venerdì 30 novembre 2012

Primavera



Dicono che arriveranno sempre meno rondini; le piogge acide, altri veleni e chissà cos'altro. Poi, comunque, è ancora lontanissima. E' lei che hanno scelto per i conteggi; ha venti, cinquanta, ottanta primavere. Mai inverni, estati o autunni.

Ma la primavera può essere ancora una stagione fredda, e piovosa. Secoli fa un poeta svedese, Lars Wivallius, si lamentava per una fredda e secca primavera; ne se stava rinchiuso dentro una cella di galera, e pensava alla tiepida pioggia primaverile che non arrivava.

Scrisse una lunga poesia intitolata Klage-wiisa öffuer thenna torra och kalla wåår, nella strana e incerta ortografia che aveva la sua lingua nel '600; me ne ricordo, di quando la leggevo meravigliato in anni in cui le primavere erano tornate stupide e calme.

Un siciliano cantava di "stupide galline che si azzuffano per niente" e seppelliva a suon di musichette le primavere della passione, le primavere delle rondini abbattute, le primavere calde e fredde del cambiare. Nessuno gliene ha mai chiesto conto. Ora fa l'assessore regionale.

Marzo. Il mese che più aspetto ogni anno. Marzo di portici e pallottole conficcate nel muro. Marzo di quelle ultime voci da una radio, mentre stavano abbattendo la porta e entrando d'autorità. Marzo di un corridoio insaguinato. Marzo lontano.

Le primavere e le città. Ci si muoveva per le città veramente al passo delle stagioni. La vita era fatta assieme al clima e a quei vestiti economici; l'eskimo nacque solo perché costava poco, e non era nemmeno che lo portassero tutti.

E ritrovarsi soli a percorrere vialetti di parchi dove ancora c'erano le foglie secche dell'autunno precedente. Ragazzini che immaginavano. Non c'eravamo e c'eravamo lo stesso; toccava tutti quanti. Se nel cuore batteva comunque una pur incerta stilla di rabbia, c'eravamo.

E le città sembravano essere libere. Le piazze erano come le rondini, arrivavano a primavera. Si vedevano delle facce e degli sguardi che non erano mediati da nulla; sterminio. E, laddove non ci fu lo sterminio, silenzio. Opportunismo. O la scelta di camparci sopra per il resto della vita.

Le primavere che s'infuocavano all'improvviso. Ora, quando la temperatura si alza, trovano dei nomi infernali: Caronte, Satana o roba del genere. In quelle primavere i nomi erano via Mancini, via Nazionale, via del Pratello.

Ma, penso, per provare una qualche forma di nostalgia bisognerebbe esserci stati. "Nostalgia" vuol dire "passione per il ritorno"; e non si può voler tornare dove non si è mai stati. Eppure, è comunque qualcosa del genere.

Qualcosa del genere assieme a tutte le rabbie quotidiane, assieme alle pochezze e alle mediocrità scoperte in chi credevi ne fosse immune, assieme alla stratificazione del tempo, assieme a un presente che, con tutte i suoi orrori, fra trent'anni apparirà allo stesso modo.

La primavera non comincia il ventuno di marzo. E' l'unica stagione che comincia con la sua lunga attesa. In casa abbiamo più di un calendario; quello coi gatti, quello con l'Isola, quello col rivoluzionario barbuto, i bambini, i prigionieri baschi.

L'armadio e i cassetti coi soliti maglionacci bisunti che non si buttano mai via. Le magliette acciorcellate. I pensieri di come dev'essere stato morire a vent'anni, lo sparo, l'ultimo momento, le ultime parole dette. Per qualcuno sarebbero potute essere "dammi una sigaretta".

Poi, dopo, è stata scoperta la parola "generazione". Una generazione se ne accorge sempre dopo, di esserla stata; è una parola, sempre, da vecchi. Ha quel suono biblico, quella consistenza sacrale che dev'essere amata molto da chi ha vissuto un dato periodo.

La generazione che ha perso. La generazione incarcerata. La generazione massacrata dall'eroina. La generazione della rivoluzione. La generazione seppellita da una canzonetta di enorme successo dove le si dava di stupide galline.

Per questo io continuo a parlare della primavera; la primavera non ha generazioni. A Santiago era quasi primavera in quel remoto settembre. A primavera inoltrata spuntavano sempre delle magliette che sembravano troppo strette.

Sol warma, förbarma! Caldo sole, abbi pietà! Il poeta sembra fosse, come spesso accade, un fior di truffatore. Era finito in carcere per avere abbindolato la figlia di un importante nobiluomo facendole credere di essere ricco, mentre non aveva un soldo; e l'aveva sposata per fregarle la cospicua dote.

Chissà come sono le stagioni in carcere. Se in galera c'è una primavera. Eppure ci si pensa; in prigione sei a Pisa e non sei a Pisa, come ragionava Adriano Sofri, e sei in primavera e non ci sei. O, forse, ci pensiamo così tanto perché la galera è ovunque.

Ma che importa; già che importa. Arriverà puntuale, col sole o con la pioggia. Con un anticipo d'estate o con una coda d'inverno. Col vento forte o con la bonaccia. Sarà bene, comunque, tenersela stretta e abbandonarsi all'attesa.

Sarà nuova? Certo che sì. Se non è nuova, sei morto. La vita è, grosso modo, il nostro unico lusso. Dai, su; a primavera tutto cambia. Una notte, senza quasi accorgersene, ci si stenderà su un prato immaginario, e si sentirà la rugiada calda.
 

giovedì 29 novembre 2012

Inverno



E così, mentre celebrano l'orgia collettiva delle loro "primarie", mentre due facce di merda si "confrontano" sui teleschermi, mentre tutto quanto, la repressione si abbatte ancora. Quanti arresti? Diciannove, venti, cento, che importa.

Gli spazi sono stati chiusi. Tutti. Anche io comincio a avere parecchia paura nello scrivere certe cose. Ho sempre detto che questo è un piccolo blog dimenticato, ma c'è chi non se ne dimentica affatto.

La loro "democrazia" e la loro "giustizia" martellano. Tutti devono uniformarsi. Noialtri, rinchiusi oramai in ghetti che verranno prima o poi smantellati. Quante energie spese. Quante attività piene di sogni e speranze. Quante vite spezzate.

E abbiamo un bel dire "andiamo avanti". No. Non andiamo avanti. Ci hanno massacrati, chi in un modo, chi nell'altro. Forse è anche giusto così. Dicevamo di lottare per una classe, per gli emarginati, per i più deboli. Cioè per noi stessi, perché siamo noi i più deboli.

E si sono riempite le galere e le case trasformate in galere. Loro ci hanno la "legalità", e non solo loro. Ce l'abbiamo anche parecchi di noi, ci è entrata dentro per forza. Il pensiero unico vince, e devi obbedire alle sue regole. Sennò finisce male.

Devi obbedire alla "democrazia", devi rispettare il signor giudice da vivo e da morto, ti è concesso di urlare un po' ma poi devi mettere la testa a posto perché sennò te lo fanno capire non solo loro. Anzi, prima di tutto te lo fanno capire tanti tuoi "compagni".

Puoi sì fare il NO TAV, ma il tuo dissenso lo devi "esprimere civilmente", così civilmente ti smembreranno la valle, la casa, il territorio, tutto. Puoi fare sì l' "antagonista", ma guai se antagoni troppo.

Deve restare tutto non soltanto nei limiti della "legalità", ma del gioco. Un gioco da ragazzi, anche per chi magari ragazzo non lo è più da un pezzo. Se giochi e basta, dai, ti si fa giocare almeno per un po'; poi basta.

Quando il gioco diventa troppo serio, allora ci pensano da qualche ufficio dove ex studenti di "umile famiglia" o ex studentesse di Trani provvedono a mettere la loro firma su un foglio di carta da trasmettere per l'esecuzione.

