mercoledì 27 aprile 2016

Ritorna il Primo Maggio a Firenze



Nelle altre città non si saprebbe dire; ma, perlomeno a Firenze, quest'anno vede il ritorno in grande stile del Primo Maggio. Almeno secondo i “metei”, non si preannuncia una giornata climaticamente simpaticissima, anche se -sicuramente- sarà più simpatica del sindaco Nardella, quello che va così tanto indignato a cancellare le “scritte degli anarchici” (ben coadiuvato dalla consuetamente servile stampetta fiorentina, con in testa Repubblica e il Corriere Fiorentino) dall'Oltrarno, strombazzando della presunta “rovina di un giardino” in margine alla manifestazione antifascista del 25 aprile quando è stato quello che ha svenduto al miglior speculatore possibile l'intero giardino dei Nidiaci. Ma si stava parlando del Primo Maggio, e del suo ritorno diffuso in riva all'Arno: in effetti, mai come quest'anno sembra tutto un pullulare di iniziative, manifestazioni, presìdi.

La cosa non può fare che un estremo piacere, e va detto “senza se e senza ma”. Negli ultimi anni si è assistito infatti alla distruzione sistematica del Primo Maggio, non solo come giornata di festa e di lotta, ma anche come simbolo stesso delle lotte e delle conquiste dei lavoratori. Lotte e conquiste che, sarà bene ricordarlo anche se dovrebbe essere una cosa decisamente ovvia, sono state pagate con decenni di lacrime e sangue, di repressione e di disoccupazione forzata, fino all'attuale incadaverimento del “lavoro” in sé. Ha ancora senso, al giorno d'oggi, parlare di “lavoro”? Sarebbe una domanda da porsi seriamente. Nel frattempo, per attenerci strettamente al tema, anche il Primo Maggio è stato trasformato in una giornata qualsiasi. Una qualunque giornata di precariato, di sfruttamento, di aperture imposte, di impedimento all'aggregazione, di ricatti, di minacce. Né più e né meno di tutti gli altri giorni di lavoro, o meglio, di lavoro distrutto e trasformato in fantasiosi asservimenti a politiche economiche e sociali tipiche di un capitalismo in crisi sistemica irreversibile. Come sempre, quanto più il capitalismo si avvicina al redde rationem, tanto più mostra la sua faccia più feroce. “Crisi”, impoverimento generalizzato, sfruttamento, guerra, disoccupazione e razzismo sono soltanto gli ingredienti della stessa ricetta.

Per attenerci al piccolo e locale fazzoletto di terra chiamato “Firenze” (ma si può essere ragionevolmente certi che dappertutto è così), negli ultimi anni renziani si è visto benissimo tutto questo. Come in ogni altro luogo, cancellazione di diritti e garanzie, inibizione delle lotte salariali, impedimento della difesa dei diritti, attacchi al diritto di sciopero pronunciati proprio durante l'annuale “kermesse” renzaiola della “Leopolda” a cura di tirapiedi più o meno fighetti. Si aggiungano, naturalmente, la “riforma” Fornero e il Jobs Act. Ma occorre fare menzione anche e proprio della stessa giornata del Primo Maggio, nei cui confronti è stata effettuata una vera e propria operazione di svilimento sistematico. Non soltanto con la politica delle aperture imposte, ma anche, ad esempio, con l'istituzione di una “Notte bianca” esattamente il 30 di aprile.

Il 1° maggio 1886, i lavoratori di tutto il mondo diedero vita a una mobilitazione straordinaria con lo slogan: “Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire”. Lo sciopero per la riduzione dell'orario lavorativo, partito dalla fabbrica di macchine agricole McCormick di Chicago, si estese a macchia d'olio e centinaia di migliaia di lavoratori incrociarono le braccia. Seguì la sanguinosa repressione, con l'uccisione nei soli Stati Uniti di 21 manifestanti e l'ingiusta condanna di otto organizzatori sindacali Anarchici che avevano preso parte alle proteste. Sette di essi furono condannati a morte (due ebbero la condanna commutata in ergastolo); in onore di tali mobilitazioni, la giornata del Primo Maggio divenne la Giornata internazionale del lavoro. Oggi, anche in Italia, le condizioni di lavoro sono pienamente tornate a quel livello. Presentate come “misure per combattere la crisi”, sono in realtà il risultato di tutti gli attacchi alla classe lavoratrice per ridurla al silenzio e alla schiavitù.

