martedì 29 aprile 2014

Nudo e morto


La fotografia sopra ti mostra, caro lettore di questo blog, nudo e morto. Con alcune misteriose chiazze sul corpo. Dico “lettore” perché dalla foto si evince piuttosto chiaramente che eri di sesso maschile; nulla, però, impedirebbe che tu fossi stata una donna. Eri un essere umano, e un giorno, una sera, una notte qualsiasi li hai incontrati. Avevi, magari, una serata un po' così; ti giravano i coglioni (e di motivi per farseli girare, ce ne sono non pochi sotto questi chiardiluna), ci avevi il magone, oppure ci avevi paura, chissà; ci avevi tutta la tua vita che, in quel preciso momento, aveva deciso di esplodere in qualche modo, in mezzo a una strada. E allora hanno chiamato mezzo mondo, perché scoppiare, in questo mondo di scoppiati, è severamente proibito; ci vogliono le lucine blé che lampeggiano. Quando arrivano, tutti si sentono più al sicuro; e tu, caro lettore, vieni finalmente messo fuori causa per il bene comune ed il pubblico decoro. Stavi arrecando disturbo.

Io non ti conoscevo, caro lettore. In realtà non so minimamente chi eri, sebbene mi abbiano detto che eri nato e abitavi nella mia stessa città. E, poi, non so nemmeno se davvero leggevi questo blog; ma non ha una grande importanza. Il problema è che potresti essere chiunque, e credo che tu te ne renda terribilmente conto anche da nudo e da morto; eri una persona qualsiasi con la tua vita, come tutti coloro che, ad esempio, leggono questo blog. Oppure ne leggono altri. Oppure non ne leggono assolutamente nessuno. Come dirti: può toccare veramente a tutti. Tocca al geometra romano magrissimo e al diciottenne ferrarese; che cosa avranno fatto di così tremendo per meritare di morire? E tutti quegli altri, quali terribili misfatti avranno compiuto per essere spediti tra i più a forza di calci, di botte, di compressioni, di torsioni? Per questo, caro lettore, ti dico che in quella foto ci sei tu; e ci sono anche io. Quando vedo una foto del genere, ultimamente ho preso a immedesimarmi e a dirmi: ehi, Riccardo, guarda un po' come ti hanno conciato. Basta una serata; ma che dico, bastano mezz'ora, dieci minuti per essere cancellato. Spazzato via. Schiacciato. Mi rivedo allora tanti e tanti anni fa, in quella stessa città, vagare per le strade in preda alla disperazione per un motivo qualunque. Mi rivedo in una strada antica, mentre puzzavo agitato e non mi ricordavo quasi neppure come mi chiamavo. E mi ricordo di quando qualcuno mi depose di peso su una barella. E allora sono costretto a dire: soltanto il caso ha impedito che, quel lontano giorno, non arrivassero anche loro, in vena di garantire l'ordine pubblico e di proteggere la cittadinanza. Forse mi è andata bene perché erano le sei del pomeriggio di un giorno di luglio, e non le una e mezzo di una notte di marzo. E così, caro lettore, cara lettrice, può andare bene o può andare male anche a te. Dovremo stare tutti tranquilli, ma in fondo non è neppure detto; quindi guardati, guardiamoci in quella fotografia. Abituiamoci e pensare che siamo noialtri, quel corpo nudo, morto e pieno di chiazze. Avvezziamoci a pensarci mentre guardiamo il telefilmino dove sono tutti buoni, bravi, pieni di premure e salvano il cucciolo abbandonato.

Sono passati quasi due mesi da quando, caro lettore, caro me stesso, ti hanno ridotto in quel modo. Qualcuno mi ha persino chiesto come mai non ne avessi mai parlato, nonostante il fatto sia avvenuto nella mia città e addirittura di fronte all'uscio di casa di una persona che conosco parecchio bene. È perché è un film già visto troppe volte. Non sono passati neppure un paio di giorni, che tutto era già stato escluso; ci sono stati i funerali, poi sono saltate fuori le testimonianze, le telefonate, la famiglia ci ha visto sempre meno chiaro. Ad un certo punto, grazie allo sviluppo tecnologico, abbiamo potuto persino sentire la tua voce, caro lettore, mentre stavi morendo; dicevi di “avere un figlio”, affidando proprio a quel piccolo essere umano la tua estrema speranza di salvezza da chi ti stava rubando la vita. Del tutto inutile, come hai potuto constatare; in quel momento tu sei un problema di ordine pubblico, e quindi devi morire. Ficcatelo quindi nella testa e risparmia il fiato, che è l'ultimo. Invece di nominare tuo figlio, inventati una frase celebre ché è meglio. Toccasse a me? A parte il fatto che di figli non ne ho, comincerò a pensare a qualcosa di adeguato, di solenne, di filosofico da riservare all'istante estremo, mentre mi stanno pigliando a calci e schiacciando inesorabilmente; che so io, “Ehi, sbirro di merda, ti puzzano i piedi!”

Ora comincerà la solita scaletta; quella che tutti voi avete già visto, persino da nudi e da morti. La giustizia che tanto richiedete e richiediamo si esplicherà in anni di dibattimenti, perizie e quant'altro che porteranno al niente; mentre tu, caro lettore, caro me stesso, te ne resterai buono buono, morto e nudo. Ci sarà il non luogo a procedere oppure ci saranno condanne ridicole, che avranno perlomeno il merito di farti fare un paio di risate postume. Diventerai immediatamente una specie di icona, e il tuo nome verrà associato a quello dei tuoi compagni di sventura; avrai i tuoi cortei, le tue manifestazioni, le tue mostre fotografiche dove verrai mostrato, caro lettore, sia da vivo che da morto. La tua famiglia si batterà e cercherà solidarietà, ottenendola in nome della giustizia (sempre lei). Ad un certo punto, ovviamente, dovrai fare i conti con l'immancabile sindacato di polizia, coi fratelli d'italia, col ministro del nuovo centrodestra, centrosinistra, centrocentro, col giornale; intanto, quell'angolo di strada diventerà probabilmente un altarino. Mi spiace, caro lettore, caro me stesso, se penserai che ti sto mancando di rispetto; è tutt'altra la mia intenzione. Ho sempre pensato che la più alta forma di rispetto che si possa avere, consista nel mettere di fronte brutalmente alla realtà in modo da poter agire più efficacemente, anche da morti e da nudi. Da morti e da nudi, anzi, si potrebbe arrovesciare davvero tutto quanto; il problema, come sempre, sono i vivi.

Quei vivi, ad esempio, che non hanno generalmente ben presente il nòcciolo della questione. Il quale è il seguente, brevissimo: esistono delle persone, organizzate in corpi statali e militari bene armati e bene addestrati, che hanno il monopolio della violenza. Qualsiasi atto di violenza compiuto da te, caro lettore, caro me stesso, è illegale quale che sia la sua natura; ti può quindi portare alla galera, all'ospedale, al cimitero. La violenza dei corpi dello stato, invece, è legale. E' considerata una forma di pubblica protezione e può essere quindi esercitata in regime di esclusiva, seppure regolata dalla cosiddetta “legge”. Non so e non posso sapere come la pensi, caro lettore, caro me stesso, a tale riguardo; però sarebbe bene che tu te ne rendessi conto definitivamente, almeno prima di fare tante geremiadi se i detentori esclusivi della violenza legale ti hanno ammazzato ed anche prima che, da ancora vivo, tu ti accinga a chiamarli magari invocando più legge e più ordine, più “presenza dello stato”, più controllo, più telecamere, più ogni cosa. Può succedere che il giorno prima tu sia al bar con gli amici e che tu dica che hanno fatto bene a manganellare i manifestanti e a schiacciare la ragazzina, e che il giorno dopo ti dia di balta il cervello per cazzi tuoi, e che tu venga pestato e schiacciato a morte da quelli lì. Tutto questo, chiaramente, non proviene dal mondo della luna; fa parte di un ben preciso sistema al quale tu puoi decidere di non dare avallo da vivo per non essere poi costretto a ritrovarti, tra le altre cose, nudo e morto su un tavolo. Hai voglia di farlo, oppure preferisci vivere la tua vita (ivi compresa l'eventuale disperazione di una sera) delegando ogni cosa? Fai un po' tu, caro lettore, caro me stesso.

Per questo e per altri motivi, non intendo riservarti né “dolore”, né “compassione”, ma una lucida rabbia. Non intendo riservarti “richieste di giustizia”, ma metterti ancora di fronte alla realtà che è nuda come te su quel tavolo. Non intendo con questo farti morire due volte, perché è la cosa che regolarmente accade. La mia solidarietà te la do senza giustizie, tribunali, avvocati, galere; te la do indicando chiaramente dove risiede il problema.