E ti finiscono di galere, e di multe. Prima danno, ma non sempre, qualche avvertimento a cura della loro polizia. La polizia sa essere benevolente. Ti sorvegliano. Ti scrutano. Ti leggono. Non hai mezzi per sfuggire, e poi a che servirebbe?

Prima di finire dentro, in una cella o in camera tua, dicevi di fare tutto alla luce del sole. Dicevi di non avere paura. Dicevi di "resistere", quante volte l'avrai detta quella parola? Dicevi di "non arrenderti". Ma per chi?

Per chi, magari, in questi giorni ha fatto a gomitate per andare a scegliere tra due tizi che non sono nulla. E lo sanno anche bene, che non sono nulla. Lo sanno bene che sono solo due marionette che ubbidiranno altrui, eseguendo fedelmente.

Per chi, magari, prova pure "simpatia" per te ma, venuta la tua alba, ti lascerà solo come un cane. Per chi blatera di "solidarietà" ogni giorno, ma non è disposto a rischiare più di tanto. E non è neppure da biasimare o maledire.

E allora ti lasci andare. Ed è orribile, lasciarsi andare. Orribile "fare altro", ma non c'è più scelta. Si finge di accettarlo serenamente, in quanto ineluttabile. Si prende coscienza dei rapporti di forza, e definitivamente.

La forza non è e non è mai stata nelle idee, se le idee non sono state aiutate dalla coscienza e dalla rabbia. La coscienza e la rabbia non si vendono al mercato. La coscienza e la rabbia non possono essere individualiste.

Si riconosce che la nostra individualità non serve a creare rapporti di forza che possano cambiare le cose; si riconosce anche che la propria azione collettiva, ancorché divisa, frammentata, spezzata da odi e incompatibilità insanabili, è troppo debole.

Si riconoscono tutte le baggianate della "comunicazione" esasperata. Ci si è creduti tanto forti perché c'era la Rete, ma la Rete ha creato soltanto parole su parole, mentre i fatti diventavano soltanto galere.

Ci siamo esaltati per i quattordici dicembre e chissà quali altre date, pensando che "fosse cambiato il vento". Il vento, invece, spira sempre da una parte sola. Abbiamo pensato di poterci opporre, e lo abbiamo fatto. Ma in pochi. E sempre meno.

Abbiamo sperato di non dover mai pronunciare la frase "e ora che ne sarà di noi". Anche perché non ne sarà nulla. Probabilmente continueremo. Qualcuno si fermerà. Non è più nemmeno un tradimento fermarsi, è comprensibile.

Abbiamo giurato di non dire mai che hanno vinto loro, e di continuare ad ammazzarci mentre non abbiamo più un lavoro, non abbiamo più un soldo, non abbiamo più chi ci stia a sentire veramente. A che è servita la "comunicazione"?

Ci siamo persi in mille e mille diatribe, sempre le stesse, sempre senza soluzione. C'è stata la repressione tremenda, e c'è stata anche l'autorepressione. Rancori senza fine. Accuse. Sarcasmi distruttivi. Anatemi. 

E io mi ritrovo qui, con un sigaro in mano, davanti a uno schermo. A fare qualcosa per sopravvivere. Perché, vivere, quello togliamocelo una buona volta dalla testa. Si sopravvive e basta, e non si sa per quanto ancora.

E si continua, sì, a dire fare organizzare; sapendo a che cosa si andrà incontro, prima o poi. Un bel giorno si diventerà come quei diciannove di oggi a Torino, preceduti dai ventisei, dai dodici, dai tredici, dai quaranta.

Oppure, un altro giorno, si diventerà come quelli che hanno scelto di mollare, di godersi la ragazzina, di scrivere stronzate sui pugili italoamericani, di esercitare il "ricordo", di accomodarsi in qualche passato.

Oppure ancora, si diventerà dei simpatici professionisti dell'attesa, o della consolazione che "servirà anche se non lo vedremo". Professionisti dell'illusione di aver creato un po' di coscienza.

Chilometri, scarpinate, panini impossibili a ore strane, finanziamenti, comitati, manifestazioni che non manifestano più nulla, presìdi per gli arrestati, arresti per i presìdi. La collezione delle denunce. Il solito avvocato di fiducia.

Le udienze preliminari. Il giudizio di primo grado. Il secondo grado che ti fa sempre vedere quanto si divertano a giocare a palla con te. I cantieri, i tunnel, i morti, i suicidi, i fascisti, le feste della legalità, gli estintori, i "qualcuno vive, i morti siete voi".

Poi, certo, ce lo avevano detto pure quei signori e quelle signore che, a vent'anni o giù di lì, stavano per fare la "rivoluzione". E' capitato che neppure dalla polizia io abbia sentito un disprezzo così profondo per chi è venuto dopo e si è ritrovato in altri tempi.

E' capitato che abbia sentito e letto più vicinanza a Cossiga che a Sole e Baleno. E' capitato questo ed altro, poi ho smesso di addannarmici. E' capitato di ricevere insulti, sceneggiate, dichiarazioni di inesistenza; e intanto tutto andava avanti.

Andava avanti e si avviava alla fine, all'ennesima fine. Non è, del resto, una novità capire che, comunque vada, loro faranno ciò che vorranno o che qualcun altro dirà loro di volere. Non ci sarà nessuna "sollevazione" anche se, oramai, siamo condannati a dire di crederlo.

Diventerà, tutto, la solita piccola anarchia personale, vissuta più o meno conseguentemente anche se ci sarà sempre qualcuno pronto a spararti mitragliate di coerenza (la sua, naturalmente). 

Oppure diventerà tutta una interminabile sequenza di assemblee dibattiti iniziative comunicati appoggi e via discorrendo. Dopo un po' ti sembrerà assai più rivoluzionario accarezzare il gatto che dorme o prepararti una zuppa di ceci bella calda.

Avrai da barcamenarti finché campi, e sodo. Proclamerai la necessità di abbattere il Capitale senza, in fondo, che tu abbia mai saputo perfettamente che cosa sia, 'sto Capitale. Lo intuisci e basta, il Capitale, sono entro determinati metri da casa tua.

Ci avrai in bocca la parola "globale" mentre il tuo globo si restringe sempre di più. Non lo vorresti, ma è così. Vedi sempre le stesse persone, le chiami "compagni" e vuoi loro bene. Un giorno, uno va via. Uno muore. Un altro si defila. Un altro resta, ma diverso. 

Quel posto là lo sgomberano. Quell'altro non c'è neppure bisogno di sgomberarlo, si autosgombera nell'impossibilità, nell'inconcludenza, nella povertà, nei gruppetti che dettano una linea che non sanno più manco loro quale sia.

Ti farai i tuoi figli e le tue figlie, oh le nuove leve, ci scherzi, sei felice, arresti domiciliari e pannolini, il digossino che te dice ahò ciai un pupetto, ma chi te lo fa fà. I diciannove usciranno e qualche altro Luca Abbà farà i tuffi dal traliccio.

Ti troverai nell'impasse di non poter mai dire che è stato tutto inutile, ma constatando che non è stato nemmeno utile. Troppo pochi. Troppo male in arnese. Troppo avversi l'uno all'altro, e guai a non esserlo. Fregati, come sempre, dalla maledetta "purezza".

Ah sì, dimenticavo. Te ne andrai, a un certo punto, nel Chiapas. O in Nicaragua. Te ne andrai dovunque, via dal tuo famoso "paese di merda". Te ne andrai in mezzo agli affamati, ai bambini scalzi, te ne andrai a inseguire le tue rivoluzioni. Lo hai sempre fatto.

Oppure resterai dove sei, tanto un posto vale un altro. In quel buco di casa tua arredato coi mobili della multinazionale che fa manganellare i suoi lavoratori. Coi tuoi libri, il tuo pc, il gatto adorato, il tuo amore lontano e l'Equitalia in cassetta.

