martedì 31 agosto 2010

Teo e le donne


Questo post non può prescindere da Lapidazioni italiane, provienente da Femminismo a Sud, e neppure da C'è un problema, scritto da Sassicaia Molotov. Un'avvertenza necessaria e tutta una serie di cose da considerare bene.

L'immagine che vedete, non si vedrà mai su nessun monumento. Su nessun Palazzo Vecchio. Su nessun Colosseo, che ultimamente è arrivato persino a fungere da supporto mediatico anche per soldatini di un esercito di assassini invasori. Non la vedrete mai come icona alla moda. Non sentirete mai parlarne nessun Sarkozy, nessun Saviano, nessuna Santanchè, nessun Napolitano, nessun sindaco di una città o di un paesino. Non ha nessun nome esotico; anzi, potrebbe avere benissimo il tuo nome. Potresti essere tu. Giovanna, Isabella, Fatma, Rachel, Vanessa, Dagmar, Aysha, Françoise, Encarnación. Potrebbe essere quello di qualsiasi donna di qualsiasi parte del mondo. Potrebbe essere qualsiasi immagine, in qualsiasi momento.

L'immagine di una casalinga qualunque, tra la cucina e la violenza quotidiana, tra i figli e la certezza che, a una data ora, si aprirà una porta e non ci sarà nulla da fare. Non è, però, un'immagine che serve ai giochetti dei potenti e delle loro corti; serve solo a una brevissima cronaca, e a due o tre giorni in cui, in mancanza di meglio, può contribuire alle vendite o agli accessi pubblicitari. L'immagine di una ragazzina che, in queste ore, potrebbe essere nelle mani del branco di scusabili, ché un pretesto buono lo si trova sempre. Potrebbe essere l'immagine di una donna di Ciudad Juárez, una fica con qualche chilo di carne da macello intorno; o quella di un'attiramaschi da discoteca, a ballare sul cubo in mezzo a vomiti, sudori, musiche assordanti. Le stesse che ti schiacciano in un tunnel a cura di una polizia, mentre credi di divertirti; le stesse che coprono le tue grida mentre, in un piccolo appartamento d'una periferia strana, il gentile ragazzo conosciuto alla festa sta ponendo fine alla tua umanità.

E non importa quel che credi, quel che pensi. Potrebbe essere la tua immagine anche se sei quella sedicenne che, non più di due sere fa, mi ha detto di persona di odiare i rumeni perché loro hanno lo stupro nella loro cultura; li odiava, sembra, anche la sua coetanea che poi è stata oggetto di un'esecuzione capitale in bicicletta, a cura del fidanzato veneto. Potrebbe essere la tua immagine anche se ti vendi e ti svendi, ché non ha alcun senso mettere la cosa in questi termini ora come ora. Potrebbe essere sì l'immagine di una delle gheddafine, ma nessuno si indignerebbe tanto per una qualsiasi hostess ingaggiata per un congresso di pentole, di medicine, di biancheria o di filmati. Ti vogliono sempre giovane e di bella presenza. Ti vendi perché fai parte, come tutti, del sistema in cui ciò che soltanto conta è vendere e comprare; e ne fai parte perché, poco o tanto, ti pagano. Esattamente come un operaio alla catena. Esattamente come un insegnante ligio o non ligio alla Gelmini. Esattamente come un precario o una badante, esattamente come un addetto teatrale o un autista di ambulanze.

Potrebbe essere, con quel punto interrogativo nel mezzo, la tua immagine viva o la tua immagine morta; l'immagine di un oggetto che può trovare o meno il suo uso. Potrebbe essere anche quella della signora Carla Bruni, quella di Nadia Desdemona Lioce, quella di Diana Blefari Melazzi, quella della madre sparata per strada con la figlia in braccio per dissidi familiari, quella della donna rom ammazzata come un cane dall'ex poliziotto razzista, quella di una delle decine di donne che ogni giorno muoiono male in tutto il mondo senza che a nessuno gliene freghi nulla. Perché nessuna è immune. E potrebbe essere anche quella di Sakineh, lontana dal vomitevole balletto che le viene danzato sulla testa e sulla pelle; ché a lorsignori non gliene importerebbe niente, se invece di essere in Iran fosse in una qualsiasi altra parte del mondo dove non stanno a arricchire l'uranio, a estrarre petrolio, a scompigliare equilibri internazionali. Non gliene importava a nessuno di Karla Tucker o di Aileen Wuornos, a parte a Diamanda Galás che le dedicò la sua impressionante versione della Iron Lady di Phil Ochs.

Ché l'immagine è quella decisa da Teo, e Teo decide se meriti di essere conosciuta o ignorata, se se sia utile o inutile, se convenga o non convenga a chi comanda. Decide Teo come debba essere l'immagine, se coperta o non coperta da un velo, se avvolta dal possesso travestito da finto amore per il contratto o la riproduzione, oppure fatta oggetto di pietre, di scariche elettriche, di iniezioni letali e di morali più letali delle iniezioni. E Teo è un personaggio strano, evanescente, proteiforme. Spesso va sotto il nome di Stato, perché non esiste uno Stato che non se ne faccia scudo; neanche uno. Non esiste lo Stato senza Teo, senza i suoi pilastri, senza la sua famiglia, senza la sua legge. C'è la Repubblica Islamica dell'Iran e la Repubblica Cattolica dell'Italia. Ed è totalmente inutile battersi per cose come la laicità, perché la laicità non potrà mai esistere finché esiste qualsiasi forma di Stato. Ci hanno abituati, da un po', a credere che ci sia un Teo meglio di un altro; che ci sia un Teo d'amore e uno di odio, un Teo mit uns e un Teo nemico, un Teo giusto e un altro ingiusto; ma ne esiste uno solo, in tutte le sue mille forme in finto contrasto. Lui e il suo compare Stato. Lui e i suoi officianti in divisa da poliziotto o da prete, da giudice o da benefattore, da burocrate dei fogli o da burocrate dello spirito, da carceriere o da madonnina; e si pensi soltanto alle migliaia di volte in cui tutte queste sue forme si confondono, ai crocifissi nei bracci della morte e non soltanto nelle aule scolastiche, alle barbe marce e puzzolenti di tutti gli amministratori di violenza e di morte, e soprattutto al modo in cui liberarsene definitivamente, una volta per tutte.

Sulle facciate dei palazzi storici dovrebbe andare il profilo senza volto di una donna, perché la donna è una variabile impazzita nell'ordine di Teo e dei suoi servi. Una variabile che ha tutti i nomi del mondo, e che deve essere semplicemente utilizzata, gettata via, piegata, neutralizzata, sterminata. E non è, a questo punto, soltanto questione di disertare: è questione, invece, di lottare senza quartiere, di passare all'attacco frontale. Contro Teo e la sua morte, per la vita. Per un mondo dove non ci siano più morali costruite sulle più micidiali panzane trasformate costantemente in Stato e Legge. Per un mondo senza sacri pilastri. Per un mondo veramente libero. E smettere di crederci significa farsi complici di Teo e del suo Stato. Significa aprire lo sportello della macchina del branco che ti porta via. Significa scagliare la prima pietra, e non soltanto la prima.

Perché Teo odia le donne e le vuole morte. Ed è del tutto chiaro come mai. Teo è come il dottor Antonio dello straordinario episodio felliniano di Boccaccio '70, interpretato da Peppino De Filippo. Teo ha sempre davanti il manifesto di Anita Ekberg che invita a bere latte, ché il latte fa bene. Teo deve distruggere quella tentazione, che lo ridurrebbe a quel che è: un ometto con il cazzo ritto, e con la rabbia di doversi tirare una sega perché lei non gliela dà. La morte, Teo, la ha creata per quello. Da qualche parte nell'universo c'è un armadio con dentro il cadavere di Tea, e anche lei è dentro quell'immagine senza volto e li ha tutti quanti.

Odissea


Cose che accadono quando l'estate se ne va via, nella sera in cui ci si rimettono i pantaloni lunghi, i calzini, la camicia. Aumenteranno via via gli indumenti, accorceranno ancora le giornate fino al buio dicembrino; volata. Come, quasi, non ci fosse stata. Sfiorata al suo inizio, quasi per metà passata a prendere pasticche per far passare un dolore, lavorata, sudata, stancata. Per caso, e per non sapere cos'altro fare perché il sonno non vuole arrivare, si approda come Ulisse sul sito di una televisione di quelle notturne, di quelle lontane nel tempo; trasmettono l'Odissea.

Proprio lei, l'Odissea di Franco Rossi, l'Odissea di Bekim Fehmiu. Ed è proprio la puntata del naufragio sull'isola dei Feaci, di Nausicaa; come fosse, quasi, ieri. Un'estate passata lontano dall'Isola; quant'era. Senza buttarsi in mare da uno scoglio qualsiasi, senza il portico, senza il giro della costa occidentale che lo avrò fatto diecimila volte, e ogni volta è a sé. Ricordo, tempo fa, una discussione a proposito di isole, con uno che mi diceva che non esistono; mi accorgo sempre di più che non esistono, invece, coloro cui l'isola non batte dentro. Forse vengono da isole troppo grosse, ché le isole hanno da essere piccole e magari ignote a tutti, come quella dei Feaci. E se uno ha da essere Ulisse, bisogna che vaghi quarant'anni in mezzo a un mare, e con un dio contrario.

