mercoledì 31 ottobre 2012

Prào ha ufficialmente un sindaco di merda


Il signore che vedete seduto sul cesso (in crava e giacatta) è tale Roberto Cenni, sìndao di Prào.

Naturalmente non lo sto "diffamando" e, ai sensi dell'eventuale nuova legge, non pubblicherò nessunissima "rettifica entro 48 ore"; che sia un sindaco di merda, lo ha certificato ufficialmente lui stesso, facendosi ritrarre e intervistare seduto su un cesso. A casa mia, e penso in quella di chiunque altro sia pur vagamente sano di mente, sul cesso ci si siede per espletare funzioni fisiologiche, non per farsi intervistare "per protesta". Siamo il paese in cui, da un lato, un "signor prefetto" brutalizza un cittadino perché non declina la "carica istituzionale" e, dall'altro, il sindaco di una importante città si fa fotografare e intervistare seduto su un cacatoio. Da notare che il medesimo sindaco si era fatto ritrarre in tutta la sua maestà istituzionale, nel suo bell'ufficio, mentre lo intervistavano riguardo al fallimento rovinoso della sua azienda di abbigliamento, la Sasch. E pensare che il Cenni era stato persino nominato presidente dell'Associazione 'Ndustriali Praèsi e anche per questo eletto sìndao qualche anno fa, naturalmente per il PdL (sigla, attualmente, di Partito dei Liquefatti).

Ma perché il sìndao si è fatto, oggi, ritrarre e intervistare seduto sul cesso?

Beh, la provincia di Prào, istituita nel 1993 dopo circa 4200 anni di tentativi, sta per scomparire. Verrà, come è noto dai giornali d'oggi, accorpata alla "Città Metropolitana" formata da Firenze e Pistoia. Vorrei chiarire il mio punto di vista assolutamente parziale e carognesco al riguardo: io sono del tutto sfavorevole, per motivi sentimentali, alla scomparsa delle vecchie provincie; fosse per me, rimetterei anche le vecchie targhe automobilistiche al posto degli orrori alfanumerici che circolano da una ventina d'anni. Sfavorevole, tranne che per la provincia di Prào. Prào non dovrebbe chiudere e basta, e per una caterva di ragionevoli motivi; e non dovrebbe nemmeno essere accorpata né a Firenze e né a Pistoia. Prào dovrebbe essere accorpata, finalmente, alla provincia di Shanghai o di qualsiasi altra città cinese, come suo sobborgo industriale. Inserita finalmente in un circuito economico dinamico e ben gestito, decisivo nello scacchiere internazionale e sul mercato globale, invece che nella pretenziosa e inconcludente fuffa dove si trova da anni e anni. Una fuffa che ha saputo produrre soltanto quanto segue, ancorché in abbondanza: razzismo a dismisura, proliferazione di fascistelli che fanno a gara di idiozia, leghismi in salsa toscana, carogneria diffusa, ciance tragicomiche su degràdo e sihurezza, consiglieri comunali picchiatori, qualità della vita scesa ai minimi termini nonostante i roboanti proclami, disumanità eletta a regola, totale immobilismo socioeconomico, la cultura ridotta a mostre di accessori per SUV. Non a caso l'ex ministro dell'interno Maroni, ovviamente leghista, parlava di "modello Prato"; questo è il modello che questi delinquenti ci hanno imposto per anni.

Dice l'industriale fallito Cenni che sarebbe indegno accostare il gonfalone della città a questa vergogna istituzionale; e nel dire questo, facendo ovviamente disperata leva su quanto di più basso possa esservi nel già non elevato senso del decente di quella città, se ne sta tranquillamente, col suo doppiopetto inutilmente abbottonato, su un water close. Questa l'immagine che dà al mondo della sua città; e si deve dire, a onor del vero, che è sostazialmente esatta. Sa, probabilmente, che alle prossime elezioni comunali verrà spazzato via assieme a tutta l'insipienza che ha profuso a piene mani assieme alla sua giunta; un "modello" sì, ma del niente più assoluto. 

Nell'auspicare quindi che Prào venga finalmente assorbita dalla Repubblica Popolare Cinese, adempiendo così alla celebre e nobile dichiarazione di un sindaco veramente degno di questo nome (il sindaco di Firenze Giorgio La Pira: "La repubblica di Firenze riconosce la Repubblica Popolare Cinese"), con la quale -peraltro- la città metropolitana di Firenze, Pistoia e Campi Bisenzio si troverebbe fruttiferamente a confinare, viene consegnata alla storia l'immagine immortale del sindaco cacatore. New York ha avuto il sindaco che si ergeva sulle rovine delle Torri Gemelle. Berlino Ovest ha avuto come sindaco Willy Brandt mentre costruivano il Muro. Firenze ebbe come sindaco Mario Fabiani, immortalato mentre stringeva la mano a Pablo Neruda. Prato verrà ricordata per il sindaco con la diarrea.

martedì 30 ottobre 2012

Resurrezione (11-12)


11.

Stava entrando uno spiffero freddo, dentro al chiosco; nessuno s'era accorto che, dalla porta semiaperta, sbucavano tre teste. Quelle di due ragazzini, quindici o sedici anni, che ascoltavano con un'aria a metà fra l'ebete e il commosso; e quella d'una signora attempata, e pitturata, che teneva anche una sigaretta in bocca. " Dé, ma come saranno bravi… ", fece quella, rivolgendosi ai due ragazzi che le risposero con dei gargarismi incomprensibili, del resto tipici della loro età; nel chiosco, tra fumo e fiati, l'aria era diventata quasi irrespirabile, e quello spiraglio d'aria arrivava a pipa di cocco. C'era, fra tutta quella gente là dentro, uno che stava facendo de' grand'isforzi pe' 'un piangere, ed è una cosa che va detta in livornese perché in veneto non la so dire. Non la so ? E chi sono io ? Il narratore, quello che racconta. Soltanto, non so più se sono io che sto raccontando questa storia, o è questa storia che sta raccontando me. Forse, tutte e due le cose. Ma non è importante; non mi vedrete più, state tranquilli. 

Piero Ciampi non aspettò neanche che si ricominciasse a parlare. Li vide tutti quanti sfoderare gli strumenti, compreso quello là che aveva finito di sorseggiare la sua Heineken con la cannuccia, e che, fino a quel momento, era stato l'unico a non profferire nemmeno una parola. Tirò fuori un basso elettrico e si mise a arpeggiare qualcosa, così. A strumento staccato. 


" O Schuster, ma lo suoni amplàgghed… ? ", fece il ragazzo dal bushveldt nei capelli; gli fece eco il Massimiliano: " O Andrea…'un tu lo sai che Marco 'e gli è sempre umpluggato… ". Una risata restò sospesa per l'aria, scaricandosi poi come quando si urtano una massa d'aria d'origine africana e una depressione proveniente dall'Islanda; il barista scivolò sul fondo umidiccio del bancone pigliando una culata mentre continuava a ridere, trascinando con sè una bottiglia di Western Pearl, rum a sessantasette gradi, che fortunatamente non si ruppe; alla signora attempata si aprì la borsetta, sulla quale campeggiava il marchio Luis Guitton, e nella disattenzione generale ne uscì fuori anche un pacchetto di preservativi ancora incellofanato. Marco Schuster continuava a basseggiare amplàgghed, completamente tetragono alla situazione; Piero Ciampi aveva approfittato della momentanea indisposizione del barista per fregare un boccione di vino già a metà, ma era un boccione da due litri.

 " O che si canta ora… ? " 
" Ma voi ce le avete le canzoni vostre ? Per forza, se andate a un premio… " 
" Sì, certo che ci s'hanno ", disse Luca, quello bello con l'accento fiorentino. " Però s'è venuti a i' Premio Ciampi, e si vòle sonà le hanzoni di Ciampi. Oh, però, te tu le 'honosci tutte ! 'Ndo 'ttu l'hai imparahe… ? " 
" Me l'ha 'nzegnate un merlo… ", fece Piero scolandosi in contemporanea, mentre parlava, un bicchiere di vino. Nessuno riuscì a capire come avesse fatto. E riattaccò, seguito da tutti ai primi accordi, una certa canzone che parlava d'un Natale anticipato d'un giorno; e tutti insieme, a parte lo Schuster che continuava col suo basso che si sentiva lo stesso, e il Davide, che s'era messo a cantare con la fisarmonica in mano, senza suonarla. Poi lo lasciarono a cantare da solo, Piero. 


Fuori dal chiosco, s'era fermata una macchina. Era una vecchia Polo blé targata Ravenna; a bordo, un tizio alto, con gli occhiali e con la barba, stava a ascoltare con il capo reclinato sul volante. Sembrava che dormisse; accanto a lui, una signora di mezza età gli carezzava piano la testa. Pianissimo, dolcemente. " Ce l'hai un posto dove andare ? ", continuava a ripetergli ; ma lui non rispondeva. Probabilmente, si stava preparando a andare a una stazione, ma senza fermarsi. C'era un treno che partiva quella notte, per dove non si sa. Non lo sapeva neanche lui. Piero Ciampi finì la canzone, e tutti s'accorsero in un istante che aveva finito anche il vino. Nessuno disse nulla. Uscì dal chiosco, con la chitarra in mano. S'appoggiò alla polo Blé . Posò la chitarra per terra, mettendosi a cantare e basta. A urlare. E basta.



Si mise a smanacciare, salutando i ragazzi che erano venuti tutti fuori. Anche lo Schuster, con ancora il basso in mano ; anche il barista, toccandosi il culo che gli faceva ancora male ; e cantava, Piero Ciampi, morto a Roma il 19 gennaio 1980 e risorto in quel giorno strano, cantava le urla finali di quella canzone che aveva scritto tant'anni prima, dopo essere volato in mare, una notte di luglio, dagli scali delle Cantine. Le urla. E il vino. Com'è bello, il vino ; e com'è poco, il vino. E' sempre poco, il vino. Que vienne le temps du vin coulant dans la Seine, les gens par milliers courront y noyer leur peine...