In fondo a tutto questo, ti alzerai e aprirai la porta. La notte è fredda. Arriva dicembre. Dovrai trovare qualcosa da dirti di più intelligente della solita, gesuita "speranza". Dovrai pigliare il mondo e rovesciarlo, da solo.

martedì 27 novembre 2012

Pour en finir avec les syndicats




Il titolo di questo post non è in francese né per snobismo, né per qualche altro frivolo motivo. Vuole riecheggiare precisamente il titolo di una raccolta di canzoni, Pour en finir avec le travail, pubblicata nel 1974 da Jacques le Glou. Alla raccolta collaborò Guy Debord con due canzoni; contiene anche La vie s'écoule, la vie s'enfuit, scritta da Raoul Vaneigem.

Voglio dirlo fin da subito: l'importanza odierna dei sindacati non è in discussione. Oggi, forse, sono importanti ancor più di prima, e per motivi ben precisi e funzionali. Se, diciamo fino agli anni '80, i sindacati sembravano perlomeno sostenere la classe lavoratrice nelle sue lotte (ma frenandone al contempo le spinte rivoluzionarie promuovendo il "dialogo" -antesignano della "concertazione"- e incanalando le battaglie nell'ambito del recupero contrattuale), adesso la funzione primaria dei sindacati (primaria e assolutamente non celata) è quella di sostenere il Capitale, di assicurarne la produttività e di gestire i movimenti dei lavoratori in modo del tutto subalterno alla relazione tra offerta e domanda del lavoro. Qualcuno si è spinto a definire i sindacati odierni come la polizia del Capitale; non la ritengo un'osservazione fuori luogo, un'osservazione che -tra le altre cose- mette perfettamente e brutalmente in luce da che cosa derivi realmente la loro indubbia importanza: quella di una "forza dell'ordine" che garantisca l'obbedienza al padrone con cui il sindacato condivide metodi e finalità.

La parola chiave è "contrattazione". Da qui, la necessità di eliminare una volta per tutte il termine "lotta" (coi suoi sinonimi) da ogni questione che riguardi l'attività sindacale. Si tratta di uno stato di cose accuratamente preparato nei decenni scorsi, in Italia come altrove; in questo, non ha alcun senso scagliarsi esclusivamente contro i "sindacati italiani" dato che si tratta di un'evoluzione a livello globale. In ogni paese, ad un certo punto, l'asservimento dei sindacati generali (di qualsiasi tendenza politica) al Capitale, talmente palese e alla luce del sole da far sorgere una nuova categoria politica di lavoratori (quella degli "operai di destra", che tante finte bocche spalancate ha provocato seppure fosse divenuta assolutamente attendibile e logica, specialmente con il pattume degli "immigrati rubalavoro" che tanto successo ha avuto), ha causato delle reazioni "resistenziali", come ad esempio qui da noi i Cobas. Niente che si spostasse, ovviamente, dalla questione puramente rivendicativa; casomai si insisteva (e si insiste) sui "metodi di lotta" e, già nella stessa denominazione, sulla "struttura di base" da contrapporre alle piramidi storicizzate dei sindacati generali. In pratica, le componenti sindacali "resistenziali" si sono limitate a proporre una "contrattazione avanzata", ma pur sempre la cara, vecchia contrattazione condita, ma non sempre, con "metodi" un po' meno servili nei confronti del padronato. Al corteo dei Cobas in occasione del consueto "sciopero generale" che di solito non è nemmeno caporalmaggiore, si sentono certamente slogan più "duri" che al corteo della ciggielle, ma non cambia molto la sostanza. Mi chiedo seriamente se, durante una riunione dei Cobas, sia mai stata pronunciata la parola "sabotaggio"; sono invece assolutamente certo che la parola "legalità" sia sulle bocche di tutti, a parte qualche blocco stradale o ferroviario che lascia il tempo che trova, fa bestemmiare gli automobilisti e i passeggeri, e comporta qualche denuncia qua e là.

Sarà mai venuta fuori la questione (tranne, forse, da qualche singola voce) di attaccare il Capitale nelle sue strutture e nelle sue realizzazioni per costringerlo coi fatti a cedere? Ne dubito fortemente. Oltre la "contrattazione avanzata" nessuno sembra più saper andare, per incapacità o per paura (o per tutte e due le cose). Ma, probabilmente, un motivo ancor più profondo per tutto questo è che un attacco fattivo al Capitale presupporrebbe, come prima condizione necessaria, di cessare di delegare la lotta a dei rappresentanti. In pratica, farla semplicemente finita coi sindacati come strutture di "rappresentanza", asservita totalmente o parzialmente che sia. Cessare di attenersi alla pura e semplice rivendicazione, e i diritti andarseli a prendere invece di contrattarli. Presupporrebbe, tutto questo, una conflittualità permanente e di classe, e la pratica dello scontro sociale. Ora, va da sé, nessuna organizzazione -neppure "di base"- accetterebbe tutto questo; vivacchia proponendo come "successo" qualche vertenziella risolta, ma il più delle volte venendo messa a tacere con relativa facilità.

E, intanto, noialtri si tira a campare con qualche raro divertimento, tipo il campionato di calcio, le primarie o il suicidio. Facendo ovviamente estrema attenzione a non farsi cacciar fuori dal giro: una volta completata la scuola, dove si rivendica il "diritto allo studio", si finisce dritti in fondo al pozzo. Un giorno pony express, un giorno autotrasportatore, un giorno babbonatale in un centro commerciale, un giorno praticante di studio, e poi addetta alle pulizie, lezioni private, disoccupazione, apprendista, cazzinculo e quant'altro. Sperare in nient'altro che in una paga qualunque e in qualunque modo, sperare di sopravvivere. E addio sogni, definitivamente e con la morte addosso. In quanto morti, siamo perfettamente propensi a delegare ogni cosa, dato che abbiamo sin dall'inizio delegato a qualcuno la nostra vita.

sabato 24 novembre 2012

Elba 1983: Il mistero di Vamos a Capraya


Marina di Campo, Isola d'Elba, fine luglio dell'anno 1983.

Verso le ore 22 di quella caldissima nottata, mentre sul lungomare prospiciente la spiaggia si sta svolgendo il solito, fittissimo passeggio serale, compare all'improvviso un gruppo di circa una ventina tra giovanotti e ragazze, vestiti in mondo decisamente pittoresco.

Chi indossa un rozzo pigiama a strisce; chi si è presentato con al piede una palla con la catena (fatta con carta di giornale pressata); chi ha addosso un asciugamano scuro che vorrebbe simboleggiare una toga da avvocato; chi si è portato dietro un mitra giocattolo; e così via.

Il gruppo è preceduto da uno striscione fatto con un lenzuolo, recante la scritta:

SFIGHEIRA

Incuriositi da quella strana congrega, numerosi astanti si fermano mentre costoro, tirato fuori da un Apino 50 un rozzo impianto di amplificazione e alcuni megafoni, si sistemano sulla spiaggia non lontano dal bar "Capriccio".

Nel 1983, come molti sanno, ancora non si parlava di rimozione delle carceri di massima sicurezza dalle isole dell'Arcipelago Toscano; e così, oltre al secolare carcere di Portolongone (o Porto Azzurro che dir si voglia), a quello della Pianosa e a quello della Gorgona, esisteva ancora la durissima galera che occupava oltre metà dell'isola di Capraia. "Andare a Capraia" significava quindi, perlopiù, andare in gattabuia per un periodo non breve.

Una volta sistemato il rozzo impianto e impugnati i megafoni, da un qualcosa partirono delle note assai gettonate in quella lontana estate: quelle di Vamos a la playa dei Righeira. Il motivo dell'estate. Il tormentone di tutti i giorni. Chiunque, nell'estate del 1983, doveva sorbirsi quella canzone minimo quindici volte al giorno.

