giovedì 27 marzo 2014

domenica 23 marzo 2014

Sapere di Paolo da Daniele



In questa foto, scattata circa un'ora e mezzo fa, c'è un signore che suona il sassofono. Si chiama Daniele Sepe e lo sa suonare parecchio, ma parecchio bene. Stasera è venuto a suonarlo, col suo gruppo, a Firenze. In un posto che il sottoscritto conosce parecchio, ma parecchio bene.

Durante la cena, prima del concerto, Daniele Sepe mi era seduto proprio accanto. Si chiacchierava. Avevo tirato pure fuori i "Fratelli di Soledad", presi oggi in biblioteca. A un certo punto mi dice che oggi era un giorno speciale: un amico suo usciva da non si sa quant'anni di galera.

Mi è venuto da versarmi un mezzo bicchiere di vino per brindare a questo suo amico; Daniele Sepe beveva Coca Cola. Poi ha detto chi era questo suo amico. Era Paolo. E, allora, sono praticamente saltato per l'aria; e il bicchiere è diventato pieno. Paolo è libero. Paolo in galera non ci sta più.

Magari vi potreste chiedere chi sia questo Paolo. Ma, a volte, io ho uno strano senso di pudore. Sono felice, e volevo dirlo; ma credo che siano notizie che, nella loro interezza, vadano date perbene da chi esce di galera. E da chi gli è più vicino. Io non sono niente e nessuno.

Però avreste dovuto sentire il boato di quel posto dove Daniele suonava, quando anche dal palco ha ripetuto che Paolo era stato liberato. E l'ha detto, il cognome, se l'ha detto! Ecco, queste sono le cose che mi fanno ancora stare al mondo come dico io.

Maledetta galera, maledetti mandaingalera, che possiate scomparire in un abisso senza fondo.

Poi, due ore e mezzo di musica senza pari. Che a Paolo sia arrivata. Siano arrivati Charles Mingus, gli Area, Sonny Rollins, la Tammurriata Alli uno, alli rùi. E anche "E la luna bussò" reinterpretata da Daniele Sepe: un capolavoro. Ci sono stato, sotto una galera, a sentire e vedere suonare per chi era dentro. Con altoparlanti che sparavano musica da abbattere quelle mura di merda mentre le guardie facevano le ronde. E quel giorno, dentro c'era un amico mio, un compagno nostro.

Quella stessa musica la risentivo stasera per Paolo che è fuori. Musica che sgretola!


giovedì 20 marzo 2014

Luoghi (1)



Due parole prima per ringraziare tutt* coloro che hanno un po' scritto in pubblico e in privato della mia vicenda kafko-giudiziaria (con la speranza che ne abbiano, come avevo suggerito, approfittato per un paio di risate e un bicchier di vino). In sé e per sé sono parecchio imbarazzato; imbarazzo che viene mitigato solo dal pensiero e della speranza che parlarne possa servire a chi scrive e in Rete esponendosi alla formazione, come mi hanno giustamente scritto con un'espressione quanto mai azzeccata, di un'ala di galera di blogger. Poiché “di respirare la stessa aria non mi va” (e non solo dei secondini), continuo a fare quel che ho sempre fatto; a partire da quel che segue. Finire in galera, o rischiare di finirvi, non sarebbe bello; ma ancor peggio sarebbe mettercisi da soli, in galera. Nella galera dell'obbedienza e della paura.