" Piero ! Piero ! Aspetta ! " Piero aveva già preso, barcollando, la strada del porto.
" Sì, dimmi. Tu sei…. ? "
" Sono Andrea. "
" Dimmi…Andrea. "
" Domani devi venire a sentirci, al Premio. "
" Non ciò manco i sordi pe' mangià, figurati pe' comprà ir biglietto... "
" Ti facciamo entrare noi, tranquillo. Ti prego, vieni. Ci farebbe piacere. "
" Cercherò di venire. "
" Quando arrivi…chiedi di Andrea. Andrea Parodi, sono io. Qualcuno scende e ti si fa entrare. "
" Va bene. Ci si vede domani sera. Ma cantate le canzoni di Piero Ciampi ? " Quella seconda volta in cui pronunciò il suo nome a voce alta, quasi lo svegliò.
" Non solo quelle. Anche qualcuna delle nostre. "
" Mi farà piacere sentire qualcuna delle vostre, davvero. "
" Peccato che tu non ti sia iscritto… "
" Te l'ho detto. Non ho una lira. E poi, davvero, non sapevo neanche che esistesse, 'sto premio… "
" Ma come ? Sai tutte le canzoni di Piero, e non sai che da anni c'è un premio intitolato a suo nome…? ", fece Andrea, stupefatto.
" Sono stato via tanto tempo. Tanto davvero. "
" Ho capito ", disse Andrea, immaginando una cosa. " Sei stato dentro ? "
" Sì…sono stato dentro. Venticinqu'anni. "
 Andrea si fermo, e lo salutò lievemente. " Vieni, domani. "
" Vengo. Salutami i tuoi compagni. "
" Li saluterai anche tu domani sera. "
" Ciao. "
 Non sapeva neppure che ora fosse; ma decise lo stesso di andare un attimo al porto. Sì, tanto era sicuro che il Milanese lo avrebbe aspettato anche un quarto d'ora o venti minuti. Era oramai notte, e non aveva ancora rivisto il mare, in quel suo primo giorno auf der Erde.


" Jawohl, Herr Oberstkommandant…mi scusi…comandi, Maresciallo ! "
" Brigadiere Kellner, quante volte le ho detto che almeno in caserma non dovrebbe parlare tedesco…?"
" Ha ragione, mi scusi davvero…ma mi viene spontaneo… "
" Fa niente, fa niente. Ha detto che voleva vedermi ? "
" Sì, signor Maresciallo. Le devo riferire una cosa sulla quale oggi ho svolto qualche ricerca. "
" Mi dica, prego. "
" Stamani…verso le sei, sei e un quarto, ero di pattuglia assieme all'appuntato Musumeci e stavamo pattugliando per via Mastacchi. Abbiamo controllato uno strano tizio. "
" Brigadiere, ma lo sa quanti strani tizi girano per questa città alle sei di mattina… ? "
" Lo so, signor Maresciallo. Ma questo era strano davvero. "
" Mi dica, allora. Sono curioso. "
" Aveva una carta d'identità scaduta. "
" E sarebbe questa la cosa strana, Brigadiere… ? "
" Scaduta nel 1982. "
" All'anima ! "
" E aveva anche diecimila lire in tasca, signor Maresciallo. Diecimila lire, di quelle vecchie. "
" D'accordo, è una cosa un po' strana. Ma insomma…sarà un barbone, un vagabondo, ce ne sono a decine… "
" Il fatto, vede, signor Maresciallo, è che la carta d'identità è intestata a un morto. "
" A un morto ? "
" A un morto, le dico. Ciampi Piero, nato a Livorno il 28 settembre 1934. Ho controllato sui terminali anagrafici : risulta defunto il 19 gennaio 1980. "
" Ma è sicuro, brigadiere ? "
" Sicurissimo, signor Maresciallo. "
" Lei doveva conferire con me immediatamente a proposito di questa cosa. "
" Maresciallo, le faccio rispettosamente notare che Lei non s'è visto per tutto il giorno, in caserma, e non ho voluto disturbarla proprio oggi… "
" Va bene…va bene…che non si sappiano troppo in giro queste cose, chiaro ? "
" Chiarissimo, signorsì, signor Maresciallo. "
" Mi scusi, brigadiere…ma non potevate controllare le sue generalità sul posto, via radio ? "
" Proprio in quel momento c'è stato un blocàut. La radio non faceva. Morta. "
" E come si spiega questa cosa ? "
" Non lo so. Ho chiesto in caserma, al ritorno. Sembra che non ci sia stata nessuna interruzione delle comunicazioni radio con la caserma e con la centrale, Maresciallo. Ma l'appuntato Musumeci potrà confermarle sotto giuramento che la radio, stamani alle sei e mezza, non faceva. "
" D'accordo…forse c'è stato un guasto temporaneo sull'auto di pattuglia… "
" Dev'essere stato così, signor Maresciallo. "
" Avete fatto ulteriori controlli su questo…come si chiama?... "
" Ciampi Piero. "
" Ciampi Piero. Che altro mi sapete dire ? "
" Abbiamo indagato. Di mestiere risulta poeta. C'era scritto anche sulla carta d'identità. "
" Poeta ?!?... "
" Signorsì, signor Maresciallo. Da altre indagini, sembra che in realtà fosse una specie di cantante, o cantautore, scioperato e dedito all'alcool. Un matrimonio con relativa separazione, due figlie, delle quali la seconda avuta da una successiva relazione, qualche piccolo precedente penale per rissa e danni al patrimonio. Risulta defunto alla data che le ho detto prima. Per un male incurabile "
" E quello là aveva la sua carta d'identità. "
" Signorsì. E, le dirò, non solo la aveva. La foto corrispondeva. Era lui, non c'è alcun dubbio. "
" Potrebbe essere falsa ? "
" Non credo che qualcuno falsificherebbe una carta di identità, per qualsiasi motivo, lasciandola scaduta nel 1982, signor Maresciallo. "
" Ha ragione. E' davvero una faccenda molto strana, brigadiere. E' stato più avvistato in giro ? "
" Nossignore. Oggi non abbiamo avuto nessuna segnalazione. Mi sono permesso di diramare una comunicazione ufficiosa al riguardo, attendendo che lei tornasse e desse la sua autorizzazione. "
" La preparo immediatamente. Ciompi… ? "
" Ciampi, signor Maresciallo. Come il presidente della Repubblica. "
" D'accordo. Vada pure, brigadiere Kellner. Buonanotte. "
" Buonanotte a Lei, signor Maresciallo. "

12.


Era stata una giornata straordinariamente limpida, sebbene umidissima, e la serata e la notte lo erano altrettanto. Davanti a Piero Ciampi, seduto su un molo del porto con le gambe a penzoloni sul pelo dell'acqua, c'erano delle barche della Capitaneria e qualche battello da diporto ; non era andato verso le partenze dei traghetti, e il porto industriale era lontano. Osservava comunque, due calate oltre, le manovre d'attracco di una strana nave le cui fiancate sembravano istoriate da buffi disegni : una balena che sbuffava acqua, ed altre allegre figure forse riprese da qualche cartone animato. Nella semioscurità e nella lontananza, a Piero Ciampi parve di leggere il nome Mordillo, e lo prese per il nome dell'imbarcazione ; più a destra sulla fiancata si distingueva bene, anche perché era verniciato in lettere gigantesche, la dicitura Moby Lines


" Moby. Ecco perché c'è la balena, dé… ", pensava tritamente ciondolando, ed ignorando del tutto che a Livorno quel nome veniva oramai da anni associato ad una tragedia spaventosa. Non era capace di pensare niente, sul porto e davanti al mare. Un vuoto assoluto. L'unica cosa che gli passava per la testa erano quei ragazzi con gli strumenti, nel chiosco, e le canzoni che avevano cantato ; ed anche loro parevano far fatica a configurarsi come un pensiero. Quasi nessuna luce era accesa sul mare; soltanto al largo, si vedevano quelle delle navi alla fonda, in attesa di poter entrare in porto. Quasi nessuno sapeva che era un gran corridore. una volta, passando per Stoccolma con uno dei suoi treni, era sceso alla stazione e aveva preso delle strade a caso, di gran carriera, in una giornata di luglio incredibilmente calda per quelle latitudini. Correva e vedeva la gente quasi squagliarsi, oppure cercare refrigerio in qualche fontana, e lui correva senza fermarsi neppure a chi gli diceva o gli gridava qualcosa in una lingua sconosciuta. Hej ! Har du brååått ?…, gli aveva urlato una ragazza mora con un ombrello in mano, poiché da quelle parti il tempo cambia alla svelta ; e lui correva, correva per arrivare a una bottiglia. S'era fermato a un bar dove aveva visto del vino bianco in vetrina, forse francese, forse italiano, chissà ; e, per fortuna, " vino " si dice vin pure in svedese. Aveva cacciato fuori da una tasca dei pantaloni dei soldi imprecisati, e dopo un'ora qualcuno lo aveva ritrovato briaco, steso per terra sulla Kungliga Torget. 


Non si sa che cosa esattamente avesse risposto alla polizia svedese, che qualcuno doveva sicuramente aver chiamato ; una conversazione tra un poliziotto svedese e un poeta briaco livornese, non è facile immaginarla. " Boia dé ", in svedese suonerebbe qualcosa come " piègati qua ", e non si sa se il poliziotto si sia messo o meno ripetutamente ginocchioni, o a buco pillonzi. E Piero Ciampi s'alzò dal molo e si mise prima a camminare veloce, con un passo quasi identico a quello di Maurizio Damilano quando entrò vittorioso nello stadio di Mosca lo stesso giorno del funerale di Vladimir Vysotskij. Poi si mise a correre, a correre, a correre. Saranno state quasi le nove, se non erano già passate. 

In quattro balletti arrivò di nuovo in Cors'Amedeo passando da un'altra parte a incrociare Borgo Cappuccini ; per le strade non c'era praticamente nessuno, s'era messo a fare un freddo cane e correre, in mancanza d'un sistema francamente preferibile (tipo un boccione di vino rosso), sicuramente gli era di grand'aiuto. Quand'era ragazzo gli dicevano tutti che non aveva la milza ; era capace di correre per chilometri, tant'è che una volta gli avevano persino proposto di andare ad allenarsi per fare la maratona. Ma erano altre maratone quelle che Piero prediligeva. A Maratona, però, una volta c'era capitato in uno dei suoi giri dai quali mandava sempre bizzarre cartoline agli amici. Da Atene, s'era ritrovato sbattuto nel mezzo d'una strada statale da un camionista bulgaro che gli aveva dato un passaggio ; ne aveva approfittato per cercare qualche bicchiere di raki, che, quando fuori ci son quaranta gradi, aiuta a dimenticare il caldo. 

In Cors'Amedeo ci arrivò temendo che il Milanese avesse già tirato giù il bandone, che lo avesse in cuor suo mandato in culo e che se ne fosse tornato a casa. " E cià anche ragione, budello d'eva ", si disse a voce altissima, gridando, perché a volte i pensieri scappano via ed escon fuori passando per i polmoni. Un vecchio sul marciapiede opposto lo guardò e andò oltre, facendo i suoi tre passi su un mattone ; il Milanese, invece, non aveva affatto chiuso. Il bandone era tirato mezzo giù, e la porta a vetri era chiusa per non far entrare gente, che del resto non entrava mai a frotte, ma la luce dentro era ancora accesa. Piero Ciampi bussò piano sul vetro, tre colpettini secchi, mentre ripigliava fiato ; gli fu aperto con calma. 

