lunedì 30 settembre 2013

Mikis e i parlamenti



Είστε τυχεροί γιατί πολιτικά είμαι νεκρός και δεν μπορώ να μιλήσω!
Μέσα στο σκοτάδι που βρίκομαι θέλω να σας πω ότι αηδιάζω, ντρέπομαι γιατί είμαι Έλληνας, γιατί περίμεναν να σκοτωθεί ένα παλληκάρι για να ξυπνήσει όλη αυτή η σειρά όχι 20, 30 και 100 χρυσαυγίτες να βάλουν φυλακή ΤΟ ΠΑΙΔΙ ΔΕΝ ΑΝΑΣΤΑΙΝΕΤΑΙ!
Και θέλω να ξέρω ότι ξαφνικά βρέθηκε αυτή η οργάνωση, το κόμμα να είναι εγκληματικό; Δεν ξέραν κάτω όλοι αυτοί και η κυβέρνηση και η αντιπολίτευση, οι βουλευτές, ότι στενάζει η κοινωνία κάτω;
Ένας γιατρός είπε ότι είχαμε 1000 μαχαιρώματα. Ένας Πακιστανός είπε στη Νίκαια, είχαμε 800 μαχαιρώματα! Αυτά δεν τα ξέρανε αυτοί; Και δέχονταν να κάτσουνε στη Βουλή μέσα, σε αυτόν τον Ναό της Δημοκρατίας, μ΄αυτά τα καθάρματα;
Ξαναμπαίνω πάλι στον τάφο μου!!!

Siete fortunati perché politicamente sono un morto e non posso parlare!
Nel buio in cui mi trovo voglio dirvi che arrossisco, mi vergogno di essere Greco, poiché hanno aspettato che venisse ucciso un ragazzo perché si svegliasse questa sfilata. Non 20, 30 e 100 albadoristi da mettere in prigione, IL RAGAZZO NON RESUSCITA!
E voglio sapere come all'improvviso si è scoperta questa organizzazione, che quel partito è criminale? Non lo sapevano tutti costoro, sia il governo sia l'opposizione, i deputati, che lo strato inferiore della società è tormentato?
Un medico ha detto che abbiamo avuto 1000 accoltellamenti. Un Pachistano ha detto a Nicea, abbiamo 800 accoltellamenti! Non le sapevano queste cose costoro? E accettavano di sedere in Parlamento, nel Tempio della Democrazia, con simili rifiuti?
Me ne ritorno nella mia tomba!!!

Μίκης Θεοδωράκης
Mikis Theodorakis
28 settembre 2013

Macchie solari


Stai attento/a se qualcuno ti dice che sei una “persona solare”; significa che stai per fare una fine bruttissima. Sgozzata dall'ex fidanzato, caduto da un'impalcatura, travolto da un SUV impazzito; qualsiasi cosa che, naturalmente, preveda il reportage televisivo e la troupe che intervista i conoscenti. Prima non scampavi soltanto agli applausi alla tua bara; ora ti tocca anche passare per la “solarità” di ordinanza. “Giuseppina? Non capisco, mi sembra incredibile. Era una persona solare”. “Ermenegildo? Un ragazzo buono, solare, mandava da solo avanti la famiglia...” Si viene poi a sapere, en passant, che Giuseppina era così solare mentre il marito, giovane imprenditore che l'ha appena ammazzata, aveva una relazione da tempo con la stagista brasiliana e che la aveva messa incinta; oppure che Ermenegildo mandava avanti la famiglia da precario costretto ad accettare ogni stracatacazzo di lavoretto (uno dei quali gli ha fatto crollare addosso un intero muro pericolante, oppure lo ha asfissiato con qualche fantasioso gas in una cisterna da lavare). Che importa; negli anni '80, secondo Andy Warhol, non si negava un quarto d'ora di celebrità a nessuno, mentre negli anni '10 del XXI secolo non si negano a nessuno due minuti di solarità. Naturalmente a condizione che tu sia rigorosamente morto/a. Anzi: morto/a male. Se non muori male rimani, sappilo, una testa di cazzo qualsiasi; non arriva nessuna troupe, non intervistano nessuno e, tutto sommato, il prete all'altare mantiene in generale un certo contegno anche se non è escluso che qualche sacerdote particolarmente à la page e con il suo bravo profilo Facebook qualche “solare” se lo faccia scappare durante l'omelia funebre.

