lunedì 21 maggio 2007

Il faro di Palmaiola


L'isola di Palmaiola e il suo faro. Il nove marzo del duemila mi venne a mente un mio ricorrente sogno a occhi aperti; talvolta mi capita di avercelo ancora, quasi per affetto, di mettermi a sedere da qualche parte e di lasciare campo libero. Sempre dal newsgroup di Guccini.

In un certa stagione buia della mia vita m'erano venute due voglie elementari: la luce e la solitudine. Da qui l'idea, o meglio, la fantasticheria d'andar a seguire un corso per farista.

La stagione buia corrispondeva naturalmente alla fine del solito, immancabile grand'amore; non che ami particolarmente Riccardo Cocciante (anzi, di solito mi annoia a morte), ma la sua canzone Quando finisce un amore è esatta, sa descrivere bene quel che una persona prova in certi frangenti. Sembra impossibile poter rivivere certi momenti, la vita si trasforma in un reliquiario di oggetti e ricordi, ed il dolore viene coscientemente, scientificamente cercato, amplificato, moltiplicato. Sono però, in fondo, momenti di purificazione interiore, di catarsi, di rigenerazione.

La fantasticheria ricorrente ha una sua logica, un suo svolgimento, una sua storia. Per me fu logico pensare ad un faro, e mai in un giorno di sole; tempesta o notte. La fantasticheria da amore perduto è ovviamente un concentrato di romanticismo da quattro soldi; il giuramento di rimaner sempre solo nel rimpianto, le onde selvagge, la luce che squarcia le tenebre. E siccome è necessario non vergognarsi d'essere ridicoli, perché ridicoli lo si è spesso in certa temperie, bisogna scegliere accuratamente il luogo del proprio sogno ad occhi aperti; e si va sempre a cadere in qualcosa di ben conosciuto alla vista, ma non al piede.

L'isola di Palmaiola si trova nel canale di Piombino, a meno di un miglio marino dall'estrema punta settentrionale dell'Isola d'Elba; l'avrò vista migliaia di volte dal traghetto, ma non ci ho mai messo neanche la punta del naso. Un luogo, dunque, familiare e sconosciuto al tempo stesso.

Un lembo di terra con un faro, i gabbiani, la risacca, le luci del continente dietro alle spalle e la massa dell'isola grande davanti, con la sua macchia, le sue cale, i suoi venti. Perfetto. La fantasticheria del deluso poteva cominciare. Bastava una camminata, una sosta su una panchina, un giro in autobus; oppure una pausa durante il lavoro, quel lavoro fatto di parole che m'è stato dato di portarmi sempre dietro come una catena o un pallone aerostatico (tanto che non so più se son fatto di piombo o di gas elio).

Come diceva l'aviatore irlandese di Yeats, "nella mia mente tutto calcolato, tutto considerato". Mi accendevo la dianablù ed eccomi col mio diploma di farista e radiotelegrafista a sceglier le cose da portare con me.

I libri, innanzitutto; ero diventato meticoloso nella mia fantasticheria, passavo a volte mezz'ore intere nella mia stanza a guardare i titoli e a dirmi: questo sì, questo no. Escludevo a priori qualsiasi cosa parlasse d'amore, ed è stato grazie al mio faro immaginario che mi sono avvicinato ad autori come Lovecraft o Pessoa, che, prima, mai mi sarei immaginato di leggere. Poi, una gran massa di saggi storici, politici, financo scientifici; libri gialli e fantascienza; altre cose.

Avevo deciso quali lingue mettermi a studiare a fondo. Erano esattamente l'ebraico, l'arabo e il finlandese. Per la prima ho poi mantenuto la promessa, non per le altre due. Era uno dei miei episodi preferiti della fantasticheria; vedermi al pannello di comando, di notte, davanti ai fasci di luce sul mare e magari alla radio, in collegamento a chissà quale sperduta Capitaneria di Porto o petroliera in transito, a studiare il finlandese. Allora non pensavo ancora certamente a Internet...

Siccome la solitudine, i fasci di luce nella notte e i gabbiani non mi avrebbero certamente fatto mai passare il mio appetito colossale, m'immaginavo spesso di prepararmi dei manicaretti clamorosi. L'episodio "approvvigionamenti" era uno dei più appassionanti, e, quando mi veniva di immaginarmelo (spesso al supermarket, naturalmente), tiravo a volte in ballo un elicottero (nella brutta stagione) oppure, nella bella stagione, una barca con la quale mi recavo a Portoferraio a far provviste. Ho passato ore intere davanti a libri di cucina a studiarmi ricette stranissime di tutto il mondo; alcune le ho imparate davvero a fare.

C'era poi l'episodio segreto, quello che rimandavo sempre. Una notte, alla radio, venivo informato che una persona mi cercava per parlarmi. Mi stava cercando da mesi, forse da anni; chi poteva essere se non lei, il perduto amore? Siccome la fantasticheria correva qui il rischio di farsi decisamente baglioniana ("Tu come stai?"), di solito la interrompevo; forse, anche, per poterla ricominciare da capo il giorno dopo. In fondo, la solitudine ed il faro non erano nient'altro che la quotidiana attesa di qualcosa che sapevo non sarebbe mai arrivata. Così è stato.

Così è stato perché, piano piano, tutto è sfumato di nuovo nella realtà; e, fortunatamente, nella realtà di un nuovo amore. Di quelli che, se un giorno dovesse finire, prenderei di nuovo libri, pentole, grammatiche arabe, stavolta anche un PC e un modem, e me ne tornerei al faro di Palmaiola, in attesa di un collegamento radio, d'una richiesta, d'una voce.

Si resta affezionati alle proprie fantasticherie; diventano una parte di noi, sono nella memoria lunga. Ci son delle volte in cui, senza un motivo ed in un luogo qualsiasi, tornano alla mente. Ed allora si torna per un attimo ad aprire quella porta del faro, chiusa da anni; si spolverano i mobili e le suppellettili, si verifica se le apparecchiature sono tutte in ordine, si aggiusta quella zampa di tavolino che cigolava e s'innaffiano i vasi di fiori che, chissà come, non appassiscono mai. Si dà un'ultima controllatina, si richiude la porta a tripla mandata e si torna alla legge di gravità.

Ma tutto dev'essere pronto all'uso, sempre, in qualsiasi momento.