Era bellissima, l'Odissea in televisione; era bellissima perché dava il senso vero del poema omerico. All'inizio di ogni puntata, una voce leggeva dei versi: era quella di Giuseppe Ungaretti, che sarebbe morto di lì a non molto. Era bellissima, perché riusciva a dare l'insularità a un bambino di sei anni così come ad un uomo fatto o a un vecchio. Ulisse è un viaggio fra un'isola è l'altra, alla ricerca eterna della propria; ma tutte lo sono un po', ognuna è qualcosa di sé e la vita dell'uomo è un ponte che le attraversa, e l'uomo è il marinaio e un imperfetto guerriero che conosce ed accetta la debolezza e la vigliaccheria così come il valore e la lealtà. Un'isola è l'opposizione a stolide purezze, e un'isola esiste sempre proprio come esiste la vita.

Così, a notte fonda ma nel sole della storia, ecco che Ulisse arriva, naufrago, all'isola dei Feaci; è un giorno d'una antichissima estate. Ci sono anch'io. Un fiume che sfocia su una spiaggia, e tutto mi è familiare. È il Seccheto. Guardo i particolari e tutto corrisponde alla perfezione, e il sentiero che mena al Palazzo è identico, e il Palazzo di un'isola come quella sarà stato più probabilmente una rozza casa colonica. Nausicaa credo di averla conosciuta quando avevo quattordici o quindici anni, mi hanno detto che ora è sposata e ha due figli grandi, ed un marito greve e addormentato; e il mare, poi. Il mare come cristallo che lambisce la pietra e il tamarisco; mi accendo una sigaretta. Il mare lambisce anche lei. Resto incollato allo schermo e ai dialoghi in lingua curatissima, ma una parte di me è là, su quell'isola, in disparte. Non vorrei mai far parte della vicenda. Non interferirei mai con Ulisse, con Nausicaa, con Alcinoo; starei, su una Galenzana come ogni isola ne racchiude, a osservare senza che nessuno mi veda; in questo modo sono nessuno, e sono Omero. Perché Omero e Nessuno sono la stessa persona. Lo sono stato non so nemmeno io quante volte, da solo, in qualche angolo, con il mare, una sigaretta e me stesso; lo sarò ancora fino alla fine dei miei giorni. Ad ognuno la sua Odissea, e l'Odissea per ogni isola.

Poi sono venuto a sapere che Bekim Fehmiu, il volto di Ulisse, il 15 giugno di quest'anno si è tolto la vita. Si è sparato un colpo di pistola nella sua casa di Belgrado. Sono venuto a sapere che era nato in un'isola chiamata Sarajevo, da genitori kosovari. Irene Papas, Ειρήνη Παππά anzi, naviga nell'Egeo della sua vecchiaia, ancora bellissima e nobile. La bellissima Nausicaa, Barbara Bach, ha passato la sua Odissea tra filmetti di serie B per poi scomparire, perdersi. Franco Rossi, il regista, era nato a Firenze un 19 aprile, proprio lo stesso giorno in cui era nata mia nonna materna sull'Isola; dopo l'Odissea traspose in film televisivo anche l'Eneide. A combattere con Enea c'erano anche, dice Virgilio, trecento Ilvates. Trecento elbani. C'ero anch'io, ma non lo dite a nessuno: ero il trecentounesimo. Me ne stavo però in disparte, a Galenzana, con una sigaretta e uno stecco in mano a disegnare parole greche nell'aria. A modo mio, combattevo.

lunedì 30 agosto 2010

Preklady


Preklady è una parola slovacca che significa traduzioni. Se a qualcuno pungesse vaghezza di saperne il singolare, basta togliere la -y finale: preklad. Così, ora, sapete anche come si fa il plurale di molti maschili in slovacco: basta aggiungere una -y.

A proposito di Slovacchia: oggi a Bratislava, la sua capitale, un tizio ha compiuto una strage. Sette morti e quindici feriti. È una delle poche cose, questa qui, che ancora ci fa sentire, in questo stramaledetto paese, relativamente sihuri: il folle che, invasato e armato fino ai denti, si mette a sparare per strada a tutto quello che si muove. Fino a qualche tempo fa era prerogativa quasi esclusiva dell'America; però, poi, ci si è accorti che succede un po' dovunque. Sempre lontano, però: oggi è toccato alla tranquillissima Slovacchia. Il tizio spara all'impazzata e stermina un'intera famiglia rom in casa propria, in un sobborgo chiamato Devínska Nová Ves (tedesco Theben-Neudorf, ungherese Dévény-Újfalu), e una vicina che si era incautamente affacciata alla finestra per vedere che diavolo stesse succedendo. Tra le altre cose, si scopre che, in Slovacchia, i rom vivono in normalissimi appartamenti e che persino in questi riescono ad essere sterminati.

Quando le famose agenzie cominciano a battere la notizia, è giocoforza che si tratti di agenzie slovacche; prima fra tutte, ovviamente, la TASR. Ci sono anche fotografie e video amatoriali del tragico accaduto, ivi compresa quella dello sparatore, la quale ritrae un uomo sicuramente adulto; è quella che vedete in testa al post. Nonostante questo, i giornali di tutto il mondo, basandosi su chissà quale rimbalzo in inglese (ché l'inglese è la world language e quindi ha sempre ragione), cominciano a riportare che l'autore del massacro è un ragazzino di quindici anni. Anzi, per essere precisi: un quindicenne tossicodipendente forse sotto l'effetto di alcool e droga. Titoloni ovunque. L'adolescente folle si avvicina.

Il fatto è che, in questo mondo che si vorrebbe unilingue, si fa un'estrema fatica a pensare che di lingue differenti dall'inglese ne esistano ancora parecchie. Lo slovacco, ad esempio. Una lingua ancor più perfida di quei loro calciatori che hanno osato buttarci fuori la Nazionale dai mondiali, dove il numero "15" si dice pätnást' e "50", invece, pät'desiat. Facili da confondere, sicuramente (ma, a pensarci bene, anche fifteen e fifty sono altrettanto simili fra loro). È bastato che un qualche ignoto rimbalzatore di agenzie confondesse i due numeretti slovacchi, e lo stragista è diventato un quindicenne tossicodipendente nonostante i video e le foto; e lo è diventato globalmente.

Immagino, stamani, torme di opinionisti e di esperti fregarsi le mani e sbrodolare dalla felicità: in piena Europa, anzi in un paese che fa parte della Unione Europea, l'adolescente folle è finalmente all'opera. Ovviamente drogato e briaco. Nessun dubbio ha attanagliato le masse: oramai viene ritenuto del tutto normale che un quindicenne si metta a sparare per la strada con un mitra Z58. Probabilmente già pronti i titoloni del giorno dopo: il ragazzino assassino, l'ondata di follia che si propaga in Europa, il disagio mortale dei nostri ragazzi. All'improvviso, però, oplà. Non era un quindicenne, ma un cinquantenne. Su nessun giornale, giornalino o giornalone compare un rigo di rettifica. Giornalettismo globale. Eppure sarebbe bastato dare un'occhiata alle foto.

Cominciano a trapelare le prime indiscrezioni. Come sempre accade in questi casi, il ministro degli interni slovacco esordisce coll'escludere qualsiasi motivazione razziale. Le autorità di tutto il mondo sono sempre preoccupatissime che, nel loro paesello di competenza, le motivazioni razziali siano escluse. Fingono magari di non sapere che, in Slovacchia come in Italia o dovunque, ci sono non pochi cittadini che, alla notizia, hanno applaudito lo sterminatore dei Rom (che avesse quindici o cinquant'anni). Poi si viene a sapere che lo sterminatore era un ex poliziotto; le motivazioni razziali così tanto escluse si fanno invece strada. Insomma, tutto normalissimo: l'ex poliziotto, l'arsenale di armi, l'odio, la morte. E le traduzioni sbagliate, com'è successo pochi giorni fa anche qui molto vicino.

Ho fatto, per anni e anni, il traduttore. Torme di signore e signorine mi hanno costretto a passare nottate in bianco a riguardare ogni parola di qualche manualaccio tecnico di merda, di istruzioni per elettrodomestici, di stupidissimi e pomposi contratti di compravendita. Sembrava che da ogni singola parola di quelle cose dipendesse costantemente l'avvenire dell'umanità, e che la vita del Cliente di turno fosse legata alla consegna alle ore 9. Quando poi le traduzioni sarebbero davvero importanti, per la correttezza dell'informazione o per la vita di una bambina, tutto viene ignorato o preso a pretesto per le criminali idiozie di qualche stronzo di leghista. Divento, quindi, sempre più autenticamente asociale e continuo, per mio conto, a leggere bene ogni parola e a esercitare il dubbio; e continuo a cavare dai miei scaffali dizionari polverosi, relitti di una vita intera, depositi di lingue che mi sto dimenticando.

venerdì 27 agosto 2010

Differenze


Chi me l'ha raccontata, ha detto di averla sentita da Daniel Pennac. La riracconto a modo mio.

Il solito tizio muore, e va in paradiso. Una volta espletate tutte le formalità con San Pietro, viene introdotto nell'eterna celestialità: luce soffusa azzurrata, calma, una musica soave, nuvolette, tutti che riposano...insomma, dopo dieci giorni, già non ne può più dalla noia, e decide di andare a farsi un giretto. Proprio vicino all'ingresso, nota una porticina e non può fare a meno di chiedere informazioni a San Pietro:

- Mi scusi, San Pietro...ma quell'uscio dove mena?

- Sicuro di volerlo sapere...?

- È solo per curiosità...

- All'inferno, mena. Quella è la porta dell'inferno.

- Ah. E...non è che si potrebbe fare una visitina, per caso...?

- Guardi che lei è stato assegnato al paradiso, alla beatitudine eterna, alla gioja senza fine...

- Sì, sì, lo so...infatti chiedo di fare soltanto un giro...non è che...

- Beh, in effetti concediamo dei visti temporanei di tre ore...ma è proprio sicuro...?