E così, a Firenze ecco che ritorna il Primo Maggio. Non che fosse mai del tutto scomparso: qualche rara iniziativa c'era ancora, qualcuno che ha tentato qua e là di non far spegnere la fiamma. Non si sta parlando dei vuoti ed effimeri “concertoni” romani, della solita piazzona dove famosi artisti più o meno engagés si esibiscono su un palco facendo finta, per un giorno, di essere tutti dalla parte dei lavoratori. Qui si parla di iniziative dal basso, di veri lavoratori, di veri precari, di veri disoccupati, di veri giovani (studenti e non) che non pensano alla solita vituccia borghese e a fare i “cervelli in fuga” tanto strombazzati dai media di regime. Qui non si fugge affatto, e ci si riprende il Primo Maggio così come si deve.

A Firenze, ad esempio, Sindacati di Base e molte organizzazioni cittadine hanno deciso di collegare alcune iniziative pubbliche per la festa del Primo Maggio, per riscoprire e rivendicare il carattere di lotta di questa giornata, rilanciando la mobilitazione unitaria e solidale, per la riduzione dell'orario lavorativo giornaliero a parità di retribuzione, per salari dignitosi, per un giusto regime pensionistico, per la sicurezza del lavoro e sul lavoro.

Un percorso comune che inizierà nel centro di Firenze il 30 aprile alle ore 22, con una iniziativa di comunicazione con cartelli, slogan e striscioni per contestare il carattere consumistico (nonostante il solito pretesto della “cultura” tirato fuori dal Nardellus) della “Notte bianca” esattamente alla vigilia del Primo Maggio; il ritrovo è all'Ateneo Libertario di Firenze, in Borgo Pinti n° 50, alle 21,30.

Il 1° maggio, alle ore 11, si svolgerà un presidio in via Ricasoli, davanti al supermercato Carrefour, contro le aperture festive dei centri commerciali e lo sfruttamento sistematico dei lavoratori del settore della grande distribuzione. Tutti sono invitati a partecipare!

A partire dalle ore 12, ci sarà lo storico pranzo con musica presso il Fondo Comunista delle Case Minime di Rovezzano (via di Rocca Tedalda 277, davanti alla stazione FS di Rovezzano e a 50 m dal capolinea del bus 14 di via Ripa), con interventi di lavoratori, studenti e realtà di lotta. Si tratta di una delle “fiamme mai spente” di cui si parlava prima: al Fondo, il Primo Maggio è stato sempre organizzato dalle compagne e dai compagni del Collettivo, anche quando quasi nessuno più faceva nulla; ed è importante sottolineare che ciò è avvenuto e avviene in una delle principali realtà proletarie (e sottoproletarie) fiorentine dove i fascisti, che altrove oramai imperversano a Firenze con la benedizione delle giunte renziane (tant'è che fior di assessori si fanno pure fotografare assieme al ducetto di Casapound...), non si azzardano nemmeno ad entrare.

Dalle ore 17,30/18 ci si trasferisce tutti di nuovo in centro, in Piazza dei Ciompi (Loggia del Pesce) per una serata di festa e di lotta assieme alle organizzazioni antagoniste e libertarie del quartiere. Fanno la “notte bianca”? E noi gli facciamo una bella Notte Rossa sotto il naso.