Se, invece, sei trapassato/a in maniera tale da suscitare un sia pur rapido interesse mediatico, locale o nazionale che sia, l'astro meridiano s'impossessa di te senza che tu possa dire “bà” (e non solo perché sei, ovviamente, morto). I casi più frequenti sono quelli della solarità individuale per tragici incidenti stradali; non hai ancora finito di essere spiaccicato sulla A14 o carbonizzato sulla Carlo Felice, che già sei diventato solare a Studio Aperto, sulla Gazzetta della Romagna o su Tele Ogliastra Semilibera. Seguono le solarità in seguito alle stragi familiari, dove spesso la devi condividere coi tuoi cari fatti fuori dal marito depresso; qui, però, c'è non di rado una variante inattesa, perché intervistano anche i parenti o i vicini di casa dell'assassino i quali, zàc, nel manifestare incredulità per l'accaduto lo definiscono immediatamente, a sua volta, un ragazzo solare (chi compie una strage in famiglia è generalmente un “ragazzo” anche se ha una sessantina d'anni, ndr). Si arriva, in casi fortunatamente rari, alla solarità di massa: le trentadue vittime della Costa Concordia, ad esempio, hanno subito un trattamento di solarità che nemmeno nei migliori resort ai Tropici. Gli occupanti del pullman volato di sotto dal viadotto in Irpinia hanno subito la stessa sorte collettiva. Essere solare, insomma, è diventata la nuova frontiera della tua morte che va in qualche pagina di giornale, dalla prima in poi; e magari, pensa, eri uno incazzato fisso, che ti giravano i coglioni acca-ventiquattro, che mandavi in culo le vecchiette sulle strisce (qualcuna la avrai, magari, solarizzata pure tu...), che auguravi alla zingarella sul marciapiede di essere schiacciata dal 42 barrato.

Esattamente, poi, non lo so cosa diavolo vuol dire, essere “solare”. Che fai, sorridi sempre e hai uno sguardo luminoso fisso? Cinguetti anche quando non stai su Twitter? Sei sempre terribilmente buono e non ti riservi nemmeno cinque minuti di sana carogneria? Aspetterei a gloria qualcuno vivo, di sana e robusta costituzione, che andasse in tivvù e dicesse finalmente: “Sono solare”. Macchè; non c'è verso. Anche perché è oramai chiarissimo che porta una jella straripante. Ti toccherà, caro mio, cara mia, da morto. Da morto male, anzi, come si è detto finora. Guardatene bene e metti in campo, se possibile, qualche antidoto.

Ad esempio, se io dovessi morire in qualche bizzarro modo che mi facesse guadagnare gli onori sia pure del “Reporter dell'Isolotto”, diffido chiunque, e sottolineo chiunque, dal definirmi “solare”. Anzi, io mi ritengo, casomai, del tutto lunare. Non che assomigli a un etereo Pierrot, tutt'altro; ma dopo una vita di passeggiate notturne e solitarie, dopo aver praticato con discreto successo l'arte del rintanamento, dopo ardirsi a scrivere post del genere in frementi giornate di spread e di IVA che aumenta e dopo aver ceduto a un'anziana signora di Casoria il posto a sedere che pure avevo prenotato sull'intercity 1583 Milano-Napoli, rivendico la mia lunarità e non intendo sottostare all'ennesima e stupida moda lessicale che ci fa diventare tutti quanti carne da giornaletti. Al limite, se vi intervisteranno, dite che il Venturi era una persona così venusiana, ci aveva quelle strane braccia lunghe sei metri e pure le antennine verdi. Dite che era tanto uraniano, che nessuno saprà che cazzo vuol dire come, del resto, non sa nemmeno che voglia dire “solare”. Oppure ditegli che era così siriano (da Sirio, naturalmente), così invece che gli applausi alla bara vengono gli ispettori dell'ONU a cercargli in casa le armi chimiche (e trovano i suoi calzini).

venerdì 27 settembre 2013

La Barillaise

Da cantarsi sull'aria della "Marsigliese", con esagerato accento francese.

Allonsanfàn de' maccheroni,
le giùr de gluar etarrivé.
Contre i ghèi de' rigatoni
l'étandar Barillà è levé!
L'étandar Barillà è levé!
La bandiera della famija
che si leva tra i sughi e i mulèn,
con la mamma, er papà e la fija
che se sbàfeno li tortellèn!

Os arme, les italièn!
Mangè vos tortiglions!
Marsciòn, marsciòn,
bolle il pentolòn,
à bas les culattons!

Nu somm les ruà, le paladèn
de la famij' tradisionnèll!
Prima che er papà un mattèn
ce faccia sartà les cervèll!
Ce faccia sartà les cervèll
perchè cià la depressione
e ha perso tutto au videopokèr,
o perchè é in cassintegrazione
o la mamm' l'ha mandato a caghèr!

Os arme, les italièn!
Mangè vos tortiglions!
Marsciòn, marsciòn,
bolle il pentolòn,
à bas les culattons!

Nu ne fesòn publisité,
avec le ghei e le lesbienn'!
Macchè parité e parité,
vive le farfall' e le penn' !
Vive le farfall' e le penn',
ma che cazzo avete entendu?...
Noi si dice les maccheròn,
che vendòn dans le monde partout
e non pà le fasciste bretòn!