- Ma certamente! Tre ore saranno più che sufficienti! Come si fa a avere il visto?

- Venga con me...

Ottenuto il visto di tre ore e il pass, il tizio varca la porta e si ritrova in una bellissima spiaggia assolata: palme verdi, donne bellissime completamente ignude, tavoli stracolmi di ogni bendiddìo (si fa per dire), feste e party ogni dieci metri, alcool a fiumi, musica, mare cristallino...dopo avere strabuzzato gli occhi, si lascia andare ai bagordi più sfrenati. Ma le tre ore terminano presto, il visto scade e un solerte funzionario infernale lo invita a tornare in paradiso.

Una volta tornato, il tizio non perde tempo e torna subito da San Pietro:

- Ma che discorsi sarebbero? Quello sarebbe l'inferno, e questo il paradiso? Ma è quello, il paradiso vero! Io voglio andare là! Per favore, San Pietro, io qui non ci ho resistito dieci giorni, figuriamoci per l'eternità...!

- Guardi che non si può, lei è in paradiso per giudizio di Dio!

- Beh, e lei non può sentire il principale se...?

- Lo posso anche sentire, ma debbo avvertirla che se Dio le concede di andare all'inferno, la decisione è irreversibile e lei resterà per sempre laggiù!

- E non chiedo altro!

Dopo un po' San Pietro torna con il foglio di assegnazione all'inferno debitamente firmato e timbrato, lo consegna al tizio e se ne va. Il tizio, tutto felice, torna alla porticina e la varca; appena chiusa, si ritrova in un antro buio e infuocato. Viene preso in consegna senza cerimonie da un diavolo orrendo, che comincia a tormentarlo con un forcone mentre si diffonde una musica agghiacciante. Urla e lamenti dappertutto, orrende megere lo graffiano dicendogli atroci oscenità.

- Ma...ma...c'è un errore! Aiuto! Aiuto!

- Aiuto cosa, anima dannata? - gli dice il diavolo. Ora sei nostro!

- Ma...ma prima....la spiaggia....le feste...le donne meravigliose...

- Eh eh eh! -sogghigna terribilmente il diavolo. Ora finalmente la hai capita la differenza fra turismo e immigrazione!

giovedì 26 agosto 2010

(Im)patto sociale



Il Capo (in automobile): "Fino a quando non ci lasciamo alle spalle i vecchi modelli, non ci sarà mai spazio per guardare i nuovi orizzonti!"

L'Operaio (sulla ruspa): "Ecco, giusto, brutto budiùlo, te e la fardaccia di tu' ma', cominciamo con lasciarsi alle spalle il tuo, di vecchio modello!"

Il Capo (che era in automobile): "Dé, ma cosa fai?!? Non siamo più negli anni '60 e occorre abbandonare il modello di pensiero che vede una lotta fra capitale e lavoro e fra padroni e operai!"

L'Operaio (sempre sulla ruspa): "Nel frattempo, lascia che ti abbandoni sul capino questa benna da sei tonnellate!"

Il capo (ora appiedato): "Ma orsù, ragioniamo! Quello di cui c'è bisogno è un patto sociale per condividere impegni e sacrifici e dare al paese la possibilità di andare avanti, per costruire il paese che vogliamo lasciare alle prossime generazioni!"

L'operaio (manovràn-manovrando la benna): "Anch'io voglio costruire il paese da lasciare alle prossime generazioni, indi per cui condividerò l'impegno e il sacrificio di fàtti fa' la fine della tu' macchinina di merda, brutto lézzo!...."

martedì 24 agosto 2010

Στοχάζομαι τοῦτο δένδρον


Io non sto con Oriana tenta, oramai da anni, di portarmi con sé a fare i suoi giri estivi in paesi sicuramente bellissimi e interessanti, che di solito riassumo con appellativi tipo Assurdistan, Incognistan o Calafuria Settentrionale. Chissà, forse un giorno o l'altro ci riuscirà; per ora continuo a esplorare luoghi che mi sono assai più congeniali, come il parco dei Renai, le ultime propaggini di Ugnano o le superstiti e vecchie case coloniche di San Colombano a Settimo. Detto questo, il suddetto I.N.S.C.O. riporta dalle sue scorribande caucasiche centinaja di fotografie assai suggestive e degne di nota; ed alcune decisamente curiose. Quella che vedete è una di queste ultime.

Vi si vede un alberello secco. È stata scattata a Yerevan, la capitale dell'Armenia (o Hayastan), nel luogo chiamato Collina delle Rondini. Uno dei motivi per i quali preferisco andare a San Colombano a Settimo e farmi a piedi via del Porto (cercando di sapere per quali motivi in mezzo alla piana di Scandicci esistesse un porto), è che il nome originale di tale collina è Tsitsernakaberd. Ritrovarmi in un posto con un nome del genere, credo, mi farebbe venire la voglia immediata di prendere la prima diligenza per Follonica. Comunque sia, su tale collina esiste un monumento dedicato al genocidio degli Armeni, un avvenimento dalla portata sicuramente tragica ma cui non intendo qui accennare per un moto di estrema prudenza; non vorrei ritrovarmi poi il blogghino bombardato dall'aviazione turca, oppure fatto oggetto di attentati da parte di gruppi nazionalisti armeni, oppure ancora tutte e due le cose insieme.

M'informa ulteriormente I.N.S.C.O. che, presso il monumento sulla Collina delle Rondini esiste un'area, sorta di "Giardino della Rimembranza", dove visitatori istituzionali e istituzioni vere e proprie che decidono di appoggiare la causa del riconoscimento del genocidio armeno possono far piantare un albero, usualmente un abete. L'unico albero totalmente seccato di tutto il giardino risulta appunto quello qui raffigurato; come si può vedere cliccando sulla foto e ingrandendola, risulta essere stato offerto e piantato da S.E. Tarcisio Bertone, segretario di stato del Vaticano, o meglio di Benedict XVI Pope of Rome. Insomma, come dire: davvero una meravigliosa performance. Il segretario del pope di Roma arriva sulla Tsitsernakaberd, pianta un alberello per ricordare il genocidio e questo cosa fa? È l'unico a seccare.

Quand'ero piccolo, all'Elba, mia madre e mia zia solevano dirmi, se combinavo qualche malestro: hai le mani affulminate! Me le vedo tutte e due davanti al cardinal Bertone, specialmente mia zia che la chiamano La Fiorina per il suo indubbio "pollice verde": in mano sua, un rametto di aralia piantato più di vent'anni fa è diventato una specie di albero per davvero. Ma forse il Padretern'Iddìo è un po' più intelligente dei suoi presupposti servitori. Decide di far prosperare piante e alberi che ricordano esclusivamente ciò che chi crede in lui chiama creato, e non alberi e alberelli che ricordano soltanto la follia umana. Il cardinal Bertone ci deve avere avuto proprio le mani affulminate; mi spiace soltanto per l'abete. Prima di seccare, deve aver pensato che forse sarebbe stato meglio essere stato piantato dal presidente di una repubblica melanesiana piuttosto che da un rappresentante quasi diretto di Dio in terra. Il quale Dio, i casi son due: o se la ride sotto i cosmici baffi, oppure funziona pochino. Oppure ancora ha scelto dimolto male da chi farsi delegare. Bisognerebbe che qualcuno davvero prendesse la prima corriera della Dante & Virgilio Tour per andargli a dire: non delegare, non votare!

lunedì 23 agosto 2010

Consigli agli operai di Melfi


Desidero immediatamente sgombrare il campo da possibili equivoci che il titolo di questo post potrebbe generare. Io non mi ritengo assolutamente nessuno per fornire consigli né agli operai di Melfi, né a chicchessia. Si tratta di un titolo pressoché swiftiano, una sorta di modest proposal che, però, promana da alcune considerazioni che mi stanno particolarmente a cuore; specialmente dopo aver seguito, seppur necessariamente attraverso la desolazione dei media attuali, la vicenda dei tre operai licenziati dall'Azienda, e poi reintegrati sul posto di lavoro con una sentenza tribunalizia. Ai tre, come ognuno potrebbe sapere (a pochi giorni dall'inizio del campionato di calcio divento sempre più parco nell'uso del verbo dovere), l'Azienda ha oggi impedito comunque di rientrare in fabbrica, a lavorare. Sembra che i tre siano riusciti a timbrare il cartellino, ma che siano stati poi "presi in consegna" dagli addetti alla sicurezza e fatti accomodare altrove. Intervistati prima del tentativo di ingresso in fabbrica, i tre (o uno di loro) hanno dichiarato di "non voler essere parassiti, e di voler soltanto lavorare per guadagnarsi da vivere"; incassando l'ovvia ma prudente solidarietà dei colleghi, va specificato che l'Azienda, pur di liberarsi da quei tre, sembrerebbe disposta a pagar loro il regolare stipendio.

Bisognerebbe allora, forse, rovesciare un po' la questione. Stabilire, ad esempio, chi siano i veri parassiti; senza ricorrere ad alcun distinguo tra azienda e azienda, tra padrone e padrone o tra sgobbo e sgobbo, occorrerebbe impadronirsi di un concetto che è tanto più chiaro quanto generalmente scansato, rifiutato, allontanato: il vero parassita è il lavoro stesso. Con la vicenda degli operai di Melfi siamo addirittura oltre la "classica" problematica della disoccupazione, della perdita del posto di lavoro, del licenziamento; una volta il lavoratore, bestia da soma con garanzia di stalla e foraggio, se sgradito all'Azienda veniva ridotto a un cane randagio. La sua fatica quotidiana gli dava il diritto di rivendicare un salario; una volta licenziato, il fatto di non faticare più lo gettava in una condizione immorale, da elemosina. Gli conveniva abbassare la testa, oppure -in certe particolari circostanze politiche e storiche- unirsi ad un movimento collettivo di lotta al termine del quale, ottenuti o meno alcuni "diritti" o migliorie economiche, tutto tornava esattamente come prima. Adesso non importa più neanche questo: il Padrone, costretto a non licenziarti, continua a pagarti pur di non averti fra i coglioni. E tu, operaio, che fai? Ti rechi al cancello e vuoi entrare dentro perché "non vuoi essere un parassita". Sarebbe il caso davvero che tu ci riflettessi un po'.