Come si può vedere, un'intera giornata di festa, di mobilitazione, di lotta, di (ri)presa di coscienza che le realtà organizzatrici rivendicano con forza invitando tutta la popolazione a partecipare per un'iniziativa di classe e di coscienza. Non a caso è stato voluto, quest'anno, collegare tutte queste iniziative in un percorso comune che coinvolgesse tutta la città di Firenze, dal centro svuotato e vetrinizzato fino alle periferie proletarie. Non ci piace il “bello” di Matteino e del suo figlioccio Nardella, un “bello” di facciata che nasconde l'orrore. Non ci piace il consumismo capitalista mascherato con qualche concertino della solita “musica classica” in due o tre angoletti suggestivi del centro per dare una patina di “cultura”; da noialtri, anche la musica è autoprodotta da ragazzi e ragazze che ogni giorno devono affrontare il precariato, lo sfruttamento, la vita non solo senza “futuro” ma neppure senza presente. E che cantano tutto questo nelle loro forme. Non ci piace e non ci piacerà mai: per questo il Primo Maggio, quest'anno, torna a Firenze.

E ci piace anche rivendicare che la nostra iniziativa comune, preparata e organizzata da tempo saldando iniziative vecchie e nuove per il 1° Maggio, abbia, per così dire, contribuito a “risvegliare” anche altre realtà cittadine che, negli scorsi anni, se ne stavano lì un po' a dormire, oppure a fare pranzetti in famiglia o gitarelle in campagna e al mare. Ci fa un sincero piacere constatare che, quest'anno, tutti quanti si stiano invece dando un gran daffare nelle proprie realtà per il Primo Maggio, destandosi da un torpore che, oggi più che mai, deve trasformarsi in lotta e coscienza di classe. Con la speranza, naturalmente che da quest'anno il Primo Maggio, a Firenze come ovunque, torni ad essere quel che è e che deve essere.

Aderiscono alla Giornata del Primo Maggio a Firenze, Festa Internazionale dei Lavoratori:

Cub Firenze, Cobas Firenze, Usi-Ait Firenze, Sgb Firenze, Collettivo del Fondo Comunista Firenze, FAUC, Partito Comunista dei Lavoratori Firenze, Movimento Lotta per la Casa Firenze, Clash City Workers, Partito della Rifondazione Comunista Firenze, Collettivo SKA Galileo, Collettivo Alberti, Ateneo Libertario Firenze, Collettivo Bujanov Valdarno, Partito dei CARC Firenze.


sabato 23 aprile 2016

*Porkobhera



Dell'antica lingua ligure non si sa molto; però di tracce ne ha lasciate parecchie nei toponimi della zona. Molti toponimi dell'area ligure vengono fatti risalire con certezza a quel remoto idioma, travolto dalla latinizzazione. Verrebbe da dire che le sue ombre si sono rifugiate in valli, forre, foreste, paesini arroccati, e corsi d'acqua; però, su quei nomi, gli studiosi ancora non si sono messi d'accordo. L'oggetto del contendere, è se dall'analisi dei toponimi della Liguria si debba considerare l'antico ligure una lingua preindoeuropea (come il pelasgico, l'antico iberico, e il basco) oppure indoeuropea. Alcuni elementi farebbero propendere per la prima ipotesi, come l'onnipresente suffisso -asco/-asca (Grugliasco, Borzonasca, Carasco...) che si trova in tutte le zone popolate dai Liguri (Piemonte, Lombardia, parte dell'Emilia, arrivando all'Isola d'Elba) e che sembra indicasse un corso d'acqua. Altri elementi farebbero invece propendere per la seconda ipotesi. Che il Ligure fosse una lingua indoeuropea o, perlomeno, "indoeuropeizzata". Uno di questi elementi è, di nuovo, un corso d'acqua decisamente importante.

Il nome del Polcèvera, infatti, deriverebbe da un antico *porko-bhera, che mostra in sé elementi del tutto indoeuropei. Il primo elemento è il nome del "maiale", diffuso in tutti gli idiomi indoeuropei (latino porcus, irlandese òrc - le lingue celtiche insulari sono note per avere eliminato la labiale sorda "p"-, alto tedesco antico farah, farh, inglese farrow "porcellino", greco πόρκος); il secondo è un sostantivo deverbale derivato da uno dei verbi fondamentali, "portare": latino fero, greco φέρω, gotico baíran, irlandese antico beirím, eccetera (c'è ancora, ad esempio nell'inglese bear). Insomma, che vorrebbe dire "Polcèvera", o *porko-bhera? "Portatore di porci"? La cosa si spiega con l'antica e tradizionale denominazione del salmone, detto per l'appunto "pesce porco" forse a causa del colore rosato delle sue carni. Insomma, si pensi un po': "Polcèvera" vorrebbe dire "portatore di salmoni". Come uno dei chissà quanti Salmon River del Canada o del Klondike. Vengono a mente pesci che sguazzano e saltano risalendo limpide acque; e, con un nome del genere, è possibile che il Polcèvera fosse così.