Il bizzarro gruppo di giovani ne cantò, in coro, una versione leggermente modificata.

Tra gli spettatori sul lungomare, che nel frattempo si erano fatti numerosi, le reazioni furono variopinte: chi si sganasciava dalle risate, chi si toccava le parti basse per scaramanzia, chi diceva "bisogna chiamare la polizia", chi approvava invece per l'intelligente provocazione.

La versione modificata è pervenuta ai posteri grazie ad una fortunosa registrazione con un vecchio "Gelosino" portatile, un supporto audiomagnetico che già allora era obsoleto. La riproduciamo qui per la prima volta in rete:

Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh.

Vamos a Capraya
y no tornamo en quà,
trent'agnos de galera
a spese dello Stà'.

Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh.

Vamos a Capraya
a fà' gli ergastolà',
sul fojo ce sta escritto
"Fine pena jamàs"

Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh.

Vamos a Capraya,
quizà se sortirà
de este lugar fetiente,
todos se evaderà.

Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh.

Vamos a Capraya,
Pianosa y el Gorgòn,
y los màs fortunados
vanno a Portolongòn.

Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh oh oh oh oh.
Vamos a Capraya, oh.

Alla fine dell'esibizione clandestina, il gruppo si disperse rapidamente; due furono visti montare anche su una barca a remi che si allontanò dalla riva.

Ancora, dopo quasi trent'anni, perdura il mistero di quella sera. Non si è mai saputo chi fossero gli autori di quella beffa, né chi abbia redatto il testo modificato della canzone. La patina del tempo ha ricoperto tutto, ma è ora di consegnare ai posteri questo remoto episodio. Il carcere della Capraia è stato chiuso già molti anni fa.

martedì 20 novembre 2012

Cambi di lettera


"Dal mattino alla sera parlo con i detenuti e in ognuno di loro trovo estremi confini di mele, ma anche estremi confini di pene. Il pene rimane: anzi, a volte fa riemergere il pene".

Cappellano (eh sì) della galera di San Vittore 
(Milano)  

lunedì 19 novembre 2012

Missili vercellesi




Hamas è brutta. Hamas è cattiva. Hamas è teocratica. Hamas lancia su Israele missili di fabbricazione iraniana. E l'Iran è brutto. L'Iran è cattivo. L'Iran è una teocrazia. Per essere brava e simpatica, e soprattutto fare da perfetta vittima dei nazi-sionisti israeliani, Gaza dovrebbe essere in mano a qualche “Movimento Anarchico Libertario Palestinese” o al Partito Comunista Palestinese; allora sì che nessuno avrebbe dubbi. Naturalmente, dalle nostre parti non si rinuncia mai a fabbricarci a nostro uso e consumo i “rivoluzionari” e i “combattenti” che più ci aggraderebbero. 

In questi ultimi tempi, debbo dire, ne ho lette e sentite veramente di tutte; dai ferrei kompagni tutti falce, martello e medaglie olimpiche alla Corea del Nord che facevano il tifo per Gheddafi, che vedrebbero bene le Pussy Riot monacate col beneplacito di Putin e che ora sono impegnati anema e core per sostenere Assad, fino agli “anarchici” che inorridiscono ben di più per un missile iraniano tirato su Tel Aviv che per le bombe a grappolo ammazzaneonati sganciate, appunto, a grappoli dai sionisti. Oppure che fantasticano, nel loro beatissimo mondo, di “brigate internazionali” da mandare a Gaza e nella West Bank, scovano chissà dove tenerissimi anarchici libici e siriani, l'imperdibile libertario di Ramallah e magari anche il circolo “Gaetano Bresci” di Gaza. E si danno addosso sui blogghi e (presumo) su “Facebook”, e si squartano a vicenda, e ammanniscono all'universo mondo le loro ideali, coerenti, ferree visioni su questa e su quell'altra cosa, senza sconti e coi relativi anatemi.

Nel frattempo, i nazisti israeliani aprono la “campagna elettorale” nel modo consueto: poiché gli amichetti americani, una volta rieletto Mr Yes-We-Can e stabilito che ai capi della CIA nonché “esportatori di democrazia” piace tanto la topina della biografa, devono aver dato loro un certo qualche altolà alla tanto agognata “lezione” all'Iran teocratico, antidemocratico e sakinetico, aprendo così un nuovo fronte dopo i disastri e le sabbie mobili irakene e afghane (e anche libiche e siriane), si sono ributtati su Gaza. Semplicissimo. Il missile “mirato” che polverizza il “capo di Hamas” (per di più uno dei responsabili del rapimento del soldato Giladdo Scialitto), la strage dei bambini (futuri capetti di Hamas, naturalmente) e due o tre missili iraniani su Israele, che qualche volta fanno fuori il colono. In una proporzione, però, simile alle vittorie del Catanzaro sulla Juventus. Una volta vinse, il Catanzaro; è rimasta storica. Goal di Mammì. Accadde esattamente il 30 gennaio 1972, mentre a Londonderry succedeva qualcos'altro; la Bloody Sunday dell'Irlanda del Nord  e della Juventus.



Cerco, per quanto possibile, di farmi domande con un minimo di senso comune. In tutte le vicende mediorientali, e particolarmente in questi ultimi tempi, sono andato veramente in crisi; per poi accorgermi che, fondamentalmente, si trattava di una crisi di tifo (per questo il riferimento pallonaro di prima non è affatto fuori luogo). Liberarsi dal tifo sembra impossibile; ma il problema mi sembra che, in questo tifo, non si tenga nemmeno per una squadra reale bensì per la propria squadra ideale. Come fosse il “Fantacalcio”, con le squadre liberamente fabbricate. Si perde di vista totalmente la realtà delle cose, che quasi sempre sono parecchio complicate e quasi mai corrispondono a quel che piacerebbe.

Il missile proveniente da Gaza, allora, dovrebbe essere soltanto espressione di noi stessi; un bel missile libertario con sopra l'effigie di Durruti per l' “anarchico”, un missile proletario con la falce e martello per il “comunista”, e magari anche un missile democratico con sopra la foto di Vasto, o un missile con le Pussy Riot sopra, o un missile con l'immagine di Facundo Roncaglia (Facundo Roncaglia / è il grido di battaglia!). Invece no. Il missile lanciato da Gaza, a cura di Hamas, è di fabbricazione iraniana. Disgraziatamente non ci abbiamo molte possibilità di far pervenire a Gaza missili di fabbricazione vercellese; e bisognerà quindi che, prima o poi, tutti quanti si decidano. Specialmente coloro che ci tengono tanto a “schierarsi”, o così almeno dicono.

Ad esempio, non si può stare assieme ai ribelli siriani ma con la paura che siano “teocratici” e “oscurantisti”, e che abbattano la società sicuramente laica di Assad; così come non si può stare con Assad ma dandogli del “fascista” (sentita anche questa), e con la paura che compia un massacro di islamisti. Non si può stare coi manifestanti di piazza Tahrir, e poi lamentarsi che abbiano mandato al potere i “Fratelli Musulmani” con delle elezioni ben più democratiche di quelle in Molise. Non si può opporsi a Israele gridando, come nei ruggenti anni '70, “Palestina libera, palestina rossa”. La Palestina non è libera e non è rossa. La Palestina avrà senz'altro mantenuto una sua componente laica, il cui risultato sembra essere Abu Mazen. A Gaza, la più grande galera del mondo dove non si entra e da dove non si esce, c'è Hamas; e la realtà è questa.