In questo post si parla di Firenze, perché Firenze è la città dove sono nato e dove vivo; è la situazione che ho sotto gli occhi tutti i giorni, è quella che mi tocca osservare ed ha, per forza di cose, le sue specificità. Però, in buona parte, quel che segue può essere applicato ad ogni città -piccola o grande che sia- di questo paese. Sarà il primo di alcuni post su dei luoghi di questa città, e la cosa ha una sua origine ben precisa che vado a spiegare brevemente. Uno dei “cavalli di battaglia” della giunta Renzi, il democristiano ultraliberista di destra ex sindaco di Firenze e attualmente “presidente del consiglio” (o “primo ministro”), sono stati i cosiddetti “Cento Luoghi”. Qualche anno fa, il neoeletto Renzi convocò delle “assemblee di cittadini” che dovevano dire la loro sulla sistemazione e sulla destinazione, appunto, di 100 luoghi della città. La magia del numero 100 è riconosciuta, e non solo per Renzi: si prendano ad esempio i “100 punti” del programma, i primi “100 giorni” del governo e altre baggianate del genere. Per tornare ai “Cento Luoghi” renziani, è stata naturalmente un'iniziativa che ha prodotto quanto segue: il Nulla. Il primo anno fu strombazzata come un gran successo, che ha prodotto la demolizione di una povera pensilina di fronte alla stazione e di un rudere arrugginito al Campo di Marte, un ex ufficio delle Poste (sostituito da un terreno incolto e, quel che più conta, dai bellissimi lavori per il TAV); il secondo anno, non gliene fregava più niente a nessuno. In questa serie di post, i “luoghi” saranno molti meno, ovviamente. Tre soli, anzi. Però servono a evidenziare che cosa sia una Città nelle condizioni attuali, quelle vere.

Partiamo da un luogo che, si dice, “presenta” una città. Quello dove si arriva: la stazione ferroviaria.

La stazione centrale di Firenze, Santa Maria Novella, fa schifo. Anche architettonicamente. Ai fiorentini hanno detto però che è un capolavoro dell'architettura razionalista (leggasi: gli orrori architettonici fascisti che hanno devastato le nostre città anche dopo la fine del regime), ci hanno infilato dei nomi di architetti famosi cui io non avrei fatto costruire nemmeno un magazzino (tipo il Piacentini), hanno raso al suolo un quartiere intero per costruirla verso il '35 e, come se non bastasse, le hanno messo intorno una piazza ancor più orrenda della stazione stessa. Preferisco la stazione Termini e la Centrale di Milano, il che è tutto dire. All'interno, la stazione centrale di Firenze è di una cupezza unica, fa tristezza a starci dentro; però guai a dirlo in giro. I fiorentini, senza generalmente capirci un cazzo, sono convinti che sia un capolavoro. Circondati come sono dalla bellezza rinascimentale, si sono ritrovati in pieno centro quel bubbone fascista convinti che sia un'opera d'arte, mentre è solo un ammasso di merda; ma, perlomeno, fino a qualche tempo fa serviva per la sua funzione primaria, ovvero quello di stazione ferroviaria. C'erano, ad esempio, delle sale d'aspetto (di prima e seconda classe). C'erano dei cessi, sporchi da fare orrore, ma ci si poteva pisciare e cacare a gratis. C'erano dei sottopassaggi tra i binari. C'era un bar. C'era una natura di luogo pubblico dove veniva espletato un pubblico servizio. C'era pure un posto di polizia con due o tre agenti che giravano su una specie di macchinine dell'autoscontro, quello dei luna park. E c'era, soprattutto, un posto dove chiunque, notte e giorno, poteva entrare a riscaldarsi dieci minuti.

