Sicuramente Minchia signor tenente era una canzone del cavolo. Dei suoi thriller non ne ho letti nemmeno uno, anche se hanno il record di essere i libri che più ho notato sulle spiagge all'Elba, anche in quelle più riposte. I suoi sketch non mi facevano ridere, ma farmi ridere davvero è difficilissimo (ci riuscì, se ci ripenso, un film comico sovietico degli anni '70, Ivan Vassilievich cambia professione). I suoi quadri non li conosco. Gli ingredienti per l'indifferenza ci sarebbero tutti; e invece, non so nemmeno come dirlo, mi dispiace che Giorgio Faletti se ne sia andato. Mi dispiace per questa canzone qua sotto:
Già. Una canzone e forse una sola. Scritta da lui e cantata perdipiù da un altro che mi ha sempre detto abbastanza poco, nonostante i suoi sforzi di tradurre le amatissime Child Ballads. Succede così a volte: una canzone che parla della tua vita scritta e cantata da due persone lontane, lontane. Penso che sia addirittura bello che accadano di queste cose, come fossero un momentaneo incontro su strade differenti. Del resto, è abbastanza risaputo che non ho mai avuto velleità di essere sempre me stesso, e che le coerenze sbandierate e, perlopiù, di plastica mi fanno semplicemente orrore. O forse, chissà, questo è l'unico modo che conosco per essere davvero me stesso: quello di cercarmi, e a volte persino di trovarmi, negli opposti. E quello di non considerai mai sacro me stesso, perché sono quanto di meno sacro possa esistere.
Quindi, un addio a Giorgio Faletti, certo. Rotolando, qualcosa si è portata via la sua vita; e qualcosa si porterà via, prima o poi, la mia e quella di tutti, in mezzo a una luce che luce non è. Che riposi in pace mentre i signori tenenti e i loro sottoposti continuano a fare i servi dello stato ai famosi milleduecento euro al mese; ma quel giocatore di biliardo, magari, gli avrà tirato una pallata, o un colpo di stecca.