martedì 6 novembre 2007

Non è morto nessuno



O meglio, è morta tanta gente. Il personaggio famoso e decine, centinaia di perfetti sconosciuti. Come si suol dire, ripòsino tutti in pace; oppure ripòsino come più loro aggrada. Libertà anche nell'eterna quiete.

Non conoscendo bene la situazione degli altri paesi, mi limito a detestare una delle caratteristiche che trovo più odiose del giornalismo nostrano: quella di autocelebrarsi. La detesto perché non ne esiste nessun motivo plausibile. Non è questione di scrivere più o meno bene; è questione di quel che si dice. E' questione di come si agisce.

In questo, Enzo Biagi è stato un giornalista di regime né più e né meno degli altri suoi colleghi. Sicuramente più dotato di altri, ma con la stessa propensione di tutto il giornalismo italiano ad avere comunque un padrone (spesso variabile, ma comunque un padrone), e con la stessa capacità di non dire assolutamente nulla dando l'impressione di dire tante cose. Oh, anche questa sarà un'arte; se la avessi avuta, magari avrei fatto il giornalista anch'io.

Al pari dei suoi colleghi, la carriera di Enzo Biagi si è svolta interamente all'interno della tv e della stampa di regime. Giocoforza hanno tutti quanti, fra di sé, una "grossa stima reciproca" al di là delle "posizioni" che propugnano: chi va col padrone di destra, chi va con la Confidustria, chi va con la "sinistra", chi va con Berlusconi e chi con gli Agnelli. Con qualche incidente di percorso, va da sé. Si fanno, a volte, la guerra in nome dei loro padroni. Il fascista fondatore del "Giornale", Montanelli, quello che invitava a votare DC turandosi il naso, alla fine della vita sterzava a "sinistra" per dissidi col vecchio padroncino.

Biagi, invece, comincia la carriera con un licenziamento dal "Resto del Carlino" di Bologna, accusato di essere un "comunista sovversivo" perché aveva firmato il manifesto di Stoccolma contro la bomba atomica. Dopo varie vicissitudini, nel 1971 del "Resto del Carlino" diventa direttore. Il "comunista sovversivo", nel 1975, dà una grossa mano all'amico Montanelli nella fondazione del "Giornale". Insomma, una perfetta carriera.

Poi, al momento della loro umana dipartita, ecco i coccodrilli, ecco le lodi sperticate, ecco quel che facevano in gioventù. Chi era fascista e chi era partigiano. Chi andava volontario in Abissinia e chi in "Giustizia e Libertà". La gioventù avventurosa, o almeno una parte di essa, fa necessariamente parte dell'iconografia del giornalista di regime italiano. Non mi è mai riuscito capire come mai nessuno di questi grandi giornalisti sia morto in combattimento, in Abissinia o nella guerra partigiana. Tutti belli vivi.

Nei coccodrilli post-mortem, tutti sono "maestri" e tutti "coraggiosi". Sulla loro maestria nel destreggiarsi nell'informazione di regime, non c'è francamente nessun dubbio. A volte riescono perfino a trasformarsi in buffi martiri per essere rimasti cinque anni senza comparire in video grazie a una leticata con il politicante di turno; il quale politicante, va da sé, poi "chiede scusa" e oggi porta il suo bravo mattoncino ai cordogli nazionali.

Sul "coraggio" di costoro, invece ci avrei qualcosina da dire; ma si sa come va da queste parti. Il coraggio, in Italia, corrisponde sempre ad avere il giusto protettore facendo però credere di non averne nessuno, e di essere "indipendente". Mi si perdoni se, al posto del cordoglio, io ci ho una sghignazzata; è uno dei vantaggi dell'essere un signor nessuno, e me ne approfitto biecamente.

Così come la ho nel vedere tanti bravi amici, signori nessuno come me, accodarsi ai rimpianti, alle lodi, alle "grandi perdite" e a quant'altro. Avete perso, ladies and gentlemen, un pennaiolo che, certamente, la penna la sapeva usare con proprietà e bello stile. Mo' tenetevi i pennaioli analfabeti, ma la sostanza cambia poco o punto.

Non è morto proprio nessuno, oggi. E' morto, serenamente e munito di tutti i conforti, un vecchietto di ottantasett'anni; gli andrebbe tributato al massimo un buon viaggio. Ma non è morta l'informazione, quella vera; quella è già morta da un pezzetto, oppure se ne sta nascosta in luoghi che non avranno mai nessun cordoglio e nessun coccodrillo.

1 commento:

  1. La memoria selettiva di Enzo Biagi
    di Gaspare De Caro e Roberto De Caro
    (da Carmilla Online)

    Nell'intervista concessa a Luciano Nigro in occasione dei
    festeggiamenti per il suo ottantasettesimo compleanno nella natia
    Pianaccio di Lizzano in Belvedere e pubblicata il 9 agosto scorso
    sull¹edizione bolognese di Repubblica, Enzo Biagi racconta che
    «Giorgio Pini, cognato di un mio zio che si chiamava come me, incontrò
    Mussolini alla vigilia del gran consiglio che lo destituì», cioè poco
    prima del 24 luglio 1943. Nigro chiosa: «Lei in quei giorni scelse i
    partigiani». Biagi non fa una piega: «E mi trovai con gente
    di ogni classe». Non è certo la prima volta che l'illustre giornalista
    glissa sui particolari, e crediamo sia giusto informare i lettori che
    non fu affatto «in quei giorni» che «scelse i partigiani», poiché qui
    le date contano e l¹omissione non è innocente.