La stazione centrale di Firenze, come tutte le altre, è stata privatizzata. L'impresa di pulizie che vi opera (“L'Operosa SCARL”) non fa più le pulizie, ma la mantiene nel decoro; e attenti a questa parola, “decoro”, che è una delle parole chiave della repressione. Questa antica parola che sa di rosolio e famiglie borghesi del 1909, di grembiulini delle elementari e di educazione delle fanciulle. Le sale d'aspetto non ci sono più: in una ci hanno messo il “Freccia Club” (esclusivo, naturalmente: nel senso letterale, ovvero quello di escludere chi non ha il costosissimo biglietto per una “Freccia”), nell'altra il Club Italo (treno privato con tutta una mirabile categorizzazione per Top e Vip). Chi aspetta i treni ha a disposizione freddissime panche metalliche nel salone biglietteria, completamente aperto anche in inverno e non riscaldato (e che cavolo poi vorresti riscaldare in quella specie di cattedrale); e si arrangi. I cessi si pagano un euro a bisognino, e di liberi non ce ne sono più; la ristorazione è diventata monopolio McDonalds. La Feltrinelli fa chiudere ogni altra libreria che incontra sul suo cammino (vedasi la Edison), e apre anche dentro la stazione. Laddove c'era la banca si raggiunge il sublime: poiché hanno mantenuto le vecchie insegne “storiche” (compresa “Ristoratore” invece di “ristorante”, che è un francesismo e in certi anni la lingua italiana doveva essere “pura”), un negozio di stracci e affini di tale “Sylvian Heach” è sormontato da un mistico “San Paolo”. Ancor prima che fossero espulse per fare posto ai “Club esclusivi” di frecce e ìtali, le sale d'aspetto venivano chiuse alle 21 in modo che non vi potesse stazionare nessuno. Incredibile che la farmacia comunale sia stata mantenuta e non sostituita da una profumeria Marionnaud; ma non si sa mai. Ma non era abbastanza. Dentro la stazione, c'erano ancora troppe persone sgradite e sgradevoli. Troppi poveracci. Troppi zingari. Troppi balordi (termine amatissimo dal giornale La Nazione). Troppa umanità da buttare nella spazzatura, persino nella stazione privatizzata coi Club Esclusivi, i cessi a pagamento e Sylvian Heach. Troppo poco decoro. Troppo degrado. Troppa poca sicurezza. Sono partite le “campagne”; ed ecco come è stata risolta la cosa. Interazione. Collaborazione. Comune, comando dei Vigili, signor Prefetto. In perfetta sinergia hanno spostato dentro la Stazione cento nuovi agenti; e così, dopo i cento luoghi e i cento punti, ecco i cento sbirri. Dentro la stazione non si può più muovere un passo (tenendo conto anche, naturalmente, delle onnipresenti telecamere “amiche”). Si entra dentro e si vedono capannelli di poliziotti; militarizzazione completa, vale a dire il vero significato della parola “decoro” (e ci venivano a parlare del “Grande Fratello”!). I sottopassaggi tra i binari sono stati chiusi per motivi di sicurezza; cosicché, per andare da un binario a quello accanto bisogna fare un giro di un chilometro. Non scordiamoci il “divieto di fumare” in tutta la stazione fino a un certo punto dei binari: il divieto di fumo è uno dei segnali più evidenti di repressione generalizzata (che agisce sempre per “preservare”: la salute, i minori, le donne 'ncinte, la famiglia eccetera). In pratica, la stazione è aperta ai quattro venti, d'inverno c'è un freddo che si pela e i viaggiatori espulsi dalle loro sale devono stare a congelarsi in biglietteria, però non si fuma. Che ganzi! 

Di quei pericolosissimi accattoni, specie zingari, non se ne vede più uno; in compenso si entra dentro la stazione con l'impressione che ci sia stato un colpo di stato e che tu stia per essere infilato a forza su un esclusivo vagone piombato per Treblinka. Controlli dappertutto. A parte, naturalmente, quando qualcuno deciderà che la stazione debba saltare in aria per qualche motivo più o meno occulto; ma l'importante è siano stati eliminati i balordi. Se poi ci si incammina un po' per i binari, si crepa sul lavoro come è successo anche poco tempo fa a un giovane ferroviere. Si muore tranquillamente. Con decoro.