Non sto cercando di attirare simpatie su Hamas, ammesso e non concesso che Hamas desideri ardentemente che il Venturi attiri su di lei non si sa cosa da un blog senza commenti e con 79 lettori. Però credo di intuire che, a Gaza, si crepi in massa grazie allo stato nazi-sionista e alle sue Leibstandarte. La cosa non mi piace neanche un po', e sarà bene ribardirlo ammodino perché ho come un vaghissimo sospetto; che, tutto sommato, parecchi (che anche durante le manifestazioni si danno al regolare bruciamento della bandiera con la Stella di David) si sentano comunque più vicini a Israele che a quei cenciosi arabi che altro non sanno che darsi al loro dio propagandato da barboni. Ad uno stato dove puoi comunque tracciare falci e martelli sul muro o professare l'anarchismo (forse più liberamente che da queste parti). Vorrei essere chiaro: trovo la cosa perfettamente legittima. A condizione che, poi, non ci si stracci tanto le vesti per gli attacchi su Gaza, e che non si cerchi di effettuare tutte le acrobazie possibili per mantenere l'equidistanza.

Opporsi ora come ora allo stato di Israele e alla sua politica di sterminio e di imperialismo derivato dal solito nazionalismo di stampo ottocentesco, significa dire semplicemente che Israele, così com'è, non deve più esistere. Altro che “due stati”. Poi l'anarchico dirà che non deve esistere nessuno stato, nemmeno quello “Palestinese”; il comunista dirà che ci vuole la Repubblica Socialista Atea di Palestina e il democratico dirà invece che ci vorrà la Giunta Regionale Israelo-Palestinese guidata da Abu Batman e dalla Polverstein. Nel frattempo, però, si occupi di dirci che cosa devono fare a Gaza; vale a dire se devono continuare a farsi ammazzare come bestie per soddisfare tutti i nostri begli ideali del cazzo e le nostre “coerenze” da barilotto, oppure se hanno il gentile permesso di usare qualche missilino iraniano senza che glielo andiamo a rimproverare perché in Iran c'è il blogger in galera, la ragazzina ammazzata dai Bassigi o il regista perseguitato (generalmente di film mortalmente pallosi).

Diteci una buona volta, insomma, se siete fautori di una “democratica” pulizia etnica e di un genocidio in piena regola, oppure se per voi è più importante che il movimento-guida o il missile siano certificati in base alle vostre convinzioni intoccabili. Diteci se il vostro intento è quello di salvaguardare la pura e semplice esistenza di un popolo, oppure se in fondo in fondo non pensate che l'Oriana ci aveva proprio ragione. Ma ditecelo una buona volta, perché di tempo ne è rimasto poco. Finché a Gaza non saranno rimasti soltanto quel paio di intrepidi anarchici del circolino “Gaetano Bresci” e un novantenne che ancora non ha terminato di tradurre la traduzione araba del “Che fare".

mercoledì 14 novembre 2012

Storia di un uovo


Salute a voi. Sono, o meglio ero, un uovo. 

Ora, non sto nemmeno a dirvi se dentro di me c'era o ci sarebbe stato un pulcino. In teoria, un pulcino dentro un uovo c'è sempre; basta che mi si covi invece di tirarmi addosso a una banca. La questione non si pone, comunque; i pulcini non sono in via di estinzione, e ad ogni modo noialtre uova siamo piuttosto abituate a finire affrittellate, o sode, o comunque rotte e battute per fare una bella frittata. Si può, quindi, finire tranquillamente anche spiaccicate su una banca anche se, francamente, avrei preferito sfamare qualche cristiano. 

Non mi si fraintenda, per favore. Non mi stanno di certo simpatiche le banche, anche se questi termini troppo generici cominciano a starmi un po' sul gozzo, pardon, sul tuorlo. Sono anche perfettamente conscio della sim-bo-li-ci-tà dei gesti, a modo mio sono pure indignado e il mio spirito di sacrificio non è in discussione. Spiaccicatemi pure addosso alle vostre banche, ai “sindacati”, ai poliziotti, a chi e cosa vi pare. Però qualche cosa mi sarà pur permessa di dirvela; insomma, a farci tirare tocca sempre a noi e qualche piccolo diritto in base alla Dichiarazione Internazionale dei Diritti dell'Uovo lo avremo senz'altro. 

Dunque, oggi c'è uno sciopero. Europeo, addirittura. E “generale”. Poniamo che, un bel giorno, si indica lo sciopero generale europeo delle uova; io sono certo che lo organizzeremmo ammodino. Generale sul serio. Ci rifiuteremmo di uscire dal culo delle galline, perché è una cosa che riguarda tutti e tutte. Mica uno sciopero “generale” organizzato soltanto dalla Confederazione Generale Italiana dell'Uovo o dai Cobas Egg; per un giorno, niente uova. E basta. Sempre così; pur in una situazione come questa, si continua a far credere che gli scioperi siano “generali” quando sono invece promossi solo da alcune “sigle”. Tanto, comunque, ci siamo noialtre che facciamo da bosco e da riviera; il gran corteo de' lavoratori (de' precari, degli studenti, de' chissacchì) passa davanti alla “banca” e l'indignazione e la rabbia si manifestano tirandoci addosso a dei muri o a delle vetrine. Immagino quanto quei muri e quelle vetrine soffrano, e anche i gran danni prodotti. 

Ora, certamente, sono ben consapevole del fatto che, in questi particolari frangenti, anche tirarmi addosso a un muro è pericolosissimo per chi mi tira. Dopo due minuti partono già i messaggi in cui li si accusa di “squadrismo”. Dieci minuti e si attiva la DIGOS con i filmati. Mezza giornata e si sa già chi mi ha tirato. Un mesetto e si finisce in questura o anche peggio, vale a dire a mangiare le uova di casanza. Basta questo, no? Eppure lo sapete. Si finisce in questura o in galera (e accusati delle peggiori nefandezze dai servi dei giornali) per avermi tirato su una parete durante una passeggiata di massa in centro (leggasi: un corteo), il quale viene immediatamente etichettato come “pieno di violenti e facinorosi”. Violenti voi? Facinorosi addirittura? Ma li avete presenti i violenti di quelli seri, o i facinorosi che addosso alle “banche” (e a diverse altre cose) tirano qualcosa di leggermente più dannoso? Che so io, tipo in Grecia? Va bene, ok, la Grecia è sempre il solito esempio. Che palle, 'sta Grecia. Forse sarà perché in Grecia, oramai, si crepa di fame; noialtre uova scarseggiamo parecchio, e i greci preferiscono mangiarci invece che indignarci addosso ai muri, ai parlamenti e agli sbirri. Addosso a questi ultimi tirano bottiglie, sembra. L'altra sera, mentre nel “parlamento” stavano decidendo l'ennesima affamata generale (quella sì che è generale sul serio, mica i vostri “scioperi”), un lato intero di un'enorme piazza è stato letteralmente smontato. Gente incazzata nera e, magari, disposta a rischiare parecchio perché non ha più nulla da perdere. Gente disposta a tornare nel '900, altro che “futuro”; e mi sembra parecchio strano che sia un uovo come me a dovervi dire di guardar bene che ne è stato di quel famoso “futuro” di cui vi cianciavano e continuano a cianciare. 

Bisognerebbe anche che guardaste bene le vostre “passeggiatine generali” a base dei vostri sindacati e del vostro lavoro di merda. Le vostre “giornate europee”, ma andate in culo (mi intendo bene della cosa!) voi, le vostre giornate e la vostra Europa. E i vostri striscioni. “Gli studenti rifiutano i sacrifici”. “Vogliamo il lavoro”. Ecco, voletevelo pure, il vostro “lavoro”. “Salviamo il diritto di imparare”; uh che bello! E mi raccomando, isolare i violenti. Respirare sempre una sana aria di “legalità”, ché una passeggiata legale durante una “giornata” o un “day” è tutto quel che sapete fare. Pardon, dimenticavo; bisogna provare il brivido del rischio. E qui entro in ballo io. Mi tocca. Mentre i trenta, cinquanta o centomila passeggiatori sfilano per ribadire (si ribadisce sempre, come è noto) la necessità di una rete europea (forse si voglion dare alla pesca?), mentre intervistano un entusiasta sindacalista che cinguetta sulla “bellissima giornata per i diritti e la democrazia”, da borse e sacchetti si tiran fuori le uova. Da parte di una sparuta minoranza di provocatori, va detto. Io ho terminato la mia esistenza grazie a uno sparuto; magari lui la terminerà con uno sparo. 

