Da un paio d'anni ho ripensato a tutto quel che c'era da ripensare. Alla fin fine, poi, a qualcosa si deve arrivare perché ne ho abbastanza degli eterni giocherellamenti con la vita. Si ripensa com'è giusto che sia, e poi si traggono delle conclusioni. Sto andando verso una parte della vita, che poi è anche l'ultima, che non m'invoglia più al balocco fine a se stesso. Gli eterni bambini sono tanto bellini e pure romantici, ma come tutti i bambini sono anche delle squisite carogne. Il che non significa affatto rinunciare ai propri sogni e alle proprie speranze, e neppure rinnegare quel che si è stati e quel che si è (più o meno) fatto. Ma ora non ho più un bel nulla da ripensare. Mi sono fatto un'idea precisa di tutto quel che mi è stato possibile. Non ho più da desiderare di restare simpatico o antipatico, e non ho più niente da dimostrare -massimamente a me stesso. E, allora, si può tranquillamente mandare affanculo anche settembre e tutta la sua mitologia e simbologia, più o meno poetica. Si può mandare al gas soprattutto la sua pretesa malinconia. Si può eliminare il mese del ripensamento, finalmente. Ricondurlo ad essere il nono mese dell'anno che un tempo, come dice il suo nome, doveva essere il settimo. Prenderlo com'è, mettersi un golf quando le serate cominciano a essere più fresche, vedersi aumentare l'età di un altr'anno, preoccuparsi per le bollette e per un avviso dell'Equitalia, ribestemmiare nel traffico cittadino, mangiare un cosciotto di qualcosa a una trattoria popolare, andare a trovare un amico nella sua nuova casa dove si sentono passare i treni, leggere un libro, versare i croccantini nella ciotola del gatto, arrovellarsi quando le circostanze lo impongono, e rifiutarsi di farlo quando invece non lo impongono affatto. L'autunno e l'inverno non mi piacciono e continueranno a non piacermi, ma quest'anno non me ne farò una malattia o quasi; non ho più voglia di abdicare a malinconie standardizzate.
Si può e si deve mandare affanculo settembre per tutto ciò che ha di falso, di costruito. In parecchie parti del mondo è il primo mese di primavera. Fra un giorno parto, e parto per la mia, di primavera; non è fatta né d'alberi in fiore né di natura che si risveglia, ma di un treno e di sessantacinque scalini belli ritti di fronte a un giardino dove c'è pure uno scoiattolo. Nel frattempo, nutro verso gli altri un atteggiamento di libertà totale: il ripensamento, che ha peraltro attraversato un settembre al pari di tutti gli altri mesi, mi ha portato a non avere più nulla da criticare e più nulla da augurare. Ognuno è com'è; ognuno è un settembre. Sarebbe, questa, una cosa semplicissima; eppure, per arrivarci, ci vuole una vita intera. Ognuno coi suoi volti e i suoi luoghi. Ognuno con i suoi tempi. Ognuno con le sue bellezze ed i suoi schifi. Ognuno con il proprio modo di mettere un piede nella morte e cavarlo con la vita appiccicata come un'alga. Ognuno con le proprie vertigini dall'alto e dal basso. Ognuno con le proprie dichiarazioni di lotta che è costantemente lotta per isolarsi dagli altri ognuni; ognuno con le proprie dichiarazioni di isolamento che è costantemente isolamento teso ad una riunione, un giorno, un minuto, un anno, un mese che magari potrebbe essere settembre. Si trova per poi perdere, e si perde per poi ritrovare.