" Dé…mi scusi, ho fatto tardi…mi dispiace… "
" Tardi ? Guardi, signor Litaliano, che sono soltanto dieci alle nove. "
" Ah. Credevo fosse più tardi…'un ciò l'orologio. "
" No, no, sono dieci alle nove. E le ho anche finito la chitarra. Però…mi scusi, avrebbe mica un quarto d'ora per fare una chiacchierata ? "
" Come no se ce l'ho…le pare. "
" Ecco, bene. Si accomodi, allora. Ha mangiato ? "
" No… "
" Se non le fa specie, nel frigo lì a destra ho un po' d'insalata di riso che mi è avanzata da oggi. Sa, spesso mangio qui. "
" Grazie… ", disse Piero aprendo un vecchissimo Philco che sembrava provenire direttamente dal Jurassic Park dei frigoriferi, di quelli ancora col pedale per aprire la porta e le cromature, e che mandava un rumore infernale. Dentro c'era una cofana d'insalata di riso coperta con un po' di carta stagnola, la cui temperatura era simile a quella d'un àisbergh; ma dentro c'era d'ogni 'osa, carciofini, vùster, tonno, granturco in iscàtola, la giardiniera di sottaceti, un pezzo di simmenthal (o di manzotìn, ma non lo sapremo mai), ulive nere, capperi e du' fette di lardo talmente dure, che di Colonnata sembravano averci la consistenza di quella del Bernini in piazza S. Pietro. " Lì c'è un cucchiaio ", fece il Milanese indicando una catasta di stoviglia in una specie di pila col rubinetto e la cannella di gomma ; Piero Ciampi nemmeno lo lavò, e si buttò sopra quel pancone di roba come un forsennato.


Il Milanese lo lasciò divorare per due o tre minuti, prese un bicchiere da un cassetto e lo riempì d'un generoso vinello preso da un cartone da cinque litri di " Ronco ", euro 5,70 al discount " Dico ". Piero Ciampi prese il bicchiere e lo vuotò senza nemmeno finir d'inghiottire una cucchiaiata di riso che avrebb'asfissiato un rinoceronte.

" Signor Litaliano. "
" Sì… ", fece Piero Ciampi rimanendo a mezz'aria con un'altra cucchiaiata, e mentre il Milanese gli stava versando un altro bicchiere di vino.
" La chitarra. " " Sì…la chitarra. Mi dica. "
" Senta, facciamo così. Ora parliamo un po' della chitarra, ché me ne vorrei anche tornare a casa. Poi si prende l'insalata di riso e se la finisce con comodo a casa, o dove vuole. Si può prendere anche un litro di vino, lì c'è una bottiglia vuota, se lo versa e alla salute di chi ci vuol male. "
" Grazie….d'accordo, parliamo della 'itarra, certo ", e giù un'altra bicchierata del Ronco.
" Non so come cominciare ", disse il Milanese. La chitarra era lì sul bancone, con la corda cambiata, ripulita e accordata. Gli adesivi con il capo indiano e la bandiera italiana erano stati lasciati.
" Dé…se 'un lo sa lei…cosa 'ni devo dì… ? ", fece Piero Ciampi pulendosi la bocca con il risvolto inferiore destro della giacca, che tanto puzzava già d'ogni cosa, e puzzo più puzzo meno.
" Senta… è una cosa strana. Davvero, non vorrei che mi prendesse per pazzo. "
" Alle 'ose strane ci so' abituato, 'un si preoccupi più di tanto… ", pensando nel contempo a che cosa il signor Maimone Giorgio avrebbe detto se avesse saputo dov'era il signor Litaliano Piero soltanto ventiquattr'ore prima.
" Va bene. Senta, parliamo senza tanti preamboli. 'Sta chitarra suona da sola. "
" Scusi ? "
" Sì, ha capito. Suona da sola. "

Piero Ciampi alle cose strane era senz'altro abituato, ma una chitarra che suona da sola fino a quel momento non l'aveva mai incontrata. Al massimo aveva sentito parlare di un'arpa che suonava da sola in un'antica ballata scozzese che parlava di due sorelle; però era un'arpa fatta con le ossa del petto della sorella buona e bionda ammazzata dalla sorella cattiva e mora, e si ricordava d'averla sentita una volta, tant'anni prima, dalla voce di Jacqui McShee dei Pentangle. Qualcuno gli aveva tradotto il testo, perché in inglese non aveva mai imparato nemmeno a chiedere del cesso. Si sforzò comunque di non assumere un'aria troppo stupefatta, del tutto fuori luogo in quel giorno là.




" Suona da sola. Mi dica un po'. "
" Se la ricorda quella canzone di cui m'ha chiesto prima d'andare via, due ore fa ? "
" Certo. Quella dell'orologiaio. "
" Esatto, proprio quella. Ecco, insomma, io ho finito di lavorare sulla chitarra, le ho cambiato la corda, l'ho pulita e infine l'ho accordata. "
" L'ha pulita e infine l'ha accordata. "
" E poi, se mi permette, mi è scappato un bisognino. "
" E è andato ar gabinetto. "
" E' lì dietro. E mi sono portato anche le parole crociate, sa, io a Milano abitavo a due passi dalla sede della Settimana Enigmistica. "
" Mi piace anche a me fare le parole crociate. "
" Insomma, ecco, m'ero completamente assorto sugli incroci obbligati, li conosce vero, quand'ho sentito suonare la chitarra. Suonava proprio quella canzone là, quella dell'orologiaio. E bene. "
" Ma…è siùro 'e un fosse ir registratore… ? "
" Nel registratore c'è anche il violino, e quella era una chitarra da sola. "
" E che ha fatto ? ", chiese Piero Ciampi sempre meno stupito (ma non chiedetene il perché).
" Mi sono alzato credendo che lei fosse venuto prima, che avesse trovato la chitarra e che si fosse messo a suonarla. Però non c'era nessuno. C'era solo la chitarra. "
" Suonava ancora … ? "
" Sì. E bene. Il bello è che le corde nemmeno si muovevano. Ma suonava. Ma dove cazzo l'ha trovata ? "
" Senta, l'ho trovata vicino ar teatro Gordoni. Sa, dietro, dove c'è ir giardinetto… "
" Il giardinetto ? "
" Sì, perché ? Non lo ha presente ? "
" Certo che l'ho presente. Solo che il giardinetto, dietro al teatro Goldoni, c'era…mi faccia pensare…fino a dieci anni fa. Poi hanno cominciato i lavori e hanno buttato giù ogni cosa. "
" Ma per favore. Io ci so' entrato dentro, quer giardinetto. C'era eccome, e l'ho trovata in un cespo d'ortica. "
" Per favore, signor Litaliano, potrebbe provare a suonarla ? "
" Ma certo. Cosa suono ? "
" Quello che vuole. Suoni una sua canzone. Mi ha detto che ne scrive. "
" Va bene. " E Piero Ciampi imbracciò la chitarra. Si mise a suonare e a cantare Tu no; la finì tutta, quella canzone che parlava di uno che oramai era fuori e che continuava a bere. Poi posò la chitarra sul bancone, nella stessa posizione in cui l'aveva presa.



" Bella canzone, signor Litaliano. Ma l'ha scritta davvero lei ?… "
" Sì, sì. Una volta, non lo sa, l'ho pure cantata in televisione. Me la fece cantare Paolo Villaggio. "
" Ah, va bene… certo…. ", disse il Milanese cercando di venir fuori da quella situazione che stava cominciando a farsi ingarbugliata. Una chitarra che suonava da sola e un tizio piovuto dal nulla che affermava d'averla trovata in un giardinetto che non esisteva più da anni e di aver cantato una canzone in televisione con Paolo Villaggio. Esattamente in quel momento, la chitarra si mise a suonare " Tu no ". E bene. In sottordine, pure con qualche accordo giusto che Piero Ciampi aveva invece sbagliato . I due stettero in silenzio e gliela fecero suonare tutta quanta ; il Milanese non aveva la forza neppure di tremare, mentre Piero Ciampi stava a sentire. In quel preciso momento, sopra i cieli del Madagascar (o delle isole Kerguélen, ma fa poca differenza) un giardinetto intero si ricongiunse finalmente con un cespo d'ortica ; s'aspettava, a breve, il vicolo.

(11/12 - continua)

venerdì 26 ottobre 2012

I mortincàrcere



Alla fine di ogni anno, diventano statistiche. Quanti sono stati? Cinquantatré, settantotto, centoventinove? Statistiche a confronto; una diminuzione rispetto all'anno precedente, oppure un aumento, che si facciano anche i grafici a torta? Statistiche, naturalmente, che accompagnano le usuali espressioni di indignazione, la strage continua che deve essere fermata e quant'altro. Di che cosa sto parlando? Ma dei mortincàrcere, naturalmente. Lo scrivo così, tutto in una parola, come dev'essere; la suddivisione delle parole presuppone non soltanto un'individualità, ma anche soffermarsi almeno un istante su quel che si dice, si ascolta o si legge. Chi muore in galera, invece, oramai si è trasformato (e da tempo, credo) in un exemplum fictum del tutto spersonalizzato, un artificio affinché si possa lanciarsi in ogni sorta di presa di posizione, di considerazione, di appello, di maledizione o quant'altro; il mortoncàrcere serve a questo. Alle critiche sull'istituzione-galera, ai desideri di abbatterle dalle fondamenta, ai discorsi sui proletari che sono gli unici a finirci, ai sovraffollamenti, agli inferni, alle canzoni, ai post sui blog. Alla fine, ciò che conta è la galera, e non chi ci sta dentro; chi muore, è duro ma necessario dirlo, serve a far numero. Quasi nessuno si premura di pensare che chi si ammazza in cella (perché il suicidio è la forma di morte più frequente in galera) oppure muore in qualsiasi altro modo, è una persona. Con la sua vita e la sua storia. Con il suo nome e il suo cognome. Con i suoi gesti, il suo respiro, i suoi sguardi. E si badi bene che non sto parlando di errori, o cose del genere; non ho nessuna intenzione, scrivendo questa cosa, di emettere sia pure il minimo giudizio. A quello ci pensano sia coloro per cui mandare in galera è una professione, sia quei tanti che, pur opponendosi anche radicalmente al carcere come istituzione, sentono spesso il bisogno di specificare che, comunque, ci si finisce perché “si è fatta” qualcosa. E, così, quando una persona muore in galera (con la relativa notizia, magari scarna), l'atteggiamento generale è quello degli “osservatori”, che in questo caso è il plurale sia di “osservatore” che di “osservatorio”. In realtà, non si osserva un bel nulla. Chi osserva davvero sta pure in galera, e non scrive o dice nulla; noialtri, invece, ci dedichiamo all'elaborazione di dati e al loro commento. Poi succede qualcosa, un giorno qualsiasi.

Succede che vieni a sapere che un mortoncàrcere, uno fra i tanti, lo conoscevi. Il destino te lo aveva messo sulla strada da qualche parte, senza calcare troppo la mano; una conoscenza non profonda, derivata da un luogo frequentato da entrambi. Un passaggio, qualche sera; poi, una vecchia automobile che non mi serviva più letteralmente regalatagli, la firma dei fogli davanti al notaio dell'ACI, una puntata a casa mia, una canna fumata assieme, una scatola di sigari cubani che mi aveva portato. Niente di più, ma non lo sto dicendo per schernirmi o allontanarmi; semplicemente, è stato così. Fosse stato diverso, non avrei avuto nessun motivo per non dirlo.

