venerdì 30 dicembre 2011

Bonanno a tutt* !


Che follia l'amore per il lavoro!

Che grande abilità scenica quella del capitale che ha saputo fare amare lo sfruttamento agli sfruttati, la corda agli impiccati e la catena agli schiavi. Questa idealizzazione del lavoro ha ucciso, fino ad oggi, la rivoluzione. Il movimento degli sfruttati è stato corrotto tramite l'immissione della morale borghese della produzione, cioè di qualcosa che non è solo estranea al movimento, ma gli è anche contraria. Non è un caso che la parte a corrompersi per prima sia stata quella sindacale, proprio perchè più vicina alla gestione dello spettacolo produttivo. All'etica produttiva bisogna contrapporre l'estetica del non lavoro. Alla soddisfazione dei bisogni spettacolari, imposti dalla società mercantile, bisogna contrapporre la soddisfazione dei bisogni naturali dell'uomo, rivalutati alla luce del bisogno primario ed essenziale: il bisogno di comunismo. La valutazione quantitativa della pressione che i bisogni esercitano sull'uomo, risulta, in questo modo, capovolta. Il bisogno di comunismo trasforma gli altri bisogni e la loro pressione sull'uomo. La miseria dell'uomo, oggetto di sfruttamento, è stata vista come la base del futuro riscatto. Il cristianesimo e i movimenti rivoluzionari si danno la mano attraverso la storia. Bisogna soffrire per conquistare il paradiso o per acquisire la coscienza di classe che porterà alla rivoluzione. Senza l'etica del lavoro, la nozione marxista di "proletariato" non avrebbe senso. Ma l'etica del lavoro è un prodotto del razionalismo borghese, lo stesso prodotto che ha consentito la conquista del potere da parte della borghesia. Il corporativismo risorge attraverso le maglie dell'internazionalismo proletario. Ognuno lotta all'interno del proprio settore. Al massimo stabilisce contatti (attraverso i sindacati) con i settori similari degli altri paesi. Alla monoliticità delle multinazionali si contrappone la monoliticità delle centrali sindacali internazionali. Facciamo la rivoluzione, ma salviamo la macchina, lo strumento di lavoro, l'oggetto mitico che riproduce la virtù storica della borghesia, diventata adesso patrimonio del proletariato. L'erede dei destini della rivoluzione è il soggetto destinato a diventare consumatore ed attore principale dello spettacolo futuro del capitale. La classe rivoluzionaria, idealizzata a livello di destinataria delle sorti dello scontro di classe, svanisce nell'idealismo della produzione. Quando gli sfruttati vengono rinchiusi all'interno di una classe, si sono già confermati tutti gli elementi dell'illusione spettacolare, gli stessi della classe borghese. Per sfuggire al progetto globalizzante del capitale, gli sfruttati hanno solo la strada che passa per il rifiuto del lavoro, della produzione, dell'economia politica. Ma il rifiuto del lavoro non deve essere confuso con la "mancanza di lavoro" in una società basata sul lavoro. L'emarginato cerca lavoro. Non lo trova. È spinto verso la ghettizzazione. E' criminalizzato. Tutto ciò rientra nella gestione complessiva dello spettacolo produttivo. Occorrono al capitale, sia i produttori sia i non garantiti. Solo che l'equilibrio è instabile. Le contraddizioni esplodono e procurano crisi di vario tipo, all'interno delle quali si gestisce l'intervento rivoluzionario. Quindi, il rifiuto del lavoro, la distruzione del lavoro, è l'affermazione del bisogno del non-lavoro. L'affermazione che l'uomo può autoprodursi e autoggettivarsi attraverso il non-lavoro, attraverso le sollecitazioni di vario genere che il bisogno dei non-lavoro gli procura. Vedendo il concetto di distruzione del lavoro dal punto di vista dell'etica del lavoro, si resta interdetti. Ma come? Tanta gente cerca lavoro, è disoccupata, e si parla di "distruzione del lavoro" ? Il fantasma luddista emerge a spaventare i rivoluzionari-che-si-sono-letti-tutti-i-classici. Lo schema dell'attacco frontale e quantitativo alle forze del capitale deve restare identico. Non importano i fallimenti e le sofferenze del passato, non importano le vergogne e i tradimenti. Ancora avanti, sostenuti dalla fede in in giorno migliore, ancora avanti! Per spaventare i proletari, e spingerli nell'atmosfera stagnante delle organizzazioni di classe (partiti, sindacati e movimenti reggicoda), basta far vedere in che cosa annega oggi il concetto di "tempo libero", di sospensione del lavoro. Lo spettacolo delle organizzazioni burocratiche del tempo libero è fatto apposta per deprimere le immaginazioni più fertili. Ma questo modo d'agire non è altro che copertura ideologica, uno degli strumenti della guerra totale che costituisce la base dello spettacolo complessivo. E' il bisogno di comunismo che trasforma tutto. Attraverso il bisogno di comunismo il bisogno del non-lavoro passa dal momento negativo (contrapposizione al lavoro), al momento positivo: disponibilità completa dell'individuo davanti a se stesso, possibilità totale di esprimersi liberamente, rottura di tutti gli schemi, anche di quelli considerati fondamentali e ineliminabili, come lo schema della produzione. Ma i rivoluzionari sono uomini ligi ed hanno paura di rompere tutti gli schemi, compreso quello della rivoluzione, se questo - in quanto schema - costituisce un ostacolo alla piena realizzazione di quanto il concetto promette. Hanno paura di trovarsi senz'arte nè parte. Avete mai conosciuto un rivoluzionario senza un progetto rivoluzionario? Un progetto ben definito e chiaramente esposto alle masse? Che razza di rivoluzionario è colui il quale pretende di distruggere lo schema, l'involucro, il fondamento della rivoluzione? Colpendo i concetti di quantificazione, di classe, di progetto, di schema, di missione storica, ed altre simili anticaglie, si corre il rischio di non avere nulla da fare, di essere obbligati ad agire, nella realtà, modestamente, come tutti gli altri, come milioni di altri, che la rivoluzione la costruiscono giorno per giorno, senza attendere il segno di una fatale scadenza. E per fare questo ci vuole coraggio. Con gli schemi e i giochetti quantitativi si è nel fittizio, cioè nel progetto illusorio della rivoluzione, ampliamento dello spettacolo del capitale; con l'abolizione dell'etica produttiva si entra direttamente nella realtà rivoluzionaria. Lo stesso parlare di queste cose è difficile. Perché non avrebbe senso parlarne attraverso le pagine di un trattato. Mancherebbe l'obiettivo, chi cercasse di ridurre questi problemi ad un'analisi completa e definitiva. La forma migliore sarebbe il discorso simpatico e leggero, capace di realizzare quella sottile magia dei giochi di parole. Parlare seriamente della gioia è veramente una contraddizione.

Le notti di estate sono pesanti. Nelle

piccole camere si dorme male: è la

Vigilia della Ghigliottina (Zo d'Axa)


Alfredo Maria Bonanno, La gioia armata, IV.

martedì 27 dicembre 2011

Partigiano bifronte


“…Non tutti i «gentili» – per sfortuna degli ebrei – sono stati però degli «ingenui» o «zucche vuote» come essi amano chiamarli. Anche essi, o almeno una parte di essi ha saputo guardare il viso non amabile forse, ma pur tuttavia immutab…ile, della realtà. Un colpo tremendo deve aver subito il cuore ebreo nel vedere sorgere un movimento, quale quello fascista che denunciava la inconsistenza pratica della parola libertà nel campo politico dove gli uomini sono in tal modo costrutti da trasformare la libertà loro accordata in anarchia. Una rabbia immensa deve aver riempito il cuore degli anziani di Sion, nel sentire dei non ebrei dire che il comunismo è un’utopia irraggiungibile e che le sue applicazioni pratiche sono costruzioni meccaniche e crudeli dove milioni di schiavi lavorano per una minoranza di dirigenti (ebrei). L’odio di chi vede svelati i suoi piani è enorme, l’odio di chi vede rovinati i propri piani è tremendo. Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra attuale. La vittoria degli avversari solo in apparenza, infatti, sarebbe una vittoria degli anglosassoni e della Russia; in realtà sarebbe una vittoria degli ebrei. A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l’idea di dovere in un tempo non lontano essere lo schiavo degli ebrei? È certo una buona arma di propaganda presentare gli ebrei come un popolo di esseri ripugnanti o di avari strozzini, ma alle persone intelligenti è sufficiente presentarli come un popolo intelligente, astuto, tenace, deciso a giungere, con qualunque mezzo, al dominio del mondo. Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù” .

(Giorgio Bocca, La Provincia Granda – 14 agosto 1942).

Certo che, a volte, mi sorge una domanda: ma come mai tutti 'sti maestri di giornalismo, pieni di rigore più del fischietto di un arbitro di pallone, sferzatori de' vizi, de' costumi e de' malaffari, son partiti tutti quanti come fascistoni belli convinti? Oh, questo qui, il 14 agosto 1942, scriveva queste cose che, direi, non sarebbero dispiaciute a Himmler; due anni dopo era a fare il comandante partigiano. C'è qualcosa che continua a quadrarmi poco, anche perché, prima o poi, son passati tutti per Repubblica e per l' "antiberlusconismo"; da quest'ultimo anche Indro Montanelli, che però fascista era e fascista è rimasto. Questi altri no. Bisogna, dicono, pigliarli come sono. Poi muoiono (quasi mai da partigiani, perché se fossero morti partigiani non sarebbero potuti diventare giornalisti prima e maestri poi): certe cose, d'altronde, le hanno scritte da giovani. Poi c'erano altri giovani che, invece, morivano sulle montagne senza aver scritto su nessun giornale, su nessuna rivista della GUF, su nessuna "Provincia Granda"; alcuni, chissà, non sapevano nemmeno scrivere. Manco la lista della spesa; figuriamoci grand'articoli intrisi di tensione morale e di verità sul giornale del sor padrone.

Chi ha sdoganato gli sdoganatori di Casapound? Solidarietà a Femminismo a Sud


Un dato di fatto: anche io, care compagne, care sorelle di Femminismo a Sud, vi voglio parecchio bene. Non saprei concepire non dico una lotta, ma neppure un semplice pensiero anticapitalista, antiborghese e autenticamente libertario che possa prescindere dal femminismo senza compromessi e senza sconti. Soprattutto un femminismo senza astrazione alcuna, come il vostro; più vado avanti, e meno sopporto le inutili "speculazioni", le filosoferìe, le borie intellettualistiche, le pretese di profondità che sono soltanto tentativi di confondere le idee, le schifose ostentazioni del "parlare d'altro" perché, per essere ganzi, bisogna essere "inattuali".

Un femminismo, il vostro, che abbraccia tutto. Che non è affatto "inattuale" e che si confronta invece, e ogni giorno, con un attualità che è morte. Quella delle donne e quella degli immigrati. Quella degli stupri e quella dei CIE. Quella del razzismo scempio e doppio, e quella del lavoro. Quella dei pedofili e quella dei meccanismi economici. Quella per cui, dopo la strage di Firenze, un'enunciazione come "chiudere Casapound" (e assieme a lei ogni covo fascista di merda presente in questo paese) ha dato luogo a reazioni che mi hanno portato al limite del vomito.