 Ma che cosa credete di fare, a andare dietro a questi qua? Ci avete da volere il lavoro, l'occupazione, il diritto allo studio? E chi ve l'ha detto che sia un diritto? Ora, non è che noialtre uova ci distinguiamo per vasta cultura e siamo coscienti dei nostri limiti; però che si senta mai una volta rivendicare il diritto inalienabile a non lavorare. E anche a non “studiare” all'unico scopo di infilarsi nel lavoro e nel “mercato”. Il diritto ad attaccare finalmente le basi di tutto questo, non la vetrina di una vaga “banca” che, là dentro, continua a bancare come sempre. Il diritto e il dovere. In tal caso sarei disposto a dare un po' più volentieri il mio contributo, magari riempito di acido cianidrico che può rappresentare un validissimo antidoto contro le armi da guerra di quei signorini là di fronte, di quei “figli del popolo”. Ma state tranquilli; come sempre non ci tireremo indietro (anche per il non indifferente fatto che non siamo nate come boomerang). Il diritto e il dovere della rivolta, anche se la rivolta ha sempre un carissimo prezzo. D'altronde, considerate quello che state, tutti, già pagando; pagandolo, per giunta, oramai al di là di tutto ciò che sarebbe possibile. Pagandolo in termini di menzogne alle quali, peraltro, la maggior parte di voi è prona a credere bovinamente; menzogne che non provengono soltanto dalle “banche” o dal “potere”. Provengono, anzi, sempre più spesso proprio da chi vi organizza le passeggiate con gli striscioni, per tenervi buoni buoni e nell'alveo

Bene. Mi sa comunque che non ho troppa scelta. Ho dovuto, come tanti miei fratelli e sorelle (siamo tutte due le cose, noialtre uova: fratelli al singolare e sorelle al plurale), descrivere la consueta piroetta prima di finire contro la vetrina di qualche “Credito”; spero soltanto che qualche mio fratello/sorella, abbia avuto più fortuna di me e sia atterrato sul muso della Camusso o perlomeno di qualche professionista del corteino. Possibile, però, che nella gran calca qualchedun altro si sia spiaccicato addosso allo studente “senza futuro”, all'esodato, all'esondato maremmano (c'erano anche loro in corteo, sembra, perlomeno a Firenze) e magari anche all'anarchico che, anche stamani, è andato comunque al corteo per scriverne poi peste e corna sul blogghino d'ordinanza, fra la biografia del pugile e la foto di una guerra lontana. Da piccolo, appena uscito dal deretano della mia gallina, mi avevan detto che avrei dovuto accettare con dignità di finire alla coque o in un cucchiaio con sale e limone, “all'ostrica” come si dice. Mi è toccato finire addosso a una banca per rivendicare il “lavoro” o il "diritto allo studio" di chi mi ha lanciato. Sic transit gloria ovi. Ma chissà, forse da qualche parte è già nato qualche pulcino Kanellos.

martedì 13 novembre 2012

Antica Trattoria della Pesa


Conversazione a un tavolo dell'Antica Trattoria della Pesa, Milano, viale Pasubio 10. Anno 1933.

- "Ma secondo te, come andrà a finire con questa....come la chiamano...?"

- "Ristrutturazione. O in altri modi."

- "Ecco, in altri modi. Però stanno distruggendo la vecchia Milano, caro mio. Non ne resterà niente."

- "Bravo pirla, tu e la tua vecchia Milano! Eppure non sei un ragazzo, te la dovresti ricordare anche tu com'era, no? Dimmi un po', no-stal-gi-co, ti ricordi del Bottonuto?..."

- "Diamine se me ne ricordo! A due passi da piazza del Duomo, peggio della càsba di Algeri...da averci paura a entrarci dentro dopo una cert'ora, ma anche di giorno...eppure, l'atmosfera..."

- "L'atmosfera. Altro che atmosfera, caro mio! Qui c'è bisogno di novità, di funzionalità, di strade larghe per farci passare gli automobili...io li chiamo come D'Annunzio, sai! Al maschile! Il mezzo meccanico è simbolo di maschia forza e velocità..."

- "Sarà, ma intanto a mangiare continui a venire in una delle più vecchie trattorie di Milano..."

- "E che c'entra! Gli architetti mica vogliono buttar giù gli ossibuchi e il risotto giallo! A proposito di giallo....lo hai visto il cameriere...?"

- " E certo che l'ho visto....sarà giapponese? "

- "Non mi sembra proprio...beh, potrebbe anche essere, ma non mi sembra che pronunci le cose con la elle. Non dice mica lisotto! "

- "Poi dicono che il legime ci ha isolati...l'Italia fascista accoglie ploplio tutti, non ti sembla...?"

- "E hai un bel parlare tu, dell'Italia fascista mentre rimpiangi il Bottonuto e tutte quelle schifezze che sembravano i ghetti degli ebrei! Demolizione! Ricostruzione, caro mio! Futuro! "

- "Vabbè, vabbè. Però e bravo e gentile, il cinese. Inappuntabile. "

- "Senz'altro, ma continuo a dirti che per me non è cinese. Perché non glielo chiediamo, di dov'è ?"

- "E in che lingua glielo chiedi? Sai il cinese? "

- "Guarda che qualche giorno fa l'ho sentito parlare perfettamente il francese con degli avventori stranieri..."

- "Il francese? Allora, dai, sei proprio ignorante. Se parla bene il francese, vuol dire che viene dall'Indocina o da quelle parti, no?"

- "Già, non ci avevo pensato. Garsòn! Sivuplè, vupuvè venir issì an peti' momòn? "

- "Oui m'sieu?..."

- "On m'a dì che vu parlè fransè, muà ge le parl' an pè....muà e monamì facevòn iun dischiussiòn sur votre nazionalitè..."

- "Oh. Vous savez, moi je suis vraiment un citoyen du monde..."

- "Uì biansùr me vuzèt nè chelchepàr, nespà...? Vuzèt scinuà?..."

- "Non monsieur. Je suis né au Viêt-Nam. Vous le connaissez?"

- "Viet...l'Andoscine...?"

- "Vous les européens l'appelez comme ça. Nous autres l'appelons Viêt-Nam, monsieur. "

- "Biàn....mersì e pardonnemuà, getè chiuriè...me chesc' fetvù issì a Milòn...?"

- "Je travaille. Vous savez, il faut travailler. Il faut beaucoup travailler à ce monde. "

- "Sè bian dì, sà! Bravò ! "

- "Est-ce que je peux aller maintenant, monsieur...?"

- "Sertenemàn. Mersì e pardonnemuà de vusavuà derangè..."

- "Pas du tout. "

- "Iun derniere sciose....commòn vus appelevù...?"

- "Je crains que c'est un peu difficile pour vous, mon nom, monsieur. Quand je suis né, je m'appelais Nguyễn Sinh CungMaintenant je m'appelle Nguyễn Tất Thành. On change souvent de nom à mon pays. "

- "Ah. On Italì non, ahahahaha ! Mua ge suì nè Ambrogio Mazzacurati e je morirè Ambrogio Mazzacurati, vusavè ahahahah ! "

- "Vous vous appelez comme le saint protecteur de votre ville, monsieur. "

- "Me complimòn ! Vusavè tù ! Vu devè etr' bravò en Viet....commonsappèll...?"

- "Viêt-Nam. Je peux aller maintenant, monsieur...?"