Facciamo un bel paradosso, ora. Mettiamo che i tre operai di Melfi, oggi, si fossero presentati sì ai cancelli della fabbrica, ma strombazzando con le macchine per la gioia e agitando festoni, trombette e putipù per aver fregato l'Azienda a quel modo. Liberi di non dover più faticare, e pagati: c'è modo più intrinsecamente onesto e autenticamente umano di "guadagnarsi da vivere", posto che la loro bella fetta di vita alla produzione l'hanno già ampiamente data? Scesi dalle macchine, avrebbero magari potuto chiedere ugualmente la solidarietà dei colleghi, ma in modo simpaticamente e tremendamente opposto: invitando anche loro a poter finalmente usufruire del medesimo trattamento. Essere pagati regolarmente per non entrare in fabbrica. Svuotargliela stipendiatamente, quella loro fabbrica di merda. Siamo sgraditi all'Azienda? Chi, noi? No no, è l'Azienda che è sgradita a noi. Ci venga lei con gli ufficiali giudiziari a cercare di farci rientrare, se proprio vuole. Noi ce ne stiamo belli fuori a goderci il sole, di litri di sangue per fare componenti del cazzo ne abbiamo versati già troppi.

Allora sì che sarebbe un bel bailamme. Altro che pomiglianidarchi, altro che "accordi", altro che sindacati da fare oramai schifo al maiale. Ma è oramai talmente malsana l'impregnazione del "dovere" e della "produzione", che principalmente chi lavora non si accorge che è tutto quanto inutile. Produzione, industria, "settori primari" e quant'altro sono condannati. Non sono settori redditizi. I soli settori veramente redditizi sono la burocrazia e la produzione di beni inutili, di "lusso", di consumo indotto. Da qui il parassitismo del lavoro, e di tutta la "civiltà" -completa di ideologie, dèi, inni e ammennicoli- che su di esso si basa.

La dichiarazione degli operai di Melfi, e lo dico senza nessuna intenzione di offendere bensì soltanto di constatare, somiglia in tutto e per tutto a una droga. Ma sarebbe una droga comprensibile, ancorché ugualmente dannosa, se si fosse di fronte ad un licenziamento conclamato, come l'AIDS. Quello per cui il salario da schiavo garantisce la regolarità dell'approvvigionamento per sé e per la minigalera che uno ha formato per sé e per altri (si chiama famiglia, da un termine latino che significa originariamente, giustappunto, "insieme dei servi di casa"), e la cui interruzione provoca, esattamente come la droga, una crisi d'astinenza con la relativa confusione, panico, disperazione. Qui siamo di fronte al vero paradosso, quello riportato dalla cronaca: il salario non viene meno, ma i salariati intendono continuare a suicidarsi quotidianamente invece di invitare, istigare, sobillare gli altri a godere finalmente dello stesso trattamento. Per rivendicare il loro diritto a farsi fuori da soli, leso dall'Azienda, una volta che il tribunale lo ha sancito con un editto mettono in mezzo uscieri e gendarmi. La menzogna del "lavoro necessario" raggiunge qui la sua sublimazione: è la più lenta, e quindi la più rassicurante, maniera di farla finita con la vita.

Abbiamo visto oggi che all'Azienda non interessa più neanche "sfruttare". Il capitale cerca soltanto nuovi fallimenti per investirsi, mentre chi afferma di difendere gli "interessi dei lavoratori" studia maniere sempre più ipocrite quanto stupide di omologarsi in tutto e per tutto al capitale. Non gliene importa, però, di tre lavoratori. Gliene importerebbe di tremila, di trentamila, di trecentomila, di tre milioni. Gliene importerebbe di gente che non intende più morire giorno dopo giorno, e morire per niente.

In conclusione, si capisce ancora meglio perché il titolo che ho dato a questo post non sottintenda in realtà alcun consiglio. Tutto, in fondo, va come deve andare. Prima o poi i tre operai, compreso quello che nella foto indossa la maglietta "orgogliosa", troveranno il modo di rientrare in fabbrica. Magari con l'intercessione accorata di qualche vescovo, perché no; all'Azienda-Dio interessa sempre salvaguardare l'abbrutimento degli abbrutiti.

sabato 21 agosto 2010

'Εκβλόγγηθι Σεαυτόν Tiberio Network


Oristano 1929.

Ecco, sì, questa è la Sardegna, e anche tutte le isole e tutte le Rome e tutti i soliti ignoti e tutti i ferribbotti e tutti i manovali e tutto.

Ciao Tiberio, cazzo. Pasta e ceci per tutti, ora.

venerdì 20 agosto 2010

Contro il terrorismo

"Nell'onnipotenza della loro disumanità, gli Stati del passato hanno generato eroi che, osando levarsi soli contro il Leviatano, si aureolavano, come di una luce nera, dello splendore di un'umanità oppressa.

Cœurderoy, Ravachol, Henry, Vaillant, Caserio, Bonnot, Soudy, Raymond la Scienza, Libertad, Mécislas Charrier, Pauwels, Marius Jacob (che non ha mai ucciso nessuno), Sabaté, Capdevila e tanti altri, mi sono spogliato dell'ammirazione che provavo per voi e il mio affetto ne è stato rafforzato, perché percepisco quanto allora fosse in gioco la semplice salvaguardia di una vita nel respingere in senso opposto il coltello che vi veniva puntato alla gola.

Non è più vero, oggi, nel declino precipitoso di ogni forma di autorità, che il peso della servitù e dell'avvilimento presti ai soprassalti della vita le armi della morte. Per contro, vedo a qual punto il riflesso suicida ed il dovere di perire per qualche causa conferiscano nuovi crediti ad uno Stato sempre più screditato e ridorino il blasone sbiadito del potere. Basterebbe del resto esaminare a che punto il terrorismo abbia raccolto sulla punta del fucile la stupidità delle ultime ideologie per riconoscere con che cosa si ha a che fare. Sessismo, razzismo, marxismo, settarismo, nazionalismo, misticismo, autoritarismo, affarismo offrono un discreto riflesso di ciò che resta in scena nel teatro politico, basta fischiettarne l'aria ai babbei perché gli istrioni dell'ordine ritrovino una parvenza di convinzione.

Lo Stato europeo ha già la disgrazia di avere sul gobbo un esercito che l'assenza di guerra e di sommossa condanna alla disoccupazione; che se ne farebbe della sua giustizia, della sua magistratura, della sua polizia, della sua burocrazia, se venisse meno il terrorismo politico e il delitto comune?

La repressione si è sempre nutrita dell'inclinazione comune a reprimersi, che fa la forza dei governi. Ed ecco che al momento in cui la quotazione del senso di colpa è in ribasso, alcuni attivisti suicidi tirano fuori dalla sua letargia un sistema di giudizio universale dove ci si uccide uccidendo gli altri. Cui prodest?

Buttar giù ciò che crolla da slo equivale a offrire alla propria agonia un letto in mezzo alla rovine. Che i morti facciano festa con i morti nello stess culto della carogna, in questo rifiuto della vita che è lo spirito di tutte le religioni."

Raoul Vaneigem
Ai Viventi, sulla Morte che li governa
e sull'opportunità di disfarsene


Contro l'antiterrorismo

"Esiste una condanna del terrorismo altrettanto odiosa del terrorismo stesso. Non incrimino qui il cinismo ordinario dello Stato che predica la pace e vende armi, quando non assassina un liceale in nome della sicurezza e dell'ordine pubblico. I suoi sbirri sono troppo istruiti sulla violenza che applicano per indignarsi sinceramente che un killer, benemerito dell'esercito, abbatta un generale il cui mestiere, dopotutto, consiste nel massacrare con un rischio calcolato di rappresaglie.

No, mi riferisco alla riprovazione della maggioranza in ciò che essa ha di ipocrita e contorto. Perché, alla fine, se bisogna condannare, non si capisce bene perché l'obbrobrio non inglobi insieme i terroristi privati e il terrorismo di Stato che li produce per effetto di concorrenza.

In nome di che cosa potremmo rifiutare i diritti che lo Stato si arroga sul cittadino -diritto di patibolo, di prigione, di multa, di registrazione, di sequestro, di controllo, di pignoramento, di retribuzione- a questi Stati in embrione che sono le lobbies della droga, i gruppi di pressione, le milizie private, la mafia, le fazioni sedicenti rivoluzionarie, le sezioni di assalto terroriste, gli affaristi individuali del crimine e del risentimento? In nome della protezione che lo Stato accorda in cambio? Purtroppo la protezione è lo stesso prodotto offerto in vendita dai concorrenti, e il loro ricatto nella maggior parte dei casi non è che uno svantaggio che si aggiunge illegalmente al ricatto praticato legalmente dallo Stato.

Non mi interessa frequentare ambienti più preparati a sventrarsi che a dare un soffio di vita alle città e alle foreste. La questione, tuttavia, merita di essere posta. Chi sono questi spiriti buoni che esecrano i bombaroli e gli ideologi del grilletto? Il più delle volte sono terroristi in camera da letto e in famiglia, portatori di morte all'usura, seminatori di paura, ricattatori che accordano e rifiutano il loro affetto per ottenerne potere e soffocare le velleità di indipendenza dei loro intimi. Questa gente, sotto i colori dell'umanesimo, è intagliata nella stessa vena caratteriale dei malfattori del potere illegale."