Meglio sarebbe stato sentire dei "no" decisi, macché, teniamola aperta, spalancata, siano fondate casepound anche nei paesini; no, no. Non si è sentito nulla di tutto questo, ci mancherebbe. Si sono sentite le voci intelligenti. Casapound? Ma non è mica nulla. Un circolo che vende gadgets, nulla più. Non è Casapound il problema. Prima di chiudere Casapound bisogna chiudere, nell'ordine, il PDL, il PD, tutto il parlamento, il sistema, il capitalismo intero. Verissimo, certo; e, intanto, a forza di spostare il nocciolo del problema fino alla chiusura dell'Universo, Casapound rimane bella aperta, indisturbata e se la ride. E chi persevera, intanto, nel voler eliminare intanto una fogna del genere, viene sottoposto a varie marchiature; di stupido, di "vetero"-qualcosa, di superficiale. Deve subire lezioncine di analisi approfondita, di metafore, di ogni cosa. Dopo un po' deve sentirsi inadeguato. Deve cominciare quasi a vergognarsi di aver gridato o scritto che Casapound deve essere chiusa. Deve cominciare a sentirsi disprezzato come antifascista, e non soltanto dai fascisti e dai loro accoliti; anzi, ora come ora il maggior disprezzo verso l'antifascismo è esercitato da coloro che si sentono infinitamente oltre, e che guardano con sufficienza e commiserazione a quei rozzi incapaci che ancora si ostinano a definirsi "antifascisti". Relitti del passato.

Figuriamoci se poi, come avete fatto voi, compagne e sorelle, si osa declinare nomi e cognomi di coloro che hanno così carinamente permesso a Casapound non solo di essere "sdoganata", ma di ottenere sempre maggiore visibilità e consenso. Ma non lo sapete che, invece, la colpa è di chi "ne parla troppo"? Esiste tutta una sofisticata (e sofistica) "scuola di pensiero" per la quale il nemico non deve essere neppure nominato, oppure deve essere ignorato e lasciato perdere. Insomma, ad un certo punto è logico che una Casapound si senta in una botte di ferro. Da una parte c'è chi la incoraggia, la sostiene, la foraggia; dall'altra c'è chi si dice magari "contrario" ma non la disturba, perché disturbarla è segno di "scarsa capacità critica e di approfondimento delle tematiche". Poi, chiaramente, quando invece centri sociali, spazi liberati, occupazioni, gru di Brescia, squat e quant'altro vengono, questi sì, sgomberati e fatti chiudere, allora non si muove un dito. Anzi. Si preferisce rivolgere loro "aspre critiche". Si preferisce ammannire loro l'ennesima "lezione". I pochi luoghi dove ancora si fa, autenticamente, antifascismo militante (pagandone tutte le conseguenze in termini di repressione) sono lasciati soli; si può scatenare la reazione.

L'attacco di questi giorni a Femminismo a Sud appartiene esattamente a questa reazione. E, allora, non ho e non posso avere alcun dubbio da che parte stare. A costo di essere iscritto nella lista dei chiuditori fuori moda e degli antifascisti "retrò". Cose cui, del resto, sono già pienamente abituato; e, intanto, Casapound non corre alcun rischio. Sa di essere al sicuro e al calduccio, tra questori e questurini, tra sansonetti e concie, tra intellettuali iper-radicali e spiritualisti, tra sminuitori e meccanismoprofondaioli. Ma certo, chiudere Casapound è del tutto "inutile"; lo si vada a dire ai senegalesi, magari. Oppure ai prossimi, perché, a questo punto, un Casseri non si nega a nessuno.

Così, Femminismo a Sud può essere messo alla berlina, attaccato, assaltato, delegittimato. Può essere accusato di essere "fascista" perché scrive a chiare lettere i nomi e i cognomi di chi ha permesso a Casapound di diventare quel che è. Le compagne, ovviamente, diventano "terroriste" e criminali. Fra un po' scopriremo che in piazza Dalmazia, la mattina del 13 dicembre, non c'era mica il Casseri: c'erano "quelle" di Femminismo a Sud. Povera Casapound, così ingiustamente accusata di essere fascista e di essere ben frequentata dal pistoiese razzista; mica deve essere chiusa, ma che dite mai. Anzi. Chiudiamo, piuttosto, Femminismo a Sud. Chiudiamo tutto quell'insopportabile antifascismo militante e di classe, che non capisce nulla. Chiudiamo il circolo anarchico di via dei Conciatori e facciamoci un bell'immobile di prestigio. Chiudiamo ogni cosa, tranne Casapound.

E allora, che dire alla fine alle compagne e alle sorelle di Femminismo a Sud? Solidarietà? Tutta quella che ho dentro, tanto più che non sono uno che ama sprecarla. Ma è una solidarietà che avrà bisogno di sempre più nomi e sempre più cognomi. I nomi e i cognomi parlano e fanno paura, e c'è bisogno di mettere paura a un bel po' di stronzi e di stronze; una paura a base di enunciazione di responsabilità precise. Le quali hanno, poi, un'origine che meriterebbe anch'essa di essere presa nella debita considerazione. Chi ha sdoganato Casapound? Sí, certamente. Ma c'è anche stato chi, precedentemente, ha sdoganato gli sdoganatori e le sdoganatrici. I quali e le quali non sono meno fascisti, meno schifosamente fascisti di quelli di Casapound. Lo sono forse ancor di più, quanto più appare il loro fascismo della peggiore specie, quello che va sotto il nome di "democrazia", perfetta cacatrice del "fascismo del III millennio".

L'articolo di Femminismo a Sud:

Chi ha sdoganato Casapound?

Da Militant Blog:

Anche noi stiamo con Femminismo a Sud

domenica 25 dicembre 2011

Beth Lehem (1)


Lo scorso anno, verso Natale, scrissi un raccontino (ovviamente senza nessuna pretesa; per me la cosa è sempre ben chiara, però sarà sempre meglio ribadirlo) che si rifaceva, appunto, alla famosa “atmosfera natalizia”. Quest'anno, approssimandosi la festività del 25 dicembre, mi son detto: e perché non ripetere la cosa? Magari, chissà, si stabilirà una “tradizione”. Mi vedo già orde di lettori in ansia, ogni anno, per il “tradizionale” raccontino natalizio dell'Asociale (Asocial's Christmas Tale); ma, insomma, eccolo qua. E' diviso in due parti.

I principali quotidiani, sia in aramaico che in greco e latino, non avevano perso certamente l'occasione per stigmatizzare quel bruttissimo episodio che si era verificato pochi giorni prima nel campo profughi di Beth Lehem; uno spiazzo spoglio e privo di ogni servizio, che per di più era stato da tempo assegnato dalla Municipalità locale e dall'amministrazione imperiale romana ad un utilizzo assai sentito da una parte della popolazione, e ferocemente osteggiato da un'altra: la costruzione di una modernissima arena ludi sul modello delle tante presenti in tutte le regioni dell'Impero. Non è però che la parte avversa alla costruzione, composta per lo più da nazionalisti ebrei che si opponevano all'occupazione della Sacra Terra, intendesse riservare quello spazio ad attività sociali o, magari, all'edificazione di abitazioni popolari che potessero risolvere almeno in parte il problema dei larghi strati di popolazione autoctona che erano costretti a risiedere in casupole di fango che quasi si squagliavano alle prime piogge d'autunno; no, il loro fine era quello di erigere un grande tempio alla gloria di Dio, il quale era -inutile dirlo- dalla loro parte. Erano tempi di sommovimento e di grande crisi economica e sociale; l'occupazione romana, nonostante la grande tolleranza religiosa mostrata dagli invasori, aveva relegato la popolazione locale in uno stato subalterno che mal si conciliava con la storica definizione di “popolo eletto”. Inoltre, le condizioni economiche erano assai peggiorate; l'imposizione di tasse e balzelli era diventata capillare, e i pubblicani incaricati della loro riscossione forzata (ad esempio quelli dell'organizzazione Æquimperium) erano ben presto divenuti oggetto di un odio spietato e generalizzato, al pari dei reguli locali, corrotti e collusi con gli occupanti, che menavano una vita lussuosa e dissoluta mentre la gente crepava letteralmente di fame ed era costretta ai lavori più massacranti e umili per guadagnare qualcosa con cui far vivere le famiglie, sovente numerose.

Dalle zone interne, poverissime, masse di diseredati si spostavano verso le aree meno sfortunate; si erano creati dei campi dove questi derelitti, sprovvisti di tutto, si riversavano quotidianamente in cerca di migliori condizioni di vita; andava naturalmente a finire che si ritrovavano a vivere in veri e propri lager. In tali campi, le condizioni igieniche erano spaventose; la promiscuità con gli animali scheletriti che questa gente si portava sovente dietro, gli escrementi e i liquami non smaltiti, lo scarso cibo non lavato e mal cotto, provocavano malattie a non finire ed una mortalità infantile che raggiungeva livelli orrendi. La popolazione locale, del resto appena un po' meno povera, aveva mostrato sempre meno solidarietà; da quando, poi, anch'essa era alle prese con la crisi, si era lasciata facilmente influenzare da ogni sorta di episodio -fomentato in modo perfetto dalla stampa- che aveva ben presto lasciato il posto ad un'avversione totale verso questi diseredati che, ai giorni nostri, senz'altro potrebbe definirsi “razzismo”. In particolare i Galilei erano soggetti alle accuse più feroci; oltre a quella, consueta, di “rubare il lavoro”, c'era quella, oramai divenuta vox populi all'epoca di questa vicenda, di rubare non soltanto il lavoro ma ogni cosa che fosse possibile arraffare. Se qualcuno vedeva un Galileo in giro portava le mani alle tasche o alla borsa, anche se sovente entrambe erano vuote; sempre più episodi, anch'essi “pompati” ad arte dalla stampa, parlavano poi di “bambini rapiti” da cenciose donne galilee, e si erano già verificati i primi tentativi di linciaggio da parte di folle inferocite. Stiamo naturalmente parlando di tempi lontanissimi, e niente potrà mai farci apprezzare abbastanza di vivere in un'epoca come questa, dove tali cose sono scomparse del tutto; ma, in pratica, i pochi che detenevano il potere si erano facilmente accorti che le guerre tra poveri sono il metodo migliore per tenere sotto controllo la popolazione e per poter continuare ad accumulare ricchezze senza problemi. Questa la situazione, quando accadde l'increscioso episodio di Beth Lehem del dicembre di un anno che non sapremmo dirvi con esattezza.

Ci si era messo pure il censimento. L'amministrazione imperiale, con la sua organizzazione statale ferrea, desiderava contare quanti disgraziati avesse sotto di sé, obbligando spesso interi villaggi a spostarsi in alcuni punti di raccolta dove degli incaricati dell'ISTAT (Institutum Sæculare Typologicum Ad Tribus, cioè qualcosa come “Istituto Secolare per la Categorizzazione dei Nuclei Familiari”) letteralmente contavano la gente che si presentava, redigendo delle schede che venivano poi fatte avere alla sede centrale di zona (a Damasco, dicono le cronache). Dalle zone più remote della Palestina erano dovuti arrivare coloro che ancora non erano emigrati altrove, e la loro presenza aveva esasperato ancor di più la popolazione locale. “Come se non bastassero i Galilei!”, si diceva in giro; in breve, si era creata un'alleanza apparentemente innaturale tra i fautori dell'occupazione e i nazionalisti, che aveva portato a leggi asperrime sulla migrazione (anche se, spesso, obbligata dal censimento imperiale) come quella, famosa, promossa solidarmente dal tribuno della plebe Gaio Padano Bossio e dallo zelota israelita Awfranq El-Fiin. Inoltre, per evitare che alle masse alloctone impegnate nel censimento (obbligate a tornarsene alla svelta da dove erano venute, una volta espletate le operazioni) si mischiassero clandestini decisi invece a non muoveri, erano stati istituiti i Collectaria Identificationis et Expulsionis (CIE), strutture rigidissime e guardate in armi dove i trasgressori alla legge Bossio-El-Fiin venivano rinchiusi, tenuti in condizioni da galera e infine rimandati indietro in modo coatto. Alcuni giornali erano arrivati a creare la curiosa espressione di Extragerosolimitani, che si era largamente diffusa; nell'accezione comune, significava “esseri umani di serie B”, o “illegali”.