Marmotte



Si chiama Maddalena Venaus ed è una marmotta. Di pelouche. Col berrettino, pure. Se la si schiaccia leggermente, fischia: è una cosa del tutto reale, in quanto il verso delle marmotte (piuttosto inatteso per chi non lo sa) è, appunto, una specie di fischio. Mi è stata regalata durante una marcia in Valsusa, e da allora è una delle cose che ho più care; e non ci sono stati cristi. L'ho attaccata all'impugnatura dello zaino per i lembi del berretto, e non si è più smossa di lì. La hanno chiamata in tutti i modi: "talpone", "scoiattolo impiccato", "castoro viaggiatore"; in certi posti, quando mi vedono comparire zainomarmottato (o marmottozainato, a scelta), mi cantano Ci son due coccodrilli ed un orangotango (nel finale però ci mettono, ovviamente, la marmotta al posto dei due unicorni). 

Io non esco mai senza lo zaino; a volte dico che è quella, la mia casa vera. Chiaramente, ci vado anche alle manifestazioni, dalle passeggiate a quelle un po' meno tranquilline. In questo modo Maddalena Venaus è diventata la marmotta di pelouche più conosciuta dai questurini di mezza Italia; anche perché sono abituati alle keffiah, alle bandieracce d'ogni tipo, ai passamontagna, ai caschi, ma a una marmotta no di sicuro. Poiché ho l'abitudine di mettermi in cima ai cortei, e anche non di rado di reggere gli striscioni, credo che presso le autorità di pubblica sicurezza io sia oramai diventato "quello con la marmotta". E sia: confesso di amarla svisceratamente. So che non è prudente, che è un "segno di riconoscimento" praticamente smaccato, che tutto quel che si vuole; ma, porca majala, senza la marmotta mi sento gnudo. E non sarei peraltro un gran bello spettacolo, gnudo.

Qualche giorno fa, di manifestazione ce n'è stata una a Firenze. Il problema è che, in questi ultimi tempi, cammino con parecchia difficoltà; sul calcagno destro mi è spuntato un soprosso. Un bozzolo. Derivato probabilmente dalla cattiva andatura dovuta ai miei piedoni valghi. Mi toccherà levarmelo con un'operazione perché mi dà dei dolori atroci. Così, stavolta, la maniffa mi è toccato farla in un modo un po' particolare: guidando il furgone del sound system. Avete mai guidato per due ore alla velocità di 0,5 chilometri orari con immediatamente davanti un esercito di sbirri in tenuta antisommossa? E' un'esperienza quasi mistica; oltretutto, si diventa quasi una specie di star. Per quelle due ore sei più fotografato di Beyoncé. Più ripreso in primo piano di Leonardo Di Caprio. E la marmotta?

Era lì, legata allo zaino come sempre. Eh no, perdio. Anche Maddalena Venaus doveva partecipare al film (e, a pensarci bene, "Paolo Sorrentino" è un bel nome da questurino). Così l'ho slegata e l'ho messa, in primissimo piano, sul cruscotto del furgone. Flash, flash. Cavolo, è stata con me ovunque, e ovunque sempre gli ha da essere. C'è il rischio, è vero, che si pigli anche lei qualche manganellata. Oppure che la denuncino e la sbattano in gattabuia, pardon, in marmottabuia. "Oh, e chissenefrega", mi dice; "tanto mi metto a dormire!"

martedì 18 marzo 2014

Der Prozess



Qualcuno doveva essersi sentito calunniato dal blogger Richard V., perché una mattina di marzo vennero a casa sua a notificargli un rinvio a giudizio. L'attacco kafkiano non è certamente fuori luogo, e più che altro è del tutto reale; nel senso, appunto, che andrò a processo. Sono stato denunciato a mia insaputa, circa un anno fa, per avere infranto gli articoli 278 e 99 del codice penale; il 99 è la recidiva, il 278 è il cosiddetto Attentato all'onore e al prestigio del Capo dello Stato. Il tutto è dovuto a un articolo da me scritto su questo blog sabato 20 aprile 2013 e intitolato Sfrizzola il vilipendulo (debitamente stampato e allegato in copia all'atto di rinvio a giudizio); e poiché da detto atto risulta che la denuncia nei miei confronti è stata estesa lo stesso giorno 20 aprile 2013, se ne deduce che, in qualche ufficio giudiziario e/o di polizia, questo blog conta dei lettori giornalieri. Cosa che, del resto, già sospettavo (mettiamola così). L'udienza preliminare nei miei confronti è stata fissata per il 2 aprile 2014, cioè fra pochi giorni.