Raoul Vaneigem
Ai Viventi, sulla Morte che li governa
e sull'opportunità di disfarsene.

giovedì 19 agosto 2010

Nel frattempo


Nel frattempo, mentre crepava uno stronzo di politicante, le donne continuavano ad essere ammazzate, picchiate, violentate. Come ampiamente previsto, l'indignazione mediatica per il femminicidio è durata lo spazio di tre giorni; giusto il tempo di qualche copia in più e di qualche chiacchiera sotto l'ombrellone tra un Balotelli e una Lady Gaga. Oggi, che grazie a Eugenio Hárhvítr Scalfari abbiamo persino appreso quant'era depresso Cossiga, sono state uccise un paio di donne. La cosa ha cessato rapidamente di fare notizia, e non c'è assolutamente da stupirsene. Per questo ce l'hanno così tanto coi blog e con chi li tiene; un blogger non deve vendere, non obbedisce a un regime concorrenziale, e se ne sta magari alle due e mezzo di mattina a pigiare sulla tastiera perché obbedisce soltanto alla sua coscienza di essere umano e di cittadino. Parola disusata, questa. Parola disprezzata. Parola pericolosa. Fa emergere tutt'altro quadro delle situazioni. C'è Minzolini che mostra della sceltissima gente comune che va a scordogliacchiare per Cossiga (e per farsi riprendere dal TG1 delle 20), e ci sono 9500 blog dove invece ricompaiono nomi come Francesco Lorusso e Giorgiana Masi. La quale, vorrei ricordarlo, era una militante femminista. Mi sono sorpreso, in questi giorni, a pensarla ancora viva; avrebbe avuto 52 anni. Nessuno può dire che cosa avrebbe fatto nella sua vita, ma la avrebbe comunque fatta.

Scalfari Eugenio è stato tanto toccato dalla depressione di Cossiga. Con la massima indifferenza arriva una notizia da un paese vicino a Reggio Emilia. Un'anziana coppia, 71 anni lei, 77 lui. Una casa, un orto. Cose comuni, normali. Una vicina si reca da loro per chiedere se può cogliere qualche ortaggio: altro gesto normale, tranquillo. Trova lei che pende, impiccata con un cavo elettrico, ai sostegni delle tende della sala da pranzo; il marito è poco più in là, morto per terra. Lei gli ha fatto un'iniezione letale. Casa pignorata. Debiti con una banca (di solito si dice sempre "con le banche", con un errato plurale generico; ma non bisognerebbe mai scordare che usualmente la banca con cui si ha un debito è una sola, magari proprio quella che sugli autobus e sui cartelloni fa quelle belle pubblicità con la famiglia sorridente, con la sicurezza, con il conto zero-interessi zero-problemi zero, con i pacchetti investimento). Tutto già pubblicato. Casa già all'asta per una cifra di merda, 129.000 euro a saldo del debito: poi raus. Fuori. Vendita giudiziaria. Tutta una vita al macero; e magari, caro signore che ora porti il mazzolin di fiori a Cossiga per essere intervistato dal tiggì delle venti, in qualche banchetta te lo stanno preparando a te il funerale. E non verrà nessun telegiornale.

Speculatori, aguzzini, disperazione, miseria, fine, vecchiaia, precariato, disoccupazione, assenza di qualsiasi futuro, baratro; scrivono uccide sui pacchetti di sigarette e si preoccupano tanto della nostra salute, quando tale dicitura andrebbe apposta all'ingresso di qualsiasi banca. Una banca è quella cosa che può essere tenuta da uno come Denis Verdini, sarebbe bene tenerlo sempre a mente. Una banca è quella cosa che Roberto Calvi, Michele Sindona, monsignor Marcinkus, eccetera. Ma non solo. Una banca è anche il gentilissimo funzionario che ti blandisce finché sei solvente, e poi con la stessa gentilezza ti ammazza e se ne torna a casa. Siamo soltanto dei numeri nelle loro mani. La nostra vita è in mano loro. Immaginatevi allora, sì, di entrare la mattina a un qualsiasi sportello e leggere la verità: un cartellone con le diciture di legge "Il sistema bancario uccide", oppure "Donna incinta, il mutuo a tasso variabile può nuocere gravemente al tuo bambino", "Il tasso di interesse invecchia la pelle". Io ci metterei anche qualcosa di più esplicito e ad personam, tipo: "Il governatore Draghi danneggia gravemente te e chi ti sta intorno", oppure "Far saltare in aria la tua banca riduce il rischio di suicidio". E, mi raccomando, falla saltare in aria con tutti i suoi burocrati dentro. Non avere nessuna pietà per loro, perché al momento opportuno loro non ne avranno nessuna per te.


mercoledì 18 agosto 2010

La "N" maiuscola


Come quasi sempre mi accade, ho sbagliato ogni cosa. Sbagliatori si nasce e io, modestamente, lo nacqui.

Ieri sera, addirittura, ho comprato due bottiglie di spumante per andare a festeggiare. Ma per carità. Ma quale festa. Chi ieri sera, come me, ha creduto che se ne fosse andato per sempre un farabutto, un assassino e un criminale, e che queste cose fossero condivisibili alla luce dei fatti, non ha veramente capito niente. Invece se ne è andato il Nemico con la N maiuscola. Basta così, sennò poi arrivano i blogger e mi dicono che io ce l'ho sempre con tutto e con tutti. Evidentemente non ho capito la Tempra dello Statista; al massimo potrò capire la Regata dell'Amministratore Condominiale, e male pure quella.

Dappertutto un fiorire di omaggi al Nemico Morto (N e M maiuscole, rigorosamente). Dappertutto intelligenti analisi. Dopo aver letto quella di infoaut.org ho percepito tutta la mia desolante inadeguatezza. Forse anch'io faccio parte della sinistra oramai da tempo votata alla sconfitta e al piagnisteo, dato che ho lamentato i lati oscuri da grande repressore. Accidenti, mi sono limitato a quelli. È perché sono limitato io stesso. Non credevo che, con uno come Cossiga, bisognasse inquadrare meglio una figura di politico; mi sembrava sufficientemente inquadrata. No. Errore. Per essere di sinistra votata alla vittoria bisogna scegliersi bene i propri nemici; lo diceva Oscar Wilde, e se lo diceva Oscar Wilde sarà bene che mi ritiri in buon ordine.

Anzi, prima di ritirarmi bisogna che faccia ammenda e che mi riabiliti un po' dopo questo errore marchiano che ho commesso; fui, ohimé, irrispettoso, ma peccai non per malizia. So che questa non è una scusante, ed appunto per questo intendo qui rendere omaggio a tutta una serie di altri Nemici con la N maiuscola, che si sono posti come tali con altrettanta se non con addirittura maggiore chiarezza di Cossiga. Come dice sempre l'articolista di infoaut.org, ovviamente non dimentico le loro responsabilità; ma occorre sempre collocarne la figura e l'operato nel posto che meritano come Nemici. Con la N maiuscola, va da sé.

Rendo quindi omaggio a Benito Mussolini, il quale non solo non fece mai abiura delle sue scelte politiche (a parte qualcosina in gioventù) ma seppe anche assumersi le proprie responsabilità, specialmente il 3 gennaio 1925 col "discorso dei Manipoli", instaurando la dittatura in Italia. Un esempio di fisionomia politica di "uomo di stato". Anche per Mussolini, di fronte alla miserevole sinistra senza storia, appartenenza e radici, viene spontaneo chiedersi quale sarebbe stato il suo comportamento durante il G8 di Genova. Per non parlare dei suoi atti che denotano estrema lucidità politica. Addio, Nemico.

E perché, allora, non rendere omaggio anche a Fernando Tambroni? La sua lucidità politica era estrema, così come non è in dubbio la sua chiarezza di Nemico. Lo stesso omaggio che, in questi momenti in cui regna il Rispetto, dovrebbe essere tributato a Mario Scelba. No, certo, non dimentichiamo che è stato l'uomo simbolo della repressione poliziesca negli anni '50 come Cossiga lo è stato negli anni '70; ma è stato anche colui che, riorganizzando le forze di polizia, ha salvaguardato lo stato democratico dai vari sovversivismi dell'epoca. La legge che vieta l'apologia del fascismo e del regime fascista (n° 143 del 23 giugno 1952) fu concepita e promulgata proprio da Scelba, e reca tuttora il suo nome. Addio, Nemici.

Ma sì, voglio proprio rendere omaggio, tanto per spostarmi un attimo dall'Italia, anche a Francisco Franco y Bahamonde. Poiché tra i meriti di Cossiga, come ci viene ricordato, si annovera la non fraintendibile brutalità che ha funto da monito a chi pensava che la rivoluzione fosse un pranzo di gala, si vorrà pur riconoscere la stessa qualifica di Nemico a colui che ha messo di fronte a chi pensava che la rivoluzione fosse una scampagnata la divisione Brunete, los moros que trajo Franco, l'aviazione hitleriana e tutto il resto. Si dice, sempre di Cossiga, che egli spiegò che non poteva darsi nessuna trattativa con i "terroristi" a meno di aprire, nell'instabile Italia di quegli anni, processi simili alla questione irlandese o basca. Beh, con gli irlandesi Franco non ci ebbe sicuramente a che fare, ma spero che sarà riconosciuta anche dalla sinistra votata alla sconfitta e al piagnisteo l'estrema lucidità e chiarezza con cui trattò la questione basca. Sono peraltro certo che un Francisco Cossigas sarebbe stato un ottimo ministro per gli interni per il Caudillo, e che qualche garrote vil lo avrebbe distribuito volentieri anche lui. Adios, Nemigo.