Os arme, les italièn!
Mangè vos tortiglions!
Marsciòn, marsciòn,
bolle il pentolòn,
à bas les culattons!

Viv' la famij, viv' la cuisine,
viv' l'italienne tradisiòn!
Le pays des mandolines,
de la pizzà et des spaghettòn!
De la pizzà e des spaghettòn,
Barillà, avant sur la route
qui mène au Moulin Blanc
où la mère et la fille sans doute
le papà l'a sgozzate en mangeant!

Os arme, les italièn!
Mangè vos tortiglions!
Marsciòn, marsciòn,
bolle il pentolòn,
à bas les culattons!

Et se les ghèi e mèm les ghèe
voglian mangià l'amatricièn,
nun se faccian venì cert'idee,
Barillà no nun c'entra rien!
Barillà no nun c'entra rien,
Barillà c'est pour la famille
très heureuse et très eterò,
où le père se trombe la fille
et la mère se fait lo ziò!

Os arme, les italièn!
Mangè vos tortiglions!
Marsciòn, marsciòn,
bolle il pentolòn,
à bas les culattons!

mercoledì 25 settembre 2013

Cinquanta


Vi siete mai rintanati, voialtri? Non lo so, e non sono nemmeno affari miei. Io, ogni tanto, mi rintano. Scappo via dal mondo, ma non sento il bisogno di paesi lontani o di rifugi solitari su alte montagne; mi basta una città, la mia. Conosco certi posti fuori mano dove non mi scovereste mai neppure se mi cercaste facendovi aiutare da Sherlock Holmes o, tanto per restare sul locale, dal commissario Bordelli. Ora, ad esempio, sto rintanato su una panchina in un giardinetto di un minuscolo e antichissimo borgo di periferia che si è ritrovato incastrato tra una caserma e una ferrovia; soffia un vento che si sta portando via l'estate, nonostante il tardo pomeriggio di fine settembre sia bellissimo, scrivo con una penna blu sul quadernetto a righe con la copertina rossa che mi porto sempre dietro, e domani avrò cinquant'anni.

Dal 29 luglio scorso non ho scritto più niente su questo "blog", e nemmeno l'ho mai aperto per vedere come stava. Il 4 agosto scorso, una macchina ha schiacciato il gatto Redelnoir davanti a casa mia, e la finestra rimane aperta come se dovesse rientrare da un momento all'altro. Da quel momento non mi è più venuto da scrivere nulla; il gatto nero non è nero a caso. Con la sua vita che se ne va, consegna il nero che impedisce anche le vuote parole scritte e lascia l'assenza finché, un dato giorno, comanda all'arco azzurro che si estende da uno sguardo all'altro di considerare tutto come una parte della vita. Che sia un gatto o una pietra, un alito d'aria o una persona, un libro, un'astrusità impercettibile, un ricordo. Non si domanda di capire, ma di inserire tra i passi di un cammino; e sono queste, anche queste, le traiettorie dei gatti.

Cinquanta può essere espresso in mille modi, tutti quanti frutti della convenzione. Filtra il sole dai rami di un albero mentre dalla strada, trafficata, sovrastante si sente il rumore dei bassi provenire dall'impianto stereo di una macchina che passa. È un giorno come un altro, e non lo è; è il giorno in cui viene fatto di pensare che non verrà mai raddoppiato. A venti, a venticinque, a trentacinque o quaranta lo si può raddoppiare; a cinquanta appare difficilissimo, impossibile. Eppure la vita sembra tutt'altro che finita; un appuntamento è stato dato, ci siamo salutati con gelido rispetto e abbiamo tirato per la nostra strada. Tanto ci s'icontrerà di nuovo in rue Froidevaux, o qualcosa del genere. Oggi ho passato quasi tutta la giornata da una vecchia signora un po' malata, che ha la figlia lontanissima, in un altro continente. Ci siamo tenuti compagnia a vicenda, le ho preparato da mangiare e, a parte, mi sono fatto una mia micidiale salsina tritando con la mezzaluna sei peperoncini grossi con tutti i semi, quattro spicchi d'aglio e due cucchiaini d'aceto di vino rosso. A cinquant'anni, detesto l'aceto balsamico quasi quanto tutti quei gran dialoghi fra atei e papi che vanno di gran moda ultimamente. 