Detto questo, debbo fugare immediatamente alcuni timori che potrebbero prendere chi leggesse questo post. 1) Non si tratta minimamente di un appello alla solidarietà o roba del genere, perché non vi farei mai sprecare una nobile e serissima cosa come la solidarietà per una cosa simile; meglio che la teniate per chi viene mandato in galera con accuse di terrorismo per aver messo fuori uso un compressore, oppure per chi ha dovuto passare torture a cura di questo meraviglioso stato "democratico"; 2) Non si tratta di una specie di "trofeo" o di ostentazione del tipo: Avete visto come so' gajardo, me becco le denunce e i processi per quello che scrivo qua dentro. Sappiate invece che ne farei volentieri a meno (come tutti, penso). Ho, sì, il vizio di scrivere con pochissimi peli sulla tastiera quel che mi passa per la testa in dati momenti, e senza nemmeno la scusante di non immaginarne le possibili conseguenze (altrimenti non avrei, per esempio, intitolato un post in quel modo); ma ritengo anche che tutto questo afferisca a tutta una serie di considerazioni che vanno dalla libertà alla responsabilità, e soprattutto a quel mio insopprimibile desiderio di dire (e scrivere) tutto quel che voglio rifiutando al contempo ogni molecola di "eroismo". In questo, posso affermare con buona certezza di essere l'esatto contrario della gratuità; se scrivo certe cose, senz'altro le scrivo per colpire e, specialmente in frangenti come questi, sono ben cosciente di che cosa possano comportare anche se provenienti da un insignificante blogghino di periferia; 3) Non si tratta né di "incoscienza", o "imprudenza", o di altre cose del genere. Alla fin fine, bisognerà pure pigliarsi qualche rischio; anche da un blog, perché no. Ciò senza minimamente inficiare, da un lato, le componenti squisitamente kafkiane di tutta la vicenda che mi riguarda, e senza proporsi, dall'altro, come esempio di "coraggio". Bisogna invece avere la percezione dei propri atti, sempre; anche se minimi e piuttosto banali; anche per questo, qua dentro, ci sono il mio nome e cognome, indirizzo e numero di telefono. "Asociale" sì, ma senza nascondersi (ché poi, tanto, quando vogliono ti trovano lo stesso).


Naturalmente, ho ben presente che potrebbe toccare a tutti. Perlomeno a chi tiene un blog, o comunque manifesta pubblicamente il proprio pensiero anche in forme non ortodosse. Nella pratica, però, è passata una grande e comprensibile fifa. Si è visto oramai definitivamente come nessuna forma di azione (e intendo questo termine nella sua accezione più vasta) che travalichi la legalità imposta come dogma di controllo e strumento di omologazione sia tollerata; essa deve essere stroncata, anche se si manifesta in forme e luoghi francamente minori come, ad esempio, questo blog. In un certo qual senso, la mia vicenda può essere emblematica o, quantomeno, può fornire un valido esempio di capillarità. L'alternativa è: tacere. Oppure occuparsi, nei propri spazi in Rete, di cose del tutto innocue, mostrando rispetto e critica che rientri nei canoni della (loro) Legge.