Te la do, qualunque sia il tuo nome. Te la do in qualunque luogo e circostanza. Te la do guardandomi bene dall'adoperare la parola “vittima”, perché dobbiamo cessare di essere tali e di incrementare la cultura della vittima. Te la do non invocando “punizioni”, ma il superamento di uno stato di cose che uccide prendendoti anche in giro. “Freddo non ne prende, ha due carabinieri sopra”; e pensa un po', caro lettore, di sentire magari questa frase da qualcuno che ti sta guardando morire, mentre qualcun altro grida "basta, basta" come se esistesse una giusta quantità di morte, una dose che si può somministrare in mezzo ad una strada, una modica porzione di assassinio in nome dello stress statale e dei soliti 1200 euro al mese. 

Te la do con tutta la tua vita e con tutta la tua storia, che ti chiami Riccardo Magherini, o Cesare Pardini, o Franco Serantini. Morto e nudo, nudo e morto. 

Cesare Pardini. Pisa, 27 ottobre 1969. Freddo non ne prese.

 

sabato 26 aprile 2014

Uno sbarco in casa





Quante volte ne avrò sentito parlare, fin da quando ero piccolissimo. Lo sbarco alleato del 17 giugno 1944 all'Elba. Sì, d'accordo, all'Elba per gli storici, o comunque per tutti coloro che non fanno, e non possono fare, nessuna differenza tra un punto o l'altro dell'isola. Per me la fa. Qualche volta ne devo aver fatto cenno su questo blog, fra un attentato all'onore e al prestigio e l'altro: non tutti possono dire di avere avuto un intero sbarco alleato in famiglia. Perché per me non si tratta del semplice "sbarco all'Elba", ma dello sbarco a Fonza.

A Fonza abitava tutta la mia famiglia, all'alba di quel 17 giugno 1944, in una casa e in un magazzino. Mia nonna, che era vedova di un operaio morto sul lavoro; mia madre, che non aveva allora nemmeno undici anni e che era stata letteralmente sfamata da un soldato tedesco che la aveva come adottata; i miei zii e le mie zie, tranne uno che era già morto in guerra a capo Matapan e una che era emigrata in Argentina; i miei bisnonni.

Sulla spiaggia sassosa di Fonza fu gettata la testa di ponte dello sbarco, all'alba di quel giorno. L'Operazione Brassard, partita da Bastia in Corsica e affidata in massima parte alle truppe coloniali, i tirailleurs senegalesi comandati dall'ammiraglio De Lattre de Tassigny. Il motivo per cui, nel vecchio cimitero di Marina di Campo, a San Mamiliano, si trova tuttora una lapide in arabo con la mezzaluna e i versetti del Corano.

E fu così che la mia famiglia si ritrovò un esercito intero in casa, quella mattina. Non sarà stato lo sbarco in Normandia, ma uno sbarco era e fu una carneficina, come tutti gli sbarchi. Prima, raccontava mia mamma, raccontava la mia bisnonna, raccontavano i miei zii, era stata messa fuori uso la batteria del Capo Poro, con certi strani accidenti che i libri di storia non raccontano; poi i traccianti, e infine, tra le quattro e le cinque di quel mattino di giugno, lo sbarco vero e proprio sulla testa di ponte.

Tutto raccontavano. Le navi e i pontoni. Il fumo irrespirabile. L'altra batteria del Monte Tambone, alle spalle di Fonza, che sparava. Zio Mario che apriva la porta del magazzino, che era stato requisito per metterci dentro i feriti. I morti che venivano portati via sulle navi. La bandiera francese piantata sul tetto del magazzino. I muli in mare. Le truppe che salivano su per le cóte dietro Fonza. Lo sbarco vero e proprio sulla spiaggia di Marina di Campo, verso le dieci del mattino; e la spiaggia era minata. Una strage. Una parte del paese distrutta, coi feriti sistemati anche nell'unica osteria del paese, il Sor Elio.

Mi mancavano diciannove anni a nascere. Tutte cose che avrò sentito decine e decine di volte nel portico di casa, da mia madre, dalla zia Clara, dagli altri zii che non ci sono più; e anche la Clara se ne sta per andare, oramai in un mondo tutto suo. Dicevo sempre: come esserci, da quei loro racconti. Non sapevo che qualcuno aveva messo in rete, su YouTube, tutto il filmato di quel giorno, girato dagli alleati durante lo sbarco. Me ne sono accorto oggi. Ventisette minuti.

E allora mi sono fatto quei ventisette minuti di brividi. Tutti i racconti della mia famiglia che diventavano immagini. L'alba a Fonza, i traccianti, i muli, Capo Poro, i soldati, i prigionieri; forse ci sarà stato anche quel tedesco, Galfe Gustalfe, o Gustav Galf, che sfamava mia madre, che la chiamava Luzia e le insegnava il tedesco. I Babacar, i Mamadou e chissà chi che morivano all'Elba dopo esser venuti dalla Casamance o chissà da dove, e che si preparavano a due giorni di saccheggio libero e di stupri, come da usanza bellica concessa dai comandi; mia nonna reagì e ne prese uno a secchiate sul capo, decisa piuttosto a farsi ammazzare. Ma il senegalese scappò via, forse più che altro sorpreso dalla reazione inattesa.

Il magazzino "con la porta mezza aperta": lo aveva aperto zio Mario, che era il figlio maschio più grande disponibile (zio Mamiliano era in fondo al mare, e zio Ulisse era soldato). Ad un certo punto del filmato si vede il magazzino, con la porta mezza aperta; e s'intravede qualcuno sulla soglia. Dev'essere mio zio. Può esserlo, perlomeno. La bandiera francese sul tetto, accanto al "comignolo di forma strana"; tra virgolete metto tutte quelle espressioni che ho sentito dire così, fin da quando mi son cominciati i ricordi. Si vede ogni cosa.

Mentre guardavo per la prima volta quel filmato, ho telefonato a mia madre; ha ottantuno anni, ora. Le ho fatto una specie di telecronaca al telefono, in attesa di pigliare il computer e portarle a vedere tutto. A un certo punto anticipava il film; mi diceva, "Guarda, ora si deve vedere questo, si deve vedere quest'altro", e si vedeva. Per lei sono cose viste coi suoi occhi di bambina, cose di un'altra epoca e di un altro mondo. La guerra che arriva in una casa e in un magazzino, su una spiaggia dimenticata da Dio vicino alle vigne, al gatto che dormiva, al somaro, ai fratelli, alla mamma. Da quello sbarco in casa, da quella Normandia in sedicesimo, da quei reticolati, da quei ragazzi di ogni parte mischiati nella macelleria. Tedeschi, senegalesi, francesi, elbani, elbane che furono prese e stese gridando in mezzo a un campo o fra le macerie di una casa.


Essendo sotto processo (Vecchie e nuove pulsioni)



Essendo il sottoscritto sotto processo per Attentato all'onore e al prestigio eccetera, mi limiterò a riportare alcune parole pronunciate ieri, venticinque aprile,  proprio da colui che sarebbe l'oggetto del mio attentato. Questo post è volutamente privo di immagini e di qualsiasi altro commento. Non appena pubblicato questo breve articolo me ne andrò a dormire.

"Dobbiamo procedere - nella piena, consapevole valorizzazione delle Forze Armate che continuano a fare onore all'Italia - in un serio impegno di rinnovamento e di riforma, razionalizzando le nostre strutture e i nostri mezzi, come si è iniziato a fare con la legge in corso di attuazione, e sollecitando il massimo avanzamento di processi di integrazione al livello europeo. Potremo così soddisfare esigenze di rigore e di crescente produttività nella spesa per la Difesa, senza indulgere a decisioni sommarie che possono riflettere incomprensioni di fondo e perfino anacronistiche diffidenze verso lo strumento militare, vecchie e nuove pulsioni antimilitariste".

giovedì 24 aprile 2014

Operaj



Ok, d'accordo. Vi spengono l'altoforno.
Ve ne andate a casa. Chiude tutta Piombino.
Una delle "Stalingrado d'Italia", come la chiamavano.
Da Stalingrado ne avete fatta di strada.
Fino a arrivare, naturalmente, al Papa.
Ma andate in culo!

lunedì 21 aprile 2014

Cantiere d'estate




La ragazza che dorme
nuda sulla spiaggia
sotto il sole dell'universo
brilla come una pistola
come una pistola

La donna che dorme
nuda sulla spiaggia
minaccia la mia vita d'inferno
minaccia la mia vita d'inferno
la mia vita d'inferno

Nel cemento pallido
lascio la mia vita
mare d'intonaco e rena grigia
Nel cemento pallido
lascio la mia vita
mare d'intonaco e rena grigia

La ragazza che dorme
nuda sulla spiaggia
sotto il sole dell'universo
brilla come una pistola
come una pistola

La donna che dorme
nuda sulla spiaggia
minaccia la mia vita d'inferno
minaccia la mia vita d'inferno
la mia vita d'inferno

In piedi sul tetto
che ho costruito
vedo la spiaggia vedo la vita
e pianto una bandiera soggetta
al vento al desiderio alla pioggia

La ragazza che dorme
nuda sulla spiaggia
sotto il sole dell'universo
brilla come una pistola
come una pistola

La donna che dorme
nuda sulla spiaggia
minaccia la mia vita d'inferno
minaccia la mia vita d'inferno
la mia vita d'inferno

La ragazza che dorme
nuda sulla spiaggia
sotto il sole dell'universo
brilla come una pistola
come una pistola

La donna che dorme
nuda sulla spiaggia
minaccia la mia vita d'inferno
minaccia la mia vita d'inferno
la mia vita d'inferno.