    In virtù della parentela con il cugino Bruno Biagi ­ potente ras
    fascista, deputato dal ¹34, presidente della Commissione industria
    della Camera dei fasci e dell¹Istituto nazionale fascista della
    previdenza sociale, poi sottosegretario alle Corporazioni ­, Enzo
    Marco (così firmava all'inizio i suoi articoli) scriveva già
    diciassettenne sull "Avvenire d'Italia" e su L'Assalto, «organo della
    federazione dei fasci di combattimento di Bologna», e in seguito su Il
    Resto del Carlino, dove divenne professionista nel giugno del '42,
    quotidiano che per razzismo e fanatismo non era da meno e che fu
    diretto a partire dal 16 settembre del ì43 proprio da Giorgio Pini.
    Partecipò anche a "Primato", la rivista di Giuseppe Bottai, il
    ministro delle leggi razziali, che «ha sempre stimato» e nei confronti
    del quale ha pubblicamente confessato il proprio «dovere di
    gratitudine» (Enzo Biagi, Ma che tempi, Rizzoli, Milano 1998, p. 43),
    una di quelle «camicie nere ma teste libere» di cui serba affascinato
    ricordo (Id., Scusate, dimenticavo, BUR, Milano 1997, p. 12).

    L'Assalto ­ «giornale della federazione fascista, dove poi ognuno
    scriveva quello che voleva» (Id., Ero partito da Bologna piangendo, in
    Bologna incontri, XIII, 5, maggio 1982, p. 6) ­ si distinse sin dal
    luglio del ì38 per la violenza della campagna antisemita, condotta
    settimanalmente sulla pelle degli ebrei bolognesi e non solo ­ per
    esempio invocò con urgenza profetica un'«opera di purificazione
    indispensabile specialmente nelle maggiori città dell'Italia
    settentrionale e centrale (Roma, dove ci sono ancora troppi ebrei,
    compresa)» (23 agosto 1941) ­ e dal giugno del ¹40 per il «tono
    forsennatamente fascista e bellicoso» (Nazario Sauro Onofri, I
    giornali bolognesi nel ventennio fascista, Moderna, Bologna
    1972, p. 159). Sul periodico Biagi si occupava di critica
    cinematografica e quando venne il suo turno di fornire un diretto
    contributo al razzismo nazifascista elogiò "Süss, l'ebreo", film la
    cui visione Himmler impose alla Wehrmacht e alle SS in partenza per le
    campagne di sterminio in Europa Orientale: «un cinema di propaganda.
    Ma una propaganda che non esclude l'arte ­ che è posta al servizio
    dell¹idea», scriveva in implicita polemica con il cinema italiano, che
    non trovava altrettanto valido. E continuava:

    Süss, l'ebreo «ricorda certe vecchie efficaci e morali produzioni
    imperniate sul contrasto tra il buono e il cattivo [!], trascina il
    pubblico all'entusiasmo», l'«ebreo Süss è posto a indicare una
    mentalità, un sistema e una morale: va oltre il limite del
    particolare, per assumere il valore di simbolo, per esprimere le
    caratteristiche inconfutabili di una totalità. Poiché l'opera è umana
    e razionale incontra l'approvazione: e raggiunge lo scopo: molta gente
    apprende che cosa è l'ebraismo, e ne capisce i moventi
    della battaglia che lo combatte» (4 ottobre 1941).

    Dopo l'8 settembre, i giornali bolognesi passarono sotto il controllo
    nazista e proseguirono la lotta, compresa quella di sterminio contro
    le «caratteristiche inconfutabili di una totalità». Furono, quelli,
    giorni e mesi decisivi, come sanno gli storici. Biagi rimase al
    servizio della causa repubblichina fino alla tarda primavera del '44,
    continuando a svolgere compiti redazionali e a compilare
    le sue scialbe schedine cinematografiche, cellule staminali delle
    opere a venire. L'ultimo articolo apparve il 17 giugno su "Settimana:
    Illustrato" del «Resto del Carlino», insieme all'intervento, assai più
    autorevole, di un suo giovane collega, Giovanni Spadolini, che
    sfoderava una devastante critica del liberalismo, prima di inabissarsi
    nel refettorio di qualche convento in attesa di risorgere après le
    déluge liberaldemocratico in altra Repubblica.

    La caduta di Roma e lo sbarco in Normandia avevano illuminato
    definitivamente il futuro, e quando giunse, non più aggirabile, la
    chiamata alle armi nell'esercito di Salò "Enzo Marco" preferì la
    montagna, come altri giornalisti, «la categoria che, più di ogni
    altra, era stata curata, selezionata, vezzeggiata dal regime, oltre
    che strapagata». Tornò a Bologna dieci mesi dopo, con indosso una
    divisa dell'esercito statunitense: sempre à la page, il Biagi. Se
    riscattò con la sua tardiva conversione quegli «anni di servilismo e
    di abiezione professionale e morale» (Onofri, op. cit., p. 264), non è
    dato sapere con certezza. Forse. Ciò che invece è sicuro è che
    fu complice attivo e non accidentale delle nefandezze del fascismo:
    poteva scegliere e lo fece. Non era il solo? non è un alibi, come
    ammonisce Hannah Arendt. Era giovane? Non abbastanza: aveva l'età di
    Piero Gobetti quando fu bastonato a morte e delle decine di migliaia
    di connazionali che il regime mandò a uccidere e morire mentre lui si
    assicurava i dividendi di spettanza.

    E se l'Asse avesse vinto la guerra, che gli sarebbe successo? Be',
    questo è facile: Auschwitz o no, avrebbe percorso la sua brillante
    carriera, come poi ha fatto. All'ombra del potere in fiore.

    RispondiElimina

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.