Attualmente, invece, il Polcèvera è così.


Qualche pesce, anche se non era un salmone, ci doveva ancora essere. C'era, appunto.



E così, grazie all'oleodotto che -naturalmente- rispettava tutte le garanzie di sicurezza, il Polcèvera sembra essere finalmente tornato alla sua etimologia primitiva, ma privata della componente ittico-metaforica. Niente più "pesci porco", ma un fiume porco. Un portatore di porcherie. Un maialaio. Un blob di petrolio greggio "dolce" (che ci avranno messo, il dolcificante alla stevia così ai genovesi verrà un cocktail di cancri, ma perlomeno non il diabete?). Un blob nerastro. Sui ponti ci scriveranno "donne incinte" e "il fiume uccide" come sui pacchetti di sigarette. Ma perché ripulirlo? Sia messo in circolo con apposite condutture in modo da poter rifornire il SUV direttamente dal fiume; e se per caso s'infila un salmone nel serbatoio, poco male, ci si fanno anche le pennette che son tanto buone. Dopo questa digressione etimologica, belìn, non mi resta che augurare a tutti buona trivellazione, visto che vi garba tanto e che il 17 aprile siete andati tutti affanquòrum. Salud (si fa per dire).

sabato 16 aprile 2016

La stazione di San Benedetto



Il mio universo ferroviario, oramai, si sta allontanando anche dagli Intercity in direzione del più rigoroso TBV a tutt'andare. "TBV" vuole dire: Treno a Bassa Velocità. Più ci mette e meglio è. Calci nel didietro alla fretta capitalistica. Umanissime e comodissime scomodità; perché vuoi mettere come si sta bene in un regionale mezzo vuoto coi cessi che non funzionano ma dove si può andare tranquilli a fumarsi la sigaretta perché tanto al controllore gl'importa una sega, tornando poi a stendere le gambacce lunghe, facendo quintali di parole crociate o gli esercizi di bretone, guardando il paesaggio che scorre piano dal finestrino e, a volte, dormicchiando mentre ci s'impuzza di treno. Alla malora non solo le "Top Class", ma anche quelle orrende "Frecce" da sessanta euro solo andata, coi tavolinetti, i sedili contrapposti e, soprattutto, la costrizione ad ascoltarsi stronzate di famiglia, idiozie professionali, telefonate di lavoro e discorsi di futuri "cervelli in fuga" (per favore, fuggite alla svelta e non tornate!), perdipiù sistemati malissimo in quella specie di strumento di tortura per tutti coloro che non siano dei nani. Senza contare, naturalmente, che un treno regionale da Prato a Bologna (o da Bologna a Prato, all'incovercio) costa otto euro e dieci centesimi, coi quali ti puoi permettere anche di farti tutte le stazioncine appenniniche, una dietro l'altra. Ma vadano a fare in culo la Centropadana di Reggio Emilia e i superarchitetti, Foster, Calatrava e quant'altri; nessuno saprà mai chi sarà stato il manovale che ha costruito la stazione di San Benedetto.