 
Nel 1981 i Malicorne di Gabriel Yacoub sono in crisi profonda al loro interno, e in via di separazione. Il gruppo ha alle spalle album interi dove le canzoni tradizionali francesi più antiche sono state legate al più raffinato rock psichedelico e progressive; un'operazione particolare che ha consentito di raggiungere sia delle autentiche vette musicali, sia la riproposizione di una tradizione vista come fonte inesauribile di modernità e di sperimentazione. Nel loro periodo di crisi seguito al “periodo d'oro” degli anni '70, i Malicorne decidono di rompere con quella che oramai viene avvertita come un'operazione in via di esaurimento, e pubblicano un album interamente formato da brani originali: è Balançoire en feu, dalla stupefacente copertina.


Per l'album, i Malicorne compiono una scelta radicale: si fanno infatti scrivere tutte le canzoni da Étienne Roda-Gil, che è uno dei più noti parolieri francesi ma anche un poeta e un anarchico. Figlio di un militante spagnolo nella Guerra Civile e nato come Esteve Roda Gil (assumerà in seguito la forma francese di “Étienne”), è a sua volta un libertario dichiarato e sostenitore della CNT anarcosindacalista. Suo padre era stato membro della Colonna Durruti prima, e della resistenza francese poi. Dopo un'infanzia difficilissima e tribolata, tra ristrettezze e malattie (sua madre lo salva dallo scorbuto con una piccola razione di succo di limone che ottiene a prezzo di enormi privazioni), il giovane Roda-Gil riesce a laurearsi in lettere e, per vivere, fa il rappresentante di medicinali negli ambulatori. Nel '68 parigino, all'età di 27 anni, incontra il cantante Julien Clerc ed inizia con lui una collaborazione che si interromperà soltanto nel 1980; una delle domande che Roda-Gil si pone è la seguente, “A cosa serve una canzone se è disarmata?”. Scrive per France Gall, Claude François, Juliette Gréco, Barbara, Françoise Hardy e Riccardo Cocciante; ma scrive anche il testo francese della Makhnovscina e collabora con Roger Waters. Étienne Roda-Gil è morto il 28 maggio 2004.

L'album Balançoire en feu, dapprima, sconcerta i fan e il pubblico dei Malicorne. Le musiche scritte da Gabriel Yacoub (che interpreta tutte le canzoni) e dal bassista Olivier Zdrzalik-Kowalski sono come sempre raffinatissime e molto belle, ma ai testi di Roda-Gil si fa fatica ad abituarsi. Solo col tempo, l'album diverrà un vero e proprio classico dei Malicorne, nonché uno dei migliori album di rock psichedelico prodotto in Europa. Questa lunga introduzione serve a “preparare” a questa canzone, che nasce da una sorta di visione e visionaria rimane pur nell'estrema chiarezza delle sue motivazioni.

La scena è un cantiere edile in piena estate, da dove si vede una spiaggia assolata. Un operaio lavora da solo, quasi in un tempo rarefatto, e vede due donne che prendono il sole nude; il contrasto tra la sua vita d'inferno e le due donne incuranti di ogni cosa "sotto il sole dell'universo". Mentre l'operaio lascia la sua vita “nel cemento pallido” e nel “mare d'intonaco e rena grigia”, si sente come minacciato: quell'immagine di bellezza e libertà che gli si affaccia davanti con le due donne gli fa autenticamente vedere la vita, mentre si ammazza di lavoro nel sole cocente dell'estate. Vita che gli fa piantare una “bandiera soggetta al vento, al desiderio e alla pioggia”. Vale a dire: un atto di ribellione che fa seguito alla “minaccia” rappresentata dalla sua visione. La minaccia di una vita diversa che lo faccia scendere dalle impalcature del cantiere, che lo faccia recedere da un lavoro da schiavo nel quale la sua vita è precipitata. 

Il testo di Roda-Gil, affidato al canto particolarissimo di Yacoub, è semplicissimo. Formato da pochissime parole, che bastano a fissare la visione in chiunque ascolti questa straordinaria canzone dove la nudità, cioè la vita, brilla nel sole come una pistola. Nessuna canzone dev'essere disarmata, diceva Roda-Gil, e questa ne è la dimostrazione perfetta perché le due donne nel sole agiscono davvero come un'arma che riesce a scardinare la schiavitù dell'operaio nel cantiere. La bandiera che pianta “al vento, al desiderio e alla pioggia” è vessillo di coscienza mutata per sempre, di rifiuto della morte, di incontro alla vita opposta alla sua negazione rappresentata dal lavoro. Bisognerebbe ascoltarla ad occhi chiusi, questa canzone. Oppure su una spiaggia da soli. Oppure in un cantiere mentre si lavora, sognando e dicendo no. Sognando che ci sia una strada diversa che porti a quella spiaggia immersa nel sole e nell'estate. Sognando che si può.

domenica 20 aprile 2014

Ancora un audace colpo de' nostri Marò!


COLPO ALLA DIABOLIK NEL TEMPIO DEL KERALA

NEW DELHI - L'immenso tesoro dell'antico tempio Sree Padmanabhaswamy in Kerala - lo stato nel sud dell'India a noi così familiare dopo la vicenda dei marò -, valore stimato in 15 miliardi di euro, potrebbe essere stato sottratto e sostituito con copie placcate in oro. Lo riferisce oggi la tv Cnn-Ibn, entrata un possesso di un rapporto redatto da un legale incaricato dalla Corte Suprema. Secondo quel documento, durante un sopralluogo di 35 giorni nel tempio, dedicato al culto del dio Vishnù nel capoluogo di Trivandrum, è stata scoperta l'esistenza all'interno del luogo sacro di attrezzature per la placcatura in oro. Una presenza "inspiegabile". Autore del rapporto è l'avvocato Gopal Subramaniam, principe del foro di grande notorietà. E' la sua indagine a corroborare il sospetto che il tesoro, di cui è stata rivelata l'esistenza solo tre anni fa, "venga sistematicamente sottratto da alcune influenti personalità" locali, alimentando un traffico di oggetti preziosi. - Repubblica Online.

venerdì 18 aprile 2014

Democrazia




" La bandiera va verso il paesaggio immondo, e il nostro gergo soffoca il tamburo.

" Nei centri alimenteremo la più cinica prostituzione. Massacreremo le rivolte logiche.

" Nei paesi impepati e infradiciati! - al servizio dei più mostruosi sfruttamenti industriali e militari.

" Arrivederci qui, non importa dove. Coscritti della buona volontà, avremo la filosofia feroce; ignoranti per la scienza, furbi per le comodità; crepare per il mondo che avanza. È la vera marcia. Avanti, forza! "

Arthur Rimbaud.
(traduzione di Dario Bellezza)

Nota biografica per le Questure del Regno: Arthur Rimbaud (20 ottobre 1854 - 10 novembre 1891) è stato un famoso manifestante e teppista francese, antesignano dei black bloc. Arrestato una prima volta a 15 anni a Charleville durante l'occupazione abusiva di uno stabile cui erano state tagliate le utenze -compresa quella della "corrente elettrica", allora non molto diffusa- subì una prima condanna alla fustigazione domiciliare. Negli anni successivi diede vita, peregrinando per tutta Europa, ad una serie di spazi autogestiti quali il famoso Battello Ebbro di Parigi (stroncato nel sangue durante la breve esperienza della Comune) e la Stagione all'Inferno, primo nucleo dei famigerati e attuali casseurs. Più volte arrestato e condannato, subì anche una condanna per sodomia a causa della sua pubblica relazione con il terrorista internazionale Paul Verlaine. Noto per alcune poesiole di scarso valore letterario, terminò la sua breve e disordinata vita commerciando in armi e esplosivi destinati ai movimenti antagonisti, colpito da numerosi mandati di cattura. Qui di seguito si riporta una sua foto segnaletica fatta approntare dalla Gendarmeria del dipartimento delle Ardenne (Francia):





martedì 15 aprile 2014

Humile richiesta di Riccardo Venturi, vilipensore e peccatore, al Sig. Giudice affinché voglia affidarlo a' Servizi Sociali.



