lunedì 25 gennaio 2010

Faccia senza book




Contrariamente al solito, questo post non avrà nessuna illustrazione. È un po' di tempo che non parlo di me; un'abitudine che prima avevo e che considero, forse con una agudeza, l'esatta antitesi del narcisismo. Parlare di se stessi non significa specchiarsi, e neanche proporsi come oggetto di attenzione o di lettura: significa, semplicemente, fermarsi per un po' e dirsi due parole che possano avere una qualche ragion d'essere. Parlare di sé in pubblico (perché questo, nonostante la componente asociale, è e rimane un luogo pubblico, di libero accesso) è, poi, un esercizio assai proficuo di moderazione. Si deve immaginare chi possa leggere quel che si sta scrivendo, e dirsi: sono così, e così mi sento, in questo momento. Senza immagini. Senza fotografie. Senza occhi. Comincia la descrizione; e non ho mai scordato le parole di Aldo Palazzeschi.

Una volta chiesero a Palazzeschi come avesse imparato a comporre scrivendo. Rispose che, non avendo (come me) il benché minimo talento per la pittura e il disegno, aveva iniziato a "dipingere con le parole". Prendeva un oggetto qualunque (una mela, la maniglia di una porta, un vaso di fiori) e iniziava a descriverlo minuziosamente per iscritto. Ho letto quest'affermazione di Palazzeschi quando avevo quindici o sedici anni, e ho subito cominciato a fare altrettanto. Non riuscendoci, naturalmente. Sembra una cosa semplice, ed è invece tra le cose più difficili che esistano. Ora, poi.

Ora che tutto, assolutamente tutto, è immagine, e immagine immediata. Il trionfo della subitaneità. Ti fai scattare una foto, o te la scatti da solo (come io stesso ho fatto) con la fotocamera digitale, e la metti dove vuoi. Sul tuo blog, su un album online, su un sito e, ovviamente, su Facebook, nel regno incontrastato delle facce. Tutto oramai è faccia. Le campagne elettorali, ad esempio, sono diventate solo facce che hanno relegato i simboli nel dimenticatoio. Si "vota" per questa o per quella faccia, e per quello che sembra dirti, e non per il (peraltro finto) "raggruppamento" cui proclama sempre più stancamente di appartenere.

E, allora, in una certa notte che per me ha un dato valore che non intendo dire, voglio provare a riprendere in mano la matita, anche se si tratta comunque di una tastiera. Eliminare le immagini, compresa la faccia che ho in questo momento; perché, sapete, è già molto diversa da quella che avevo ieri, e altrettanto diversa da quella che avrò domani. Quel che i fissatori di facce non hanno ben capito nei loro networks più o meno "sociali", è che se volessero davvero dare un'idea di chi c'è dietro a quella pagina dovrebbero far sì che le fotine cambiassero dieci, venti, cinquanta volte al giorno. Quelle foto non fissano niente. Anche la foto autoscattata che ho qui su questo blog non significa più niente; è com'ero tre, quattro, cinque mesi fa quando ce l'ho messa. Dopo dieci minuti non è più una faccia, ma diviene un marchio di fabbrica, un simulacro di qualcosa che non c'è più, e che non potrà esserci più; ed è per questo che, sempre di più, sono convinto che tutte le raccolte di facce, di qualsiasi natura e dimensioni, siano dei disperati cimiteri in cui milioni di persone vanno a seppellirsi.

La mia faccia, in questo momento, ha un'espressione abbastanza assente; quella consueta, del resto, quando scrivo. La scrittura mi assorbe talmente da farmi generalmente assumere le espressioni più ebeti che si possano immaginare. Altra cosa consueta, è il mio tic, o vizio, di inumidirmi i baffi superiori con il labbro inferiore, di arcuare poi il sopralabbro superiore e di annusarmelo col naso. Non saprei esattamente dirne il perché, ma è un gesto che ho fin da piccolo. Mi piace quel particolare odore, che peraltro è assai variabile, e la sensibilità personale agli odori (anche ai propri) è un terreno generalmente inesplorato quanto minato (specialmente quando si cerca di parlarne: provate un po' a descrivere un odore tentando di darne un'idea sufficiente).