Spero con questo di aver fatto il dovuto atto di contrizione. Cercherò di stare più attento in futuro, a cominciare dalla presumibile dipartita, a non lungo termine, di Giulio Andreotti. Mi guarderò bene dal festeggiare. Scriverò impeccabili analisi sulla sua figura, che si distingueranno dalla rozzezza di un Venturi che osa concentrarsi soltanto su piccole cose che non dimentichiamo. Non parliamo, poi, di quando morirà Berlusconi. Berlusconi è un genio. Ci sarà gente che, tra una sconfitta e un piagnisteo, scenderà per le strada coi tamburi e le vuvuzelas; ma si può stare ben sicuri che anche per lui ci sarà chi gli riconoscerà lo status di Nemico Vero. Saranno passati gli anni, e ci sarà pur sempre chi rimpiangerà la dignità di nemici che ci ha riconosciuto quando ci faceva massacrare a Genova. Anche per Berlusconi (e per Fini) siamo esistiti, solo che avevamo sbagliato clamorosamente decennio; ci fosse stato Cossiga in cabina di regia nel luglio 2001! Lui mica li faceva ammazzare, i manifestanti. Lui era un Uomo di Stato. Lui era Lucido. Lui non era mica una Mezzasega. Lui è utile per la Prassi Rivoluzionaria. Lui deve essere salutato come si saluta un Nemico Vero. E questo è il mio umile e pentito saluto:


Ma vaffanculo te, chi t'ha cacato e chi ti saluta.




martedì 17 agosto 2010

I piatti della bilancia


A notizia calda, è stato il momento del nunc est bibendum. Ora, stante anche la lettura di un dato articolo, è il momento -almeno per me- di ragionare un po'.

L'articolo cui mi riferisco proviene da Insorgenze. È, in realtà, una lettera che Francesco Cossiga scrisse il 27 settembre 2002 a Paolo Persichetti. Consiglio di leggerla, assieme all'intervista allo stesso Persichetti , del 25 settembre 2002 e riportata sempre da Insorgenze, che diede lo spunto a Cossiga per la sua lettera. Una cosa, senz'altro da mettere sul piatto della bilancia per formarsi un giudizio un po' più preciso.

Paolo Persichetti è in galera, anche se scrive per Liberazione. A Francesco Cossiga è sempre piaciuto ostentare lucidità e comprensione verso una certa stagione, senza peraltro aver contribuito minimamente a chiuderla. La sua lettera a Persichetti gira da otto anni per la Rete, e non soltanto Persichetti è ancora in carcere, ma la vendetta continua è ancora in corso e non se ne vede la fine. La lucidità mostrata da Cossiga è sempre stata espressa in termini ben noti (anche riguardo a Cesare Battisti): secondo l'appena defunto Presidente Emerito, in Italia, i "crimini dei terroristi degli anni '70 non erano crimini comuni, ma politici", e "continuiamo a rifiutarci di discutere sulle vere cause del terrorismo per non arrivare a dire che i terroristi erano dei marxisti-leninisti che provenivano dal Pci..." Posizioni ben note, fin dai tempi in cui, ancora da Presidente in carica, Cossiga si era adoperato per la concessione della grazia a Renato Curcio. Naturalmente, sarà difficile che nell'unanime cordoglio di queste ore cose del genere risaltino fuori; ma Cossiga, a mio parere, non merita da parte di un Persichetti o di chiunque altro abbia preso parte diretta a quella stagione, alcuna speciale considerazione anche se è comprensibile che gliene sia stata data. Il suo parteggiare per un'amnistia che chiudesse quella stagione non lo fa diventare meno assassino di stato. Leggendo bene ciò che Cossiga ha sempre propugnato, lo fa apparire perfettamente organico al suo "teorema": quello che l'Italia doveva essere difesa con ogni mezzo, legale ed illegale, dal "pericolo rosso". Il fatto che Cossiga si sia mostrato "lucido" e magnanimo con gli ex brigatisti gli è servito sempre per ribadire e giustificare le sue azioni e la sua repressione. Una volta ottenuto ciò, per Cossiga -che non è stato affatto un "pazzo" come svariate volte ho sentito dire anche con i miei orecchi- è stato possibile anche giocherellare a fare il "lucido" e far credere di essere stato il solo o quasi a "dire la verità". La verità è invece che anche queste sue prese di posizioni sono state una parte del suo disegno politico. Spegnere la fiamma prima che divampi l'incendio, come si legge nella celebre intervista del 23 ottobre 2008. Un'intervista che è stata troppo frettolosamente liquidata, da parecchi, come "delirio senile" o roba del genere. Tutt'altro. In quell'intervista è contenuto tutto il seme del pensiero e dell'azione di Francesco Cossiga. Sarebbe opportuno tenerne conto invece di continuare a riferirsi all'ex Presidente come a un uomo libero che diceva la verità. Per Cossiga, il "terrorismo" era nato dal movimento studentesco e dal sindacato, e quindi ogni metodo era lecito per contrastare e reprimere.

Tutta la storia politica di Francesco Cossiga è improntata a questo. Da Gladio agli M113 mandati a uccidere gli studenti l'11 maggio 1977. Dai "Comitati di Crisi" da lui formati durante il rapimento di Moro, di cui faceva parte Licio Gelli in persona al suo "indulto personale", quando avvertì il collega di partito Donat Cattin che suo figlio Marco era indagato e prossimo all'arresto per reati di terrorismo, suggerendone l'espatrio. Accusa dalla quale Cossiga fu poi prosciolto grazie alle dichiarazioni di un tipino attendibile come Roberto Sandalo.

È necessario mettere anche tutto questo sul piatto della bilancia; e vedere dove essa penda.

Anche se volessi, non avrei proprio nessun rimprovero da rivolgere al blogger di Insorgenze, che sia o meno lo stesso Persichetti; questo non vuole essere un post di critica, ma di fatti. Sostengo però che la verità di Cossiga, sempre che ci sia stata, non ha avuto in realtà nessun altro scopo che quello di portare acqua al mulino -anche storico- della repressione poliziesca e dei poteri occulti. Cossiga è stato protagonista a pieno titolo di quel sistema e lo ha sempre rivendicato chiaramente; permettendosi persino lo scherno, verso i vinti, di apparire come una sorta di ancora di salvezza. Anche e soprattutto per questo, stasera si beve. Si deve bere perché è morto, purtroppo di morte naturale, un criminale della peggiore specie, e un criminale di stato. Perché è morto un pezzo di merda, e la morte dei pezzi di merda -comunque avvenga- significa che sulla Terra c'è un pezzo di merda in meno; con la speranza che, su qualche strada delle galassie, ci sia una ragazza che lo vede arrivare tronfio e con la feluca, e che gli faccia uno sgambetto da fargli prendere una musata in terra. E gli dica, poi: Vieni un po' qui, cicciobello, abbbbiammmo le arrrmmmi, ché ora si ragiona un po'.

Stanlio & Cordollio


Scusate, ci volevo mettere un Gladio che ballava ma non ho trovato il gif animato.

lunedì 16 agosto 2010

Við erum skítsama um Ísland (*)


16 agosto 2010. Bivio Luciana-Vignano, S. Casciano in Val di Pesa. Cartelli stradali.
16. ágúst 2010. Vegamót Lusíanu-Víníansbæjar, Hl. Kassían á Pesárdal. Vegamerki.

La Torre di Luciana.
Lusíanuturninn.

La strada.
Vegurinn.


Il pozzo.
Lindin.

Alberi e cipresso nel vento.
Tré og grátviður í vindinum.

Tabernacolo.
Helgiskrín.

La torre e i cipressi gemelli.
Lusíanuturninn og tvíburagrátviðarnir.

Finestra.
Glugga.


La torre e l'osservatorio. Cipressi.
Turninn og stjörnuathugunarstöðin. Grátviðar.


Dedicato a Fulvio: lui sa perché. E, perfidamente, anche al colonnello Kurtz, con amicizia.
A 23 km da casa mia.
Tileinkað Fúlvíusi: hann veit hvers vegna. Og, svíksamlega, Ofursta Kurtz líka, með vinskap.
23 km frá heimi.

*

(*) "A noi l'Islanda ci fa una sega" (traduzione piuttosto libera)


domenica 15 agosto 2010

Effetti della crisi


Dunque, vediamo un po'.

Tu vuoi mettere una bomba, organizzare un attentato, far saltare in aria qualcosa, e per di più in un luogo altamente simbolico. O perdiana, che non si sarà liberi nemmeno d'organizzare un po' di bailamme in questo noiosissimo giorno di Ferragosto...?!?

Naturalmente, un po' prima, telefoni prennunciando tutto quanto, e fissando persino l'ora di scadenza; come se Osama avesse, che so io, telefonato un'ora prima: Oh, guardate che sto per spedirvi un par d'aeroplani in mezzo alle torri gemelle, eh!....; oppure come se lo stato italiano avesse telefonato a se stesso un'ora prima delle bombe sui treni o alla stazione. Il problema è che quando vogliono fare una cosa sul serio, stanno dimoltone zitti. Tremendamente zitti.

Diversamente, vogliono pigliare per il culo. Esattamente come quando, alle medie o al liceo, si telefonava per la "bomba" a scuola per evitare il compito in classe o l'interrogazione difficile. E naturalmente doveva partire immediatamente la prassi di sicurezza: evacuaziò, evacuaziò!