Signor Giudice,

Rivolgomi a Vostro Onore con l'animo contryto, e ben conscio della colpa che ho commesso e dell'orrendo crimine che dovrò espïare.

Qvando Voi sarete chiamato a giudicarmi, fra qualche mese, per avere attentato all'onore e al prestygio del Capo dello Stato, so bene che la Vostra inflessibilità sarà inflessibilmente inflessibile; indi per cui, non posso rimettermi che alla Vostra clemenza, assicvrandoVi il mio più ardente pentymento per avere osato rivolgere, un dì, espressioni horribilmente irriguardose nei confronti del Presidente della Repvbblica, che peraltro vorrei poter incontrare per gettarmi a' Suoi piedi.

Nell'attesa e nel sogno di quel fvlgido momento, però, dovrò giustamente essere sottoposto alla Givstizia dello Stato; dvra lex, sed lex. Entrerò in quell'aula di trybunale certo di dover pagare la pena che mi spetta; non batterò ciglio, e se per me dovessero spalancarsi le porte d'una buja cella, o l'angusto seggio d'vna galera ove sarò posto a remare a forza, o financo i profondi antri delle Regie Saline di Volterra, accetterò il mio destino illvminato dalla speranza di mondarmi del mio delitto.

So bene, Vostro Onore, che avrete il potere di condannarmi anche a pene più severe, come lo squartamento sulla pubblica piazza aumentato di un terzo per recidiva; ed è proprio per qvesto che imploro e impetro la Vostra magnifica clemenza. Arrivato al mio pvnto d'abbrutimento, vogliate, con la Divina & Humana lvce che promana da' Vostri atti, concedermi di ravvedermi in modo più degno.

Vi chiedo qvindi, al momento di pronunciare il Verdetto ne' miei confronti, di assegnarmi a' Servizi Sociali in prova per tutta la durata della mia espïazione.

Vi garantisco peraltro, Vostro Onore, una provata esperienza nel settore: per bvona parte della mia vita ho compiuto codesta attività, strascinando sventurate persone a dritta e a manca con pvlmini e altri automezzi, costretto giornalmente a percorrere la terrificante via delle Masse rischiando frontali coll'autobus n° 43, oppure a infilarmi nello strettissimo vialetto d'ingresso di Villa Valentina con un Dvcato attrezzato, sotto pena della decapytazione qualora gli avessi rigato le fiancate. Vi faccio ryspettosamente presente, Vostro Onore, che tutti detti automezzi recavano la precisa dicitura: Servizi Sociali.

In alternativa, chiedo di potermi recare non una volta alla settimana, ma anche tutti i giorni, al CPA (Centro Polivalente Anziani) di Firenze Svd, notissima opera pia che ospyta anche una cotidiana mensa de' poveri. In tale benemerita strvttvra potrei espletare i miei servigi in modo adeguato, prendendo la Santa Messa nella Cappella di Sant'Emerenziano al Covo, ristorandomi frvgalmente al Bar Paradiso co' pasti preparati da Frate Angelo e sorella Angela ed occupandomi della cvra per anziani sacerdoti come Don Sugo da Fontesanta.

Alle ore 23 rientrerei al mio domycilio pieno di letizia nel qvore, compirei le mie orazioni e mi addormenterei felice non prima di aver scritto qvalche devozione domestica nel mio blog, Ekbloggethi Seauton Celestial Network. Dal martedì al giovedì, naturalmente, potrei recarmi a Roma, evitando accvratamente la zona attorno a Piazza Barberini e limitandomi alla presenza assidua in piazza S. Pietro, ove Vostra Grazia potrebbe far approntare una gogna a me riservata con la dicitura Summae Auctoritatis Vilipensor Relapsus.

Come ultima grazia, Vostro Onore, Vi chiedo naturalmente di salvaguardare la mia agibilità politica, messa natvralmente al servizio di formazioni rigorosamente ligie all'Ordyne Costituïto.

Certo che Vostro Onore vorrà accogliere qveste mie modestissime richieste, e confidando in alcvni illvstri precedenti, passo distintamente a salvtarVi da povero peccatore che altro non dimanda se non poter dimostrare all'Hvmano Consesso il proprio ravvedimento.

Vogliate accettare, Vostro Onore, i miei più servili e viscidi Osseqvi.

Vs. Humile Schiavo, Riccardo Venturi.



lunedì 14 aprile 2014

La dolce vita


Stiamo venendo fuori da trent'anni di niente. Giusto, forse ci abbiamo provato tredici anni fa, dalle parti di Genova; siamo stati massacrati due volte. La prima dallo Stato e dalle sue polizie, la seconda dall'insipienza che ci portiamo addosso, insipienza che ha avuto la sua consacrazione il 15 ottobre 2011 a Roma e che ha trovato la sua fine naturale nella delazione e nell'accettazione sempre più passiva della legalità. Le famose uova sono figlie di tutto questo; ebbene sì, kein Ei ist illegal. Andrà a finire che, alle manifestazioni, ci andremo direttamente con le galline; persino a quelle dove la partenza della bambola è ampiamente preannunciata. Continueremo a “concordare percorsi” con le Qvestvre, tunnel compresi, aspettando che l'Angelino di turno non si lasci sfuggire la ghiotta occasione per la “prova di forza”. Lo abbiamo già visto come va, no? La preparazione è sì capillare, senz'altro, ma non ha alcun elemento nuovo. Tutto vastamente prevedibile. Prima si mettono in azione i media, per creare allarme nella preoccupata popolazione e nella maggioranza silenziosa; si manda in avanscoperta il Tempo di Roma e merda del genere, che però è ben conosciuta. Poi si impone un percorso, tappando scientificamente ogni via di fuga con duemila ringraziandi da Angelino; e poi si parte verso il macello, naturalmente festosi. Certo, dopo trent'anni di niente è lecito aspettarselo. E c'è persino chi ancora blatera di infiltrati, i “bloc” da neri so' diventati blu, e compagnia brutta; noi saremo tutto, noi vogliamo tutto, ma a mio parere sarebbe opportuno, ora come ora, essere un po' meno e volere qualcosa. Per esempio: essere più organizzati e volere dei servizi d'ordine decenti. Essere non scoperti ai lati durante i cortei e volere non essere sempre alla più totale mercé degli sbirri. Perché questo è successo sabato 12 a Roma; che lo vogliamo o meno, come sempre sono stati loro a fare il bello e il cattivo tempo. A permettere e a bloccare. A attaccare e a fermarsi. Hanno dettato loro i tempi e gli eventi; e noi tutti dietro, con le nostre ovette e le verdurine. Del resto, è vero, non si possono lanciare ossi di bistecca; e chi la vede più, la bistecca.