Nel dicembre di quell'anno, la famiglia di Yohsef e Maryam si era dovuta muovere da Nazareth, in Giudea, per quel maledetto censimento; avevano dovuto prendere i loro asini, le poche cose che avevano e qualche granaglia per andarsene al campo profughi di Beth Lehem, che funzionava allora anche da centro di raccolta per il conteggio della popolazione. Inutile dire che le condizioni al suo interno si erano ancora aggravate, con centinaia e centinaia di persone che si erano aggiunte a quelle che già ci vivevano, o sopravvivevano; Maryam, inoltre, era in una situazione davvero spiacevole. Assolutamente dans le pétrin, come avrebbero detto secoli e secoli più tardi i francesi, oppure nella merda, come diciamo ancor oggi noialtri (e forse così si diceva anche in aramaico, nonostante l'espressione non sia attestata dai testi coevi). Era una bellissima fanciulla di sedici anni che, all'età di dodici, era dovuta andare in isposa (ma alcuni maligni dicevano, non senza una punta di ragione, che era stata venduta dalla sua famiglia per pochi denari, alcuni sacchi di farina e una capra) ad un anziano falegname del paese, tale Yohsef, che era rimasto vedovo e che aveva un lavoro. Volente o nolente, la bambina aveva dovuto accettare; le nozze erano state celebrate e, la fatidica prima notte, il vecchio Yohsef doveva avere avuto forse qualche scrupolo nel ritrovarsi nel letto una fanciulla che sarebbe potuta essere tranquillamente la sua nipotina. La aveva fatta quindi addormentare tranquillamente e, come ci informa il cosiddetto Vangelo di Fabrizio, “se n'era partito per dei lavori che lo aspettavano fuori dalla Giudea”. Dovevano essere lavori particolarmente consistenti, dato che rimase lontano quattro anni; nel frattempo, Maryam da bambina s'era fatta ragazza e il vecchio marito non si decideva a tornare; a volte si sorprendeva persino a pensare che fosse morto, ma il peggio doveva arrivare. Successe quando incontrò Gabriele.

Gabriele era un giovane di vent'anni di un paese vicino, pescatore di mestiere come pescatore era stato suo padre e pescatori erano tutti i suoi fratelli. Talmente bello, che dai compaesani era stato soprannominato “Arcangelo”, e così gli gridavano le ragazze quando lo incontravano: “Ecco l'Arcangelo Gabriele!” Ragazze sí, ma anche qualche sposa non avrebbe disdegnato qualche segreto incontro con quel bel giovanotto; il quale si vociferava che si desse non poco da fare, tanto che qualche fidanzato e qualche marito gliela aveva giurata sul serio. Proprio per questo motivo, i suoi fratelli maggiori gli avevano consigliato di non farsi vedere più per un po' in paese, dato che c'erano almeno tre o quattro mariti i quali si erano ritrovati all'improvviso muniti di ramificazioni cefaliche e che non avevano preso la cosa molto bene. Anche Gabriele convenne coi fratelli che sí, forse sarebbe stato meglio tagliare la corda prima che costoro passassero alle vie di fatto, e una mattina all'alba prese le sue cose, la sua rete da pesca e il suo asino e se ne andò a Nazareth. “A Nazareth”, pensava durante il viaggio, “ho il mio amico Michele; mi ospiterà lui finché non trovo un posto dove stare per conto mio.” Così andò; a pescare andava tre giorni alla settimana, vendeva i pesci al mercato e qualcosa tirava pur su da mangiare; nelle lunghe ore passate in barca si dilettava dei suoi pensieri in libertà, che a vent'anni spaziano consuetamente per l'universo tutto. “Esistesse qualcuno”, si ritrovava talvolta a fantasticare, “che con un gesto della mano o uno sguardo potesse moltiplicare i pesci! Sai che bellezza: io pesco un pesce, lo porto a questo e, oplà! Lui fa un cenno e i pesci diventano cinque, dieci, cento, mille! Poi si fa a metà, si diventa ricchi tutt'e due e ci si trasferisce a Gerusalemme...ma che dico Gerusalemme! A Roma!” E sorrideva, e pescava; pesci magri, stentati, che sembravano rassomigliare alla gente del posto. Fu di ritorno una sera, mentre tornava dal lago, che incontrò per la prima volta Maryam.

Lei stava tornando a casa dopo essere stata a trovare un'amica, ché naturalmente una ragazza sposata poteva frequentare soltanto altre donne. E non c'era bisogno di ulteriore controllo; se l'avessero vista in giro con un altro uomo, sarebbe stata condannata per sempre. Poiché il diavolo esiste, e spesso e volentieri la sua è una presenza discreta ma utile e doverosa, quella sera non c'era un'anima in giro nemmeno a cercarla col lanternino; nessuno, tranne Maryam e Gabriele che se ne tornava a piedi col cesto dei pesci e la rete sulle spalle. Naturalmente, questo racconto non contempla il modo in cui quei due ragazzi s'incontrarono e si conobbero; possiamo ipotizzare che la cosa avvenne come sarebbe avvenuta al giorno d'oggi fra un qualsiasi ventenne e una qualsiasi sedicenne. Quel che oggigiorno, però, non potrebbe avvenire che molto raramente, è che la ragazza sia già maritata, e per di più con un vecchio; ma forse ci sbagliamo. Ad ogni modo, come si sa, il marito di Maryam era lontano a falegnare, e fra due giovani che si piacciono le cose camminano alla svelta. Gabriele l'Arcangelo non si era mai fatto tanti problemi, anche se stavolta sentiva che la cosa era un po' diversa; per Maryam provava qualcosa di più di un semplice desiderio. Con mille prudenze, due sere dopo si recò a casa di lei, a ora tarda; uno di quei momenti in cui si decidono, lontano, i destini di molte altre persone ignare. Non essendo di Nazareth, Gabriele non era al corrente della particolare situazione di Maryam; lei, certo, gli aveva detto di essere sposata e persino da un po', ma non gli aveva che suo marito, il vecchio Yohsef, se n'era partito due giorni dopo le nozze e chissà dove accidente era in quel momento. Insomma, Maryam non gli aveva detto di essere ancora vergine. Gabriele non sapeva che le amiche, a volte, per prenderla un po' in giro la chiamavano la vergine Maryam. Poiché la lettura di questo racconto è consigliata a un pubblico adùltero, si potrà anche dire che, dopo il primo momento di sorpresa giacché non gli era mai capitato di andare a letto con un'altrui sposa illibata, la cosa non gli era dispiaciuta affatto; e neppure a Maryam, la quale si era liberata alla svelta di quella virtù (al giorno d'oggi si direbbe un valore). Sul resto sarà sorvolato, ma non per fare come la scrittrice Liala le cui grandi storie d'amore aviatorio si fermavano regolarmente sull'uscio della camera da letto; semplicemente perché son cose che è meglio lasciare a quei due, più o meno tutti sappiamo come vanno e che sarebbe inutile lasciare che qualche Iddio o qualche suo adepto intendesse governarle.

E andò avanti per qualche mesetto; Gabriele l'Arcangelo si trovava proprio bene a Nazareth, del marito di Maryam non s'aveva notizia e la fame aveva ogni tanto qualche sfamo non cospicuo, ma sufficiente a non morire. I muri delle casupole erano fortunatamente sufficienti a attutire i languori e i sospiri, e un paio d'amiche di Maryam, peraltro invidiandola vista la bellezza del suo drudo, avevano capito benissimo decidendo di tapparsi gli occhi e la bocca. Non c'era, d'altronde, da scherzarci troppo sopra. Ancor meno quando, dopo qualche mese, Maryam, mentre era in casa a fare non si sa cosa, si sentì all'improvviso pigliare da un giramento di testa che quasi la fece cascare in terra, seguito da un forte senso di nausea. Non le ci volle molto a capirne il perché; e non sapeva se essere contenta perché si era innamorata talmente del suo arcangelo da sognarselo persino la notte (o almeno in quelle notti che non passava insieme a lui), o disperata perché era una cosa che non si poteva certo nascondere. Tre giorni dopo, Yohsef tornò. Ancora più vecchio, con un bel gruzzoletto di denaro guadagnato coi suoi lavori, e deciso stavolta ad approfittare dell'ultima occasione della sua vita per giacersi con una donna.

Qualcuno, non si sa chi, era corso ad avvertire Gabriele l'Arcangelo che non si presentasse da Maryam e non ci si facesse trovare insieme neppure per sbaglio; e il ragazzo non l'aveva presa bene. Quello stramaledetto vecchio non era morto e nemmeno si era tirato una martellata sulle dita; incartapecorito e segaligno com'era, sembrava addirittura stare meglio di quand'era partito. La moglie? Una bambina; ma quando se l'era ritrovata davanti, non lo aveva più pensato. E, intanto, Maryam pensava a tutt'altro, e non sapeva come fare quando le prendevano i capogiri e le nausee; il giorno dopo, decise di dirlo a una sua amica cara, forse la sola di cui si potesse fidare, e le spiegò tutto quello che era accaduto; l'amica ascoltò un po' sorridendo e un po' scuotendo la testa, tenendola per mano, e pensando qualche volta che, nonostante tutto, aveva fatto bene. Quando Maryam ebbe finito di raccontare, le disse:

- Ascolta, Maryam, secondo me ora devi fare subito una cosa. Lo so che Yohsef è vecchio e brutto, ma il suo ritorno è stato proprio al momento giusto. Se le nausee ti sono venute da poco, vuol dire che non sei incinta di molto tempo; allora stasera, forse lo capisci da sola che cosa devi...dovresti fare...sei ancora in tempo a rimediare...

- Ma io...con quello lì non ci voglio fare niente...non so nemmeno...se ce la farebbe...

- Vedrai che ce la fa eccome. Yohsef sarà vecchio, ma è ancora robusto; pensa soltanto che se ne è stato a lavorare per anni e anni chissà dove, e che è tornato in buona salute...c'è gente ben più giovane che non se la passa bene come lui! Insomma, Maryam, devi ragionare, è l'unica possibilità che hai se vuoi salvare capra e cavoli, e forse anche la pelle tua e quella di Gabriele. Stanotte, se tuo marito...ti cerca, se vuole accostarsi a te, non devi fare storie. Qualche storia da raccontare poi la inventeremo insieme, se qualcuno si accorgerà che i tempi non quadrano bene. Dammi retta Maryam, non hai altra strada...

- Gabriele non lo vedrò più...