Succede che questa persona compie delle cose, e il destino non rinuncia mai ad essere un po' beffardo. Questa persona finisce in galera per stalking nei confronti di una ragazza; poco prima, sembra per una trasfusione di sangue, si era beccato l'AIDS. Conclamato. Le cose si vengono a sapere, se ne parla (magari sottovoce), vengono commentate. E qui devo fare un autentico sforzo per dominarmi, perché se seguissi la mia natura comincerei a raccontare tutto quel che so, per filo e per segno. Raccontare non significa né glorificare, né disprezzare; significa, o significherebbe, esporre i fatti relativi a questa persona, dato che almeno un po' si conosce la sua storia, e trarre delle conclusioni visto che, comunque, di questa persona si è scelto di parlare e non vi è nessuna esigenza giornalistica. L'esigenza giornalistica appare, ad esempio, in questo articolo del“Corriere Fiorentino” ripreso da “Ristretti Orizzonti”. Qui c'è tutta la cronaca, compreso il nome e il cognome di questa persona. Lo aveva un nome, e di cognomi ne aveva addirittura due. Vi è raccontata, la sua storia, così come cronaca vuole; segue il resoconto di un altro episodio accaduto nel carcere di Prato, e la consueta “analisi” (con tanto di “disagio” e di “iceberg”). Per quel che mi riguarda, scelgo invece di non commentare un bel nulla; non è questo che ho in mente mentre sto scrivendo.

O meglio, non commento la vita di questa persona e i suoi atti, perché non mi spetterebbe neppure se l'avessi conosciuta meglio di quanto ho fatto. E qui mi sorge una terribile contraddizione, perché so bene, anche e soprattutto qui dentro, d'aver commentato le vite e gli atti di parecchie altre persone da me mai viste né conosciute. Detto in altre parole: ho iniziato questo post con un ragionamento sulla riduzione di chi compie o subisce determinate cose (morire in galera, ad esempio) a categoria, ma in realtà sono il primo a categorizzare. E chiunque tende a farlo. Non ho, ovviamente, nessuna sorta di simpatia verso chi compie atti di stalking; mi sembra che quel che vado scrivendo da anni lo testimoni a sufficienza. Ma mi chiedo anche, se io non avessi mai conosciuto quella persona, come ne avrei parlato. Non si può sempre finire in carcere per belle cose che ti piacciono, per la lotta NO TAV, per aver tirato una sassata a uno sbirro, per aver compiuto comunque una “lotta”; ci si finisce anche per brutte cose che ti stanno sulle scatole, per aver molestato una donna ad esempio. Alcuni giorni fa ho scritto una cosa su Samuele Caruso, quel ragazzo palermitano che ha ammazzato la sorella della sua ex fidanzata; potrei ragionevolmente chiedermi che cosa avrei scritto se, putacaso, fossi stato un amico o un conoscente di quel ragazzo. E che cosa scriverei dei “disagi della mente”, io che fra le altre cose, in passato, pure ne ho avuti? Ad un certo punto, in alcuni casi, ci pensa la galera; la galera è quella cosa che compie una sola cosa, apre un portone e ti inghiotte. Per dei mesi, per degli anni, per sempre. Fa soltanto questo. Non fa cambiare, non guarisce, non “rieduca”; basterebbe quel solo articolo, quello sulla “rieducazione del condannato”, per far considerare la tanto decantata “Costituzione Italiana” per quello che invece è, una sequela di idiozie da pulircisi il didietro come ogni cosa concepita e messa (spesso falsamente) in atto dagli “Stati”. La galera chiude e ammazza, e fine della trasmissione. Chiude e ammazza anche persone che disapprovi. Anche persone delle quali diresti peste e corna. Anche persone delle quali hai saputo, da altri, cose non belle. Anche persone di cui desidereresti, al limite, la morte. Anche persone che, un dato giorno, cessano di essere “mortincarcère” per essere ricondotte, per quanto si può, alla condizione naturale di individuo, di parola, di gesto, di soffio vitale spento da muri invalicabili guardati a vista da altre persone, armate e pagate per questo.

Da tutto questo mi sono sentito obbligato; e, nell'assolvere a questo obbligo, provo tutti i disagi e le contraddizioni che è possibile provare. Rinunciare a parlare, ad esempio, di chi muore in galera e della galera stessa? Non mi sarebbe possibile, finché avrò un po' di fiato. Cercare di conoscere la storia e la vita di tutti? E come porsi davanti all'azione di chi pure conosci, e che magari ha fatto del male ad altre persone? Una serie di domande senza risposta, e lo so bene. Ma so anche bene che, oggi, non sarei nemmeno uscito di casa senza aver ricordato per un momento quella persona che, due giorni fa, in una galera ha deciso di mettere fine ai suoi giorni, per disperazione. Perché l'unica soluzione che ha individuato, l'unica via d'uscita, è stata il cavo di un televisore che si è avvolto attorno al collo, lasciandosi andare. Non intendo rivolgere a questa persona vuoti e retorici “saluti”, né altrettanto vuote espressioni di “pietà” soltanto perché, qualche volta, abbiamo mangiato insieme o gli ho regalato una vecchia Citroën scassata che gli serviva per il suo lavoro di spazzacamino. Non intendo ridurlo a “bravo tipo”; la morte sarà anche 'na livella, ma a me non è mai piaciuto livellare un bel niente e i morti sono soltanto dei vivi che non respirano più; ma resta tutto ciò che hanno fatto, nel bene e nel male. Così sarà anche per me, e per tutti. Se, domani, Samuele Caruso si ammazzerà in carcere (cosa che, chiaramente, non mi auguro affatto), resterà quel che ha fatto a quella povera ragazza, ma gli toccherà anche diventare l'ennesimo mortoncàrcere da infilare nelle statistiche annuali. Senza contare, naturalmente, quelli che in cancere non si ammazzano affatto, bensì vengono ammazzati da squadrette varie, da pestaggi, da umiliazioni, dalla burocrazia, da tutto un sistema che alla galera non rinuncerà mai.

Così ho scritto questa cosa. Per aver conosciuto una persona che si è ammazzata in una cella. Per averla vista, una volta, varcare la porta di casa mia e mettersi a sedere al mio tavolo. Per averla vista uscire ed averla salutata con cortesia, ciao, ci vediamo una di queste sere. Da qualche parte in un cassetto dovrò averci i fogli di trasferimento di proprietà della macchina, con la sua firma. Può darsi che questa cosa sarà letta da altri e altre che lo hanno conosciuto; altri e altre che gli hanno, chissà, voluto un minimo di bene o un minimo di male; altri e altre per cui, invece, è rimasto impantanato sui vari gradini dell'indifferenza. Per quel che mi riguarda, vorrei pormi da un'altra parte; quella di chi ritiene, sempre, di essere di fronte a persone. E, in questo caso, a persone in galera. Per qualsiasi cosa abbiano fatto, anche la più orribile. Per rivolgere loro qualcosa che non sia spazzata via, come sempre accade, dal vento. Per dare un nome e una storia, così come ha fatto chi è andato al cimitero degli ergastolani di Ventotene. Perché non esistano più “mortincàrcere”, ma soltanto persone umane che, un giorno, si sono accorte che l'unico volo possibile passa per un cavo di televisore. E anche perché, qualunque cosa accada, a nessuno può essere revocato lo status di persona; e questo sia il mio unico, vero saluto prima di consegnare tutto alla memoria. Per il resto, non ci saranno né inferni e né terre lievi; la terra, su chiunque, è soltanto pesante.

mercoledì 24 ottobre 2012

Via dell'Argingrosso


Questa è via dell'Argingrosso.

Quella dell'indirizzo di casa sotto il titolo del blog, insomma. La strada dove abito. Quella dove invito a "venire a trovarmi di persona" coloro che "vogliono avere a che fare col sottoscritto", visto che non è possibile contattarmi sul Libro de' Ceffi. Quella dove mi spediscono la posta e le denunce. Quella dove mi viene, ogni tanto, a trovare la Digos. Quella dove gira libero il gatto nero, da un capo all'altro. 

È vista da un lato, probabilmente in un bel giorno di primavera. Quello che si vede, verdeggiante d'erba fresca, è l'Argine. L'Argin Grosso, appunto; ma il fiume non è immediatamente al di là. Prima c'è l'antico Isolotto, quello che ha dato nome a tutto il quartiere. Una volta era davvero un'isola fluviale, separata da un meandro che era detto, per la sua tortuosità, "Torcicoda". Via Torcicoda è una traversa di via dell'Argingrosso; c'è anche un ufficio postale rapinato, anni fa, dalle Brigate Rosse.



Questa è sempre via dell'Argingrosso, dall'altro lato.

Casermoni. Edilizia popolare. Il sottoscritto abita, a rigore, in un garage; questo era l'uso del luogo dove abito prima che fosse trasformato in civile abitazione. È Firenze come potrebbe essere qualsiasi altra città; fortuna vuole che l'Isolotto abbia comunque mantenuto una non disprezzabile quantità di verde. Parlerò un'altra volta più a lungo di questo quartiere, però.


Questa è invece una famiglia. Composta da dieci persone, tra le quali mi sembra di contare quattro bambini piccoli.

Abita, o meglio abitava, in via dell'Argingrosso. La mia stessa strada. Non li ho mai visti; o meglio, potrà essere capitato, chissà, d'esserci incrociati all'Esselunga. In via dell'Argingrosso c'è un supermercato di piccole dimensioni, ed alcuni negozi che stanno, generalmente, chiudendo. Ultimo in ordine di tempo, la cartoleria. Incrociati senza vederci, magari in coda alla stessa cassa; due mondi vicini che non si toccano. Del resto, non conosco neppure il 98% degli inquilini del mio palazzo. Nel cortile degli ex garages, siamo quelli delle "topaie" (però i topi sono stati sterminati da Niccolò Machiavelli e da Redelnoir); io e le mie due concortilaie. La guardiana del museo e la psicanalista di Tucumán. Poi ci sono i condizionatoristi e i cronometristi. Il resto, ignoti; e mi premuro di disertare regolarmente le riunioni di condominio.

La famiglia della foto è, come ci informano i giornali, di origini magrebine. Da quando è stato scoperto l'aggettivo "magrebino" (che i più mettono in relazione con "magro"), è stato mandato in pensione il vecchio epiteto di "arabo". Le famiglie sono in realtà due: si tratta di due fratelli con le rispettive mogli e con i figli. Vivevano, però, assieme. Non so, e non immagino, come dev'essere vivere in dieci in uno stesso appartamento in via dell'Argingrosso. 

Oggi sono stati tutti sfrattati.