- "Biansùr...mersì ancor...Guiènn...! "

- "Avevi proprio ragione, Luigi. Indocinese. Accidenti come parla bene il francese, chissà se il suo nome...o i suoi nomi voglion dire qualcosa..."

- "Di sicuro. In quei posti i nomi voglion dire tutti qualcosa, ma anche qui da noi a volte...prendiamo un'altra bottiglia di barbera? Mi sembra ce l'abbiano buono qui..."

- "Ottimo, direi. Si brinderà alla salute dell'indocinese, chissà che fine farà nella sua vita poveraccio...! "

- "Già, chissà ! "

Effettivamente, il nome del cameriere indocinese dell' "Antica Trattoria della Pesa" significava qualcosa; in vietnamita, infatti, Nguyễn Tất Thành vuol dire: "colui che è vittorioso". I nostri due avventori del 1933 continuarono la discussione sulla ristrutturazione (o distruzione) di Milano che le cambiò volto negli anni '20 e '30, e ordinarono anche un bel dolce senza sapere che era stato proprio il cameriere a prepararlo; era, infatti, anche un provetto pasticciere avendo appreso l'arte a Londra nell'atelier del grande Auguste Escoffier. Non stette però molto a Milano; qualche anno dopo, nel 1938, lo ritroviamo in Cina a fare una cosa che, forse, ai due avventori non sarebbe piaciuta granché. Il "poveraccio" era infatti consulente dell'armata comunista cinese di un tizio chiamato Mao Tse-tung. Dopo la guerra tornò infine nel suo paese, preparandosi a parlare perfettamente in francese dopo essere stato guarito da una grave forma di dissenteria da dei medici americani. Il francese lo parlò particolarmente bene in un posto chiamato Điện Biên Phủ, qualche anno più tardi; allora aveva ricambiato nome (ci aveva questo vizio), e si faceva chiamare Hồ Chí Minh. Un misto di cinese e vietnamita che, sembra, significa "Volontà che illumina".  La banalissima scenetta che ho qui scritto, ambientata nel 1933, è naturalmente del tutto inventata; l'ho scritta anche a beneficio di chi, recandosi a mangiare piatti tipici della cucina milanese all' "Antica Trattoria della Pesa", in viale Pasubio 10, si trovasse all'improvviso davanti a un busto dell'ex cameriere che lo scruta. Pare abitasse in un piccolo appartamento sopra la trattoria; c'è anche una lapide che lo ricorda, sulla facciata. Potrebbe capitare di mangiare lì, che so io, anche al leghista convinto o a qualche sparuto adepto di Magdi Cristiano Allam. E anche per oggi ho scritto qualcosa che non c'entra nulla con nulla; qui di seguito, un'antica ballata irlandese cantata in vietnamita, lingua meravigliosa nella quale il gruppo "tr" si pronuncia esattamente come in siciliano. E occhio ai camerieri quando andate in trattoria.



Far away across the ocean,
Far beyond the sea's eastern rim,
Lives a man who is father of the Indo-Chinese people,
And his name it is Ho Chi Minh.

Ho, Ho, Ho Chi Minh
Ho, Ho, Ho Chi Minh.

Now Ho Chi Minh was a deep sea sailor
He served his time out on the seven seas
Work and hardship were part of his early education
Exploitation his ABC.


Ho, Ho, Ho Chi Minh
Ho, Ho, Ho Chi Minh.

Miền biển Đông, xa tắp nơi chân trời
Người dân ở đó lầm than đói nghèo
Từ đau thương Người đi khắp năm châu
Lòng tin mặt trời chân lý sáng soi
Rọi chiếu tới dân mình

Hồ, Hồ, Hồ Chí Minh!
Hồ, Hồ, Hồ Chí Minh!

Vượt trùng sóng người đi khắp phương trời
Luyện tôi ý chí lòng nuôi căm thù
Hồ Chí Minh ngày đêm xót thương dân
tộc nô lệ vì đế quốc dã man
Giày xéo đất nước mình

giày xéo Đông Dương này,
tàn sát bao con người

Từng giờ cháy lửa cách mạng lan tràn
Từ rừng Việt Bắc vào đến Tháp Mười
Hồ Chí Minh niềm tin đấu tranh cho
tự do điệp trùng đội ngũ lớn lên
Ngày thêm mỗi trưởng thành

một ý chí tuyệt vời,
bằng chiến công diệt thù

Lòng thành kính toàn dân gọi Cha già
Vì Người đã sống để cho muôn người
Hồ Chí Minh mùa xuân chứa chan muôn niềm tin
Người từ chân lý sinh ra
Vì thế giới hoà bình

Người hiến dâng đời mình
Người hiến dâng đời mình
Người hiến dâng đời mình

Hồ, Hồ, Hồ Chí Minh!
Hồ, Hồ, Hồ Chí Minh!
 

lunedì 12 novembre 2012

Poblacht na hIodáile


Esodati.


Esondati.

mercoledì 7 novembre 2012

Nell'attesa dei barbari


"Aspettando i barbari" di Costantino Kavafis la conoscete tutti, penso. Però, oggi, m'è venuto di riscriverla un po'.

NELL'ATTESA DEI BARBARI

Ma che aspettiamo qua, riuniti in piazza?
È per i barbari. Oggi arriveranno.

Perché, in Senato, tutto questo non far niente,
e i senatori seduti a non far leggi?
Perché i barbari, oggi, arriveranno.
Che leggi devon fare, i senatori?
Le faranno i barbari, ora che arrivano.

Perché il Presidente s'è alzato tanto presto
e sta là in pompa magna, a Porta Maggiore,
come un re in trono, in alta uniforme?

È per i barbari. Oggi arriveranno.
Aspetta, il Presidente, l'accoglienza
del loro capo. Ci ha, addirittura,
una laurea honoris causa della Sapienza
pronta per lui, con titoli e dottori.

 Perché ci sono magistrati e diplomatici
con feluche e toghe bordate in rosso?
Ché si son messi pure i Rolex d'oro
e anelli splendidi, e bracciali preziosi?
E pure i bastoni del comando
tutti d'oro e d'argento rivestiti?

È per i barbari. Oggi arriveranno.
Per queste cose, sai, ci vanno pazzi!
E perché non vengono anche i giornalisti
a far grandi discorsi, come sempre?
 È per i barbari. Oggi arriveranno.
A loro quei tromboni fanno schifo.

E ora perché tutta questa agitazione?
Vedi che facce serie tutti han fatto.
Perché la gente sfolla dalla strade
e se ne torna a casa preoccupata?

S'è fatta sera, e di barbari manco l'ombra.
Su Facebook e su Twitter hanno detto
che di barbari non ce ne sono più.
Che minchia si fa ora, senza i barbari?
Quelli sì, che erano una soluzione.

martedì 6 novembre 2012

Un grumo nevano.



Mi chiedono alcuni, a volte, come si possa esultare per la morte di qualcuno. Esultare, o quantomeno essere contenti che qualcuno si sia levato definitivamente fuori dai coglioni.