Poiché non intendo né tacere e né uniformarmi -e lo dico da persona normalissima, un cinquantenne e passa che cerca di barcamenarsela come può-, vorrà dire che mi piglierò il processo per avere "attentato" in poche righe all'onore e al prestigio della più alta carica dello Stato italiano. Astrazioni, naturalmente. Si fosse presentato a casa mia Giorgio Napolitano dicendomi scurnacchiat', m'hai disonorat' e m'avesse tirato un par di ceffoni, avrei capito; il problema è che Giorgio Napolitano, con tutta probabilità, non sa assolutamente nulla né di me, né dell'onore e del prestigio cui avrei attentato. Tutto questo si chiama: Istituzioni. La cosa ha a che vedere con il mio rifiuto totale e viscerale di ogni tipo di Istituzione, a cominciare dallo "Stato" di cui il sig. Napolitano sarebbe il Capo. E non voglio definire questa mia cosa in nessun modo che sia, nemmeno "Anarchia". E' semplicemente quello che sono. Tutto qui.

Per concludere, due parole su questo blog.

Ultimamente, fa piuttosto schifo e me ne rendo conto. Non mi sento, di questi tempi, d'aver molte cose da dire e preferisco occuparmi di cose, come le vecchie automobili, che sicuramente non mi porteranno mai in tribunale (ma non è mica detto); è un periodo così. Paradossalmente ma non troppo, questa vicenda mi ha però restituito un po' di vivacità. Si pone quindi il problema di come continuare a dire certe cose quando se ne presenterà l'occasione e, al tempo stesso, di come evitare o quantomeno ritardare un po' l'attività di coloro che mi tengono d'occhio. Ricorrerò a tale riguardo ad un piccolo artifizio, servendomi delle mie capacità linguistiche; se mi rivolgerò quindi a personaggi istituzionali a modo mio, lo farò in lingue un po' strane. Di quelle che faranno un po' sudare i funzionari preposti alla lettura del mio blog, tipo l'islandese, lo yiddish o l'ungherese. Mica l'inglese, il francese o persino il tedesco; di traduttori da queste lingue se ne trovano quanti se ne vogliono. Io andrò pure a processo, ma lasciatemi immaginare gli sforzi in Qvestvra per trovare un traduttore dall'islandese (ché certo non potranno mica allegare agli atti una traduzione fatta con il tool di Google...) oppure, meglio ancora, un paio di funzionari comandati d'imparare rapidamente l'islandese per poter incastrare ancora una volta quel maledetto sovversivo del Venturi. Peraltro, sarebbero costretti probabilmente a scaricare il Corso di islandese moderno per italiani (Kennslubók í nútíma íslensku handa ítölum) che, ironia della sorte, è stato scritto proprio dal Venturi. Insomma, come dire: denunciatemi pure e mandatemi in galera, ma prima ve la dovete vedere con 643 pagine di corso e con le sessanta declinazioni della lingua islandese (pappappero). Auguri!

Certo, potreste ragionevolmente dirvi: Obbravo, d'accordo, non ci capiranno una mazza in Qvestvra e in Tribvnale, ma non ci capiremo un cavolo neppure noi. Vero; ma si vedrà come fare in privato, casomai v'interessi.

L'Ekbloggethi in versione islandese.


Bene, carissimi lettori e lettrici di questo blog pluri-inquisito e processato, nonché attentatore di onori e prestigi; vi saluto. Il due di aprile dev'essere una data un po' così, per me; molti anni fa, il 2 aprile 1974, quando ero in qujnta elementare, fui sbattuto fuori dal Doposcuola perché la maestra mi aveva sequestrato una poesiola in cui (oltre a varie e oscenissime considerazioni sui miei compagni di classe) la avevo pesantemente presa per il culo. Quarant'anni esatti dopo, invece, mi processano per un articoletto un po' pesantuccio su quel signore che rappresenta la nostra coësa unità nazionale. Se volete, buttatemi un pensiero; ma ancor meglio, fatevi un paio di risate e bevetevi un bicchier di vino. A presto. In islandese, anche. Verið þið öll blessuð og sæl.