La proprietaria dell'appartamento, sempre come informano i giornali, "non ne ha voluto sapere". I due fratelli hanno perso entrambi il lavoro. Sono arrivate le forze dell'ordine. Canone di locazione dell'appartamento popolare: euro 750 mensili, più euro 100 di condominio. Totale: euro 850 mensili. Da stasera, le due donne e i figli minorenni sono ospitati in case-famiglia; c'è il "family day", e c'è anche la "casa family night". I due uomini, invece, sono finiti all'Albergo Popolare. Quello che, un tempo, si chiamava dormitorio pubblico. Via della Chiesa, quartiere di San Frediano. E' un posto, quello, dove è improbabile che chi mi legge sia mai entrato in vita sua; io ci sono dovuto entrare parecchie volte, ma vestito tutto fosforescente e con strane valigie in mano. Servizio sanitario. Risse. Ubriachezze. Vomiti. Cacate. Una volta, anche un coltello.

Dicono che, solo nel mese di ottobre, in Firenze sono previsti 118 sfratti esecutivi.

Gente per la strada. Case-famiglia. Alberghi popolari.

Può darsi, sì, che le abbia incontrate, queste persone, da qualche parte in via dell'Argingrosso. Può darsi che abbia scorto qualcuno dei bambini andare a scuola qui dietro, in via dei Bassi; può darsi che abbiano percorso come me l'argine in un giorno di sole. E' grosso, l'argine; il nome della strada non è menzognero.

E può darsi che, un giorno, abbia anch'io pensato a tutte quelle facce incrociate, d'altri luoghi e d'altri tempi. Che abbia pensato, chissà, a da dove venissero. Su che cosa avessero aperto gli occhi alla vita. Su quali polveri, su quali montagne, su quali mari. Su quali miserie. Pensieri fugaci, perché non si creda che un essere umano passi la giornata immerso in tali meditazioni; anch'io, come tutti, ho da pensare alla caviglia di Jovetic, alla bolletta da pagare, alla fattura insoluta, a ritirare il piumino dalla lavanderia (quella, almeno, non è ancora chiusa), al doloretto strano, alle zanzare tigre.

Fino a ieri sera condividevamo, senza saperlo, la stessa aria e lo stesso paesaggio.

Poi, basta che suoni il campanello una mattina, e si presentino coi loro fogli e i loro ordini.
 

Questa è ancora via dell'Argingrosso, molti anni fa.

Una famosa scena di un film di grande successo vi fu girata, mentre era ancora in costruzione. Una sequela di cantieri al posto dei campi, al posto della vecchia Sardigna. La Sardigna era, a Firenze, il terreno, lontano dal centro, dove si bruciavano le carogne degli animali da lavoro morti; cavalli, somari, muli, ma anche cani e gatti randagi. Non era un bel posto, ma da qualche parte lo si doveva pur fare, specie in tempi in cui le epidemie erano un pericolo reale.

In quei cantieri fu girato il regolamento di conti coi Marsigliesi. Una scena esilarante.

Vi si vedono, mentre venivano tirati su, gli stessi casermoni di oggi. Chissà che non vi si veda anche l'appartamento dal quale, oggi, dieci persone, oppure due famiglie, oppure una famiglia sola, sono state buttate fuori così come vogliono il mercato e le sue leggi.

Può darsi che ora prenda e vada a farmi un giro per via dell'Argingrosso.

Dicono che sarà una delle ultime nottate dal clima dolce; tra poco arriverà il freddo.

martedì 23 ottobre 2012

Il rigore è una cosa seria


In Italia, il pallone è una cosa molto seria. Logico, quindi, che anche il presidente Napolitano, supremo rappresentante della Nazione e garante della sua Unità & Coësione, intenda far sentire al riguardo la sua autorevole voce (come si evince da questo importante titolo di Repubblica di oggi, martedì 23 ottobre 2012). Ad esempio, l'annoso problema del rigore (che, da sempre, fa discutere gl'italiani dalla domenica sera fino alla domenica dopo, vale a dire sempre) è stato oggi affrontato dal Presidente che, dall'alto del suo Magistero, ha chiarito la sua ferma posizione, ancor più ferma di quella dei giocatori del Milan in campo: sul rigore non si possono fare passi indietro.

La cosa potrà stupire alquanto, dato che un rigore, di solito, lo si tira facendo passi avanti. Esistono numerose "varianti" (tra le quali lo spettacolare "cucchiaio" reso famoso da Totti nella drammatica semifinale europea Italia-Olanda del 2000; non a caso, il Presidente ha rilasciato la sua dichiarazione sul rigore proprio durante una visita ufficiale nei Paesi Bassi), ma comunque tutte prevedono almeno un passo in avanti. Al Presidente Napolitano, però, dev'essere stato fatto visionare il seguente filmato:


Come si può vedere, in occasione di tale bizzarro "rigore in seconda", l'attaccante che tira originariamente il rigore compie un vero e proprio passaggio ad un compagno di squadra, il quale prende la mira ed insacca. L'arbitro ha convalidato, provocando non poche polemiche: ma ha agito a termini di regolamento. Il passaggio, infatti, non è stato effettuato all'indietro, e il secondo attaccante (quello che ha segnato il goal) è partito fuori dall'area. La marcatura è quindi assolutamente valida, anche se non si riesce a capire il perché di tale modo cervellotico di tirare un rigore.

Ma il Presidente Napolitano, da sempre attento ai veri problemi della NAZIONE, ha tenuto comunque a precisare che, in Italia, certe cose sono e saranno sempre inammissibili. Un rigore non può comportare passi indietro, di nessuna natura; altrimenti deve essere annullato e fatto ribattere ammodino. Intervistata al riguardo, la ministra Fornero ha immediatamente esternato la propria solidarietà a Napolitano, dichiarando che "un attaccante non può essere troppo choosy". Come darle torto?

sabato 20 ottobre 2012

A Samuele Caruso.




Questa cosa che ti sto scrivendo, Samuele Caruso, non potrai mai leggerla. Non potrai, perché sei rinchiuso in una galera. Te lo avessero detto una settimana fa, che oggi domenica venti ottobre la avresti passata in una cella di un carcere, chissà che cosa avresti pensato; oggi sei, a ventitré anni, chiuso là dentro con la prospettiva di passarci una non lieve parte della tua vita. E lo sai. Inutile distogliere il pensiero da questa cosa; la tua vita, così com'era fino a poche ore fa, non esiste più.

Chi ti scrive senza che tu possa leggere, ha visto e continua a vedere amici e compagni finire in galera. Ci si finisce, là dentro, anche per essersi opposto a qualcosa e a qualcuno. Ci si finisce per una manifestazione, per una lotta, per aver dato noia a qualche potentato politico e finanziario. Ci si finisce, non di rado, per il capriccio di qualche procuratore asservito. Ci si finisce combattendo, a modo proprio, contro delle ingiustizie e contro un sistema intero. Ci si finisce, certo, anche impugnando un'arma, e usandola. Non so, e non potrò mai sapere, se a tali cose tu abbia mai pensato, anche una sola volta, nella tua vita; forse, chissà, stai pensando adesso di essere finito in galera per amore. Bisognerebbe, e ne va della tua salvezza, che tu non pensassi mai una cosa del genere. In galera ci sei per aver ammazzato una ragazza più giovane di te, colpevole esclusivamente di essere la sorella di un'altra ragazza che amavi. In galera ci sei perché questa ragazza ti aveva lasciato. In galera ci sei perché un giorno d'ottobre sei uscito per andare da lei in compagnia di un coltello, e lo hai usato su una ragazza che voleva difendere sua sorella quando ha visto che la avevi aggredita, armato. In galera ci sei, e non hai affatto “perso la testa”, come vai ripetendo pensando di autoassolverti. Altrimenti, occorrerà fare il percorso di quel coltello.

Dov'era? In un cassetto, su un tavolo, in una borsa? Ovunque fosse, non poteva muoversi da solo. C'è stato qualcuno che lo ha cercato, che lo ha preso, che lo ha sollevato e che se lo è messo in tasca; e quel qualcuno sei tu. E' “perdere la testa”, questo? Andare da una ragazza che ti ha lasciato scomodando un coltello? Si può perdere la testa a volte, certamente; e quando la si perde, spesso, non importa nemmeno avere un'arma. Quel che si può fare con le mani e con i piedi, e con la propria forza (specialmente quando si è un uomo, magari giovane, contro una ragazza cui non è mai passato per l'anticamera del cervello di frequentare corsi di difesa personale o roba del genere), lo avrai magari visto anche tu sui giornali. Quante donne, quante ragazze ammazzate a calci e pugni? Quante strangolate con un semplice nastro? Quante prese di peso e scaraventate da una finestra o in un burrone? E si può anche uscire con questa precisa intenzione. Si può trovare persino un pugile che ti massacra in mezzo di strada perché “ce l'ha con tutte le donne”, e tu sei la prima che ha la sventura di incrociarlo. Ecco. Tu hai, Samuele Caruso, bypassato tutto questo. Tu sei uscito con un coltello per andare dal tuo amore. Non continuare a raccontare questa menzogna agli altri e a te stesso. Non cercare di basartici sopra per vedere se un qualche avvocato ti tirerà fuori. Non ammazzare quella ragazza un'altra volta.

Non mi pongo, poi, certamente a modello, né nei tuoi confronti, né in quelli di chicchessia. Non sono nemmeno uno di quelli che ama cianciare di “età”. La separazione è una cosa dolorosa, sempre, a qualsiasi età. Non mi piace chi sminuisce il dolore di una separazione a seconda delle fasce di età, per cui essere lasciato o lasciata a vent'anni sarebbe “meglio sopportabile” che esserlo a quaranta o cinquanta. Una volta, ad esempio, a chi ti scrive senza che tu possa leggere è accaduto all'età di trent'anni esatti, ed in modo particolarmente duro. E ho passato un periodo, in ogni senso, che non potrò mai scordare. Mi sono ridotto, ad un certo punto, a una specie di larva, o di zombie; ed avevo voglia a cercare dentro di me e intorno a me ogni sorta di palliativo, di consolazione, di altro interesse. Non c'era nulla da fare, quella cosa mi rodeva dentro; e ha continuato a farlo, prima di acquietarsi e cessare, per anni, anni ed anni.