Da questo punto di vista, l'importanza di quel terrificante tunnel che abbiamo dovuto percorrere dopo piazza Barberini potrebbe essere molto grande. Una specie di tunnel di coscienza, nel quale tutti siamo stati obbligati a porci certe domande e a darci delle risposte nell'urgenza della paura e doloranti da tutte le parti per le botte prese. Forse, chissà, ci avevamo bisogno di un'altra conferma; si passi pure che il ricordo di Genova sia sfumato, ma dopo Genova non è che le cose siano andate diversamente. Nelle uniche occasioni in cui si è visto qualcosa di diverso, il 15 ottobre e il 14 dicembre, sono fioccati distinguo, prese di distanza, “condanne della violenza”, delazioni organizzate; e questa non è una bella premessa per “essere tutto”. S'avesse finalmente a prendere atto che un “confronto” con questo Stato e con tutte le sue “istituzioni” di merda non soltanto non è possibile, ma che ha come unico risultato sempre più repressione indiscriminata. Mi auguro che quel tunnel abbia schiarito le idee a tutti, e non importa stare a vedere se alla manifestazione prima s'è in sessantamila e a quella dopo in ventimila. Non è più questione di numeretti da dare in pasto all'illusione di turno, ma di organizzazione e di chiarezza estrema per quanto riguarda i rapporti di forza e gli obiettivi concreti da porsi, obiettivi da raggiungere non roboanti ma efficaci. A partire dal fatto che manifestare non deve essere un “diritto” benevolmente concesso e regolato secondo le loro modalità, ma qualcosa che ci prendiamo e basta. Senza “percorsi” e altre stronzate che portano alle piazze Barberini del cazzo, ma -ad esempio- comunicando un percorso e facendone un altro preparandoci ben bene all'evenienza senza tanti “obiettivi simbolici” da prendere a verdurate ricavandone cariche affrontate come se la Lodigiani volesse impegnare il Barcellona. E basta anche con tutine, k-way, stronzate monocolori, “bloc” e puttanate del genere; riscoprire la valenza e l'efficacia delle magliette qualsiasi, delle camicine del mercato e dei capi d'abbigliamento del tutto anonimi, come certe magliette a strisce che, a suo tempo, fecero vedere i sorci verdi ai celerini. Penso che, dopo trent'anni di niente, ci sia di nuovo bisogno di dire queste semplicissime cose in circostanze che tornano a giustificarlo. Io non sono tutto e non voglio tutto: sono uno in mezzo a cinquanta, a mille, a ventimila o a sessantamila “uni” come me che sono fatti, come tutti gli altri, oggetto di distruzione e di odio da parte del potere capitalista. Quindi è mio dovere difendermi e contrattaccare in modo efficace; e non ci si difende, né si contrattacca, con gli slogan “tuttistici” e obbedendo alle regole imposte e ai tunnel post-mattanza. Si rischia? Certo, Si ha paura e persino terrore? Certo. S'andrà a finire in galera? Certo, possibilissimo. “Repressione” non è un concetto astratto, anche se oramai te l'hanno inculcata dentro come normalità, mascherandola sotto ridicoli nomi (come quello di “legalità”). Repressione è avere coscienza del nemico. Repressione è farla una buona volta finita con le baggianate della “nonviolenza” e altre stronzate del genere; per la violenza quotidiana dello Stato che ti attacca con le sue istituzioni, le sue leggi e le sue polizie, le puttanate “nonviolente” sono manna dal cielo, occasioni perfette per farti ridere addosso e per farti prendere a calci steso a terra. Basta con le “vittime”. Non siamo vittime, così siamo soltanto “festosa” carne da macello votata all'eliminazione; ed è il momento di prenderne atto senza ritorno e senza ambiguità. Non è nemmeno più questione di non andare più a partecipare a qualsiasi farsa elettorale, locale, nazionale o “europea” che sia; è questione di andare oltre, un bel pezzo oltre, senza più il lusso della disorganizzazione, dei “simboli”, dei percorsi concordati, dei tunnel. Ok, ora li hai visti all'opera, Matteino, Angelino e Marino; l'individuazione precisa dovrebbe essere avvenuta. Se ancora non lo hai capito, allora accomodati a vatti pure a votare la tua lista Zipirillas o come cazzo si chiama. Vieni al corteo, come ho visto coi miei occhi, con la bandierina di Ingroia (“vostro onore, sei un figlio di ingroia”, come verrebbe da dire parafrasando un famoso genovese); accontèntati del questore Pansa che “stigmatizza” il comportamento del “cretino” che prende a calci la ragazza a terra protetta dal fidanzato, e di Roberto Saviano che ci parla dei bravi carabinieri tra i quali vive, e per i quali sarebbero “senza onore” coloro che compiono atti del genere. Acconténtati delle solite “mele marce”, da bravo. Credi nella tua bella “democrazia” e tanti auguri; tu sì che “sarai tutto”. Ma come vogliono loro.

E fin qui erano le critiche da fare, che non sono più rimandabili. Un altro corteo, o qualsiasi altra manifestazione, condotta a questa maniera potrebbe portare alla fine di tutto. Come è successo, del resto, a Genova. La repressione preventiva per stroncare sul nascere un movimento nel quale si comincia a vedere qualcosa al di là del niente. Può darsi che sia troppo ottimista, certamente; oppure che non sia troppo “disilluso”. Del resto, come io la pensi sui “disillusi” vari l'ho già detto troppe volte per dover insistervi ancora sopra. Le critiche sono da fare, come è da prendere atto di qualcosa che mi sembra profondamente diverso. Esistono le potenzialità come esistono i limiti; e proprio per questo sarebbe importantissimo chiarire bene entrambe le cose allo stato attuale. Chiarire le contraddizioni e gli errori. Chiarire le cose positive e le possibilità graduali; è bene ricordarsi sempre che la repressione di questo genere è messa in atto proprio per stroncare tali possibilità; è un segnale ben preciso che non va lasciato affogare né nel vittimismo, né nell' “io lo avevo detto”, né nell'indifferenza prerogativa di parecchi e inutili palloni gonfiati.

In quella piazza, in quel corteo, ho rivisto un'autentico desiderio di conflittualità aperta, senza più mediazioni. Alla buon'ora, verrebbe da dire; c'è voluto che la “democrazia liberale” si decidesse finalmente a liberarsi di tutte le maschere, e che le “istituzioni” apparissero per quello che sono. Anche per questo motivo non ci devono più essere equivoci nella piazza, a costo di essere duri e chiari con singole persone che possono essere anche in buonafede. In una piazza che si pone in conflittualità e che si organizza bene per esserlo e per rappresentare davvero un'alternativa sistemica, gli ingroianti non ci devono stare e devono essere allontanati senza riserve. Non ci devono stare gli “tsiprioti” (“Tsipras, Tsipras, sarai un bel ragazzo / Ma a noi delle elezioni / Non ce ne frega un cazzo”: il migliore slogan della giornata). A un certo punto pare che, da qualche parte del corteo, ci fossero pure una decina di “Forconi” con le bandiere del “9 dicembre”; ma non li ho visti di persona. Così non va una sega. Mucchioni e confusioni, no bbuono. Fuori dai coglioni e andate coi vostri nell' “altra Europa” o dove minchia vi pare.

La possibilità di una vera conflittualità, e di tornare finalmente sui duri sentieri dello scontro sociale, passa anche dalla fine delle tenere velleità, quelle a base del “tutto” per intenderci. Altrimenti “Noi saremo tutto, ma alla fine non siamo una sega”. Oppure, “Noi vogliamo tutto, specialmente le manganellate pe' 'un dì' di peggio”. Fine delle “parole d'ordine”, delle rivendicazioni ad hoc, dei “beni comuni”, della “casa” e di quant'altro; se da un lato è certamente giusto agire nei quartieri e nelle situazioni sociali specifiche, senza una sintesi politica e senza una riconduzione delle rivendicazioni ad un'alternativa molto più vasta non si caverà mai un ragno dal buco. Il che non significa, a mio parere, “essere tutto”. Peraltro, prima di piazza Barberini, ho fatto parte anch'io dello spezzone del corteo che così si intitolava; e ci ragionavo sopra perché ho il disgraziato vizio di riflettere bene su quel che sto facendo. Almeno finché i bravi poliziotti non decidono di schiacciarmi.

Riflettevo sul fatto che, prima di essere “tutto”, bisogna urgentemente ricominciare a essere davvero Qualcosa. Di ben definito, di chiaro, di non fraintendibile. Ricomiciare ad essere un Soggetto politico totalmente al di fuori di certe logiche che, ancora, disperatamente si vedono dove non ci dovrebbero più stare. Su tutto questo, sicuramente, l'analisi della Militant è molto interessante e merita di essere letta ammodino; ma con juicio. Torno a dire che siamo in una fase in cui siamo ripartiti veramente da zero, e tra difficoltà inenarrabili. Quel che ho visto in quella piazza, però, mi incoraggia pur in mezzo agli errori e alle disorganizzazioni. L'eterno tentativo stesso, del resto, di distinguere tra una “piazza buona” e una “piazza cattiva” lo testimonia: fa paura che, invece, di distinzioni del genere proprio non ce ne siano state. Che anche le persone normalissime che manifestavano, pur lontanissime dalla militanza antagonista attiva e quotidiana, si siano ben accorte della repressione. Che gli sbirri avessero come gli occhi iniettati di sangue e che si fossero scatenati in una sorta di amok, lo diceva anche il pensionato con la cravatta o la ragazzina qualsiasi. Che questi siano degli assassini ben istruiti, lo dicevano e lo urlavano tutti. E com'è lontano tutto questo dalle stronzate dei loro giornaletti e delle loro televisioni.