sabato 8 marzo 2014

Lavoro



Un aeroporto. Una ragazza piange disperata una persona cara scomparsa in un disastro aereo. A sinistra: un braccio che protende un microfono e un gomito piegato in posizione da fotografia. Al centro: un altro fotografo. Accanto: una persona con un microfono televisivo. A destra: un'intera postazione di ripresa. Senza contare, naturalmente, chi davanti a lei ha scattato la fotografia. In totale: sei persone che stanno lavorando attorno a un essere umano che piange la morte di qualcuno. Può esistere migliore esemplificazione del lavoro?

giovedì 6 marzo 2014

Difendi l'Anarchia




Un famoso cantautore anarchico, A. L., ha rielaborato in italiano una poesia dell'uruguaiano Mario Benedetti dove si parla di difendere l'allegria, e ne ha tratto una canzone che si può leggere, ad esempio, qui (e ascoltare qui). A me, stasera, invece è venuto di difendere l'Anarchia; "in modo del tutto informale", œuf corse.

Difendi l'anarchia come una marea
difendila dalla folla e dalla solitudine
difendila dai troppo duri e dai malleabili,
dai punkabbestia e dagli impiegati statali.
Difendi l'anarchia come un cielo azzurro
difendila dai codici e dai codificatori
difendila dal santo nome e dalle definizioni
e dai troppi ricordi e dalle biciclette

Difendi l'anarchia senza nessuna bandiera
dall'umanità vecchia e dall'umanità nova,
dai finti pirati e dai galeoni affondati,
dai dizionari biografici e dagli studi storici
Difendi l'anarchia in modo informale,
difendila dalle mode e dai mestieranti
dalle lacrime facili e dai luoghi mitici
dai lavori appaganti e dai lavori di merda
e dall'obbligo di essere pochi,
che palle l'uno per cento

Difendi l'anarchia dalla nonviolenza,
difendila dalla guerra e dalla guerra alla guerra
difendila dalle federe e dalla federazione
e da chi dell'anarchia fa una professione.
Difendi l'anarchia come un diritto
ma difendila pure come un rovescio,
dalle galere che questo mondo ci impone,
dalla vita distorta,
dai sofisti ingialliti e dagli psicopatici
e soprattutto difendi l'anarchia dagli anarchici.

mercoledì 5 marzo 2014

Il piccolo Renzie al liceo


L'avversione del qui presente nei confronti di Facebook e degli altri "social network" è oramai passata in proverbio o quasi; ciononostante, stamani, per vie estremamente traverse, mi è arrivata un' interessante cosina proprio dal Socialon de' Socialoni, ripresa da un accàunte intestato a tale "Duccio Braccaloni". Così, con due "c"; ma specifico che "bracalone" (con una "c" sola), nella fiorentina favella significa qualcosa come "sciamannato, che va in giro con la camicia fuori dai pantaloni e gni si vèdano le mutande", e cose del genere.

La cosina ha a che fare con un proto-Matteo Renzi risalente al 1991, quando l'attuale premier era ancora al liceo (il classico "Dante" di piazza della Vittoria, ricettacolo dei rampolli della borghesia fiorentina); essendo del '75, all'epoca aveva sedici anni. Così viene descritto il Matteino sedicenne nella pagina del Libro de' Ceffi, evidentemente da qualcuno che era a scuola (o addirittura in classe) con lui:

" Al liceo MATTEO RENZI era un fervente democristiano che già rompeva le scatole a tutti con manie da megalomane, voglia di essere leader a tutti i costi e atteggiamenti da pavone religioso (tutte le mattine pregava dietro l'edicola di piazza della Vittoria prima di entrare in classe). Alle elezioni di Istituto presentò una lista dal ridondante slogan “Al buio meglio accendere una luce che maledire l’oscurità”... e perse.. Questa è una vignetta del 1991 che lo prende in giro, tratta da «Il divino», mensile del liceo ginnasio Dante di Firenze.. Per fare la campagna elettorale distribuiva pacchetti di fiammiferi con la frase 'non maledire il buio, accendi una candela'. Molti rispondevamo: datti foco!..."


La Grande Bellezza