Ad esempio quel fascista di merda dell'altro giorno. Mi chiedo che cosa abbia fatto, negli ottantasei anni in cui è vissuto, a parte fare il fascista; e la risposta è piuttosto facile. Niente. Mai un cazzo dalla mattina alla sera. Fascista sì, e repubblichino, e "difesa della razza", e “ordinovista”, e "trame nere" e chissà quant'altre stronzate che, come tutte le stronzate più ignobili, vengono poi riclassificate come “onore” (e non soltanto dai suoi amichetti, ma anche da una più che discreta schiera di cordogliatori professionali); però, intanto, nei suoi ottantasei anni, di problemi per campare non ce ne ha avuti di certo. Ci abbiamo pensato noi, a camparlo; anche tu che mi leggi, cara mia, caro mio. Col suo stipendio di “parlamentare” pagato da noialtri, perché in questo paese dalla grande “Costituzione” che vieta la “ricostituzione del dissiòlto (accento romagnolo d'obbligo) Partito Fascista in ogni sua forma”, s'è perso il conto dei repubblichini che son finiti in Parlamento, deputati e senatori. Tutti col loro bravo magna magna, che si sente ancora il rumore delle mascelle. Avranno mai lavorato, costoro, in vita loro? Certo, al pari di quegli altri, senza dubbio; abbiamo foraggiato, e continuiamo a foraggiare, tutti quanti. Compresi i fascisti schifosi che crepano in tarda età, nel loro letto; del resto, di loro si era affrettato a preoccuparsi il gran compagno Togliatti Palmiro, con una certa amnistia.

Prende un grumo dentro, con queste cose. Un grumo di rabbia e merda, nel vedere la chiesa affollata da una mànica di merdosi con teste rasate e saluti romani, mentre il genero del defunto fa il “sindaco di Roma” e distribuisce posti in comune ai camerati e elargisce miliardi a Casapound; e risuona sempre quella parola, “onore”. Un grumo di schifo e orrore che va oltre ogni cosa. Un grumo nevano.

Carmine Cerbera, 48 anni, insegnante precario di educazione artistica in un paese in cui ogni forma di cultura è stata distrutta. La “Costituzione” dovrebbe finalmente prenderne atto e, nelle sue “disposizioni transitorie”, sancire che in Italia è vietata la ricostituzione sotto ogni sua forma della cultura; non del fascismo, che invece è proliferato come un'erba infestante. Carmine Cerbera si è ammazzato, non è morto nel suo letto. Non ne poteva più di non riuscire a campare; avanti un altro. Aveva constatato che seguire le proprie inclinazioni e le proprie passioni conduce alla fame e al vivere una specie di semivita. Costretto a arrangiarsi tra rifiuti e disillusioni; ma “disillusione”, qui, non è un termine opportuno. Ritengo che Carmine Cerbera, di “illusioni”, non ne avesse più da tempo; che avesse oltrepassato anche la soglia della disillusione. Quando una persona decide di interrompersi, senza ritorno, tutte le soglie sono state oramai già varcate e non ne resta che una, quella finale.

Ho avuto voglia, io sottoscritto, e per tutta la vita, a rifiutare a priori questa soluzione; e continuo a rifiutarla categoricamente per me stesso, preferendo continuare a battagliare come posso. Anche mettendo in fila delle parole su una pagina vuota; anche esultando per la morte di qualche pezzo di merda, senza ritegno e senza nessun ripensamento “morale”. La “morale” ve la potete fottere tutti quanti su per il culo. Alla vostra “morale” rispondono i Carmine Cerbera. Per questo, oggi, non farò nessuna tirata sul suicidio, perché capisco bene che cosa possa portare una persona a ammazzarsi quando non vede più nessuna via d'uscita. Forse faremmo meglio a non usar di troppa ironia scacciapensieri, e di certi umorismi del tipo “invece d'ammazzarti, vai ad ammazzare qualcuno”.

Ora vi devo presentare l'educazione artistica; quella cosa che, nella scuola, dovrebbe preparare alla fruizione attiva e consapevole della bellezza che altre epoche hanno profuso a piene mani in questo paese. La farò presentare, l'educazione artistica, direttamente dalla moglie di Carmine Cerbera, che lo ha trovato morto. Queste le sue parole:

"Mio marito era figlio di un operaio edile e di una donna che si arrangiava lavando le scale dei palazzi. Da piccolo passava vicino allo studio di un pittore di Grumo. Il suo lavoro gli piaceva così tanto che scelse di andare al liceo artistico Palizzi. I genitori si sono sacrificati ma l'hanno lasciato libero". Alla parete, una grande tela informale. I suoceri portano due opere che svelano un attento disegnatore: una Madonna e un ritratto della moglie. Aveva fatto diverse mostre, una anche alla Casina Pompeiana. Il diploma nel 1985, e gli studi in Accademia conclusi nel '91. Ma il concorso a cattedre non viene bandito fino al 2001.

"In quei dieci anni fa il tagliatore e il confezionatore di abiti in una fabbrica tessile  prosegue Ernestina  Abbiamo tentato anche un passaggio a Torino. Ho lasciato marito e figlia per lavorare in una fabbrica di plastica. A un certo punto Carmine mi ha raggiunto. Con i turni che avevamo, non ci incontravamo mai. Così siamo tornati, lui ha ripreso a fare l'operaio e io per quattro anni parttime in un callcenter della Wind". Entrare nella scuola? Impossibile: "Aveva titoli ma non punteggio. Ha tentato più volte nelle scuole paritarie, ma non gli hanno aperto le porte. Abbiamo fatto insieme il concorso nella polizia municipale, sono entrata solo io, due anni dopo. Un suo amico che ha lasciato un istituto privato per l'artigianato di Nola, lo ha spinto poi a presentare la domanda. Lì ha accumulato punteggio e così ha potuto ottenere qualche supplenza: 78 ore, mai un anno intero".

"Ha insegnato allo scientifico di Frattamaggiore, a Sant'Antimo, anche all'Ipsia di Scampia, dove i ragazzi si presentavano senza matite e carta da disegno: glieli comprava sempre lui". Un allievo a cui dava ripetizioni diceva: "Ma perché a scuola non abbiamo professori bravi come lei?". Nel 2011 le ore di supplenza si riducono. "La riforma degli indirizzi elimina l'educazione artistica da alcuni istituti. Carmine diceva sempre: "la nostra materia dovrebbe essere insegnata alle elementari, e la stanno facendo sparire".

Io ho letto queste parole, stamani, e mi è preso un grumo addosso.
In questo grumo c'era di tutto. C'era, sì, il fascista schiattato; ma c'erano tante altre cose. C'era la ministra esperta in dichiarazioni e parolette in quel suo inglese di merda. C'erano “riprese”, facce di economisti, mattatori televisivi, giornalisti servi. C'erano gli italiani interi, che sarebbero pronti a starsene belli acquattati per decenni sotto i tecnocrati della Repubblica Pontificia. C'erano tutti coloro che non vedono altra strada che il suicidio, ed ai quali non si può andare a dire continuamente, e irrealisticamente, di “lottare, lottare e lottare”. Chi invita alla “lotta”, del resto, non è buono che a organizzare passeggiate in corteo per le città, con tanti bei servizi d'ordine, tanta bella “legalità”, tanti begli “isolamenti dei facinorosi” e, più che altro, tanta bellissima, smisurata inutilità. In autunno, sempre. L'autunno ci deve avere ancora quella suggestione del “caldo”, quando in una situazione che sarebbe degna non di calore ma di esplosione, tutti se ne stanno a passeggiare o a ammazzarsi; ed entrambe le cose nella massima indifferenza.

Dev'essere questo, sì, il grumo nevano. Come il paese in cui era nato e viveva Carmine Cerbera. Altro non mi viene da dire, proprio. Del resto, quel che dico è detto con la piena coscienza di non avere la benché minima importanza. In una mattinata di vento novembrino che si porterà via, tra breve, ogni cosa e ogni ricordo come si porta via la vita di un uomo che voleva educare all'arte. Nessuno ne sentirà mai più parlare, ed al massimo rientrerà in qualche conteggio, in qualche statistica come quella delle donne ammazzate o dei morti in galera. Chissà chi vincerà, in questo 2012; i precari suicidi, le donne massacrate o i morti in cella? E pensare che, un tempo, si diceva: Galere, disoccupazione e morti sul lavoro / Che cazzo ce ne frega, a noi, di Aldo Moro?

venerdì 2 novembre 2012

Due novembre



Daje de tacco,
daje de punta,
oggi sta in lutto la sora Assunta...