Ho i capelli (scuri, ma con fili bianchi che cominciano a vedersi), in questo momento, esageratamente lunghi per i miei standard; non me li taglio più da oltre un anno. Durante la giornata li tengo raccolti, dietro, in una coda di cavallo che sta raggiungendo una lunghezza ragguardevole. Ciò ha generato, e comporta, dei gesti nuovi, che non conoscevo quando mi tagliavo i capelli regolarmente (tenendoli peraltro piuttosto corti in estate, dato che sudo molto): per esempio, quello di raccogliere dietro agli orecchi le ciocche che "scappano" dalla coda di cavallo. Un gesto che fanno solitamente le ragazzine, e che va aggiungersi ai miei gesti femminei. Potrà far sorridere chi mi conosce, questa parola, dato che sono un "coso" grosso e peloso, e decisamente sgraziato (specialmente nell'andatura); eppure, abbastanza nascoste, ho tutta una serie di piccole eleganze che conosco soltanto io, e che mi tengo strette. Poiché non si vedono, sono ottime per impedire ogni forma di ostentazione, di affettazione; e preferisco di gran lunga che si creda che non esistano, piuttosto che mi vengano fatte rimarcare. Si vede forse, ora, questo gesto che però cerco di non fare quasi mai davanti agli altri; non per vergogna, ma perché dev'essere solo mio.

Quando mi sciolgo i capelli, ad esempio prima di andare a letto, li scuoto con la testa; oramai, più o meno, sembro il Cugino It della Famiglia Addams. La barba, che portavo un tempo "disegnata" a lasciare scoperte le guance (le famose guanciotte paffute che mi tartasseranno sempre) e, per un dato periodo, addirittura ridotta ad un misero pizzo sul mento, è ora stata lasciata libera. Copre guance e ogni cosa. Non avrò comunque mai una faccia scavata, neppure con il passare degli anni; la mia non è una faccia che esprime sofferenza. È larga, seppure abbastanza regolare, e magra non sarà mai. La barba è servita, fin dai primi momenti, a cercare di attenuare il prognatismo che è tipico della famiglia Venturi (mio padre lo chiamavano Il Bazza nel suo ufficio, e a volte Menturi); non ci è ovviamente mai riuscita del tutto. Ora, forse, un po' di più: sul mento è veramente folta. Me la devo un po' regolare con il curabarba elettrico, ma lo faccio in un modo curioso: senza mai usare i supporti pareggiatori forniti con l'apparecchio. A mano libera, anche per curarmi (oltre alla barba) uno dei miei poveri miti, quello della mano ferma. Ma sono tuttora capace di versare un liquido da una bottiglia all'altra senza imbuto, e senza farne cadere una goccia; è un peccato che non abbia mai avuto una gran mira, altrimenti non sarei stato male come sparatore.

Gli occhiali li porto sempre, e fissi. Sono miope da quando avevo sedici anni, e ho sempre cordialmente odiato le lenti a contatto. Ultimamente, però, per leggere da vicino sono costretto a levarmeli perché ho delle difficoltà abbastanza grosse. Mi patullo con due paia di lenti, uno con la montatura ovoidale (e lenti più deboli) e l'altro con la montatura rettangolare smussata, con lenti più forti. Con quello devo guidare. Guidare, attualmente, è il mio lavoro. Ho letto, nella mia vita, una caterva di libri; e sempre con la meravigliosa capacità di dimenticarmeli tutti. Più vado avanti nella mia vita, è più mi accorgo che non si è affatto "quel che si legge", e che soltanto pochi libri (per non dire pochissimi) hanno avuto su di me un'influenza durevole, contribuendo a "farmi" nel modo in cui sono, giusto o sbagliato che sia. Quel che sono, sempre giusto o sbagliato che sia, me lo sono fatto da me; casomai dovrei parlare dell'influenza di certe persone, anche loro giuste o sbagliate che siano, o che siano state. Il resto sono fatti. Eventi. Episodi, anche apparentemente banalissimi. Bivi. Osservazione. Il dato libro mi ha potuto insegnare a scrivere (sempre tenendo conto che cos'è per me la scrittura) e a esprimermi, ma non mi ha mai sopraffatto. Mi sono sempre rifiutato di farmi pigliare la mano da un libro, perché io conto molto di più anche del più grande autore, o poeta, o saggista della storia. C'è un solo libro al mondo che mi ha parlato davvero; si chiama Gnanca 'na busia e lo ha scritto, raccontando la sua povera e difficilissima vita, una contadina delle campagne mantovane, mezzo in dialetto, mezzo in italiano sgrammaticato, e scrivendolo con la biro sopra un lenzuolo bianco. Riempiendolo.