A tale riguardo, e lo dico con estremo rammarico perché quei due poveri ragazzi presi a calci stesi a terra i calci se li sono presi sul serio, e il loro sangue era sangue, bisognerà pur far presente che tutto il “battage” attuale, con tanto di Pansa e Saviano (lui sì, che “è tutto”!), è del tutto logico e strumentale. I due ragazzi stanno avendo la stessa funzione del pupazzetto di pelouche fotografato tra le macerie del terremoto. Sono utilizzati per creare commozione da un lato, e “democrazia” dall'altro. Cessano di essere due fra le tante persone picchiate, ferite, insanguinate, schiacciate durante la macelleria renziana, e diventano pupazzetti per permettere al sor Questore di fare il magnanimo “democratico” e a carta da culo come “Repubblica” di apparire “vigilante sugli abusi”. Sarà bene tenerlo presente sempre, e non cadere pure noi nel “simbolo”. La repressione è stata generale. Decine di persone sono state pestate come e peggio di quei due ragazzi. Ancora non si sa nulla dei fermati. Tra gli insanguinati c'è persino il segretario del Partito Comunista dei Lavoratori, Ferrando. E questo bisognerà tenerlo a mente per le prossime volte.

Non vorrei apparire ripetitivo, ma correrò il rischio. Quel che hanno in testa questi signori, nell'interezza del loro agire politico e istituzionale, è la nostra totale distruzione. A tale cosa non va opposto più nessun vittimismo, nessuna vuota “lamentela” e neppure nessuna “denuncia”. Non c'è più niente da denunciare e le cose sono oramai chiarissime. Chi non le vede, è soltanto perché si rifiuta di vederle; e se si rifiuta di vederle, è a un brevissimo passo dall'essere loro complice. Passo che certa cosiddetta “sinistra”, peraltro, ha già compiuto da tempo. A tale cosa, adesso, va opposta la coscienza piena dello scontro in atto, scontro che necessita di strumenti, tattiche e organizzazioni adeguate, e di una preparazione totale. Lo scontro non è un “happening” o una “performance”; eppure ci aveva provato già Sergio Leone a farci presente che la rivoluzione non è un pranzo di gala eccetera. Lungi da me, chiaramente, dal parlare di “rivoluzione”; ma anche lo scontro sociale ha molto poco del pranzo di gala. 


 
Continuerò a ripetere che le critiche organizzative non possono essere sottaciute e sminuite. Il problema tecnico e organizzativo non è di poco conto, perché comporta dei rischi che possono essere evitati. E' pur vero, d'altro canto, che si tratta di problemi risolvibili e che non soltanto la coscienza, ma anche l'organizzazione, maturano nelle lotte. A differenza della conclusione della Militant, io penso che la definizione degli obiettivi politici rivesta la stessa importanza dei modi per gestire la lotta al meglio; si tratta di due cose che devono andare di pari passo specialmente in un momento come questo. Nelle piazze, ad esempio sabato, non c'erano soltanto persone abituate alla militanza antagonista attiva e alle sue modalità; c'erano anche tante persone che andavano a un corteo per la prima volta in assoluto, e che sono scese in piazza per una volontà fino a quel momento mai espressa. La definizione degli obiettivi politici è sacrosanta, anche perché si tratta di obiettivi che stanno finalmente travalicando la pura e semplice sopravvivenza; ma la definizione delle modalità di gestione va affrontata in modo ugualmente adeguato. Altrimenti, a forza di dire che si tratta di “problemi risolvibili” si continuerà imperterriti a fare coccodè con le ovette. Risorvìbbili er quindici d'ottobbre, risorvìbbili er diciannove, risorvìbbili er dodici d'aprile, però nun se risòrveno. Ce volemo decide, porcoddìo...?!?

In questi giorni, sui media di regime, sta furoreggiando un'altra cosa. Sto parlando, naturalmente, della “guerriglia nelle strade della Dolce Vita”, in riferimento al famoso film di Federico Fellini. Come dire: ci abbiamo pure, tra le altre cose, pure il reato di lesa cinematografia. Visto che lorsignori sono sempre a caccia di “simboli”, sarà quindi bene dargliene un'altro con la speranza che gli piaccia almeno un po'. La vita amara, anzi amarissima, è irrotta in quella “dolce”; ché, in quel corteo, di vite amare ce n'erano a migliaia. S'era giusto a manifestare per quello, con tanto di “dolce vita” militarizzata. Del resto, se non erro, il film di Fellini è del 1960; ma nel 1960, a Roma come a Genova, a Reggio Emilia come in tutta Italia, non si gettavano uova e sedani contro il Ministero del Lavoro. Si crepava e si sparava. Si resisteva e si cacciavano governi fascisti. E si veniva caricati a cavallo dai carabinieri Olimpionici, gonfi di “onore” come quelli che garbano tanto a Robbert' 'o Gomorrista. Tra tutte le meraviglie di Roma, comunque, via Barberini fa piuttosto schifo; e anche la piazza, in fondo, non è un gran ché. Via del Tritone, poi, è diventata via del Tritello. Un tritello assolutamente “democratico”. Ma l'amor mio non muore è stato pure un film, del 1913.

Nella foto: due festosi manifestanti, M.M. e A. E.,  prima di essere presi a manganellate e calci nelle strade della Dolce Vita.

domenica 13 aprile 2014

Roma, 12 aprile 2014: Macelleria renziana.



La foto che vedete sopra è stata scattata da me personalmente da piazza Barberini, a Roma, circa alle 17.40 del 12 aprile 2014. La via alberata che si vede sul fondo è via del Tritone, sede del Ministero del Lavoro. Nonostante l'apparente staticità, mostra l'esatto momento in cui le "forze dell'ordine" lanciano la carica contro la manifestazione dei Movimenti contro le politiche di Supergiovane Renzi, alla quale stavo partecipando assieme ai gruppi provenienti da Firenze e dalla Toscana. Sicuramente la foto non appare precisa e "drammatica" come quelle scattate dei reporter professionali dei giornali, ma posso assicurare che è stata presa proprio nel momento in cui gli agenti del Disordine si scatenano in assetto antisommossa.

Una foto che ha rischiato di costarmi carissima. Ho perso contatto col resto del gruppo, che si era spostato, scappando, proprio verso la fermata del Metrò all'angolo di via del Tritone, prendendosi la sua razione di manganellate, di botte, di calci. Avendoli persi, io sono invece scappato verso il lato opposto della piazza, a me più vicino. Avrei forse fatto meglio a risalire via Barberini, ma in certi momenti si ragiona con difficoltà. Mi sono quindi ritrovato in mezzo a una folla che scappava con me, tappata e ondeggiante. E' cominciata la ressa terrificante di quel lato della piazza, che nessuna foto e nessun video ha testimoniato. Sono stati tra i due o tre minuti più terrificanti che abbia passato negli ultimi anni; urlando a tutti di stare calmi, o di provarci, mi sono messo praticamente a reggere da solo tutti quelli che mi circondavano; ringrazio i miei genitori e la natura di avermi fatto grosso come un armadio, nonostante tutti i problemi che ho avuto negli ultimi anni. La caduta di una sola delle persone di quel gruppo dove mi trovavo avrebbe provocato conseguenze incalcolabili. Pur non essendo certo una persona propensa a certi pensieri, ad un certo punto mi sono detto, terrorizzato e sconsolato: Oggi mi tocca morire in questo modo. Non so come mi è riuscito reggere le persone attorno a me, che perdevano scarpe e ogni cosa. Mi sono ritrovato, alla fine, in salvo di fronte alla sede del "Messaggero". Dopo un po' mi sono ricongiunto con il resto del gruppo, che aveva subito danni. Tra le altre cose, una ragazza di 18 anni aveva tentato proprio di soccorrere i due ragazzi di quella che è diventata la "foto simbolo" della giornata:


Il risultato è che questa ragazza giovanissima, che perdipiù è un vero e proprio soldino di cacio (oltre che di una generosità e di un coraggio unici), è stata prima manganellata in testa e sui fianchi dagli eroici "tutori dell'ordine", poi gettata a terra, e infine presa a calci ripetutamente. Dopo la "macelleria messicana" di Genova, ecco che, tredici anni dopo, mi tocca vedere la macelleria renziana di Roma. Non è, del resto, nulla di inaspettato.

Mi raccomando, leggetevi ben bene i giornali di regime; vi raccontano, come al solito, che fino ad allora era stato un corteo "festoso". A questi signori, a questi servi piacciono tanto i cortei "festosi" e obbedienti alla loro legalità; solo che il corteo di oggi, no, non era festoso affatto. Non c'era nulla da  festeggiare. C'erano, in piazza, persone avviate alla distruzione. E, a questo punto, devo invitare a leggere per intero l'articolo scritto da Eretica su Al di là del buco. Se scrivessi qualcosa io, rischierei di copiarlo e basta; e allora meglio rimandare all'articolo originale.