Così, oggi, per la seconda volta tra le altre cose, lo scherzetto della bomba lo hanno giocato alla Madonna di Lourdes, e non è una scuolina media: 30.000 pellegrini evacuati. Chiaro che tutti sapevano che si trattava di una boiata, anche se tutta la trafila è dovuta partire lo stesso. Probabilmente con buona pace di qualche politicante e di qualche pennaiolo che sbaverebbero perché almeno una bombetta carta o un raudo fischione scoppiassero a Lourdes o in qualsiasi altro posto del genere, per sostituire le piste di cocaina che si fanno ogni giorno con le piste islamiche.

Il risultato è che oggi, a Lourdes, la Madonna non è stata assunta. Effetti perniciosi della crisi. Si dovrà accontentare di un Co. Co. Co. o di un contratto a progetto. Pure lei scopre il precariato. Vale a dire le bombe, vere, che ci lanciano addosso tutti i giorni distruggendo le nostre vite.

giovedì 12 agosto 2010

Svegliati città (da una notte tragica)


Quant'è bello andarsene per Firenze di primo mattino, d'agosto, nel deserto o quasi, con un filo di sole che sembra accarezzare tutta la città; stanco, solo, senza pensieri, un sorriso quasi soave, e lo stomaco che brontola. Growl. C'è poco da fare; siamo fatti di carne, ohimé, duro e pesante fardello. Nel mio caso, poi, è particolarmente pesante; e, allora, bisogna che mi dedichi a cercare un bar aperto per fare colazione. Una colazione dopo una nottata in bianco non è uno scherzetto; mi è capitato di lasciarci tranquillamente venti euro, e sono di quelli che esce tranquillamente dal locale senza nemmero salutare se vedo che la pasticceria dolce e salata non mi convince. Se mi convince, la colazione è abbinata invariabilmente allo studio degli umani del duemila e rotti; tanto arrivano, o sono già arrivati, con le loro camicine celesti, i pantaloni leggeri, e il gravame d'anni. Firenze è città di anziani, e gli anziani sono una cartina di tornasole di come vanno le cose in giro; se mi riesce d'impossessarmi per primo, tra una schiacchina e un tramezzino, del giornale del bar, è fatta. Così stamani, circa verso le otto e mezzo, diciamo dalle parti di San Frediano. Per chi non conoscesse Firenze, dico che San Frediano è come Trastevere a Roma; si può essere fiorentini di Coverciano o dell'Isolotto, e va bene, ma essere fiorentini di San Frediano è esserlo al quadrato.

Barrettino tranquillo, panini più che buoni, la spuma rossa non svanita (un miracolo!), e una bella copia della Repubblica su un tavolo. Mio dio, pure un bar di sinistra, senza quella solita, banale e trista Nazione o, peggio, col Giornale; eh si, anche nella "rossa" Firenze si cominciano a vedere bar con quella roba. Non c'è più religione, come dice sempre Paparàzzingher. Nel bar, oltre alla giovane barista, c'è anche il regolare omino con la camicetta celeste, i pantaloni leggeri di lino beige e un paio di espadrillas. Io ammiro senza riserve chi riesce a portare le espadrillas; sono le calzature che più mi fanno male, una tortura cinese. Particolare non insignificante, l'omino le porta coi calzini. Blé scuri. Chissà, forse sarà quello il segreto? Ma, per me, giuro che rimarrà tale.

Slurp. Già mi gira intorno, ansioso. Chi sarà quell'energumeno che ha osato entrare nel bar e fregargli il giornale? Oltretutto, vedo che l'omino non punta soltanto il giornale. Mi scruta. Sono un'entità aliena. Oltre ad essere grosso e a star mangiando tutto il bar, sono anche vestito strano; ed è una cosa che sfrutto al massimo grado. Non mi si dà bene l'età, poi; i vecchini non sanno se darmi del tu come a un ragazzo, o del lei come a un quarantasettenne. Sapientemente, mi porto sulla cronaca cittadina; il vecchino standard può passare oltre sulla politica nazionale (a meno di non essere nel bar di una casa del popolo), sulle tragedie in Bangladesh, sulla guerra in Sàgrestan e sul passaggio di Kakà al Merdaos de Palmeiras, ma la cronaca di Firenze è il suo regno. Oggi, ad esempio, le locandine della Repubblica, giornale di sinistra, erano perfette. All'unisono quotidiano con i giornali, le nazioni, i liberi, i corrieri vecchi e nuovi e le unità. Paura. Terrore. Degrado. Allarme. In particolare, la Repubblica riportava di un episodio che, giustappunto, aveva provocato allarme in centro. Lo leggo avidamente. Impossibile che non sbotti, il vecchio espadrillato.

- Ma icché gli è successo co' i' bùsce in centro....?
(Cominciano sempre così, senza nemmeno un buongiorno; tanto si vede che è un giorno ottimo per uno che si sta mangiando la quarta schiaccina prosciutto e funghetti). Insomma, me la offre su un piatto d'argento.

- Bùsce? O icché c'è, i' presidente degli statuniti a Firenze...?
(Non importa se Bush non è più presidente; la cosa è insignificante ai fini del vetulus tabernarius Florentinus, nome scientifico del vecchino da bàrre).

- No...ma icché...'e lo dice la civetta (NB: locandina) della Repubbliha stamani...bùsce crea allarme in centro...o icché sarà...?

- Ah!!! I puscer ! Avevo capito male!

- Quelli! O icché gli ènno 'sti bùsce...?

- So' quelli che spacciano la droga...con la "p", pùsce...

(Parte l'ovvia salva di civorrebbelapenadimorte, tuttiaimmuro, elosapreiohomeffàre, ingaleraebuttàvialechiavi eccetera, eccetera, eccetera; tutto previsto, tutto calcolato, e il resto a venire non mi è sembrato uno spreco di fiato a differenza dell'Aviatore Irlandese di quel fascistone di merda di William Butler Yeats). Il vecchino riprende:

- Ma icché spacciano droga in centro...? 'Un si vive più! S'ha paura anche a sortì di hasa! E gli ha ragione....

(Non lo lascio finire. Mi alzo, e quando mi alzo, perlomeno davanti a un vecchino di un metro e sessanta con le espadrillas, fa sempre un certo effetto.)

- Ma scusi, capo, ma lei di casa o 'unn'è sortito pe' venì a'i bàrre...?

- Sì...ma di notte....'e rubano...ora c'è anche i bùsce...io ciò paura a sortì di hasa! O 'unno vede icché si legge su' giornali...? Ogni giorno 'e ce n'è una nova!

Ci siamo. Non dico che me la ero preparata, questa no; ma era una cosa che cercavo da tempo. Stamani, 12 agosto 2010, finalmente il destino ha esaudito i miei desideri. Attacco frontale.

- Di notte? Eeeeehhh effettivamente cià ragione, sapesse....

- O lei che lavoro la fa...?

- Sono coordinatore extramandamentale del settore strategico KZ del 118. Io lo so cosa succede davvero di notte in questa città, altro che giornali...!

(Naturalmente non ha capito una sega della sfilata di panzane che gli ho detto, ma contenenti tre parole magiche di questi tempi: coordinatore, settore e strategico).

- Mi permetta di presentarmi, sono il dottor Romualdo Valentini (nome di fantasia) e sto rientrando a casa dal mio dovere.

(Gli stringo virilmente la mano. Si presenta come Francalanci Pierino -nome anch'esso di fantasia- e comincia a guardarmi come Dio. Lo invito a sedersi e gli porgo il giornale di sinistra).

- Certo...madonna...lei si che ne deve vedè di hose n'i' su' lavoro....

- Non immagina nemmeno quante. Se andassero tutte sui giornali, la mattina, altro che bùsce e allarme in centro. Lei non si può figurare. Nessuno può. È un'emergenza continua. Non si ripara più, mi creda. Guardi qua (e gli mostro un porrone sulla mano destra che ho fin dalla nascita o quasi): me lo ha fatto ieri notte un birmano magrebino in via dei Conciatori mentre stava tentando di dare fuoco a un turista danese....ma non immagina....

- E su i' giornale 'unni scrìvano nulla ! Bisognerebbe che lei ciandèsse....

- Ma scherza? Se ogni mattina andassi per le redazioni a raccontare quel che ho visto, chiamerebbero l'esercito. Ma se lo immagina che il turista danese prima era stato... (sussurro, pissi, pissi, bao, bao). E stanotte poi? Un gruppo di schinèzz...

- O icché gli ènno gli schinèzz...?

- So' parenti de' bùsce ma co i' capo rasato...Insomma, un gruppo di schinèzz di Rignano sull'Arno è sceso in città a dà fòho alle macchine...in una c'era una coppia di fidanzati che...

- Oddio! O icché gli hanno fatto...?

(Mi metto sapientemente le mani nei capelli. La giovane barista, che è pur mediamente intelligente, ha capito ogni cosa e si volta dall'altra parte per sbellicarsi dal ridere).

- Gli avesse visto. Lei forse si salva...ma lui...poverino...ho dovuto coordinare sei ambulanze co i' medihabbòrdo e anche tre coronariche perché alla gente alla finestra gli erano presi una dozzina d'infarti...un macello! E du' ore dopo verso le quattro? Un incidente a Porta a Prato con otto macchine coinvolte...tutti briachi!

- E lo sapevo! O come mai su i' giornale 'e un c'è...?

- Eh, lo so io! Sono arrivato a coordinare, e c'era il comandante dei vigili in persona e l'assessore Sgarbugliani...pezzi grossi....la Firenze bene.... (sussurro il nome di un coinvolto)

- Ecco perché ! Maledetti! Lei le sa 'ste hose ma gni tappano la bocca...!

- E cosa devo fare? Ho famiglia, tre figli....se rivelo quello che vedo ogni notte, sono finito. Mi raccomando, tutto quel che le ho detto deve restare fra noi!