- Sciocca, ti pare che Yohsef non lo chiameranno presto a fare qualche altro lavoro? E quando ripartirà, tu e il tuo Arcangelo potrete vedervi quanto e quando vorrete...si tratta soltanto di portare un po' di pazienza...

- Ma sí...forse hai ragione...ma vorrei vedere tu al posto mio...

- Cocca di mamma, io al posto tuo ci sarei stata parecchio, ma parecchio volentieri, sai...? Comunque non avere paura, io non tradisco un'amica. Te lo lascio stare, il tuo Arcangelo. E darò un'occhio anche alle altre ragazze del paese; comunque, per un po' è meglio che il tuo...fidanzato non faccia troppo lo scemo...e che tu non gli dica niente che il bambino che porti in grembo è suo. Lo saprai tu e tanto basta.

- E'...è un dono di Dio....

- Ecco brava, proprio un dono di Dio e visto chi è il padre, verrà di sicuro bello come un dio. Un figlio di Dio sul serio, stai tranquilla...e ricorda, se farai le cose ammodino, nessuno saprà niente, e tutto seguirà il suo corso. Ora vattene a casa...e prepara la cena a tuo marito. Mostrati felice...e impaziente che venga l'ora di coricarsi.

Rassicurata dall'amica, Maryam prese la strada di casa; Yohsef era a fare un piccolo lavoro domestico e, quando la vide, le corse incontro e l'abbracciò.

- Dove sei stata, angelo mio...?

- Ero con la mia amica Anna...

- Già, Anna...siete state bambine assieme, mi piace che ancora lo siete. Ne avrete di cose da dirvi...

- Anche tu ne avrai....ancora non mi hai detto dove sei stato, che cosa hai fatto...

- Maryam, non sono stato poi così lontano, sai; solo che ho dovuto lavorare come un mulo, e questo risponde alla tua seconda domanda. Non avrei gran ché da raccontarti; ho lavorato sempre dall'alba al tramonto, in ogni stagione. Ho mangiato quel che mi davano e non ho parlato con quasi nessuno. Non sono tempi belli, e fra poco ci sarà da ripartire...

Gli occhi di Maryam si illuminarono impercettibilmente, ma fu abbastanza pronta da girare la testa da una parte, quasi a simulare un dispiacere che non provava.

- Ripartire, marito mio? Mi lascerai...di nuovo sola? E questa volta dove andrai?

Yohsef sorrise, abbracciandola piano:

- No, angelo mio, stavolta non ti lascerò sola perché partiremo insieme...

- Insieme? Mi porterai con te? E dove? Dovrò stare con te mentre lavori...?

- No, Maryam, niente lavoro stavolta. Non hai saputo del censimento?

- Il...censicosa?....

- Il censimento, Maryam. Le autorità vogliono...sapere chi siamo e quanti siamo. Vogliono contarci, capisci?

- Perché?

- Sono tempi brutti, angelo mio. Il perché non lo so nemmeno io di preciso, ma posso immaginarlo. Tasse. Imposte. Se sanno meglio chi siamo e quanti siamo, possono gravarci ancora di più. Il censimento è obbligatorio e dobbiamo andare a farci conoscere e contare a Beth Lehem.

- Beth Lehem? E dov'è? Quando partiremo? E quando torneremo?

- Beth Lehem è un campo....un campo dove si trova gente più digraziata di noi. E' un campo profughi oltre il fiume Giordano.

- Un campo profughi? Quello dove stanno...i Galilei, Yohsef?

- Sí, i Galilei e tanta altra gente come loro. Dove non hanno nemmeno da mangiare. Dobbiamo andare là.

- Ma Yohsef...sarà pericoloso! Non hai sentito cosa si dice in giro dei Galilei? Che rubano, stuprano, ammazzano....!

- Lo so, angelo mio, lo so. Ma il censimento per noialtri di Nazareth è stato stabilito si tenga a Beth Lehem, e a Beth Lehem dobbiamo andare. Avrei fatto a meno di portarti con me se ci fossi dovuto andare per lavorare o per qualsiasi altra ragione, ma devono contare anche te. Nei giorni a venire dovranno andarci tutta Nazareth e tutti i paesi vicini. E questo è quanto, tesoro; non possiamo opporci. Domattina all'alba prenderemo gli asini e poche cose, e andremo; sarà meglio che tu prepari qualcosa e che andiamo a letto.


(1 - continua)


mercoledì 14 dicembre 2011

Giovanni Donzelli e Paolo Padoin: eccovi le "Istituzioni"


Bene ha fatto Io non sto con Oriana a pubblicare sul suo blog l' "intervento" del fascista in doppiopetto Giovanni Donzelli, consigliere regionale PDL e promotore "storico" di Azione Giovani e di Casaggì, relativo ai fatti di ieri a Firenze. "Intervento" prontamente cancellato dal sito della Regione Toscana e che ha provocato alcune blande reazioni istituzionali; ma esistono sempre le copie cache. Quanto mai opportune, perché è bene consegnare alla visione di tutti quanto è arrivato a dichiarare questo bellimbusto nell'immediatezza della strage razzista e fascista di Piazza Dalmazia e di S.Lorenzo. Per una volta, mi piacerebbe (e arrivo a sollecitarlo) che quanto segue sia ripreso dal maggior numero di blog possibile e diffuso, e anche da pagine Facebook (che almeno servano una volta a qualcosa per davvero!), da forum, da ogni cosa. Come si diceva una volta: "leggete e diffondete". E' necessario vedere a che punto possano arrivare l'abiezione e la stupidità di un essere umano, di un vigliacco che non appena accortosi della vera natura della strage di ieri, ha pensato bene di scappare come un coniglietto. Al pari dei suoi amichetti di Casapound, che si sono affrettati a cancellare gli scritti di Gianluca Casseri presenti sul loro "Ideodromo". Riporto qui di seguito la trascrizione effettuata da Io non sto con Oriana dell' "intervento" di Giovanni Donzelli:

Far West in piazza Dalmazia, Donzelli (Pdl): «Firenze crocevia della criminalità. Falliti i tentativi di integrazione»
Dichiarazione del Consigliere regionale del Pdl Giovanni Donzelli.

«Regolamenti di conti, sparatorie, infiltrazioni camorristiche e criminalità internazionale: Firenze è ormai e crocevia del malaffare. Forse sarebbe opportuno che il sindaco Matteo Renzi tra una kermesse e l’altra, si interessasse anche del precipitare dei livelli di sicurezza in città. E’ evidente che sono miseramente falliti tutti i tentativi di integrazione portati avanti dalla politica delle ‘porte aperte a tutti’ praticata dalla sinistra negli ultimi decenni a Firenze e in Toscana». «Così, mentre alle spalle della Leopolda, tanto cara a Renzi, centinaia di irregolari vivono in condizioni di illegalità e malessere, la stessa piazza Dalmazia, teatro del regolamento di conti di oggi con tanto di sparatoria, la notte si trasforma in un giaciglio di disperati. Intanto, a poche centinaia di metri, continua l’occupazione abusiva di Poggio Secco con decine e decine di irregolari che non vengono né censiti né controllati, ma che in alcuni casi ottengono la residenza negli stabili occupati illegalmente». «In questo scenario, le forze dell’ordine operano tra le mille difficoltà dovute non solo alla tolleranza di fenomeni di abusivismo da parte dell’amministrazione comunale, ma anche alla scelta folle di non dotare la nostra regione di un centro di identificazione per extracomunitari. In un simile clima da far west internazionale si insediano facilmente la criminalità organizzata e le mafie di tutto il mondo».


Il fascista Giovanni Donzelli, "consigliere regionale".

E' bene cominciare a fare i nomi e i cognomi di tutti i complici di questa strage, di coloro che con le loro azioni e le loro parole hanno contribuito a creare in questi anni l'humus necessario per il gesto di Gianluca Casseri. Giovanni Donzelli è uno di questi. Se esiste davvero, come tanto si blatera, una "Firenze antifascista", essa non deve perdere tempo in chiacchiere ma neutralizzare e isolare politicamente queste persone, le loro rappresentanze politiche, i loro circoli. Devono sentirsi dei paria, dei bubboni estranei, dei tumori maligni. Non blanditi, foraggiati, patrocinati, finanziati. Questi topi di fogna non devono avere nessuno spazio di espressione. Peggio dei lebbrosi. Altrimenti Firenze la smetta una buona volta di definirsi "città democratica", e siano riposte in un cassetto le "medaglie per la Resistenza" e tutti gli ammennicoli che, con una presenza fascista oramai diffusa e influente, non hanno più ragione di esistere. Ciò che ha scritto ieri il fascista Giovanni Donzelli non deve passare sotto silenzio e essere cancellato alla chetichella; una cancellazione, si badi bene, che non è derivata da nessun senso di pentimento o di vergogna reale, ma semplicemente dall'opportunismo e dalle possibili reazioni. Fortunatamente, sia nel caso della dichiarazione di Giovanni Donzelli e sia dei vomiti nazifascisti e razzisti di Gianluca Casseri, frequentatore a tempo pieno di Casapound e non semplice "simpatizzante" come vorrebbero far credere, su Internet scripta manent.

Sul lato "istituzionale", è impossibile non sottolineare anche l'agghiacciante sortita del prefetto di Firenze, Paolo Padoin. Costui, dalla sua elevata carica, non si mostra minimamente preoccupato per la strage di ieri, preferendo invece concentrarsi sulla sua ossessione: i Centri sociali. Anche qui è d'obbligo riportare le parole del signor Prefetto, esperto di "istituzioni rinnovate" e di cantautori degli anni '70:

«Proviamo dolore per una comunità che non ha mai creato alcun problema. La Toscana e Firenze sono un esempio di accoglienza e anche la comunità ha capito benissimo che si tratta di un gesto isolato e hanno seguito il nostro suggerimento di sciogliere la manifestazione per evitare il tentativo di fomentare la protesta da parte di gruppi esterni. Bisogna limitare adesso i “danni collaterali”, perché i centri sociali sono in grande agitazione. Ed è già accaduto che i centri sociali o gruppi organizzati abbiano cercato di strumentalizzare parti deboli della popolazione, come in questo caso la comunità del Senegal»


Il signor prefetto di Firenze, Paolo Padoin.

Avete capito? Dall'illustre signor prefetto, massimo rappresentante dello Stato in questa città, neanche mezza parola sul clima di odio razzista che è stato, questo sì, "agitato" costantemente dalla stampa cittadina (compresa quella falsamente "progressista"), da personaggi ben presenti nelle sue care "istituzioni" (come Giovanni Donzelli), da partiti di governo (PDL e Lega Nord), da realtà nazifasciste non soltanto presenti a Firenze, ma ben protette. Invece di rivolgere la sua attenzione ai complici di Gianluca Casseri, costui si mostra assai più preoccupato dei "danni collaterali" rappresentati dai Centri Sociali e dalla loro "agitazione"; naturalmente si tratta dei veri Centri Sociali, ai quali il signor prefetto deve pensare persino mentre si lava i denti la mattina. Le realtà antagoniste, le uniche che hanno lottato e continuano a lottare (a Firenze come altrove) per una coscienza ed un'azione antifascista. Il prefetto non è minimamente preoccupato, ad esempio, dai fascistelli di Casaggì, gli esaltatori dei cecchini, gli imbrattamuri, i ribelli non conformi all'ombra del Papi e dell'ex ministronza Giorgia Meloni. Come loro, il prefetto ora fa a gara nel presentare l'azione di Gianluca Casseri come quella di un "folle isolato". Presso la sede fiorentina di Casapound manda la Digos a organizzare un "presidio di difesa" notturno. E' in ambasce, il signor prefetto, per le possibili "strumentalizzazioni della parte debole della popolazione"; mancherebbe soltanto che avesse dichiarato che il Casseri, in realtà, è al soldo dei Centri Sociali perché, col suo gesto, permette loro di "agitarsi e strumentalizzare". E, infatti, l'articolista di Repubblica che ha raccolto la dichiarazione del prefetto trae in questo caso una conclusione corretta: "Il CPA nei prossimi giorni, insomma, sarà tenuto d'occhio molto da vicino." Per riassumere: per il signor prefetto, l'unica cosa da fare per dare una risposta forte alla prima strage razzista e nazifascista in Italia, è tenere d'occhio il CPA. Mica, che so io, chiudere le tane di Casapound, il merdaio di Casaggì o convocare una buona volta i direttori della Nazione o del Giornale della Toscana perché la smettano di gettare acqua sul fuoco con le loro quotidiane menzogne: no, bisogna reprimere ancora di più chi si oppone veramente, e pagando già un prezzo altissimo, a tutto questo stato di cose.