Ogni minima strada, ogni minimo vicolo, ogni slargo sul percorso del corteo bloccato per impedire qualsiasi via di fuga. Bottiglie e uova contro armamenti antisommossa. Ci sarebbe, certo, da riflettere -e parecchio- sui rapporti di forza e sul modo in cui si affrontano certe cose, e trarne adeguate conseguenze visto che i servi armati dello Stato ti riducono alla loro mercé, senza riguardo per nessuno. La loro azione di oggi, che naturalmente i loro colleghi servi dell' "informazione" definiscono "di alleggerimento", avrebbe potuto provocare dei morti proprio nella micidiale ressa che si è creata e della quale nessuno o quasi parla. Non appena lasciata piazza Barberini, il corteo è stato fatto incanalare in un lungo tunnel, ancora più pericoloso, che è stato percorso con angoscia (e qui, poiché il tunnel in questione faceva parte del percorso originale, devono essere rivolte delle critiche ben precise anche a chi ha organizzato l'itinerario del corteo; e non è certamente l'unico errore che è stato commesso, come se non bastasse). Ho scattato un'altra foto all'interno del tunnel; è una foto non venuta bene, e forse anche per questo è ancora più indicativa. C'è tutto il jobs act, in quel tunnel. Quando ne sono venuto fuori, quando ne siamo venuti tutti fuori, si avvertiva qualcosa di cambiato, definitivamente. Attento, democristianello da tre soldi bucati.



sabato 12 aprile 2014

De Democraticis



Vedere la sala colma di persone.
Vedere le storie e le non-storie tutte assieme. Dalle lotte armate ai primi aneliti e alla protocoscienza delle adolescenze. Dai percorsi tortuosi e sotterranei alle militanze quotidiane.
Vedere il viso scavato, sentire la voce rotta e sommessa di Enrico Triaca.
Vedere il viso bello, di ragazzo, di Paolo Persichetti. Sentire il suo accento romanesco gentile.
Apprendere che no, non se lo aspettavano. Non si aspettavano le torture, i prigionieri.
Pensare a Cesare di Lenardo.
Vedere le foto appese nella sala. Ho visto, nella mia vita, esseri umani vivi e resti di esseri umani morti conciati nei modi più terrificanti; ma erano per incidenti stradali o altre disgrazie.
In quelle foto c'erano esseri umani torturati da una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Certamente. Era un lavoro, quello. Così lo chiamano: lavoro, lavoretto. Squadra, squadretta.
Sapere che lo stato democratico in questione ricorreva, col pieno assenso delle istituzioni politiche e giuridiche, a strutture non soltanto illegali, e non soltanto coscienti della loro illegalità; a strutture che rivendicavano, di fronte al prigioniero da torturare, l'illegalità. Sei nelle nostre mani, come in Argentina. Lo "stato democratico" e la dittatura militare conclamata esattamente sullo stesso piano.
Bolzaneto.
Cercava, una generazione, di tornare in piazza. A questa generazione ci ha pensato la tortura. La tortura preventiva.
Poi, quella fulgida figura di servitore dello stato. Nicola Ciocia, il professor De Tormentis.
E' una perfetta espressione latina: Professor de Tormentis, si badi bene, può essere tradotto come "Professionista a proposito delle torture". Vale a dire ciò che esattamente si vantava di essere. Un professionista dell'acqua e sale, del waterboarding
Un servitore, appunto, dello stato democratico.
Non il solo, naturalmente.
Se ne sta a godersi una tranquilla vecchiaia, senza più oramai nemmeno nascondersi.
Scherzava pure con Enrico Triaca, parlando delle comuni origini pugliesi. Poi le bende e la stanzetta. La stanzetta nel villino, o chissà dove. Lo stato ha sempre buona disponibilità di villini.
Chiaramente sto scrivendo in ordine disperatamente sparso.
Prima di ascoltare quelle cose, credevo di avere una conoscenza della cosa. Una conoscenza fatta di informazioni, di letture. Come quelle, ad esempio, raccolte e proposte proprio da Paolo Persichetti su Insorgenze.
Ascoltandole dalle voci, con quelle fotografie appese in sala, mi sono invece accorto di non saperne, e di non poterne sapere, niente.
Avere di fronte una persona che è stata torturata dallo stato. Dalle istituzioni democratiche.
Avere dentro una tensione totalmente indefinibile, o forse composita. Derivata in parte dal percepire costantemente l'impossibilità totale di comprendere appieno questa cosa; e, in parte, dagli intrecci di rabbie che tutto ciò suscita.
Cercare, allora, di interpretare non soltanto le parole, ma anche e soprattutto i silenzi, le pause di chi parlava. 
Quei silenzi e quelle pause dovevano essere popolate di immagini. Di cose viste. Di cose sofferte.
Certo, forse si tratta soltanto di una mia costruzione. Di mie impressioni. Tuttavia non penso di essere agli antipodi della verità.
Se per caso un giorno o l'altro mi leggesse, dico a Paolo Persichetti che mi ricorderò di quel breve abbraccio su una piccola rampa di scale.
E mi ricorderò della voce bassa di Enrico Triaca.
Ricordi che hanno cominciato ad essere formativi un decimo di secondo dopo essere trascorsi.
E il Professor de Democraticis, a quest'ora, starà di sicuro a dormire in una qualche abitazione. Magari, chissà, in un villino.
Con la coscienza, tranquilla, di avere servito lo stato.
1982. Avevo diciannove anni. E lo so io perché lo dico. 

mercoledì 9 aprile 2014

Strade senza genere


Qualche sera fa, una mia giovane amica mi ha raccontato un episodio. Accaduto non direttamente a lei, ma al suo compagno.

Il suo compagno era sull'autobus, vicino a casa, sull'ora di punta. Alla guida un giovane autista della meravigliosa ATAF privatizzata; data l'ora, l'autobus era stracolmo di gente.

Ad un certo punto, ad un incrocio, una macchina ha un po' tagliato la strada all'autobus. Può essere rischioso, e in certi casi parecchio (specie quando, come accade regolarmente, la strada te la taglia proprio l'autobus, che è grosso non poco). Il bravo autista ha comunque fatto una frenatina, raccontava la mia giovane amica, senza nessun danno per i passeggeri. Qualche urto, ma nulla più.

Poi l'autista si è accorto che alla guida dell'automobile che gli aveva tagliato la strada c'era una ragazza; ed è iniziato lo show.

Ha cominciato a inveire, a voce alta, prima contro "quella troia", poi contro "quelle troie", passando al plurale generalizzante. Finita lì? Manco per sogno; quasi come un corollario, ha iniziato a dire che "dovrebbero starsene tutte a casa a fare pompini", mimando anche il gesto della fellatio (e lasciando quindi una mano dal volante). 

Prima di andare avanti è necessario far notare come, in quella breve frase accompagnata dal gesto, ci sia buona parte dell'immaginario del maschio italiano. Non occorre starci tanto a filosofare: la donna deve stare a casa (evitando quindi, ad esempio, di mettersi alla guida di un automezzo; e pensare che, a Firenze, oggi esistono parecchie donne che guidano l'autobus) e dedicarsi a succhiare il cazzo. A tale riguardo, va senz'altro notato come il pompino, nell'immaginario maschile, abbia quasi del tutto sostituito l'atto sessuale vero e proprio. Il buco femminile par excellence si è spostato decisamente più su, senza contare che -più in giù- il maschietto standard preferisce comunque il "lato B". La vagina viene quindi relegata o al famoso "amore" (quello dei lucchetti, delle scritte sui muri, delle sedicenni fatte a pezzi eccetera) o ai "figli". Troppo amorosa e materna, la fica, per andare per la maggiore. Quando si insulta una donna, o bocca o culo. Con tanto di gesti espliciti da parte dell'autista dell'autobus. La bocca e il culo sono prerogative delle "troie", vale a dire di tutte le donne che si azzardino, παραδείγματος χάριν, a guidare una macchina; figuriamoci poi quando tagliano la strada. Essendo tutte troie, devono stare a casa e fare pompini. Stop. Con diritto di precedenza.

Poiché l'autista continuava, il compagno della mia giovane conoscente si è incazzato nero.

E' andato dall'autista a dirgliene quattro e forse anche cinque, visto che lo conosco relativamente bene. E poiché l'autista persisteva, sentendosi forse investito del comando della nave, il compagno della mia amica gli ha pure detto di scendere fuori, senza problemi. La cosa è finita là; l'autista si è chetato zitto zitto, invitato caldamente a vergognarsi; deve avere, peraltro, avere avuto un'intuizione o un rigurgito di saggezza, visto che il compagno della mia giovane amica non è propriamente rassicurante come struttura fisica. 