(La barista è andata in bagno e presumo che stia pisciandosi addosso).

- E poi 'un si deve avé' paura....io d'ora in poi dopo le sette mi tappo in casa...!

- Fa bene, signor Francalanci (nome di fantasia). Questa città così bella è diventata un inferno, mi creda. I giornali non possono dire tutto. Ma siamo sull'orlo del baratro. La notte è un campo di battaglia e siamo in pochi, troppo pochi, a fronteggiare. Guardi cosa ci hanno dato in dotazione! (E tiro fuori la boccettina dell' "Olio del Legionario" che mi serve per l'ernia al disco.)

- O...o icché gli è...? Ma sarà mica....

- Sì. Ma possiamo usarlo solo...

- Madonna!

- Madonna sì. Ora mi spiace, signor Francalanci, ma devo andare a pagare e poi a riposare un poco...

- E ci credo...se lo merita! Grazie...ora sto più attento, madonna se sto attento! E gli è la fine! Poera la mi' Firenze...e gli è tutta colpa dei...........

(Non mi ricordo di chi era colpa, erano entrate altre due persone e la barista stava ricomponendosi. Diciotto euro e sessanta, caffè offerto gentilmente. Rimonto sulla mia auto di coordinatore settoriale, Ford Fiesta grigia del 1989, 270.000 km. Non credo che andrò più a fare colazione in quel bar. Ma di chi sarà stata la colpa? Dei negri? Degli zingari? Dei comunisti? Dei preti? Dei partiti? Dei mussurmàni? Degli ebrei? Dei sindacati? Dei venditori abusivi in San Lorenzo? Della profezia Maya? O di Scialpi? E la città risplende ignara e apparentemente serena dopo una notte tragica, preparandosi a viverne un'altra, angosciata per l'infortunio a Jovetic.)




mercoledì 11 agosto 2010

Lunga vita!


Dicono che, se si augura la morte a qualcuno, gli si allunga la vita.

Auguro quindi al "presidente emerito" Francesco Cossiga una vita lunghissima. Immensamente più lunga di quella, che so io, di Giorgiana Masi.


domenica 8 agosto 2010

Bladi fràidei


Venerdì scorso, una giornata di sangue. Anzi, tutta una settimana di sangue. Non mi si fraintenda; è che da lunedì a venerdì scorso, alle undici in punto, ero di turno sangue. Si tratta di prendere una macchina veloce (nel mio caso particolare, una scassatissima Alfa 145 con 160.000 km sul groppone, dotata di attacchi speciali e di un meraviglioso pulsante di attivazione a penzoloni fra due fili elettrici, nel portabagagli), recarsi entro le 11.45 al Centro Emotrasfusionale di un dato ospedale cittadino e portare le provette, sistemate in un frigorifero pesantissimo, alle NAT di un altro ospedale, per la validazione quotidiana. Le NAT e l'altro ospedale si trovano praticamente agli antipodi; e cominciano i cosiddetti Diciotto minuti della morte. Entro 18 minuti bisogna essere dall'altra parte della città. Non che mi faccia un eccessivo piacere dovermi trasformare in una specie di Schumacher de' noantri, per quei 18 minuti; lo devo fare. Per poi magari scoprire, a volte, che all'ospedale di partenza hanno messo male in carica il frigorifero, e che tutte le provette devono essere buttate via. Succede. "Trasporto non conforme", un istogramma della temperatura del frigo dotato di microchip, e via.

Venerdì scorso, però, al Centro Trasfusionale dell'ospedale di partenza sono stato accolto da una cosa decisamente inaspettata. Di solito parcheggio la macchina davanti all'ingresso, e entro dentro a scrivere la documentazione quotidiana per la Regione. Tutta una specie di rituale: dopo un po' arrivano le provette da un altro ospedale della provincia, viene sistemato tutto nel frigo e parto per i Diciotto minuti passati a 90 all'ora in città. Venerdì, mentre scrivevo i fogli, mi è parso di sentire un miao.

Mi sono voltato, un po' stupito, e ho constatato che il suono proveniva regolarmente da un emettitore di miao, vale a dire da un gattino di pochi mesi, bianco e nero, che mi stava guardando con l'aria di dirmi: Ehi, ma ti levi dalla mia seggiola?... Mentre il micio si faceva accarezzare, ho sentito una delle ragazze del Centro Emotrasfusionale gridare: Piastrinaaaaa...! La ragazza è entrata nella stanza frigoriferi e mi ha trovato con la penna in mano, i fogli della Regione sparsi per terra e il micio che mi camminava addosso; e io mi ci facevo pure camminare, senza proprio nessun problema; anche emettendo io stesso dei miagolii, ché insomma, come dire, la scena non era propriamente quella che uno si immaginerebbe tra centrifughe, sacche di plasma e altre strane apparecchiature che non sto a dirvi (anche perché nemmeno io so a cosa servano esattamente). La ragazza si è messa a ridere, ha prelevato il micio e ho raccolto i fogli; senza neppure che glielo chiedessi, mi ha detto che in realtà è una gattina, che era comparsa da una decina di giorni e che era stata adottata dall'intero Centro Emotrasfusionale; e che, per sottolineare bene la cosa, le era stato solennemente imposto il nome di Piastrina.


Non ci crederete, ma venerdì il frigorifero con le provette mi è sembrato un po' meno pesante; poi mi sono accorto persino della ciotolina che le hanno approntato fuori dalla porta, in mezzo a taniche di acqua distillata, computer dismessi e scatoloni di emodeflussori. E così sono partito, i lampeggianti, la sirena, il frigorifero con le provette da analizzare per vedere se i donatori non abbiano certe altre bestioline nel sangue, e certi pensieri in testa che, pure loro, non sto a dirvi.

Effettuato il servizio con una cospicua dose di Piastrina in testa, me ne sono andato a mangiare. Siccome è là vicino, vado sovente a una trattoria popolare dove, per otto euro, ti viene ammannito un pranzo più che decente; perdipiù, trovandosi anch'egli nelle vicinanze, avevo fissato con un amico che fa l'autotrasportatore. Ci si mette a sedere, si ordina, si chiacchiera, e nel frattempo ecco i lavoratori che mangiano. È un posto, quello, dove va a mangiare la classe operaia che non si piega ai panini del bar; perché, ci diciamo sempre col mio amico, la classe operaia in fondo non si piega. Non facciamo, a dire il vero, grandi analisi. Non citiamo Mario Tronti o chi altro. Si mangiano gli spaghetti al sugo di cignale, si beve vino bianco freddo (e chi se ne frega degli accostamenti gastronomici) e ci si illude allegramente, peraltro non sapendo neppure più di che cosa ci si debba illudere. I lavoratori che mangiano sono d'ogni tipo e d'ogni paese; oramai ci si conosce un po' tutti. Il tenutario della trattoria, che è un furbacchione e un casinista della madonna, non nasconde per nulla le sue simpatie di destra; addirittura fa il tifo per la Lazio. Miao. Ecco, sì: miao. Stavo giusto raccontando al mio amico della gatta Piastrina, quando un giovane operaio edile al tavolo accanto, al massimo trent'anni di età, i pantaloni sporchi di vernice bianca e la maglietta intrisa del sudore di chi potrebbe anche cadere da un'impalcatura per il signor padrone, sbotta col collega che gli sta di fronte: Ma basta! O stai a vedere che alle prossime elezioni voto per Forza Nuova (tattarattààà!), così almeno ci levano di mezzo tutti 'sti sudicioni! Io e il mio amico, che siamo degli illusi attorno alla cinquantina d'anni (io di qua, lui di là), ci guardiamo, con le forchette per l'aria.

Il mio amico, che è più pronto di me, gli dice gentilmente: Ma guarda, che credi che eliminare i "sudicioni" risolva i tuoi problemi, che ti aumenti il salario, che ti faccia lavorare di meno, che ti dia condizioni migliori...? E quello: Ma chi se ne frega, intanto mi leva i sudicioni di mezzo! Stavo per dirgli che anche lui, in fondo, non era proprio così pulito; ma è un lavoratore, è un membro della classe operaia. Siccome poi mi stava salendo una prorompente voglia di rincappellargli sul capo il piatto di risotto alla pescatora, il mio amico mi ha detto che era ora di andare fuori a fumare una sigaretta. Ho convenuto che era meglio. E poi dicono che il fumo fa male. I sudicioni. Facile immaginarsi chi siano. Meglio andare a fumare e basta, magari ricominciando a pensare alla gatta Piastrina.

Ma poi, a che servirebbe incazzarsi. Tanto si sa benissimo tutto quanto. Lo si sa, però, generalmente per sentito dire; e ci si illude ancora, coccolando le proprie illusioni e i propri ricordi come si coccola una gattina comparsa all'improvviso dove meno te l'aspettavi. Sentirselo dire sul muso, è diverso. Si vede finalmente che cosa è successo. Si ascolta il presente; e non c'è proprio altro da fare. L'operaio è per Forza Nuova e non vuole i sudicioni. Quando gli avranno tolto di mezzo i sudicioni potrà volare felice da un'impalcatura. E se ci fossero stati dei simpatizzanti di Forza Nuova anche fra i morti della Thyssen Krupp? E se un sacco di altre cose che frullano nella testa? E i fascismi, e gli antifascismi? E le baggianate dei pontefici della teoria? E quello che continuava a sbraitare contro i sudicioni mentre si rientrava a mangiare il secondo, mica si può fumarsi un pacchetto intero di sigarette? E com'è, quello, fascista? E lo sfacelo che ti coglie? E cosa si fa? Che fare? Devo averla già sentita, quest'ultima frase. C'è qualcosa che non deve avere funzionato; e il sole d'agosto picchia e picchia.