Persisto nel credere che denunciare pubblicamente le autentiche aberrazioni di personaggi come questi, e di diffonderle nonostante i loro goffi tentativi o di sbarazzarsene (come nel caso del nazista Giovanni Donzelli) o di manipolare la realtà dei fatti (come nel caso del prefetto Paolo Padoin, uno che peraltro a volte si definisce "di sinistra"), siano il miglior modo, e forse l'unico, di "parlare" realmente delle vittime senegalesi della strage di ieri, e per restituir loro la dignità che è stata loro tolta, assieme alla vita, non da un "pazzo isolato" ma da una società imputriditasi nell'inciviltà generalizzata che, ora, si manifesta alla perfezione nel suo braccio armato.

martedì 13 dicembre 2011

Fuori i fascisti dal sistema solare!


La foto che vedete rappresenta un'iniziativa contro il degrado organizzata da Casapound. In mezzo ai ragazzotti con le teste (di cazzo) rasate c'è un tizio di mezz'età, coi pantaloni bianchi e una polo azzurra. Si tratta di Casseri Gianluca, da Cireglio (Pistoia). Quello che qualche volta frequentava Casapound e dal quale, oggi, i suoi "camerati" si affrettano a prendere le distanze; comodissimo prenderle, dato che è morto. Per riavvicinarle, andiamo a vedere invece che cosa scriveva il Casseri, e sempre, toh, sull'Ideodromo di Casapound. Oggi gli danno del "pazzo", ed è naturale; evidentemente, però, non era così pazzo quando ripuliva il degrado e quando scriveva articoli. Dichiara un senegalese di Firenze: "Non diteci che era un pazzo. Un pazzo avrebbe ucciso sia bianchi che neri." Ecco una frase, semplicissima, che seppellisce ogni tentativo di fuga strumentale dalla realtà dei fatti. Altro che "simpatizzante", altro che "frequentatore saltuario"; il Casseri era più che attivo presso la sede pistoiese del gruppo neofascista, come puntualizzano gli Anarchici Pistoiesi, che ben lo conoscevano. Nient'altro che un fascista. Niente di più e niente di meno di un fascista e di un razzista assassino.

Ci sono alcuni che, non senza ragione, affermano "che tutti parlano dell'omicida, e nessuno parla delle vittime". Ecco, vorrei rispondere che, oggi, parlare delle vittime significa e deve significare soprattutto parlare del loro assassino. Significa parlare, compiutamente, di ciò che ha prodotto quell'assassino e gli ha armato la mano. Significa non ridurre questa cosa ad un pur interessante "spunto di riflessione", ad "intelligenti osservazioni" e a quant'altro; non s'ha da fare accademia, qui, ma da fronteggiare gente che spara. In quale altro modo si dovrebbe "parlare delle vittime"? Esprimere loro "solidarietà"? Che abbiamo una volta per tutte il coraggio di dire che, la "solidarietà", se la friggono in padella. Sia coloro che sono morti, sia coloro che sono stati feriti gravemente e che rischiano la paralisi permanente. Certo, possiamo "pensare alle loro famiglie" (oplà, pensato, ecco fatto e ci siamo levati il pensiero di pensarci), possiamo cercare di immaginarci le loro vite e le loro storie (delle quali fingiamo di interessarci tre minuti soltanto quando vengono ammazzati come cani da un fascista di merda), possiamo sciorinare tutto l'armamentario usuale.

Io, invece, ritengo che parlare delle vittime, e non soltanto di Samb Modou, di Diop Mor, di Sougou Mor, di Mbenge Cheike e di Mustafa Dieng, consista in poche parole e in molti fatti. Che dietro un Casseri ci siano delle idee ben precise e un ambito culturale determinato è come scoprire l'acqua calda; anche perché quelle idee e quell'ambito culturale hanno ricevuto, specialmente in questi ultimi anni, spazio, propaganda, finanziamenti pubblici e privati. Non si tratta di idee e di ambiti culturali di misteriose sette iniziatiche, ma di gruppi e personaggi ben noti. Ed è assolutamente certo che esista un rapporto tra quelle idee e ciò che Casseri ha fatto. Solo che non si deve fermarsi all'analisi, sia pur approfondita, di quel rapporto peraltro chiarissimo e documentabile agevolmente da chiunque, se volesse. Perché, mentre ferve la discussione, mentre si moltiplicano gli spunti di riflessione e mentre si analizza tutto l'analizzabile per addivenire alla strabiliante conclusione che un fascista razzista nutrito di razzismo e fascismo (con annessi e connessi, certo, per carità) possa dar pratico luogo a quelle idee che non ammazzano di per sé, qualche nuovo Breivik e qualche nuovo Casseri si stanno già esercitando al tiro e hanno magari già acquistato una 357 Magnum.

Ecco, "parlare delle vittime" significa prendere tutti in considerazione, seriamente, di non limitarsi più a fare filosofia. Avere finalmente un po' di sana capacità, naturalmente senza mai perdere lo spirito critico e di osservazione, di ricondurre i fatti a certi princìpi basilari, perché più li abbiamo persi di vista (o addirittura rifiutati in nome di sterili arzigogoli nei quali ci è piaciuto tanto impantanarci), e più quelli sono andati avanti indisturbati. Principio numero 1: il "rapporto" che c'è tra certe idee e ambienti culturali e il Casseri che spara ai senegalesi si chiama nazifascismo, e la sua "dimostrazione pratica" ci è offerta da qualsiasi manuale di storia. Principio numero 2: Qualsiasi tolleranza, indulgenza o sostegno alla pur minima espressione razzista, da parte di chiunque, è da ricondursi automaticamente al Principio numero 1. Si tratta di minimi termini, e tutto il resto vi rientra dentro. Vi rientrano dentro Auschwitz e il Casseri. Oriana Fallaci e Heydrich. Andreas Behring Breivik e Casapound. Monsignor Alois Stepinac e i ragazzotti torinesi. Eugène Terre Blanche e Ponticelli. La "Difesa della Razza" e i pogrom contro i Rom, nella Germania nazista come a Ascoli Piceno. "Libero" e il "Völkischer Beobachter".

Non esiste nessun altro modo per parlare davvero delle vittime, di quei due ragazzi stesi sul selciato a Firenze e di tutte le altre che sono state dimenticate dopo due giorni. Cacciare via i fascisti, per sempre, ma non semplicemente dalle nostre città. Cacciarli via da sistema solare, non avessimo a ritrovarceli su Marte come nel Caso Scafroglia. Fuori dai coglioni loro e chiunque li sostiene e permette loro di agire indisturbati. Basta con la "Resistenza", ché a forza di "ora e sempre" è inesorabilmente scivolata nell'ieri e nel mai. Non bisogna più "resistere", bisogna andare all'attacco. Da subito. Paura? Se la avete, allora fatevi la vostra vita tanto tranquilla e andate a fare gli acquisti natalizi, che so io, al mercatino di Piazza Dalmazia.

I' Breivìcche


Da piazza Dalmazia ci passo una volta al giorno, come tutti i fiorentini. Al mercato di San Lorenzo ci ero sabato scorso a comprarmi una camicia a poco prezzo. San Lorenzo, quello del degrado, dell'insihurezza e degli abusivi; quello dei quadrilateri della paura tanto amati dalla Nazione, da Repubblica e dall'altra carta da culo quotidiana di questa città. Leggo qua e là, altrove, che non bisognerebbe "cavalcare l'episodio di cronaca" e altre cose del genere, ma questo non è un "episodio di cronaca". Quello che è successo oggi a Firenze è il risultato perfetto di anni e anni di odio, di razzismo, di gruzzoletti e di carriere guadagnati attizzando in tutti i modi possibili gli istinti più bassi e più beceri e più stupidi della cosiddetta gente. E' il risultato dei "reportages", dei "comitati dei cittadini", delle leghe, delle fiaccolate, delle legalità e di quant'altro. Eccocelo qua, finalmente, il nostro Breivik: Gianluca Casseri, da Pistoia, "tipo solitario", fascista simpatizzante di Casapound, descritto come "intellettuale"; eccocelo qua il vero figlio spirituale della illustre concittadina Fallaci Oriana, quella cui vogliono dedicare una via. Eccome che ci cavalco sopra, in piena coscienza e ancor più piena rabbia. Senza nessuna remora. Senza nessun ripensamento. In questi frangenti, "cavalcare" dev'essere ricondotto ad una funzione assai elementare: quella di salvare delle vite umane. Nulla mi convince che non ce ne siano pronti molti altri, di Breivik o di Casseri. Sono stati nutriti, ingrassati di odio razziale, blanditi; è stata data loro voce. E' stato permesso divulgare ogni giorno tonnellate di menzogne e di veleni. Sono stati costruiti facilissimi consensi con le ordinanze, con i sindaci e gli assessori sceriffi, con gli sgomberi. Il Casseri da Pistoia, i' Breivìcche, ha sublimato tutto questo. Ora ci stiamo accorgendo a cosa siamo arrivati; a uno che, una mattina vicino a Natale, con tutti gli addobbi, impugna un'arma e compie un raid di morte, a casaccio. Ammazza e ferisce persone per il solo fatto che sono di un altro colore. Ci piaceva tanto pensare che fossero cose lontane, ci piaceva pensare al Ku-Klux-Klan; e invece ora abbiamo un cammino diritto che ci lega all'isola di Utøya. Contenti? Soddisfatti? Probabilmente parecchi lo saranno pure. Non rimarrei esterrefatto se qualcuno, stasera, davanti alla pastasciutta e alla televisione giustificasse il Casseri, e forse addirittura gli alzasse un bicchiere; e non importa certo che sia un adepto dello Stormfront, un nazista, e nemmeno un simpatizzante di Casapound.