Ma la cosa più interessante, come continuava a raccontarmi la mia giovane amica, è che l'autobus era pieno di donne, di ogni età.

Nessuna delle quali, con l'autista che seguitava a sbraitare di troie, di case e di pompini, si era sentita in dovere di dire mezza parola. Indifferenti. Come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Ci aveva dovuto pensare, all'autista sessista, un uomo. A fargli presenti certe cose, e non soltanto a dirgli di scendere dalla nave, pardon, dall'autobus. Nel raccontarmelo, la mia giovane amica era enragée. Conoscendo bene pure lei, non ho alcun dubbio che non sarebbe stata zitta; è piccolina come un soldo di cacio, ma ha dentro sia una precisa coscienza, sia un quid di antimateria. Fondamentalmente, penso che lei l'autista non lo avrebbe nemmeno invitato a scendere, ma gli avrebbe mollato un paio di manate seduta stante. La adoro, quella ragazza.

Le altre, tutte zitte. Studentesse, lavoratrici, casalinghe. Può darsi persino che qualcuna abbia pensato che l'autista aveva ragione. Il sessismo è una cosa molto più complicata di quel che si pensi. Senza un'esatta coscienza di dove vada ad inserirsi e di quale sistema relazionale e sociale faccia parte, non è possibile farvi fronte. Per questo tutte le donne dell'autobus hanno taciuto. Tacciono sull'autobus come altrove. Magari si stupiscono pure, e non poco, di un uomo che interviene in una situazione come quella che era in corso. Oppure lo prendono per un "eroe", per una specie di "cavaliere" senza neppur lontanamente immaginare che quella persona ha fatto un percorso di coscienza e di politica ben preciso, e che per lui questa è una cosa del tutto normale e doverosa. E sono, questi, piccoli, banali episodi di vita quotidiana. Del resto, gli eventuali mutamenti si avvertono proprio in essa. Un autobus di donne che si ribellassero all'autista sessista significherebbe che è davvero cambiato qualcosa nella società; un autobus di donne che tacciono significa che non è cambiato un cazzo di nulla, e che si sta attraversando un oceano senza fine, quello dell'Apparenza.

Poi, stamani, vado al bar a prendere un caffè e ci sono tre signore che discutono. Unicuique suum; un tempo sono stato anch'io tipo da autobus, ora lo sono più da bar di quartiere e da casse del supermercato. Le tre signore sono entusiaste: quote rosa, Renzi che candida tutte donne come "capigruppo", sennonoraquàndo, lecosecàmbiano, candidate, stracandidate, donne di qui e donne di là. La donna è diventata un brand quasi infallibile. La misura dell'attenzione alle relazioni di genere è diventata questione di quote di presenze istituzionali; la cosa sembra aver fatto breccia. C'è la Boldrini, ci sono le "imprenditrici", si stabiliscono percentuali obbligatorie, e si può quindi tranquillamente continuare a tornare a casa a fare pompini. Del resto, anche con una lady della politica come la Santanché, non di rado si ricorre ai pompini (magari mentre lei inveisce contro i "finocchi"). Splendori della meravigliosa democrazia rappresentativa e della società capitalistica: buchi, pompini e poltrone. Con la Donna® sulla poltrona la coscienza è a posto, ci si sente "parte importante" e si è, finalmente, in linea con "gli altri paesi europei". Ci sono le "ministre" giovani e belline (mica come la prima di tanti anni fa, Tina Anselmi; un tempo, le rare "donne ministro" dovevano essere una specie di arcigna e attempata preside di liceo, ma nemmen tanto un tempo -si pensi alla Cancellieri...)

Il tutto senza mettere minimamente in discussione il sistema che continua a prenderti per il culo, e a ammazzarti svariate volte (come lavoratrice, come disoccupata, come oggetto sessuale, come donna in sé). Tutte felici e contente, tutte zitte sull'autobus, tutte giulive perché ci hai la "capogruppo" nel Partito Democratico. Che meraviglia. Non resta che aspettare le quote pompini. E continuare a andare per altre strade, impervie e difficili. Strade senza genere e senza quote.

lunedì 7 aprile 2014

La kasa



Era una casa molto carina 
Ma mi han sfrattato ieri mattina,
Non potrò più entrarci dentro,
Mi han sgomberato in un momento.
Me l'hanno chiusa con il lucchetto,
Han sigillato persino il tetto,
Non posso manco fare pipì,
Se la fo in strada, mi multan lì

Ma era bella, bella davvero,
E ci pagavo l'affitto al nero,
Ma era bella, bella davvero
E ci pagavo l'affitto al nero

Era una casa molto carina,
Occupazione un po' clandestina,
Ci stavo già da vent'anni dentro,
M'han sgomberato senza ritegno.
Già non potevo più fare niente,
M'hanno tagliato gas e corrente,
Manco potevo fare la quàcqua,
Ché m'hanno chiuso persino l'acqua

Ma era bella, bella davvero,
E ci pagavo l'affitto al nero,
Ma era bella, bella davvero
E ci pagavo l'affitto al nero.

Era una casa molto carina,
Sfitta da anni, una trentina,
Di proprietà un po' comunale
Che ci voleva un po' speculare.
Stamani s'è scassato il lucchetto,
S'è rioccupato il palazzetto,
S'è fatto tutti una gran pipì
Addosso a quegli stronzi lì

È proprio bella, bella davvero
E ora si paga affitto zero,
È proprio bella, bella davvero
E ora si paga affitto zero.
 
 

mercoledì 2 aprile 2014

Il giorno di Sant'Adelaide



Non è che abbia subito un'improvvisa conversione, dandomi perdipiù al culto di una santa che non va certamente per la maggiore; come dire, non ce lo vedo proprio un pullman di pellegrini che si rovescia dopo essere stato in gita al santuario di Sant'Adelaide. Si tratta di una specialità di Padre Pio, questa, che nessuno può contestargli; anzi, a dire il vero, dell'esistenza di tale santa ho saputo solo pochi minuti fa, andando a cercare quale santo o beato si festeggi il 16 dicembre. C'erano anche, disponibili nello stesso giorno, Sant'Adone e Sant'Aggeo, più un beato polacco che è stato immediatamente scartato per il suo nome impronunciabile.

Sarà dunque a Sant'Adelaide che dovrò raccomandare l'anima mia il giorno 16 dicembre, vale a dire quello che è stato fissato dal Regio Trybunale di Firenze per la prima udienza del mio imperdybile processo per Attentato all'Onore e al Prestigio del Capo dello Stato. Stamattina, mentre espletavo la mia ferrea abitudine di fare le parole crociate sul cesso, nello stesso schema sono comparse le parole "verdetto" e "ricusazione": un presagio? Si aggiunga a questo che, mentre mi sbranavo un piatto di ravioli con ripieno di radicchio e formaggio guardando la televisione, chi ti è comparso? Non lo dirò espressamente, ma si tratta di un novantenne che, una volta, era "migliorista" e si faceva fotografare con una bustina da muratore sulla testa. Mi guardava dallo schermo televisivo e sembrava dirmi: "Mangia, mangia, ché poi t'o' rong' ie 'o vilipendie". 

Avrò quindi tutto il tempo per farmi una cultura su Sant'Adelaide e vedere pure di procurarmi un suo santino. Credo che quella pia donna tutto si sarebbe aspettato fuorché di dover occuparsi di un tizio accusato di avere attentato all'onorepprestìgio d'un istituzionàl vegliardo mediante un "post", correndo il rischio di vedersi condannare ad una pena da uno a cinque anni di carcere più recidiva; spero comunque che le faccia piacere, anche perché temo se ne stesse disoccupata da qualche secolo. Funziona così anche tra i santi, del resto: disoccupazione, precariato, due o tre squali aureolati che si beccano tutto, dismissioni, dimenticatojo. 

Mi spiace soltanto che l'udienza non sia stata fissata in una stagione più clemente, dato che avevo deciso di presentarmi in aula in canottiera e bermude; processo per processo, avrei finalmente realizzato il mio vecchio sogno di fare come nei filmini americani, dove il giudice mi avrebbe minacciato di sbattermi fuori per oltraggio alla corte. Pazienza. Vorrà dire che il 16 dicembre dovrò ricorrere al mio solito maglionaccio bisunto. Mi mandino pure in galera, ma in giacca e cravatta non riusciranno mai a farmi mettere.