All'improvviso, per uno dei miei soliti capricci del destino, mi sono ritrovato tra le mani una vecchissima e enorme Mercedes bianca ultratrentenne. Usciva di fabbrica che avevo diciassett'anni; cinque metri e dieci di lunghezza, una specie di Kunsthistorisches Museum delle sbollature e della ruggine, impianto a gas, quasi duecentomila chilometri e, nella targa, sia la Paura che il Morto che Parla. Sembra o la macchina degli zingari, o del Conte Mascetti. Ai semafori, a volte, colgo sguardi perplessi o addirittura meravigliati; mi ha portato, una volta uscito dalla casa della vecchia signora, a questo giardino là dove una strada lunghissima termina addosso a un muro. Alla vigilia dei cinquant'anni, quella vigilia dove vado a gas, risparmio e non inquino. 

I "post dei compleanni" non mi sono mai stati a genio, dico sottovoce alla "Tratto Clip" blu mentre le riservo la versione sciatta della mia calligrafia. Sogghigno, ché tanto non mi vede nessuno; sto scrivendo una cosa assolutamente, graniticamente autoreferenziale. Mi prende pure l'idea delle fotografie; ma bisogna pur avere un po' una specie di coraggio, a volte, di parlare alla propria penna. Le dico ancora, mentre il sole sta declinando, che non ho la minima intenzione di proclamarmi "me stesso", e respingo tale tipica rivendicazione proprio nel suo momento più deputato. Non saprei nemmeno da dove si comincia, del resto. Sono stati, questi, cinquant'anni in cui di "me stessi" ne ho visti sfilare più che alla parata di apertura di un'Olimpiade. E hanno gareggiato, naturalmente; sono arrivati quasi sempre ultimi. Hanno sgomitato, questi me stessi, si sono azzuffati, sono inciampati insieme all'ultimo ostacolo, hanno fatto un capitombolo spaventoso nella buca piena d'acqua dei tremila siepi. Sono arrivati in fondo ansimanti e dopo la musica; ma lo spirito Decoubertiniano non è mai venuto meno. La sconfitta non è mai stata nemmeno contemplata, e almeno su una cosa i me stessi sono sempre stati d'accordo: la sentita pietà per i vincitori. Quando sento o leggo qualcuno dichiarare di "essere sempre stato se stesso", cerco di assumere l'espressione più sorridentemente ebete che mi riesce; poveraccio. Anche perché mente sapendo di mentire; in questo giardinetto ci sono altre quattro panchine. E su ognuna di esse c'è un me stesso che sta scrivendo la sua versione dei suoi cinquant'anni. 

Ce n'è uno che mi guarda un po' stranito mentre picchia come un forsennato sui tasti del suo PC; un altro ci ha addirittura il tablet. Un altro ancora scrive con una matita su dei fogli a protocollo a righe perché deve consegnare il tema prima del suono della campanella. Si affacciano vecchie figure, vecchi amori, vecchi odi, lotte incatramate, incertezze, diavoli con la coda, la scalinata Uz Posat, un paio di figli che hanno fatto marcia indietro, il Calimero che ruota su se stesso in mezzo al canale di Piombino, gli addii e le indifferenze, la grammatica turca a Capo Poro, la stazione di Como San Giovanni, il pub di Livorno e la sua cucciola di pitbull che beveva le mezze pinte di birra, le mutevoli idee, una corsa nell'antico stadio e un gatto nero che va da una panchina all'altra, mostrando cerimoniosamente di comprendere.

Passa un treno.

Tra cinquant'anni, in questo giardinetto ci sarà, forse, qualcun altro. Ci saranno, forse, altri se stessi di qualcuno che, in questo momento, sta nascendo; e io sarò invece in quel vastissimo Nulla, dove non mi toccheranno né l'Adesso, né il Qui. Però un'ultima traccia di sole illumina un lembo di prato, e il vento carezza l'erba. Ho aspettato cinquant'anni per vedere tutto questo, solo, fumando un sigaro a sedere su una panchina; e, per un momento, ci mettiamo tutti quanti assieme, a farci la foto di gruppo. Felici come pischelli, io e i miei non so quanti me stessi; ci si fanno le corna con le dita, di nascosto; ci si tirano pizzicotti; ci si manda affanculo come si manda affanculo chi si conosce da parecchio tempo, mettiamo cinquant'anni. Ci siamo fatti questo regalo; e ci è stato regalato anche un libro per imparare a riconoscere perfino quell'erba che continua ad essere accarezzata dal vento.

E ci alziamo tutti assieme per andare a fare i cretini in mezzo alla strada deserta, mostrando il culo alle macchine che passano sul viadotto, urlando sconcezze alla curiosa che sbircia dalla persiana, scrivendo "LAVALA" su una macchina impolverata, declamando qualche verso di Aristofane superstite chissà come nella memoria e terminando con un abbraccio prima di incamminarci, ognuno, verso la propria mestessa imponderatezza.

Accidenti, ci stavamo dimenticando lo zaino sulla panchina. E il quadernetto dove c'è scritta questa cosa. 


S. Andrea a Rovezzano
24 settembre 2013, ore 18.40