Non mi ci ero mai fermato, alla stazione di San Benedetto Val di Sambro; mi è capitato per puro caso, pochi giorni fa, in una tarda mattinata splendente. Il fatto è che avevo sbagliato: credevo che dal Piazzale Est di Bologna partisse a una cert'ora l'oramai consueto Bologna-Prato, senza essermi accorto che circolava solo nei giorni festivi. La mettono di solito, questa fondamentale dicitura, in un riquadrino più piccolo di una formica, sui fogli degli orari nelle stazioni; da coscienzioso viaggiatore TBV io guardo ancora i fogli, faccio il biglietto in biglietteria, detesto le macchinette e l'elettronica e mi porto i panini avvolti nella stagnola. Ci avevo pure, quella mattina, la bottiglia del vino; una bonarda un po' svaporata, ma andava bene lo stesso. Un trenino però c'era, al Piazzale Est; solo che si fermava, appunto, a San Benedetto. Fine della corsa. L'ho preso lo stesso, con la prospettiva di aspettare un'ora in cima al valico. Non mi ci ero mai fermato in treno, a San Benedetto; ma trentadue anni prima c'ero andato molto, troppo vicino. Solo dall'altra parte della galleria.

A San Benedetto vanno solo quelli di San Benedetto. A Bologna una ragazza mi chiede se può stare seduta vicino a me, perché dice che c'è un tipo strano sul treno; ma figuriamoci. Una volta, sulle Calabro-Lucane da Camigliatello e San Giovanni in Fiore, due ore e mezzo per fare sessantotto chilometri, a Silvana Mansio vidi salire in treno un tizio con un mazzo di fiori e un fucile a tracolla; un'altra, poco prima della stazione di Populonia-Baratti, salì invece uno in costume da bagno. Nient'altro. Rideva. La ragazza, rassicurata, si mette a giocherellare con lo smartphone e io dormo un pochino; si arriva a San Benedetto e scendo. Non c'è assolutamente nessuno. Trentadue anni dopo, un riquadrino orario letto male mi ci ha fatto andare; e immagino subito che cosa ci sia appena fuori dalla stazione.

  
C'è questo. Una targa apposta su un muro di pietre, sotto una ringhera arrugginita con il simbolo delle FS. Era una domenica sera, due giorni prima di Natale; avevo poco più di ventuno anni e già facevo il volontario sanitario sulle ambulanze, a Firenze. Il turno della domenica sera, dalle 20 alle 24, era fisso; e non succedeva mai niente. Si stava lì a chiacchierare, a guardare la televisione, a leggere; ma quella sera c'era presa un po' diversa. La sede della sezione della grande associazione dove prestavamo servizio si trovava, pensate un po', nello scantinato di una chiesa parrocchiale; si scendevano delle scale e, da una parte, c'era una specie di salone che serviva per le feste e per i bambini. Dall'altra, c'era l'ingresso della sezione dell'associazione. Se per caso si sbagliava lato e si entrava nel salone, si veniva accolti da un enorme e inquietante fungo di cartapesta con la cappella rossa. La sezione era piena di sedie. Non si sa bene a che cosa servissero, tutte quelle sedie, visto che normalmente al massimo ci saranno state dieci persone tutte assieme in servizio; può darsi che la sezione servisse un po' anche da deposito. Non succedeva mai nulla, e quella domenica sera, il 23 dicembre 1984, ci prese il bischero di metterci a fare la lotta con le sèggiole. A tirarcele dietro, facendo un casino della madonna (e la madonna, in una parrocchia, ci sta decisamente bene). L'autista di turno, a un certo punto, esclamò: Sai icché si fa? 'E si distrugge ogni hosa! E giù risate. S'era proprio allegri e si faceva a seggiolate, quando i telefoni saltarono. Tutti e tre insieme; quello ordinario, quello delle urgenze e quello del 113, con cui s'aveva un collegamento diretto. Cazzo succedeva? Lo si seppe in trenta secondi. Recarsi di corsa a Vernio per un incidente ferroviario. Da Firenze. Se ti mandavano da Firenze a Vernio, quarantacinque chilometri a dir poco, doveva essere successo un macello. A Vernio comincia la galleria. Nella galleria c'era già stato, dieci anni prima, un incidente ferroviario