L'unica cosa che posso dirti, Samuele Caruso, è che non sono mai andato a cercare quella persona, pur sapendo addirittura benissimo dove abitava. Mi è capitato, due o tre volte, di incontrarla casualmente. Una volta me la ricordo benissimo, con tanto di data: era il 30 ottobre 1993, ed ero dovuto intervenire con l'ambulanza in una piccola piazza del centro della mia città. Mi ricordo particolarmente bene di quell'episodio, attimo per attimo, perché è stata l'unica volta, in trentaquattro anni sulle ambulanze, che sono stato chiamato per un caso di “Sindrome di Stendhal”, o perlomeno per una cosa che pareva esserlo. Una turista americana che era andata in deliquio davanti ai monumenti architettonici. In quel momento esatto, mentre stavo soccorrendola, ecco che arriva quella persona là, ben vestita, salutandomi. Dicendomi di aver sentito le sirene dell'ambulanza, e di aver pensato che potevo esserci io; pensa un po', Samuele Caruso che non mi leggi. Era uscita da un ristorante vicino, dove stava con alcuni amici e, soprattutto, con la persona per la quale mi aveva lasciato. Sai che ho fatto? Ci sono stato, e magari puoi anche immaginarti con quale stato d'animo, a chiacchierarci persino con un sorriso sulle labbra. Non volevo farmi vedere com'ero davvero, vale a dire disperato o qualcosa del genere. Attraversato da fiamme di varie dimensioni. Eravamo stati insieme non pochi mesi, non un'estate; non te lo dico nemmeno per quanti anni, forse non ci crederesti neppure. Ci eravamo messi insieme al ginnasio, e avevo trent'anni e un mese in quel momento.

In un'ambulanza di emergenza ci sono, in dotazione, armi pericolosissime. Su quella là c'era, ad esempio, un pie' di porco che serviva nei casi, abbastanza frequenti, in cui era necessario scardinare una porta per soccorrere una persona rimasta sola in casa. C'erano cacciaviti e altri attrezzi. C'era un pesantissimo defibrillatore. C'era che sono alto più di un metro e novanta e, allora, ero un trentenne nel pieno delle forze. Pensa tu in quanti modi avrei potuto perdere la testa invece di cercare di dissimulare quel che avevo dentro, e raccontando persino a quella persona che ero intervenuto su un caso di “Sindrome di Stendhal”. Se ne tornò nel suo ristorante sorridendomi e dandomi affettuosamente del “sonato”; è stata l'ultima volta che ci ho parlato direttamente. L'ho rivista anni dopo in un'altra piazza, mentre passavo con la macchina; non mi sono fermato.

Mi dovresti dire ora, Samuele Caruso, che cosa ti è veramente passato per la testa quando hai cercato e trovato un coltello prima di andare dalla tua ex ragazza. Sì, la separazione è molto dolorosa. A qualsiasi età. L'amore finisce, ad un certo punto; che sia durato pochi mesi o una vita intera. Oltretutto, spesso e volentieri finisce soltanto da una parte sola; dall'altra, disgraziatamente, continua. Continua e si incrocia con tutta una serie di altre cose; con certe culture, ad esempio. Si incrocia con un senso di possesso, di “avere”, che è foraggiato in mille modi – e su questi mille, novecentonovantanove hanno a che fare col vendere, con la merce. Si incrocia con l'insicurezza personale, certamente. Si incrocia con il falso “romanticismo” di questi tempi tutti amore, cuoricini, lucchetti, smielature, romanzetti idioti, canzoncine ancora più idiote dei romanzetti. Si incrocia con crisi collettive e personali. Si incrocia coi cosiddetti “sogni”, e quanti ne hanno ammazzati i sogni lo sa solo il cielo. Si incrocia con tutta una serie di mancate accettazioni. Si incrocia con la famosa sensazione che “tutto sia finito per sempre”. Lo sai, Samuele Caruso, con che cosa finisce tutto per sempre? Con una cosa sola, che si chiama morte. Nonostante tu sia in galera e che tu debba restarci per chissà quanto, per te non è finito nulla. Sarà tutto molto diverso, ma non è finito. E' finito tutto, invece, per quella ragazza di diciassette anni che voleva difendere sua sorella dai tuoi incroci. Per le non ci sarà più niente. Per lei e per tutte le decine, centinaia, migliaia di altre ragazze e donne che hanno dovuto fare i conti con tutti i tuoi colleghi perditori di teste. Con chi non ha saputo fermarsi. Con chi, poi, giocherella con il “raptus”, come stai cominciando a fare anche tu; un giochino che, peraltro, piace enormemente agli scribacchini prezzolati che si gettano, al contempo, sulle fotografie della vittima, riprendendole da quel luogo di delizie, cuoricini e grand'amori che si chiama “Facebook”.

Ma, tanto, Samuele Caruso, ora tu su “Facebook” non puoi più andarci. Non te la puoi più aggiornare la paginetta coi tuoi pensierini e con la tua musica preferita. Pensa: saresti stato un normalissimo ragazzo, e perdipiù di una categoria assai numerosa: quella dei Lasciati dalla Fidanzata (sembra che il termine “fidanzata” ora sia tornato molto di moda, persino tra i quindicenni). Chissà che altro c'era dentro quella paginetta; magari, chissà, considerazioni sulla “mancanza di futuro”, speranze, discorsi edificanti; ora ti ritrovi con un futuro assicurato per anni, a spese dello stato (ma ti presenteranno anche un conto economicamente salato, in forma di risarcimento alla famiglia di quella ragazza; in pratica, qualcosa da mandare definitivamente in rovina tu e tutti i tuoi cari). Ti ritrovi con delle persone che ti odiano e ti odieranno per sempre, anche se i tuoi avvocati, ad un certo punto, ti consiglieranno di scrivere la consueta “richiesta di perdono”. Non ti perdoneranno mai, bisogna che tu te lo metta fin da ora in quella gran testa che dici di avere perso. Ti ritrovi con delle persone che faranno di tutto perché tu, Samuele Caruso, in quella galera ci rimanga chiuso per sempre. Fine pena mai. Ergastolo. Basterà che riescano a dimostrare la tua premeditazione; e non sei messo bene da questo punto di vista. Ma punto bene. Ti ritrovi su tutti i giornali, ma ci resterai per poco. Ti ritrovi con un processo da dover sostenere davanti alle facce dei parenti di quella ragazza che hai ammazzato, e soprattutto di sua sorella. Quella che amavi tanto e che ti aveva lasciato. Non è una bella situazione, no? E bisognerà che qualcuno te lo dica, Samuele Caruso, senza mezzi termini. Sei veramente un cretino, oltre che un assassino. In compagnia di altri non so quanti cretini, di “mariti” sterminatori, di “fidanzati” appostati come sicari, di “padri di famiglia” annientatori, e di stalkers, di allucchettatori, di possessori e di altri deficienti del genere. In compagnia di tutta una società, probabilmente, che ha scambiato l'amore con un'istituzione al pari delle altre. O per una banca: quante volte si sente dire che, in una relazione tra due persone, si compie un “investimento”? Ho investito tutto su di te, e ora mi lasci! E zàc, si esce col coltello.

Ora, certo, ti ribadisco una cosa, Samuele Caruso. Non leggerai proprio mai questa cosa che sto per finire di scriverti. Ma, chissà, forse la leggeranno altri come te. Altri che sono stati lasciati con tutti gli ammennicoli di cui sopra. Sto vivendo, sai, una bellissima storia d'amore; eppure, un giorno, potrei dovermela rileggere io stesso, questa cosa che ho scritto. Tutto può avere una fine. Potrei dovermela rileggere, e pensare non a una cella, ma -che so io- all'isola d'Elba che comincia ad apparire da dietro il promontorio di Piombino. Ai miei libri. Al gatto nero che dorme tranquillo sul letto. A tutte le persone che mi vogliono bene e anche a quelle che non me ne vogliono. Ai miei ideali per i quali, giusti o sbagliati che siano, ritengo che valga la pena vivere. A un piatto di pasta alla gricia. A un sigaro fumato nella notte sull'uscio di casa. A un giro senza meta per le campagne alla ricerca di vecchie carrette da fotografare. A tutte le mie cose, a tutte le mie persone. A tutto ciò per cui è bene, i coltelli, lasciarli nei cassetti. Ad un nuovo amore, che poi finirà come me ne sono finiti, in cinquant'anni, una caterva. A quel che ho dentro, e che mi basta senza più avere quel tuo cazzo di ventitré anni buttati nel cesso. Per che cosa, Samuele Caruso?

giovedì 18 ottobre 2012

Resurrezione (9-10)


9.

La tirò a sé leggermente con le mani, non volendo credere ai suoi occhi ; oppure sì, ci voleva credere, come voleva credere fortemente che entro poco non sarebbe finito tutto quanto, e che si sarebbe ritrovato nel nulla, dentro una beffa che qualcuno aveva voluto rifilargli colà dove si puote. Si guardò attorno dieci volte in due secondi ; si toccò addosso, annusò l'aria, sputò per terra. Chiuse gli occhi strizzandoseli con le dita, e gli si formò nell'oscurità delle palpebre chiuse e compresse un bizzarro caleidoscopio dai colori sfavillanti ; poi li riaprì di colpo. Davanti a lui, c'era sempre quella corda rotta di chitarra. E lui era vivo. " Magari, anzi di siùro, è solo una 'orda… ", e nel pensar questo le mani obbedirono immediatamente e si misero a tirare quel filo metallico. Dopo pochi secondi, dal groviglio della pianta d'ortica, uscì fuori una chitarra. Una vecchia Yamaha abbandonata lì chissà da quando, tutta sporca e puzzolente di piscio di gatto e d'òmo, ma con tutte le altre corde sane, la cassa armonica a posto (sebbene dentro vi fosse un preservativo usato), i tiracorda intatti. Sul retro del manico erano appiccicati due piccoli adesivi : uno con la bandiera italiana, e l'altro con la testa del capo indiano Geronimo. Piero Ciampi la prese lentamente, guardandola e riguardandola, toccandola mille volte, provando a pizzicare qualche corda. 
 
Era completamente scordata, per forza di cose, ma le note risuonavano nella cassa. Sarebbe bastato darle una ripulita, sostituire la corda e accordarla in qualche modo. Sicuramente, a giro per la città un negozio di strumenti e accessori musicali era ancora aperto a quell'ora, e un ragazzo a giro per dargli il la lo avrebbe trovato facilmente. Forse in piazza Grande, oppure all'Attìas. E gli ritornavano a mente tutti quei nomi, e gli turbinavano nella testa, e bisognava che si sbrigasse perché non c'era tempo per farsi prendere dal pensare a tutto quel che stava succedendo. Sarebbe prima o poi dovuto anche andare a riposare un po', magari a dormire ; tornare in via Garibaldi, salire le scale della signora Emiliani, buttarsi su una brandina in quella stanza, e addormentarsi con la paura fottuta di ritornare nella morte. Ma fosse quel che fosse. Mal che andasse, ancora qualche ora di vivezza ce l'aveva, e di vivezza con una chitarra in mano. Di vivezza con un po' di musica. Con la chitarra sotto braccio, e attento a non farsela cascare per terra, Piero Ciampi uscì dal giardinetto prendendo immediatamente un passo di gran carriera, con quelle gambe lunghe che aveva; senza che potesse accorgersene, il cespo d'ortica fu mosso da un lievissimo alito di qualcosa, e scomparve. 