Tempo fa ero su un autobus strapieno. C'era la Coop di quartiere chiusa, e la direzione aveva organizzato una navetta per il supermercato aperto più vicino. Nei pressi di quest'ultimo passò una ragazza rom con in braccio un bambino piccolo; stava semplicemente camminando per una strada. Come la videro, alcuni bravi passeggeri, ometti, signore anziane, non si peritarono nemmeno un attimo di invitare l'autista dell'autobus, a voce alta, di schiacciare madre e figlio. "Passa a diritto sulla zìngana!"; e giù risate. Tra di loro e il Casseri c'è una sola differenza, almeno finora: il Casseri ha preso la pistola e ha sparato. Ha individuato i nemici della razza. Quelli che rubano il lavoro, perché tutti noi -è notorio- andremmo a vendere stracci nei mercatini. Ha dietro di sé un retroterra ben preciso. E' quindi necessario "cavalcare", e farlo in modo deciso. Tirarsi indietro in nome di chissà quale correttezza, nascondersi dietro i soliti stupidi non bisogna generalizzare, ora come ora è da soavi vigliacchetti da quattro soldi. Così come lo è dedicarsi alle solite "analisi", alle originalità, agli sdegnosi silenzi, al parlare ostentatamente d'altro. Torino pochi giorni fa, Firenze oggi; ripeto, questa non è più "cronaca"; questa è la quotidianità di ciò che è stato fatto diventare questo paese. Non è "follia", come peraltro verrà certamente presentata perché il "pazzo" rassicura. Breivik non è pazzo. Il Casseri non è pazzo. Sono persone che sono passate conseguentemente all'azione. Sono persone che hanno ricevuto tutti gli strumenti, teorici e pratici, per passarvi. Ed è inutile che, ad esempio, i signorini di Casapound si scherniscano dichiarando di non essere soliti chiedere a nessuno il certificato di sanità mentale. Prima di tutto perché un simile "certificato" non esiste, e poi perché sono tra quelli -assieme a tanti altri- che forniscono tutto l'humus richiesto.

E' una giornata nera questa Santa Lucia, per Firenze. Nera in tutti i sensi. Nera la pelle delle vittime innocenti del primo raid razzista pianificato e portato a termine con lucidità. Nero il suo autore. E nera la coscienza di tutti, nessuno escluso. Nera quella di chi è precipitato nell'odio razziale anche conversando al bar o dal pizzicagnolo. Nera quella di chi ha fomentato tutto questo. Nera quella di chi ha lasciato perdere, per motivi che vanno dal "quieto vivere" all'opportunismo, dal voltarsi dall'altra parte al sostegno più o meno aperto. E nera anche quella di chi non si è opposto abbastanza, preferendo magari gettarsi in sterili "discussioni", in "dibattiti", in sofismi tanto "documentati" o "argomentati". Nerissima quella dei "io non sono razzista, però..." E' il momento di dire basta, perché i Breivik e i Casseri non indietreggiano; sono pronti a tutto. Anche a spararti se ti metti nel mezzo, come è successo stamani all'edicolante di Piazza Dalmazia: "fossi in te ci penserei", o qualcosa del genere, gli ha detto puntandogli addosso la pistola. Da oggi, da subito, cominciamo a smantellare tutto questo. Non permettiamo più che prosperi, ma per non permetterlo non si può più invocare pace e bene; per queste cose abbiamo perso definitivamente il treno, consentendo che diventassero soltanto un comodo rifugio per tenersi al riparo con la coscienza pulita. Non sono tempi gentili, e non si può essere gentili. Bisogna segare alle gambe questa gente, e segarla definitivamente. Non si può più sottostare ai fabbricanti di Breivik, di ragazzotti torinesi e di Casseri, perché questi bruciano e ammazzano in mezzo a tutti noi. E basta anche dare la colpa alla "crisi", perché non c'entra un cazzo di niente; quei ragazzi che muoiono nei nostri mercatini vengono da paesi dove non c'è nemmeno da mangiare, generalmente.

Altrimenti, non c'è che da aspettare il prossimo Casseri Gianluca, da Pistoia. Figlio dell'odio, della paura fabbricata in serie, del capitalismo, del lezzume politicante e giornalistico, e dell'indifferenza. Attenti a andare al bar e a commentare, magari, con un "sì, era pazzo, però..."; ne potrebbe entrare un altro, mentre si reca al mercatino dietro casa a ripulire il mondo dai nemici che gli hanno offerto per il loro lurido gioco. E non venitemi a dire, ora, che li "piangete", quei ragazzi senegalesi senza nome; non li "piangete" affatto come non avreste pianto gli zingari di Torino, se il raid fosse andato davvero a buon fine: "Ma ci sono bambini! E che importa...bruciamo anche loro!". Il Casseri, fascista di merda, il nome ce l'ha avuto immediatamente. I nomi di chi l'ha prodotto li sappiamo benissimo. Le sedi di Casapound sono state aperte coi soldi pubblici, magari di quegli stessi Comuni che smantellano i servizi essenziali. Nel frattempo, i giornaletti schifosi e servili continuano a chiamare quei ragazzi vu' cumprà, a questo punto potrebbero chiamarli tranquillamente vu' crepà. E le "forze dell'ordine" che fanno? Non vanno mica a perquisire le tane di quei ratti, caricano il corteo dei senegalesi disperati e furenti. E il "prefetto", cosa fa? Se la prende coi "centri sociali che fomentano". Capito? Già annuncia l'ennesima stretta repressiva. E la magistratura? Manda a processo delle persone accusandole di avere fatto fare a una sede di Casapound la fine che merita. Fatto successo alcun tempo fa, e a Pistoia. La città d' i' Breivìcche. Tout se tient.

sabato 10 dicembre 2011

Torino


Da qualcosa bisognerà partire. Partiamo ad esempio dalla "famiglia" e dai suoi possibili ambienti. Vi devono essere famiglie in cui una ragazza di sedici anni, per coprire il fatto di essere stata con un ragazzo, è disposta a inventarsi di essere stata stuprata. Ciò che è avvenuto a Torino stasera non è peraltro il primo episodio del genere. Notoriamente, a sedici anni una ragazza può tranquillamente essere abusata dal branco di amichetti tanto ammodino, oppure dallo zietto affettuoso, o da chiunque altro; vi sarà poi sempre chi li giustificherà, o che dirà che è stata una ragazzata, o che lei ci stava, e via discorrendo; l'importante è che non contravvenga alle regole familiari. Se si innesta il meccanismo della paura, ci sono comunque già pronti gli stupratori istituzionali, quelli che ce l'hanno nel sangue oppure nella cultura, generalmente in forma di rom e/o romeni; scrivo "romeni" e non "rumeni" perché, con buonapace di questi ultimi che verso i rom sono storicamente quanto di più razzista possa esistere, dagli italiani vengono spesso e volentieri confusi.

Non trovo semplice parlare di queste cose, perché gli stupri e le violenze nei confronti di bambine e ragazze giovanissime sono all'ordine del giorno, e sono cose ben reali. Fatti quotidiani, sempre che vengano a galla. In ogni ambiente, in ogni nazionalità, in ogni censo; dall'emarginazione urbana fino alla borghesia medioalta. Per un essere umano di sesso femminile, essere un oggetto comincia immediatamente; e si dovrebbe ragionare seriamente sul fatto che la terribile realtà dei fatti possa servire, in alcuni casi innescati dalla paura e da stupide e criminali convenzioni sociali e familiari, per cercare di salvarsi da una prevedibile reazione della propria cerchia. Una ragazza sembra non avere scampo: se viene stuprata per davvero, sa che i suoi aguzzini saranno sempre giustificati e che ha la concreta possibilità di passare rapidamente da vittima a adescatrice. Se non viene stuprata affatto ma deve coprire la "vergogna" inaccettabile "moralmente", si ritrova spesso costretta ad inventare storie che possono avere conseguenze terrificanti. E' esattamente quel che è accaduto a Torino.

Naturalmente, si tratta di conseguenze terrificanti a causa dell'atmosfera di odio che è stata fabbricata ad arte negli ultimi decenni. Se per lo stupro, reale o inventato, vengono accusate certe tipologie di persone (rom, romeni, immigrati in generale), scatta il pogrom da parte della "brava gente"; e si tratta della stessa "brava gente" che è disposta non solo a chiudere tutti e due gli occhi, ma anche a accusare la stessa ragazzina violentata dal fidanzato, dagli amici o dal familiare, di essere una puttanella, una "piccola rizzacazzi", di vestirsi in una certa maniera (causa principale degli stupri, secondo molti), di essersela voluta.

Sarebbe ora di cominciare a dire che per tutto questo stato di cose esistono dei colpevoli ben precisi, e che una società civile dovrebbe decidersi a metterli in condizione di non nuocere ulteriormente. Mentre le violenze autentiche e quotidiane sulle donne di qualsiasi età sono quasi sempre ridotte a ragazzate e scherzi, oppure scusate in tutti i modi possibili e immaginabili, si ha la certezza che la prima voce sui "nomadi" o sugli "immigrati" mette in moto la manifestazione, la fiaccolata e l'incendio del campo. Sono peraltro certo che moltissimi, per non dire proprio tutti, saranno comunque contentissimi: sí, vabbè, non saranno stati loro e la ragazzina si è inventata una balla, però gli zingari sono comunque tutti ladri, stupratori e delinquenti e quindi chi ha dato loro fuoco ha fatto benone. Come il padre che, tempo fa, ha deciso che l'overdose mortale per la figlia era stata fornita dagli zingari di un campo, ha preso un'arma e ha ammazzato come un cane un ragazzo di diciott'anni che non c'entrava assolutamente niente. Oppure l'incendio del campo nomadi di Ponticelli per l'ennesimo "bambino rapito dalla zingara", una puttanata che si trascina fin dal Medioevo ma che in tale epoca aveva perlomeno la scusante dell'arretratezza della società rurale.

Le "forze dell'ordine" sono tanto solerti nell'impedire manifestazioni, nel dare la caccia al "black bloc", nel proteggere in forze i cantieri della TAV, nel fare caroselli con gli autoblindo in mezzo alla folla, nello spedire in galera o agli arresti domiciliari militanti antagonisti, nello sgomberare occupazioni e centri sociali, nel reprimere le rivolte di Rosarno; a Torino è bastata una cinquantina di pezzi di merda per distruggere un campo, rischiando di fare una strage di innocenti per una ragazzina che si era inventata uno stupro quando ci sono centinaia di sue coetanee, stuprate per davvero, per le quali non viene mosso un dito. Dicono che i carabinieri e la polizia sono stati "presi alla sprovvista"; o non sarà mica, invece, che hanno lasciato fare? C'è voluto addirittura il fratello della ragazza che è andato tranquillamente a parlare ai devastatori, i quali si sono "allontanati alla spicciolata".

Ma è chiaro che i "tutori dell'ordine" mica si possono mettere a difendere in forze un campo abusivo, sebbene una reazione del genere da parte della popolazione, sotto questi chiardiluna, sia assolutamente prevedibile; anzi, i devastatori hanno risparmiato al Borgomastro le ordinanze e le ruspe. Cittadini modello. Gli stessi "tutori" ce li ritroveremo in forze a operare decine di fermi, anche preventivi, in occasione di lanci di uova, di bancomat imbrattati, di torte in faccia al sindacalista venduto a Marchionne o di contestazioni a qualche fascista governativo. Ce li ritroveremo a reprimere una manifestazione di disoccupati o a tirare giù dalla gru gli operai immigrati a Brescia. Ce li ritroveremo a accompagnare in galera, malvolentieri e con ogni gentilezza, il ragazzo sorridente che ha appena massacrato l'infermiera alla stazione Anagnina, mentre er quartiere lo difende a spada tratta. E così, da stasera, ci sono dieci, cento, duecento esseri umani che in pieno dicembre non hanno nemmeno più la loro miseria nera come tetto, una ragazzina di sedici anni la cui prodezza non farà riflettere nessuno, e tanta brava gente che si meriterebbe una cosa sola. Che, finalmente, qualche "campo nomadi" si procurasse delle armi, e che andasse a mettere a ferro e fuoco un bel campo italiani. Uno dei nostri bei quartierini abitati dalla "brava gente in crisi", quella che "non arriva a fine mese", quella delle fiaccolate e delle spedizioni punitive. Chissà che, dopo un po', non si accorgano che al posto delle guerre tra poveri non sia meglio un po' di coscienza di classe, e che invece di andar dietro agli schifosi che hanno lavato loro il cervello, non sia meglio coalizzarsi per andare tutti insieme a dare fuoco ai palazzi del potere.

