automatico che i titolari di altri blog, che pure continuerò a trovare interessanti e degni di essere letti giornalmente, gradiscano le mie osservazioni. Indi per cui, anticipo la fine di questo "ciclo" con questo autopost, in cui proverò a parlare di questo blog ponendomi come osservatore esterno. Ritengo peraltro che sia sempre un utilissimo esercizio giudicare le proprie cose in modo assolutamente distaccato.

L'assunto è che un blog, in quanto diario personale, rispecchi almeno in parte il carattere, la personalità e le opinioni di chi lo scrive, e che ne registri le variazioni, le coerenze, le incoerenze e le posizioni. Francamente, non sono certo che mi sia sempre riuscito; e, forse, è un compito al di là delle possibilità umane. Non dico questo per giustificarmi né per trovare facili scappatoie, ma perché è quel che traspare dalle riletture che, periodicamente, effettuo di quel che ho scritto. Ho troppe più cose dentro, e addosso, di quelle che sono capace di mettere nero su bianco. Troppi grovigli, troppe contraddizioni, troppe strade che si intersecano a formare veri e propri labirinti. Giunto ad una certa età, e con sulle spalle la mia bella e ragionevole dose di ogni cosa e del contrario di ogni cosa, credo sia venuto il momento di accettarmi così come sono. Cosciente di quel che mi sono lasciato dietro, compresi i disprezzi. Senza pormi problemi di meriti, di giustizie o di ingiustizie. Senza più seguire, o inseguire, vite e fatti altrui. Accettarsi significa, principalmente, prendere coscienza dei propri fallimenti, perché la vita è un meraviglioso fallimento punteggiato da qualche scintilla.

Ora, davvero non so se di tutto questo è reso pienamente conto in questo blog. Quasi sicuramente no. Ci sono le mie storie, i miei posti, le mie "avventure" reali o immaginate, spesso con un viluppo di realtà e immaginazione assolutamente inestricabile. È, questa, una mia caratteristica. Praticamente da sempre non riesco a vedere il confine tra realtà e immaginazione, con tutto ciò che ne consegue in bene e in male. È come se vivessi sempre on the border, e con il grave difetto di dare tutto ciò per scontato. Trovo a volte impossibile che gli altri "non capiscano", ma devo oramai prendere atto che hanno tutti i sacrosanti diritti di non capirlo. In questo modo ho perduto molte persone cui tenevo; persone che comunque non andrò mai né a disturbare, né a richiamare. Gli eventi hanno seguito il loro corso, e gli eventi sono sovrani: faber est suae quisque fortunae. Se c'è una cosa che, però, vorrei che trasparisse da questo blog, è il mio totale rifiuto del rimpianto. Non perché non sia conscio dei miei sbagli (e anche di quelli altrui), ma perché il rimpianto è aggiungere irrisoluzioni a irrisoluzioni. Alla fine si taglia: quel che stato è stato.

È, quindi, un blog enormemente disuguale, e senza nessuna "regola". Ha cambiato nome, e non è escluso che lo cambi ancora. Va terribilmente "a periodi", saltapicchiando dalle attualità alle introspezioni, dalle allegrie alle tristezze più nere, dalle pesantezze alle leggerezze. Ci sono momenti in cui vi si scrive molto (e forse anche troppo), ed altri in cui non c'è niente. Ci sono, inutile dirlo, idiozie belle e buone. Vi si passa da un presupposto "impegno" a un disimpegno totale, ex abrupto, senza alcun preavviso. Vi si intuisce una pluralità che è una delle cose più complesse con le quali l'autore ha dovuto sempre fare i conti, e che gli ha provocato al tempo stesso le soddisfazioni più grandi e le delusioni più cocenti. Ma è solo un granello, un frammento. Tra le cose che è necessario accettare, e decisamente con rassegnazione, è l'impossibilità di raccontarsi appieno. Nonostante ciò, l'autore del blog persisterà nel farlo, dato che questo gli sembra l'unico motivo valido per tenere un blog che non sia "settoriale", vale a dire esclusivamente dedicato a uno specifico argomento.

Detto questo, e smettendola di parlare di me in terza persona, vorrei concludere parlando brevemente del modo in cui -attraverso questo blog- mi rivolgo agli altri, vale a dire a chi mi legge.