Il naso e la bocca sono sempre quelli; dovrei dire "regolari", o qualcosa del genere; ma è una parola che non vuol dire niente perché, in una faccia, di regolare non c'è nulla. Ma non hanno caratteristiche salienti. Non ho labbra particolarmente carnose, e l'apertura buccale non è né piccola, né esagerata. Il naso non ha una particolare forma che lo faccia riconoscere: non è né "a patata", né "aquilino", non ha bitorzoli, non ha foruncoli, non ha nulla di particolare. Gli zigomi sono abbastanza rialzati, come è normale per i titolari di guance paffute; poi ci sono gli occhi, e parlare degli occhi è un'impresa.

Non avendo di quelle facce che esprimono gli stati d'animo da sole, agli occhi è affidato tutto. Ho gli occhi scuri, e piuttosto grandi, e discretamente mobili. Credo che vi si legga abbastanza facilmente come sto, sempre naturalmente a volerlo fare; ché non è mai detto che interessi a qualcun altro come stia Riccardo Venturi, e dove in realtà vadano i suoi sguardi, e a chi, e a che cosa oltre l'immediata circondanza. Spesso sono, però, assenti; o rivolti all'indentro, qualunque sia il significato che si voglia dare a quest'ultima espressione. Mi accorgo comunque senza problemi di quando, per una particolare circostanza, lieta o dolorosa, ho uno sguardo un po' fuori dall'ordinario; mai a comando, però. Non amo comandare agli occhi di assumere una determinata espressione; li lascio liberi.

Ovviamente, nessuno di chi legge (che mi conosca o meno, che mi abbia visto per l'ultima volta due ore o due secoli fa, che mi voglia bene, mi voglia male, mi ami, mi disprezzi o mi ritenga indifferente o insignificante) si sarà fatto un'idea esatta di come sono, vale a dire dell'aspetto della mia faccia in questo momento, davanti alla tastiera, il 25 gennaio 2010 alle ore 1.47 del mattino. Ed è questa, probabilmente, la cosa più importante. La descrizione, il dipinto a parole, lasciano campo libero all'immaginazione pur dando qualche elemento assolutamente reale. Si può così esercitare l'arte mentale del figurarsi, che può in alcuni casi generare il desiderio e la curiosità (come può, ovviamente, non generarlo affatto). Era così, tra le altre cose, che funzionava ai primi tempi di Internet, quando la possibilità di inserire immagini era fortemente limitata. Si pigliava, a un certo punto, il treno, la macchina, il carretto, i piedi o qualunque altro mezzo di locomozione, e ci si andava a conoscere. "Ma guarda te! Ti immaginavo proprio così!"; oppure: "Non avrei mai creduto che tu fossi così!". Mi sono capitate entrambe le cose. Era una di quelle piccole cose belle: doversi riconoscere a lume di naso, e per immaginazione.

Non è più così. Ora si va sul sicuro. L'immaginazione ha lasciato il posto, anche in Internet, ad una cupa sicurezza tristemente omologata. Le realissime fantasie di una volta, che venivano capite al volo e fruite, hanno lasciato il posto ad una serie di codici talmente rigorosi da poter essere definiti tranquillamente codici fiscali. Si dev'essere quel che si è, e basta. Un ufficio anagrafico, una carta di identità con tanto di faccia bella spiattellata ovunque. Le storie che si raccontano devono essere sempre documentate e ben illustrate, sennò arriva qualcuno a dirti che ci ricami sopra; osservazione fatta generalmente da chi non sa nemmeno come si comincia a raccontare una storia, né ha mai preso in mano un ago per ricamare. Le storie devono venire da libri, libriccini, filmini, televisioncine, e mai dalla propria vita che dà tutti gli strumenti per elaborarle oltre la realtà dei fatti; un mondo fatto di piccoli sputasentenze che non sono né storici, né inventori. Bel servizio hanno fatto loro, le loro gran letture.

E, allora, stanotte ho parlato della mia faccia, senza nessun book. Potrebbe anche darsi che non sia così e che mi sia rapato a zero. Che non abbia più un pelo nemmeno a cercarlo. Potrebbe darsi tutto quanto, e pensare che sei qui a cento metri da me e te ne stai là rinchiuso a terminarti la vita su facce e faccette riquadrate. Brutta fine, caro mio, cara mia. Pessima. E, devo dirlo, ci hai anche una discreta faccia a culo. Almeno quella che si vede sul tuo blog o sul tuo network del cazzo.