Il dodici dicembre


Wikipedia ha, tra i tanti, un servizio utilissimo: gli avvenimenti del giorno. È semplicissimo: se uno vuole, mettiamo, sapere che cosa è accaduto nei secoli il 3 luglio o il 27 ottobre (e, perché no, anche il 30 febbraio), basta che digiti il giorno e il mese corrispondente su Google o direttamente sulla homepage dell'enciclopedia online. Ogni giorno dell'anno è accaduto "qualcosa", o almeno così sembra.

Così, ad esempio, stamani mi è presa la curiosità di andare a vedere che cosa sia accaduto il dodici dicembre; è fra due giorni, lunedì prossimo, giorno peraltro in cui dovrei recarmi in tribunale per una cosa che mi riguarda (ma non so ancora se ci andrò). Così sono venuto a sapere cose molto interessanti.

Così, ho imparato che il 12 dicembre dell'anno 627 si svolse la Battaglia di Ninive, ultima delle guerre romano-persiane tra l'impero bizantino e i Sassanidi; si scontrarono gli eserciti di Eraclio e Cosroe e stravinsero i bizantini. Oltre 50.000 persiani morirono sul campo; addirittura, il generale bizantino vittorioso uccise di persona il suo omologo persiano, Rhazadh, che comandava l'esercito di Cosroe.

Il 12 dicembre 1531, invece, apparve Nostra Signora di Guadalupe a Città del Messico, che allora qualcuno chiamava ancora Tenochtitlán. La cosa richiede una breve riflessione: i conquistadores non erano nemmeno finiti di arrivare e di impossessarsi di ogni cosa, che già appariva una Madonna. Si trattò ovviamente di un'apparizione che cadeva come il cacio sui maccheroni: la Santa Vergine apparve infatti (e come dubitarne!) ad un azteco convertito al cristianesimo, che però aveva conservato il suo impronunciabile cognome in lingua nahuatl: Juan Diego Cuauhtlatoatzin. Fu la Madonna stessa a dettargli il nome specifico: pare infatti che Guadalupe derivi da coahtlaxopeuh, "colei che schiaccia il serpente".

Facciamo passare qualche secolo e andiamo un 12 dicembre in una banca a Milano. Ah, direte quasi tutti, eri qui che volevi arrivare! Eh no. Perché dovete sapere che il 12 dicembre 1865, fu costituita la Banca Popolare, con atto firmato presso il notaio Girolamo Corridori. Cosa curiosa, la banca fu originariamente costituita ed ebbe sede a Palazzo Marino, l'attuale municipio milanese.

Ci sono grandi città intere che hanno un compleanno ben preciso: una di queste è Belo Horizonte, in Brasile, capitale dello stato federale del Minas Gerais ("miniere generali"; significa, letteralmente, che vi si estrae d'ogni cosa). Fu fondata il 12 dicembre 1897 e, in soli 114 anni, è diventata una metropoli di quasi due milioni e mezzo di abitanti. A un brasiliano non la chiamate "belorizzònte" così come si scrive, sennò non la riconosce; bisogna dire belurisònci. Ci sono nati famosi calciatori come Luís Vinício, Tostão (che vuol dire "soldino") e Toninho Cerezo, e anche l'attuale presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff.

Scorrendo ancora, si viene a sapere che il 12 dicembre 1913 venne recuperata, a Firenze, la Gioconda di Leonardo, dopo due anni da che era stata rubata al Louvre dal famoso Vincenzo Peruggia. La RAI del tempo che fu ci fece sopra uno sceneggiato (ancora non si chiamava fiction) interpretato da Enzo Cerusico (ve lo ricordate, quello di Tony e il professore?); mi è capitato di rivederlo qualche mese fa su Rai Storia.

Il 12 dicembre 1963, quando non avevo nemmeno tre mesi di età, il Kenya divenne indipendente. C'era stata, pochi anni prima, la famosa rivolta dei Mau-Mau. E, per restare in Africa, il 12 dicembre 1979 quella che era stata la Rhodesia razzista di Ian Smith, unico stato che praticava l'apartheid assieme al Sudafrica, cambiò nome in Zimbabwe. La pagina Wikipedia fa in tempo anche a dirci che il 12 dicembre 2008 c'è stata un'eccezionale piena del Tevere; a Roma spirano d'avere un'alluvione come si deve, ma almeno in questo caso si devono accontentare di qualche piena o di qualche nubifragio dopo che Alemanno aveva detto sui manifesti che nun ce ne sarebbero stati più. Invece, ciccia. Bazzecole. Nulla di paragonabile ai cinque metri d'acqua dell'alluvione di Firenze, o ai disastri genovesi. Il Tevere è stato battuto persino da un insignificante fosso di Marina di Campo; per non parlare del Polesine, di Alessandria, di Sarno, di Vicenza...insomma, Roma sarà caput mundi di tutto, ma non delle alluvioni; però, quando il Tevere va su un po' più del dovuto, ecco le non-stop televisive e i drammatici appelli. Che palle.

Insomma, sono successe tante cose il dodici dicembre. Tranne una. Quella che, orsù confessàtevelo, vi aspettavate tutti quanti. In effetti, per anni e anni sono andato avanti anch'io a ricordarmene e a ricordarla, a non perdere la memoria e via discorrendo. Mi sono invece reso conto di una questione elementare: non è mai successa. Non c'è proprio nulla da ricordare. La banca? Non c'è più. Si sarà fusa con qualche altra, di sicuro. Avrà dato vita a qualche gruppo leader. Meglio non parlarne nemmeno, sarebbe; a forza di memorie e di anniversari ci siamo consumati la vita, sentendoci magari migliori e idiozie del genere. Non siamo migliori. Siamo tutti gente che abbiamo, anche noi, permesso che accadesse, e che riaccadesse, e che riaccadesse. Non abbiamo, e non faremo mai, nulla di concreto. Sudditi eravamo, e sudditi rimarremo. Quindi aspettiamo fiduciosi altri dodici dicembre "storici", non c'è alcun dubbio che Wikipedia li terrà nella debita considerazione; magari, chissà, potrebbe essercene un altro proprio tra due giorni, lunedì prossimo, e non lo sappiamo. Un'altra battaglia fra bizantini e persiani. Un'altra città brasiliana fondata. Un'altra banca che si costituisce. Un'altra Madonna che appare.

Nell'immagine: la Madonna di Guadalupe.

venerdì 9 dicembre 2011

Spedizioni


Ogni mattina, ogni giorno, ogni sera, riceviamo dei pacchi bomba che esplodono. Tutti noi.
Ce li consegna il postino, o li troviamo in cassetta. Per farli esplodere, non importa neppure aprirli: basta leggere la dicitura sulla busta. Quando ti vedi recapitare la busta con su scritto "Equitalia", sai già di essere stato vittima di un attentato.

Ecco, stamani sembra che una volta tanto sia toccato a loro.

E mentre il Sobrio Bocconiano®, quello dell'Equità meno "lia", si accorava tanto, si dice che un satellite che transitava sulla penisola abbia registrato uno strano e prolungato crepitio mitragliante, tanto da far temere un conflitto armato. La rivoluzione? Macché. Erano milioni di tappi che saltavano, di qualsiasi cosa ci possa essere di gassato. Spumante, cocacola, minerale Briorosso, limonata, gazzosa, bonarda dell'Oltrepò, acqua del rubinetto fatta con le cartine del cavalier Gazzoni, cedrata Tassoni, tutto. Un tappo particolarmente possente ha centrato persino il satellite.

In alto: la foto a corredo del Cor(ro)sivo della Militant. Il (breve) commento recita: "Spedito pacco bomba alla sede di Equitalia. Si indaga su 60 milioni di italiani".

10 dicembre: aggiornamento dei commenti sulla Militant. "Roma. Spedito pacco bomba alla sede di Equitalia. Il direttore ferito a un artiglio."

Allegria (aaaaaaaaaaa!)


Oggi ci avrei da fare un annuncio importante; anzi, addirittura epocale.

Certo, potrà sembrare abbastanza strano che un proclama di questo genere avvenga per tramite di un blogghino del cavolo al 1043° posto nella classifica ebuzzing (ex Wikio); fosse avvenuto attraverso uno Spinoza, un Nonleggerestoblogghe, un Metilparaben (ottimo nome sarebbe per il blog di un portiere) o altri pezzi da 90 della bloggherìa, ammetto che sarebbe stata un'altra cosa. Però vedo che non ci ha pensato ancora nessuno, e un siffatto annuncio non può essere rimandato. Ebbene sí: la crisi è finita.

D'ora in avanti si potrà guardare con fiducia al futuro. Il cuore della Nazione è sollevato. Le manovre saranno più che sopportabili. Si potrà scavare una Tavvina anche sotto il Monte Testaccio. Scenderà lo spread e al posto di Standard & Poor ci faranno un beauty farm. Gli indignati si disindigneranno. Da lassù, Lui ci veglierà. Cominci pure a preoccuparsi Padre Pio: il rischio di essere spodestato è serissimo e i primi miracoli sono già stati segnalati. Nell'imminenza del Santo Indice Annuale de' Consumi, il Signore dei Cieli, indossando un pulloverino prestatogli dal suo omologo in terra, ha inviato il Segnale: è stata ritrovata la bara di Mike Bongiorno.

Come al termine d'una pestilenza, suonano festose le campane a distesa. Da Aosta a Capo Passero, dal Tirreno all'Adriatico, da Milano a Sanremo, dal Manzanarre al Reno e da Parigi a Roubaix (scusate, mi son lasciato pigliare dall'entusiasmo), il pòpolo scende finalmente per le strade (cosa che si era ben guardato dal fare mentre infuriava la nefasta crisi). Il pretendente unico al trono d'Italia, Rosario Fiorello I, dopo il suo ennesimo trionfo televisivo si lascia andare ad un liberatorio Evviva! La Fornero dichiara: "Dopo il trafugamento della Santa Salma, avevo provveduto a piangere almeno due litri e mezzo di lacrime". Il leader dei Disobbedienti, Casarini, confessa invece: "Avevo fatto voto di obbedienza se avessero ritrovato Mike." Pur con la consueta sobrietà ed equità, il presidente del Consiglio, Mario Monti, ammette che i mercati hanno reagito assai positivamente alla fausta notizia e che "il ritrovamento di Mike è un toccasana per il debito pubblico". Gli fa eco Emma Marcegaglia, dichiarando non senza una punta di polemica che "se avessero trafugato la salma di Berlusconi non sarebbe stata la stessa cosa". A proposito di quest'ultimo, l'ex presidente ha tenuto a dichiarare di essere pienamente disponibile a dare il proprio contributo alla definitiva uscita dalla crisi facendosi trafugare (e, ovviamente, ritrovare) da vivo. Per scongiurare inopportuni di "Chi l'ha visto?", ha immediatamente dichiarato che si tratta di una trasmissione comunista.