Questo blog non è niente di speciale. Non ha proprio nessuna "verità" da propagare, né esempi da fornire. È, a modo suo, una storia (o una storiella) continua. È principalmente un modo per dire a me stesso di essere vivo, e nient'altro. Può darsi che questo, a volte, risulti sgradevole; ma non sono più preoccupato di fornire "immagini" di me stesso, o di crearmi determinate aure. Tutt'altro. Troverei comunque artificiale e forzato mettermi a parlare dei miei difetti, che comunque appaiono chiaramente da tutto ciò che scrivo. Parlare troppo a viso aperto dei miei difetti sarebbe un'insopportabile captatio benevolentiae: "Hai visto bravo, com'è obiettivo nei confronti di se stesso, che ganzo". Nulla di tutto questo. Quel che avete di fronte è una persona che non conoscete e che non conoscerete mai, anche perché il diretto interessato già fa una fatica improba, e sovente vana, a conoscere se stesso (da qui il titolo del blog, che fa il verso al γνῶθι σεαυτόν socratico). Ho smesso da tempo di credere nei "rapporti in rete", e questo ne fa autenticamente un blog "asociale"; al tempo stesso, e con dei meccanismi che trovo impossibili da spiegare, il mio è un vero e proprio grido di socialità, di scambi, di relazioni.

Vorrei che chiunque leggesse questo blog lo trovasse davvero come gli pare. Anche orrendo. Anche imbecille. Anche falso. Tutto quel che vorrei è che mai lo si trovasse disumano. È stato scritto, a volte, in condizioni non facili da descrivere. È stato scritto, e continuerà ad essere scritto, perché in un buco qualsiasi di questo pianeta esiste un dato essere umano; e ne esistono altri, e altri, e altri ancora. Buonanotte.


sabato 3 aprile 2010

Massimo, che ci sei...?


Sì, lo so che ultimamente hai avuto qualche problemuccio, e che ti è persino toccato farti perdonare; ma, perdiana, questa è un'occasione davvero da non perdere.

Secondo la notizia, pesa 4868 chili. È costato otto ore di lavoro al giorno a nove maestri pasticcieri capitanati da tale Mirco Della Vecchia, e gli scarti di lavorazione (calcolati in quintali) sono stati distribuiti in sacchettini poi venduti in beneficienza per i terremotati di Haiti. È realizzato interamente in cioccolato bianco, ed ha battuto di oltre una tonnellata il precedente record per le sculture in cioccolato. Il nuovo primato, certificato ufficialmente da un giudice appositamente arrivato da Londra, permetterà a questo Duomone di Milano di essere iscritto nel Guinness.

Ecco, Massimino, ora dovresti entrare tu in azione. Visto che i terremotati di Haiti sono già stati messi a posto (oltre che dimenticati), che ne diresti di riscendere in campo con la tua indubbia competenza?

Pensa un po': se con un Duomino in ghisa di pochi chili sei riuscito a trasformare l'Italia nel paese dell'amore, tirando addosso a Berlusconi un Duomone in cioccolato da più di quattro tonnellate e mezza cosa mai riusciresti a fare? Un immenso paesone dell'amorone, un cioccolatoso melasso della concordiona e della legalitàzza, uno smisurato accordo sulle riformone. E, viste le dimensioni, perché tirarlo addosso solo a Berlusconi? Con un colpo solo, approfittando magari del prossimo 25 aprile, potresti acchiappare Napolitone, Bersone, Casone, Schifone e tutti gli altri. Tutti sepolti sotto una dolcissima e amorosa massa di cioccolato. Dici che non ce la fai da solo a lanciare un Duomone del genere? E tranquillo! Una soluzione la si trova sempre!


Immagina poi quanti grupponi di Facebukkona (gnamme!), quante edizioni speciali del Giornalone e di Liberone, quanti editoriali di Minzolone, quanti messaggi di solidarietòna, quanti Angelus del Papòne!

E, magari, orde di bambini haitiani affamati si getterebbero su quell'immenso blob, sputando però rigorosamente pezzetti di Maroni, frammenti di Gasparri, lacerti di maglioncino blé di Bertolaso e mèches della Moratti.