Può cominciare, allora, il settembre vero. Quello liberato da ogni maschera che gli è stata messa addosso. Un settembre disobbligato. Fuori dalle palle Woody Allen e la villa nel Vermont: Giuseppa ama Evaristo, il quale però ama Clotilde che a sua volta è amata in silenzio da Romualdo. In ventiquattr'ore succede un bordello di rancori ed emerge il passato drammatico. Ecco quel che hanno combinato al povero settembre. Il mese dei ripensamenti, delle malinconie, dei rancori, degli attentati, dei colpi di stato, dei rientri, delle bollette che a settembre sono più bollette, delle solitudini che a settembre sono più sole. E basta. C'è pure Settembre Nero. C'è che, stasera, settembre è venuto da me e mi ha detto di passare alla riscossa. In realtà, questo post lo ha scritto lui; si è mandato persino affanculo da sé. Anche lui, come me, è nato in settembre. Ci abbiamo un sacco di cose in comune: beh, non tutte. Ad esempio, io non cado le foglie; lui invece non osa adoperare arditamente gli intransitivi come transitivi. Lui passa sempre per il Central Park e io per la Montagnola di via dell'Argingrosso. Qualche differenza c'è. Però tutti e due amiamo immensamente mandarci in culo da soli, ristrutturarci, scompigliare, sparigliare. Però siamo anche diventati un po' più grandi. Hanno smesso, finalmente, di rimandarci a settembre. E non cadiamo più le foglie, e non moriamo la vita.
Si può e si deve mandare affanculo settembre per tutto ciò che ha di falso, di costruito. In parecchie parti del mondo è il primo mese di primavera. Fra un giorno parto, e parto per la mia, di primavera; non è fatta né d'alberi in fiore né di natura che si risveglia, ma di un treno e di sessantacinque scalini belli ritti di fronte a un giardino dove c'è pure uno scoiattolo. Nel frattempo, nutro verso gli altri un atteggiamento di libertà totale: il ripensamento, che ha peraltro attraversato un settembre al pari di tutti gli altri mesi, mi ha portato a non avere più nulla da criticare e più nulla da augurare. Ognuno è com'è; ognuno è un settembre. Sarebbe, questa, una cosa semplicissima; eppure, per arrivarci, ci vuole una vita intera. Ognuno coi suoi volti e i suoi luoghi. Ognuno con i suoi tempi. Ognuno con le sue bellezze ed i suoi schifi. Ognuno con il proprio modo di mettere un piede nella morte e cavarlo con la vita appiccicata come un'alga. Ognuno con le proprie vertigini dall'alto e dal basso. Ognuno con le proprie dichiarazioni di lotta che è costantemente lotta per isolarsi dagli altri ognuni; ognuno con le proprie dichiarazioni di isolamento che è costantemente isolamento teso ad una riunione, un giorno, un minuto, un anno, un mese che magari potrebbe essere settembre. Si trova per poi perdere, e si perde per poi ritrovare.
Può cominciare, allora, il settembre vero. Quello liberato da ogni maschera che gli è stata messa addosso. Un settembre disobbligato. Fuori dalle palle Woody Allen e la villa nel Vermont: Giuseppa ama Evaristo, il quale però ama Clotilde che a sua volta è amata in silenzio da Romualdo. In ventiquattr'ore succede un bordello di rancori ed emerge il passato drammatico. Ecco quel che hanno combinato al povero settembre. Il mese dei ripensamenti, delle malinconie, dei rancori, degli attentati, dei colpi di stato, dei rientri, delle bollette che a settembre sono più bollette, delle solitudini che a settembre sono più sole. E basta. C'è pure Settembre Nero. C'è che, stasera, settembre è venuto da me e mi ha detto di passare alla riscossa. In realtà, questo post lo ha scritto lui; si è mandato persino affanculo da sé. Anche lui, come me, è nato in settembre. Ci abbiamo un sacco di cose in comune: beh, non tutte. Ad esempio, io non cado le foglie; lui invece non osa adoperare arditamente gli intransitivi come transitivi. Lui passa sempre per il Central Park e io per la Montagnola di via dell'Argingrosso. Qualche differenza c'è. Però tutti e due amiamo immensamente mandarci in culo da soli, ristrutturarci, scompigliare, sparigliare. Però siamo anche diventati un po' più grandi. Hanno smesso, finalmente, di rimandarci a settembre. E non cadiamo più le foglie, e non moriamo la vita.