Mi aggiro, in una mattinata d'aprile di trentadue anni dopo, all'esterno della stazione di San Benedetto con uno zaino bisunto a tracolla e una fotocamerina digitale. Il poliziotto di servizio alla stazione mi osserva senza dirmi nulla. Chiudo gli occhi senza chiuderli. Si parte con la sirena e si accende la radio; c'è una voce che dice, anzi ordina: per le ambulanze da Firenze, uscita Piano del Voglio. Poi si corregge; chiedo scusa, uscita Roncobilaccio. Dalla radio si sentono altre sirene che chiedono conferma; la stessa voce dice che l'autostrada viene tenuta sgombra per i mezzi di soccorso. Interviene un'altra voce per radio che chiede di controllare le bombole d'ossigeno e l'altra attrezzatura. Ne interviene un'altra che chiede se sia una bomba. Nessuna risposta. Tanto lo si sa già. C'ero sì, andato vicino, trentadue anni prima, a San Benedetto. Quando si arrivò a Vernio, fuori dalla stazione c'era un delirio mentre nevicava fitto; saranno state trenta, quaranta, cinquanta ambulanze coi lampeggiatori accesi, senza contare i pompieri, la polizia, i carabinieri. Dall'ingresso della galleria non si vedeva uscire quasi nulla, o perlomeno mi sembrò così; dalla parte di Vernio tirarono fuori poca gente ferita o semplicemente in stato di choc, da portare all'ospedale di Prato o a Firenze. A me e alla mia squadra non toccò nessuno, anche se comunque si rimase lì fino alle sette di mattina. Non avevo visto nulla. Il treno, il rapido 904, lo tirarono fuori dall'altra parte, come dieci anni prima. A San Benedetto.


Il poliziotto, alla fine, non ce la fa più. Mi si avvicina e mi chiede come mai sto fotografando lapidi, monumenti, ogni cosa. Ha un fare gentile, però; e allora gli dico che, trentadue anni prima, avevo fatto parte delle squadre di soccorso. Mi chiede persino scusa, mi dice che non voleva disturbare e che era solo curioso. "Sa, davvero, qui non si ferma mai nessuno a parte i locali". "Locali", un tempo, si chiamavano anche dei treni, quelli più infimi; gli dico, "Già qui si sono fermati i rapidi invece. Ce li hanno fatti fermare". Mi saluta e se ne va entrando nel bar, che si chiama "Il Pendolino". Treni. La parola che ha più anagrammi nella lingua italiana: treni, Inter, terni nome comune, Terni nome di città, trine, entri. Se dici "i treni", puoi fare anche "interi" e "retini". Da "bombe", invece, si può fare solo "Bembo", come Pietro Bembo. Da "stato" si può fare "tasto" e "tosta". Non lo so perché mi vengono in mente queste cose, non lo so. 

Il "monumento" all'Italicus, il treno 1486, è di fianco alla stazione di San Benedetto. Davanti al giardinetto, perché prima nelle stazioni mettevano i giardini e non c'erano gli architetti. Mi viene da pensare lì per lì che il monumento sia stato fatto utilizzando un pezzo di quel treno, o un pezzo di strage di stato, o un pezzo di strategia della tensione; ma forse non è così. E comunque un pezzo di vagone, con delle mani nere e metalliche che sporgono. Sarà stato, forse, così, quel quattro di agosto del 1974 alle ore 1.23 del mattino. Tutta la linea è stata completata: la borsa messa a Firenze, l'Italicus, il 904, la stazione di Bologna. Poi è toccato anche a Firenze, ma in pieno centro; e allora m'è toccato vederlo perbene, l'inferno. Quello che hanno visto a San Benedetto per due volte. Le mani. Il fumo. E allora continuo a aggirarmi, per quello che posso visto che alle dodici e cinquantasette passa il regionale per Prato. Mi ci sono fermato, finalmente, a San Benedetto; la giornata continua a essere splendida anche se, a quell'altezza, proprio caldo non fa. Soffia un vento di montagnetta e abbasso la testa. Trentadue anni prima nevicava come iddio la mandava, faceva un freddo terrificante e stavo all'ingresso di una galleria dove era entrato un treno, la stessa galleria che, alle dodici e cinquantasette, dovrò fare, chissà, per la millesima volta in vita mia. Magari dormendo, o facendo le parole crociate, o un esercizio in qualche strana lingua.