Piero Ciampi s'era ritrovato sulla strada che menava a Corso Amedeo e all'Attìas, invece d'andare a vedere nella vicinissima piazza Grande se per caso c'era il negozio che cercava; passata piazza Cavour, con la gente che guardava quello strano tipo con una chitarra sotto il braccio e l'aria lunga quanto i passi che faceva, schivando i passanti e rischiando d'esser messo sotto da un autobus che stava ripartendo dalla fermata, per poco lo strumento non gli era caduto per terra, dato che aveva deciso di ritoccarsi ancora, e ancora, e di palpare il portafoglio nella tasca interna della giacca, e di strusciare i piedi per terra per sentir se ancora ce l'avesse sotto di sé, e di far qualunque genere di movimento strano che gli provasse inequivocabilmente d'essere vivo, con una chitarra senza una corda e un premio musicale intitolatogli da morto, quando da vivo al massimo gli avevano intitolato qualche decina di chili di cambiali andate in protesto. A un certo punto s'accorse che una vecchia lo fissava con aria compassionevole, quasi a dire " poeròmo, dé, è anche bravo a volé sonà' la 'itarra 'osì tutto sciancato … " ; con un gesto che gli venne spontaneo, si ricompose mettendosi a camminare dritto come un fuso e facendo un gran sorriso all'anziana donna, che rimase interdetta a fissarlo sul marciapiede, sentendosi forse anche un po' presa per il culo. 

"O dove sarà…sì, verso l'angolo…in Cors'Amedeo, sì, ci doveva èsse' un negozio 'e vendeva 'itarre, strumenti e tutto ir resto… ", e via quasi di corsa, e avanti senza ripigliar fiato, non sentendo nemmeno gli accidenti, i vaffanculo e gli irbudelloooo...!!! che i passanti cominciavano a bazookargli dietro dopo averci avuto i coglioni, le anche e i plessi solari sfiorati dalla musica nel migliore dei casi, e presi a chitarrate nel peggiore. Nel frattempo, alcuni intercettori dell'aviazione militare in volo di pratica sopra qualche punto imprecisato del mare Tirreno, segnalarono d'essere stati incrociati da un misterioso oggetto somigliante ad un grosso cespo d'ortica; sarebbero stati maggiormente creduti se avessero detto d'aver visto un aereo passeggeri abbattuto da un missile o da una battaglia aerea nel cielo di Ustica. E andavano talmente veloce, Piero Ciampi e la sua chitarra, che quasi non s'accorsero, passata l'Attìas con le sue torme di tredicenni e svoltati a destra in Cors'Amedeo, d'aver superato un negozietto carico di vecchi strumenti, di chitarre spezzettate, di fisarmoniche smontate, di archetti piegat'in due, di violini ammalati, di moog sfiatati, di bassi scordati, di banjos raggelati, di balalàiche sbalalaicàte e d'altre confusioni musicali ammassate in una specie di cataclisma, mentre un tizio alto e robusto, dai capelli e dai baffi brizzolati, stava seduto dietro a un banco a provare un theremin appena riparato, muovendo le mani per l'aria mentre lo strumento emetteva la sua strana voce quasi extraterrestre. 


L'insegna, illuminata soltanto da due vecchi portalampade a piatto, diceva soltanto: "Dal Milanese - Riparazione Strumenti Musicali - Vendita Strumenti e Accessori Usati". Piero Ciampi e la sua chitarra avevano oltrepassato il negozio d'una cinquantina di metri, quand'alfine smusarono un paio di testimoni di Geova in giacca e cravatta di ritorno dal giro serale d'annunciazione della Bibbia; e fu quel loro provvidenziale "Ma stia un po' attento !", pronunziato con voce ferma e composta mentre uno si reggeva al muro col naso sanguinante e l'altro giaceva sul marciapiede tentando di raccattare un pacco ancora intonso di "Torri di Guardia" e di "Svegliatevi !" caduto per strada, prima che una Uno beige targata Pisa lo spiaccicasse senz'alcun rispetto per la parola d'Iddìo, che finalmente arrestò la vìndice corsa di Piero Ciampi e del suo strumento; e s'accorsero del disastro che avevano fatto, e soprattutto dell'insegna del Milanese. 

"Scusate…ommadònna…'un l'ho fatto apposta… " 
"Ci credo che non l'ha fatto apposta, vorrei vedere… ", disse il primo testimone di Geova appoggiandosi ancora al muro, e con la camicia oramai tutta macchiata del sangue che gli colava copiosamente dal naso forzatamente armonizzato. 
"Scusi…m'aiuterebbe a rialzàmmi… ?", disse invece il secondo ancora a terra, rimirando desolatamente il pacco di sante riviste sul quale erano passate altre otto macchine, un'Ape Car e un Gasolone a quattro ruote carico di calcinacci. Piero Ciampi lo tirò su quasi d'un colpo; nel frattempo un capannello di gente s'era venuto formando, come consuetamente accade, e via a discorrere, e com'è andata, e come state, avete mìa bisogno 'e si 'iami la Pùbbria, e no, no che 'unn'ho fatto apposta, mi 'iudeva ir negòzzio…dé ma se per caso 'ni partoriva la moglie 'osa faceva, tirava fòri ir mitra, e no, io la moglie tanto 'un ce l'ho…cel'avevo… inzomma mi dispiace, ditemi 'osa devo fà, ma lasciate perdere, non è nulla, piuttosto non è che vorrebbe che parlassimo un po' della Bibbia, che la fine der mondo è vicina… ?


Intanto, dal vicino negozio, il Milanese era sortito a chiudere il bandone, ché s'era fatto tardi ed era venuta l'ora di tornare a casa e di mettersi a vegliare ancor di musica, e di parole, e di pensieri che alla musica e alle parole partecipavano senza che nessuno o quasi lo sapesse. Piero Ciampi se n'accorse appena in tempo ; si divincolò dalla gente e fece per slanciarsi verso il negozio che stava chiudendo.
" Signore…Signore ! Aspetti… ! " 
" Dé, no, 'un posso aspettà, mi 'iude ir negòzzio….è importante !" 
" Ma signore….Dio…non ci pensa ?" 

Fu allora che, già allungata la falcata, si sentì per l'aria un urlo che tutti ridusse ad un inaspettato silenzio; la chitarra in alto; la corda rotta descrivente un'armonica spirale metallica quasi a volere dir la sua ultima prima d'essere sostituita; qualcuno o qualcosa che berciò un "Non Dio ! Decido io !" ; e il Milanese fu placcato un picosecondo prima d'infilare la chiave nel lucchetto. 
" Fermo, per favore !" 
" Mi scusi…ha bisogno di qualcosa ? ", fece l'uomo del negozio con un accento che giustificava pienamente il nome sull'insegna. 
" Sì…di 'ambià una 'orda rotta alla 'itarra. " 
" E per cambiare una corda rotta alla chitarra fra poco fa fuori due passanti e mi si getta addosso come un rugbista ?… " 
" È importante…dé, le giuro che è importante. La chitarra stasera mi serve…mi serve per forza. " 
" Davvero non potrebbe tornare domattina verso le otto ? " 
" Domattina verso le otto è troppo tardi. Bisogna 'ambiàlla ora, per favore. Per favore. " 
" E va bene, va bene…mi dia il tempo di riaprire e di riaccendere la luce…ma è sicuro che è solo la corda ? La sua chitarra mi sembra…come dire…un po' malmessa." 
" È un po' vecchia e ne ha passate… " 
" Beh, le daremo un'occhiatina a fondo…tanto, in fondo, non ho fretta, e se lei ha rischiato d'ammazzare due persone per cambiarle una corda, si vede che dev'essere importante sul serio. " 
" La ringrazio davvero, signor…." 
" Maimone. Giorgio Maimone. " 
" Litaliano Piero ". 
" Molto felice di conoscerla, signor Litaliano. Venga, si accomodi. Sì, 'sta chitarra ha bisogno d'essere rimessa in sesto ", disse sedendosi su uno sgabello con le zampe di metallo e la culiera in skai rosso. Solo un paio di lampadine accese; prese da un tavolo, mezza impolverata, una vecchia cassetta stereo e la infilò in un mangianastri. C'era qualcuno che cantava in inglese, a volume bassissimo. 

10.
 
Piero Ciampi si mise anche lui a sedere su una sedia da giardino, senza neanche spolverarla. 
" Stia attento, signor Litaliano, non so se la regge. " 
" Va bene… " 
" Di là c'è una sedia di legno. Quella dovrebbe andare. " Presa da una specie di sgabuzzino la sedia, senza neanche accendere l'interruttore perché non lo aveva trovato al primo tastone sulla parete, Piero Ciampi si mise a sedere accanto al Milanese che stava esaminando la chitarra senza toccarla, dopo averla posata sul banco da lavoro. 


" E' in condizioni pietose, vero ? " 
" Dev'essere stata a lungo all'aria aperta, mi sa. Ma è sua ? " 
" No. A dire il vero…l'ho trovata." 
" Trovata ?..." 
" Sì…ma dé, guardi…sarebbe un po' lungo spiegarglielo. Solo che mi serve entro stasera. Mi bisogna, sul serio." 
" Facciamo una cosa, signor Litaliano. Qui non c'è solo da cambiare la corda, quello sarebbe il meno…se la vuole davvero suonare e le serve, occorre che ci faccia qualche lavoretto e che la provi. Mi ci vorranno almeno un paio d'ore. Potrebbe tornare, facciamo, verso le nove di stasera?..." 
" Ma…davvero resterebbe qui a farmela… ?" 
" A questo punto…" 
" Senta…io bisogna che le dica la verità. Se ci sono da fare dei lavori grossi…non so nemmeno se ho i soldi per pagarla." 
" Quanto ha ?" 
" Cinquanta…sessanta li…sessanta euro." 
" Tranquillo, non gliene prendo più di trenta. Magari anche meno." 
" Non so… " 
" Come ringraziarmi ? Vorrà dire che, una sera, verrà qui a cantarmi qualcosa. Sa, anch'io ogni tanto suono. E scrivo canzoni, anche. " 
" Le scrivo anch'io. E' per questo…che ho bisogno della chitarra al più presto. " 
" Ho capito. Lei dev'essere qualcuno del Premio Ciampi, mi dica se sbaglio…" 
" No, non si sbaglia… " (" Ma forse non nel modo che immagina ", si disse Piero sforzandosi di non fare nessuno sguardo particolare e di non increspare le labbra, seppur in modo inavvertibile.) 
" E allora, stia tranquillo che gliela faccio alla svelta. Quelli che vanno al Ciampi mi stanno simpatici, sa…. ", disse il Milanese sollevando la testa e strizzando lievemente gli occhi mentre i sorrisi gli si sbaffavano sulla faccia. 
" Senta, faccia una cosa, signor Litaliano ", disse riprendendo improvvisamente un'espressione serissima.  "Io sono abituato a starmene da solo, quando lavoro. Torni verso le nove, come le ho detto; sarà tutto pronto. Mi scusi, non vorrei essere sgarbato, ma se non sono solo non ce la faccio a lavorare. " 
" Ma le pare. Torno alle nove in punto. " 
" La aspetto." 
" Però mi levi solo una curiosità." 
" Mi dica. " 
" Chi è ?... ", chiese Piero Ciampi indicando il mangianastri dal quale qualcuno continuava a cantare in inglese. 
" Un cantautore scozzese, si chiama Robin Laing. " 
" Canta bene. Ha una bella voce. " 
" E canta anche delle belle cose. La canzone che ho messo me la sento sempre quando lavoro. Parla di un orologiaio. In italiano si chiamerebbe La canzone segreta del tempo ". 
" Grazie. Tanto 'un lo 'onosco…ma il titolo è…è bello. Arrivederci a fra poco. " 
" Arrivederci a lei, signor Litaliano. Certo, cristo… " 
" Prego… ? " 
" No, niente. Non è niente, stavo ragionando fra me e me. Arrivederci ancora. " 