Nel dare questo felicissimo annuncio, e pur cosciente che la mia totale assenza da Facebook, Twitter e altri social networks non contriburà alla sua diffusione, mi unisco alla letizia di tutto il Paese e, finalmente, torno a guardare con fiducia all'avvenire. Anche perché i miracoli già segnalati, ottenuti mediante l'invocazione a San Mike Bongiorno, sono di tenore assai attuali: ad esempio, una lavoratrice dipendente di Vertemate con Minoprio (CO) ha dichiarato che, dopo un'orazione dinanzi all'effigie incoronata di Mike ha ottenuto la pensione dopo soli 35 anni di contributi, mentre il sindaco di centrosinistra di un paese marchigiano ha pregato assiduamente Mike che non venisse soppressa la locale ferrovia per Ascoli Piceno, ottenendo un inaspettato "ok".


mercoledì 7 dicembre 2011

Alexis kardeşimizdir

Ci avevano provato.

Prima a dire che era stato colpito da un “proiettile di rimbalzo”. Da una pallottola vagante, insomma. Se si potesse fare un elenco delle persone inermi che sono state uccise da “pallottole vaganti” (rimbalzanti, saltellanti, deviate...) della polizie di tutti i paesi, credo che corrisponderebbe più o meno agli abitanti di una città di media grandezza. Se, però, l'elenco fosse ridotto a quello di chi è morto veramente così, non si raggiungerebbero probabilmente nemmeno gli abitanti di un villaggio di montagna. Le “pallottole vaganti” sono come i famosi incendi boschivi per “autocombustione”. Le pallottole, di solito, non vagano affatto. Vengono mirate e sparate.

Poi avevano provato a dire che un gruppetto di ragazzini avevano “assaltato la polizia” e che gli agenti avevano “sparato dei colpi di avvertimento”, tra i quali quello che si era messo a vagare. L' “assalto”, poi, si era trasformato in generici “insulti”; un video ha dimostrato, invece, che non c'era stato proprio nessun attacco. Ora, si può essere anche ragazzini di quindici o sedici anni, ma non per questo si dev'essere per forza dei cretini. Un “assalto” a mani nude nei confronti di agenti di forze speciali antisommossa, armati fino ai denti. Le forze di polizia, invece, prima ti ammazzano e poi cercano (tra le altre cose) di farti passare per idiota.

Poi hanno tirato in ballo lo “stress”. Notoriamente, i poliziotti (specialmente quelli delle forze speciali) sono tutti stressati; ci sarebbe da chiedersi come mai ce li piglino e ce li tengano, visto che il lurido mestiere che hanno scelto non mi sembra un modello di tranquillità. Quantomeno, ci sarebbe da attendersi un po' di nervi saldi e capacità di valutazione delle situazioni; invece no. Sono stressati, e lo stress dev'essere sfogato. C'è chi tira una pedata alla porta, c'è chi fa una scenata a suo cugino, c'è chi si va a fare una nuotata di tre chilometri; il poliziotto speciale, invece, spara pallottole erranti. Magari pigliando pure la mira, che un po' di applicazione fa passare meglio lo stress. Questo lo avevano visto non so quanti testimoni oculari dei metodi antistress dell'Astynomia greca: una bella esecuzione capitale di un pischello riccioluto. Meglio del Prozac.

Poi gli avvocati dei poliziotti hanno tentato la carta della distruzione della vittima. Un “ragazzino ricco e annoiato”, il suo rendimento scolastico, le “cattive frequentazioni”, la sua presenza e le sue amicizie nel quartieraccio di Exarchia, quello degli anarchici. Insomma, ragazzo mio, sei avvertito. Se non provieni da una famiglia povera (quando si è poveri, non ci si annoia), se vai maluccio a scuola, se non frequenti compagni ammodino e selezionati, se non rimani ai Pariolakis di Atene o come si chiameranno, puoi essere tranquillamente abbattuto e te la sei voluta. A questo punto, sembra che la Grecia intera sia insorta. Gli avvocati sono stati zittiti immediatamente, e pesantemente, persino dal ministro dell'interno di allora, esponente di Nea Dimokratia (un partitino che te lo raccomando); zittiti e costretti a chiedere scusa alla famiglia Grigoropoulos.

La scaletta prevedeva a questo punto la carta sentimentale. I due agenti presentati come “affettuosi padri di famiglia”, insomma. Il pallottoliere vagante in persona, Epaminondas Korkoneas, ha tre figli in tenera età; il suo collega, Vassilios Saraliotis, ne ha invece soltanto due. Ammazza quanto figliano 'sti sbirri; poi si lamentano che ricevono stipendi bassi, minchia signor tenente. Viene senz'altro a mente una canzone degli anni '70, Il figlio del poliziotto. C'è poi da specificare che Monsignor Pasolini Pierpaolo ha fatto scuola anche in Grecia: c'è stato infatti chi si è affrettato a dichiarare che i veri “figli del popolo” (αληθινοί γιοι του λαού in versione greca) sono gli agenti di polizia, non i ragazzini, non gli “anarchici”.

Sembra che, però, in Grecia, tutto questo non abbia funzionato. Almeno nel caso di Alexis Grigoropoulos; poi tutto lascia supporre che, per il resto, i poliziotti greci si comportino esattamente come i loro colleghi di tutto il mondo. Con Alexis, però, la devono aver fatta un po' troppo grossa. Anche i loro capi e mandanti si sono accorti che quei due imbecilli, il Korkoneas e il Saraliotis, stavano rischiando di far sollevare il paese intero, perdipiù in una situazioncina armonïosa, placida e soave come quella che già c'era nel paese nel dicembre di tre anni fa. Gli è toccato lasciarli al proprio destino, il quale non era propriamente roseo. Gruppi anarchici ateniesi avevano minacciato, tout court, di ammazzare i due; prudentemente sono stati tenuti in galera. E poi mandati a processo in un buco di cittadina lontana da Atene, Amfissa, perché farli giudicare a Atene sarebbe equivalso a un assalto al tribunale, questo qui sul serio. Al processo di Amfissa sono state prodotte tonnellate di prove (testimoniali e audiovisive) che inchiodavano i due. Se uno straniero avesse visto i muri di Atene quel giorno, avrebbe imparato perlomeno le lettere Ε, Κ Δ, Ι, H e Σ, quelle che servono a formare la parola ΕΚΔΙΚΗΣΗ. Significa “vendetta”. Sapete, i greci non sono particolarmente inclini a “indignarsi” e preferiscono vendicarsi. Fossi la BCE, Sarkozy, Van Rompuy e quant'altri, me li terrei buonini invece di affamarli e di umiliarli. La Merkel e la Germania, poi. C'è caso che qualcuno torni a ricordarsi dell'occupazione nazista e di Kessarianì, mica è stata persa la memoria come qui da noi.

Il 10 ottobre 2010, poco più di un anno fa, i due poliziotti assassini sono stati condannati dal tribunale. Epaminondas Korkoneas, stressato ma affettuoso padre di famiglia, all'ergastolo. Vassilios Saraliotis a dieci anni. Praticamente come in Italia, no? Il Korkoneas, oltre ad essere un mentecatto esaltato (così è stato descritto persino dai colleghi), ha avuto pure uno sculo della madonna a nascere in Grecia; se si fosse chiamato Epaminonda Corconea e fosse nato a Pizzo Calabro, a quest'ora sarebbe già stato promosso, definito “eroe”, candidato alle elezioni comunali da un partito “law & order” (tipo quello del tovarišč Gianfranco Fini), avrebbe scritto un libro (o ne sarebbe stato scritto uno su di lui) e avrebbe venduto le sue memorie a “Oggi” o a “Vanity Fair”.

Eppure, in Grecia non si sono mica lasciati abbindolare neppure da questo; lo hanno capito benissimo di essere stati tenuti a bada con lo “zuccherino” della condanna dei due assassini. Hanno compreso alla perfezione che, per un paio che sono stati mandati al gabbio in primo grado, ce ne sono migliaia che fanno il segno di vittoria mentre reprimono selvaggiamente le rivolte quotidiane che si hanno nel paese. Rivolte delle quali continua a sapersi poco o niente. Nel frattempo, la Grecia sembra essere tornata al baratto, alle ricette di guerra e agli espropri. Nell'ottobre del 2010, subito dopo la condanna di Korkoneas e Saraliotis, il presidente dell'Associazione dei Cittadini Ateniesi, Manos Koufoglou, ha dato esatta voce alla situazione, denunciando che non si era proceduto affatto alla soppressione delle Forze Speciali delle quali i due facevano parte, e che le violenze poliziesche continuavano imperterrite.

Fanno tre anni precisi da quando Alexis Grigoropoulos, ragazzino quindicenne ateniese, ha subito la sua condanna a morte. Εκτέλεση, dicevano i cartelli ai suoi funerali. “Esecuzione capitale”. Oggi mi è capitato di sentire alla televisione un corrispondente estero della stampa greca in Italia, tale Deliolades o Deloliades, che raccontava di come, a Atene, è stato ricordato il terzo anniversario dell'assasinio di Alexis: con scontri pesantissimi. Però il corrispondente si è anche affrettato a dire che “con la situazione economica non c'entravano nulla”, e ha informato i telespettatori italiani che si erano verificati “per lo sgradevole incidente di tre anni fa in cui un giovane era rimasto ucciso, nel quartiere anarchico, da un poliziotto poi condannato all'ergastolo”. Il signor Deloliades parla benissimo l'italiano e corrisponderà anche per la sua stampa, però non capisce veramente un cazzo. In Grecia, oggi, non si può staccare più niente da niente. Chi ricorda Alexis e la sua esecuzione scagliandosi contro il braccio armato (e armato fino ai denti) di un sistema di fame che obbedisce come un cagnolino ai diktat dei mercati, delle banche e di un'Europa che sta affogando miseramente, si scaglia oggi (come allora) contro tutto quanto perché non è più disposta a subire niente senza reagire e senza tornare a percorrere le dure strade dello scontro sociale.

E così voglio ricordare anch'io Alexis Grigoropoulos, che oggi sarebbe come tutti gli altri. Un diciottenne impoverito, privo di un futuro, costretto ad assistere alla macellazione del suo paese, pronto a andarsene via. Magari, chissà, oggi sarebbe stato in piazza per ricordare come dev'essere ricordato un ragazzo che fosse stato al suo posto, quel 6 dicembre 2008. Ma il delicato pater familias Korkoneas aveva mirato a lui, e oggi non c'è. Mentre le armate dei morti e i loro “tecnici” cercano di uccidere e seppellire la Grecia. Non ce la faranno.

Ο ΑΛΕΞΗΣ ΖΕΙ, ΟΙ ΝΕΚΡΟΙ ΕΙΣΤΕ ΕΣΕΙΣ

Nella foto. Dicono che greci e turchi siano nemici “storici e mortali”, a base dei loro nazionalismi di merda. L'immagine mostra dei ragazzi turchi con l'effigie di Alexis Grigoropoulos. La dicitura, in lingua turca, significa “Alexis è nostro fratello”. L'ho voluta scegliere come titolo di questo post.