Ho il tempo, però, di andarmi a mangiare i panini nella stagnola. Vado in sala d'aspetto perché fa freddo. C'è una signora giovane che aspetta pure lei qualche treno e che, con squisita originalità, spippola su un telefonino; mentre mi metto a mangiare e a bere la bonarda svaporata, decido di essere molto composto. Normalmente non lo sono granché, non posso essere definito un modello di belle maniere. Però cerco di starci attento, di fare movimenti lenti, di masticare bene, di pulirmi le mani e la bocca, di andare a buttare i rifiuti nel cestino. Di fare il buon cittadino di questo paese che ha fatto saltare i treni in galleria e le stazioni intere. Di questo paese che è l'unico al mondo dove una deliziosa stazioncina di montagna col giardinetto e il pesco in fiore è disseminata di lapidi, di monumenti, di mani nere, di ferraglia contorta, di decine di lampeggianti sotto la neve, di agosti macchiati di sangue che solo per un caso non è il mio, o il tuo.

In mezzo al monumento alla strage dell'Italicus c'è una ragnatela. E' quella che si vede nella prima foto, quella sotto il titolo. Non è enorme, ma è spessa, ben fatta, indisturbata. Ha tutta l'aria di essere lì da parecchio tempo, e il ragno ha scelto proprio una delle mani simboliche per tesserla. Magari mi sono chiesto se poteva voler significare qualche cosa, perché per natura e per attitudine sono uno che cerca significati anche dove non ci sono. Chissà, mi sarò detto che una ragnatela sulla memoria ha una sua squisita e amarissima ironia, dato che la parola "ironia" significa, in origine, "dissimulazione". Però, a pensarci bene, quel monumento sembra fatto apposta per tesserci sopra una ragnatela; bisogna fare uno sforzo e mettersi dalla parte del ragno. A lui importa di acchiappare gli insetti, e li acchiappa. Ecco, è arrivato il treno; fra quaranta secondi s'infilerà nella lunghissima galleria popolata di ombre sempre più flebili sulle quali si sono stese le ragnatele del potere.

domenica 10 aprile 2016

Tu chiamale se vuoi: rimozioni



A volte, è vero, si sta un po' fermi. Non è nemmeno che si sta "a fare il punto della situazione", come si dice in banalese, o a fare chissà quale bilancio o pensiero esistenziale. Ma figuriamoci; l'esistenza è una battaglia quotidiana, da combattere giorno dopo giorno con le (poche) armi a disposizione, quasi tutte peraltro fatte di sbagli e di dubbi. Non c'è tempo per i pensieri, esistenziali o meno. C'è tempo soltanto per andare avanti, in qualche modo e persino in qualche non-modo.

Andando avanti, però, capita di dovere operare qualche rimozione. Il più delle volte avviene nel più perfetto silenzio, e non solo per quel che riguarda una cosa come un "blog". Un "blog" non è nulla, non significa nulla. Un diario generalmente assai poco giornaliero, e stop. Quando se ne ha voglia, e quando no. Quando non c'è niente di meglio, o di peggio, da fare. A volte, come oggi, permette però di sancire qualcuna di quelle rimozioni, in un certo qual modo anche fisicamente. Foss'anche puramente simbolico, ma fisicamente. E allora, si può quasi ricominciare, magari senza invocare tanto "coscienze pulite" perché se c'è una cosa che ho appreso sulla mia pelle, è che la coscienza pulita non ce l'ha nessuno. Massimamente coloro che la sbandierano tanto.

E allora sì, tu chiamale se vuoi: rimozioni. Via dai coglioni. Raus. Che siate tanti o che siate pochi. Che siate simpatici o antipatici. Che siate forti o che siate deboli. Che vi dichiariate o che che preferiate, come è quasi naturale, restare anonimi. Rimozione forzata e nessuno verrà a reclamarvi; e chissà che un giorno non veniate battuti all'asta, come succede in questi casi. Let's go ahead.