 Piero Ciampi uscì dal negozio che si dovevan già essere fatte quasi le sette. Faceva freddo, e umido; s'abbottonò la giacca alzando il bavero e stringendosela addosso più che poteva, e sperando che non s'alzasse per caso una di quelle ventate, di mare o di terra, che a Livorno son pane di tutt'i giorni. "Se viene una tramontanata, con questa roba 'ecciò addosso mi finisce la vaànza in du' ore, gesummorto..." ; ma, per fortuna, di vento non ce n'era. C'era solo un'umidità dove avrebbero potuto sguazzare i pesci per l'aria. Di tornare in via Garibaldi, non ne aveva voglia. Quella casa, ripensandoci, gli aveva fatto un effetto strano. E la vicina di casa, poi, la vecchia che ce l'aveva coi siciliani; "N'avrò visti di posti strani…boia se n'avrò visti…". Ripetendosi e ridicendosi quest'ultimo pensiero come una specie di mantra, le gambe lo avevano portato di nuovo verso piazza Cavour; stranamente non aveva né fame, né sete. 

Le luci di via Cairoli, con qualche negozio che già aveva i festoni natalizi; quella via piena di banche, e banche, e ancora banche. Ché, a Livorno, di soldi ne girano tanti. Città di soldi che passano di mano, città di noli, di equipaggi o ciurme raccattati con la consegna del silenzio per tacere tutte le loschezze che vi sono dietro. Città d'affari fatti alla svelta. L'unica città italiana dove una strada si chiama via della Banca . Non la prese, via Cairoli. Non tirò diritto. Girò a sinistra per gli scali. Per il porto. Era quello stesso porto che lo aveva respinto nel pomeriggio, quando stava camminando per via Grande. Ora ci arrivava dagli scali del fosso Reale, a sera, mentre aspettava che gli fosse riparata una chitarra che aveva trovato in un cespo d'ortica, su suggerimento d'un francese che, di cognome, faceva " Linea spezzata" ; proprio in quel momento, il cespo d'ortica aveva preso, lassù lassù, la rotta della Capraia, a diecimila, a ventimila, a nonsommila metri di quota. Sì che ci doveva andare ; ora sì.

Terminati gli scali, Piero Ciampi voltò a sinistra per pochi metri, costeggiando il bacino dei pescherecci sui quali qualcuno ancora stava dentro a far chissà cosa; e poi a destra, sul brevissimo ponte che menava a uno dei tanti ingressi del porto, quello vero, quello che non finisce mai. Quello dove aveva passato serate e notti, a camminare e a bere, a guardare, a veder partire e arrivare le navi chiedendosi da dove venissero e dove andassero, a vedere i traghetti vomitare e inghiottire automobili e camion, a guardare le navi militari lontane alla fonda, a sentir parlare tutte le lingue del mondo. E a scrivere canzoni, anche se magari con sé non aveva neanche una matita e un foglio di carta. Se le scriveva dentro, inframezzandole con strane parole inesistenti che gli davano il ritmo del verso; a volte, gli capitava di scordarne qualcuna. Sul ponte, il chiosco era aperto; entrò dentro per riscaldarsi un attimo, e probabilmente anche per investire un po' de' vaìni che gli restavano in modo sicuro, come recitavano decine di tabelloni pubblicitari sparsi per tutta la città. Si vede che tutti dovevano investire in modo sicuro, in quel mondo là di venticinqu'anni dopo; e fu così che chiese se avevano per caso un litro di vino rosso, sempre da poco. Lui, d'investimenti sicuri, non ne voleva conoscere altri.

Il chiosco, che tutti così chiamavano anche se in effetti era un piccolo bar in muratura, era stranamente affollato. Di solito, si ricordava Piero, a quell'ora lì non c'era mai nessuno, specialmente d'autunno e d'inverno; i panini erano finiti, e anche se si potevano sempre far fare, la mortadella e gli altri salumi in mostra nella vetrinetta del bancone sembravano, dal loro aspetto, essere stati ricavati da un velociraptor del giurassico piuttosto che da un suino. Ma c'era una marea di gente, di ragazzi. Tutti giovani, che se ne stavano lì a bere e a parlare e che, soprattutto, avevano ammassato addosso a una parete ogni sorta di strumenti musicali. Chitarre, fisarmoniche, bassi, custodie con le tastiere, flauti, ogni cosa. Piero Ciampi, dopo aver chiesto la bottiglia, andò senza neanche pensarci verso la parete, come a posare la sua chitarra assieme agli strumenti dei ragazzi; fu solo dopo aver persino mormorato uno " Scusate, ragazzi…posso… ? ", che si rese conto di non avercela, la chitarra, e di averla lasciata a riparare. 


Gli rispose un giovane dalla capigliatura che definire fluente sarebbe stato riduttivo. Non era una capigliatura: era una specie di foresta pluviale dove s'intrecciavano liane, dove crescevano le rafflesiae arnoldii, dove serpenti dai colori stranissimi strisciavano e s'avvolgevano ai rami. Il suo accento non ne indicava chiaramente la provenienza, anche se pareva genericamente settentrionale. 
" Scusa…dicevi ? Puoi cosa… ? " 
" No…scusa te, dé…è che anch'io ciò la 'itarra, ma l'ho portata a raccomodà' e devo tornàlla a ripiglià' fra pòo…mi sembrava ancora d'avèccela'on me… ", e nel dir questo s'alzò diritto in tutta la sua statura, un metro e novanta d'ossa secche, stampando un sorriso acuito dal fatto che stava arrivando la bottiglia di vino. 
" Ah, ho capito ", fece il ragazzo. " Allora suoni anche tu! " 
" Sì, mi piace suonare. " 
" Io sono Andrea, piacere di conoscerti. " 
" E io sono Piero, piacere mio, dé. " 
" Oh, ti chiami anche tu Piero ! Ma vi chiamate tutti Piero a Livorno ?… " E giù una salva di risate nel chiosco, che coinvolsero anche il barista. 
" No, guarda, qui a Livorno s'ha anche gente 'e si 'iama...fammi riordà... Carlazzèglio…! ", e giù ancora risate, e si mise a ridere anche Piero Ciampi pensando a quante volte gli era già capitato di ridere, in quel suo primo giorno di Wiederbelebung. Di ridere, e ancora non di piangere; nella sua prima vita non gli era capitato spesso di viver delle giornate del genere. 
" Scusa, non ti si voleva prendere in giro…è che siamo qui tutti quanti a suonare e cantare per il premio Ciampi. Ci vai anche tu, per caso ? " 

Piero Ciampi ritenne urgentissimo bersi due bicchieri di vino in fila, d'un fiato. " Mòna dea Madòna, ti te ga' d'averghe se' ", fece un'altro dei ragazzi, stavolta con un accento decisamente veneto, guardandolo tracannare quei due bicchieri come fossero d'acqua della cannella. " Ostrega se ce l'ho ", rispose Piero. " Ce l'ho sempre. Come Piero Ciampi." Era la prima volta che pronunciava il suo nome a voce alta. Gli fece un effetto da non dirsi. Un effetto da bersi. 
" Lo honosci te, Piero Ciampi ? ", gli chiese un altro ragazzo, stavolta con accento fiorentino ; " O, gli è incredibile ", disse un altro ragazzo ancora, con lo stesso accento, uno con una faccia da fotomodello e du' bicipiti da spaccapietre in una cava. '' 'Sto Piero Ciampi 'e se lo rihordano tutti pe i'vino, miha pe' le hanzoni ! " 
" Scusa un attimo te…come ti 'iami, scusa ? " 
" Luca. " 
" Senti, Lùa…me la presti un seòndo una 'itarra… ? " 
" Come no…subito ! " Luca andò alla parete, frugando fra la congerie di strumenti che vi erano accatastati : " Marco…Marco ! 'Ndo hazzo tu l'ha messa l'ahustiha ? " " O Luha, via…'un tu la vedi, l'è sotto quella di Massimiliano… " 


Gli aveva risposto un altro tipo, dall'aspetto serio e completamente pelato, che se ne stava tranquillo al bancone a bere una birra con la cannuccia; nel frattempo, un altro ragazzo, l'ultimo di tutta la banda, senza dir niente era andato anche lui alla parete e aveva cavato fuori la fisarmonica dalla custodia. Accarezzandola e basta. A Piero, finalmente, arrivò in mano una chitarra; e quella, sì che era una chitarra. La prese. La guardò. In due secondi dovette ripassare trent'anni e rotti. Dovette controllare se quella lunga pausa che gli era toccato di passare non gli avesse cancellato tutto quanto. Fece un accordo, poi un altro; provò a collegarne un terzo, e un quarto. No, la muerte no acaba nada. Bevve un altro sorso di vino, e cominciò a cantare.


S'era aggiunta un'altra chitarra, suonata da Andrea dalla foresta in testa.
" Visto che di Piero non si riòrda solo 'e beveva… ? "
" Cazzo se suoni e canti bene, tu. Sembri lui. "
" Non ti posso nimmanco dì' che me lo dicevano tutti."

Il fisarmonicista aveva continuato anche dopo la fine della canzone, quasi in trance. " Davide ! " Aveva parlato quello con l'accento veneto. " Davide, ma va' in mona ! Lè finìa !" Davide continuò a suonare, piano. Le luci si erano già accese, sul mare. Da un po'.
" E dai, Guido…lo sai home gli è i' Darmo… "
"Lo so… ", rispose Guido, sorridendo e ordinando una birra. Il barista stava coi gomiti appoggiati al bancone, e ascoltava.
" Senti…Piero, ti chiedo un favore ", disse ancora Guido il veneto. " La conosci, di Ciampi, Cristo fra i chitarristi ? "
" Come no. ", rispose Piero tirando una fiatata che cominciava a farsi sentire.
" E allora cantamela, per favore. E' per un mio compagno che non ci può essere."
Piero credette di capire bene il motivo per cui quel suo compagno non ci poteva essere, dallo sguardo che Guido aveva fatto. Chiese soltanto :
" Come si chiama quel tuo amico ? "
" Elia. "
" Allora la canto per Elia. Vieni, te", disse al fisarmonicista;  "Accompagnami alla fisa. "




Fuori dal chiosco, s'era cominciato a fermare qualcuno.