domenica 30 agosto 2009

Catarulli


Gechi, scientificamente Gekkonidae. All'Elba però non si chiamano per nulla “gechi”. Alcuni, pochi e confondendo, li chiamano tarantole; più comunemente, almeno nell'Elba occidentale che mi compete, si chiamano catarulli o catellùcoli. Perché l'Elba, che è in mezzo al mare, se per chiamare la spazzatura usa il ligure rumenta, se per chiamare un infingardo usa lo spagnolo malagana, per chiamare il geco usa il greco katàrgyros. Modificato quanto si vuole da secoli e secoli di muri, ma quello è. Quando, le sere nel portico, compaiono famiglie intere di gechi ad alleviarci con le loro cene da insettacci vari, non mi è mai andato di fare il didascalico, come qualcuno mi usava dire, qualcuno che francamente non ha mai capito un cazzo di me. Ho sempre, volentieri, lasciato mia zia e mia madre berciare contro i loro catarulli senza grecheggiare, specialmente mia zia che, una sera di non so quant'anni fa, se ne vide piombare uno addosso. Una cosa rarissima. Non mollano mai la presa. Quella sera, mia zia ci aveva particolarmente da rompere i coglioni contro quelle bestie straordinarie; forse una di loro decise di darle una lezione assai salutare. Fece dei salti dalla sedia, mia zia, che non so neanche dire; mezzo mondo ebbe a scompisciarsi dalle risate. Poi il catarullo, o geco che dir si voglia, scomparve. Si sarà infilato in qualche pertugio del muro per tornare poi al suo mondo alla rovescia, alle wereld sî geswigen eccetera. A proposito di didascalie: il greco κατάργυρος vuol dire “tutto d'argento”, o “tutto grigio”.

Quand'arriva l'estate, l'estate che ora se ne sta per andare in letargo pronta per essere attesa un altro autunno e un altro invernaccio, e preannunciata per un'altra primavera con le sue maledette piogge quando si vorrebbe il sole, arrivano i catarulli. Quest'estate ne ho visti di enormi e di piccolissimi; uno, minuscolo, persino dentro alla sede del 118, all'interno, smarrito che scodava. All'Elba mi sono ingegnato di fotografarne uno, vicino all'atavica lampada del portico. Ha una storia, quella lampada; quand'ero piccolo c'era un piatto di maiolica, degli stessi ch'erano dentro in casa comandati dagli interruttori a levetta coi fili intrecciati rivestiti di stoffa e non incassati nel muro. Con l'andare del tempo è stato sostituito da una plafoniera che, ora, è la tomba di mezz'etti di bestie alate. I catarulli, che a tutto resistono, arrivano a infilarcisi persino dentro; ma, più sovente, arrivate le nove di sera o le nove e mezza quando ci si stende sulle sdraie a non ottemperare al giro in paese con le sue stolide agostate e tristissime, girano intorno alla luminescenza che attira ronzii da inghiottire per una bella cena; e la zia, dopo anni d'indottrinamento magari anche con qualche affettuosa pattonata in capo se voleva far loro degli sgarbi stupidamente tradizionali delle campagne, ha finalmente capito che sono più efficaci dei puzzolenti zampironi e dell'inane citronella. Bisogna saperle gestire, le zie; si vuol loro tanto bene, e mancheranno crudelmente quando verranno chiamate nel Tartaro. Però , finché son vive e imperversano, una bella zuppa tirata bene fra capo e collo sortisce effetti immediati e definitivi. Come si tirano benevolmente sberle ai bambini piccoli, bisogna avere a volte il coraggio di tirarle agli ottantenni, senza far male ma con decisione, rispetto e occhi semichiusi a merdasecca. In questo paese di vecchi rompicazzo servirebbero alquanto, quotidianamente. Tirarne qualcuna al bavoso securitario o a quello che prende a fucilate i ragazzini che giocano al pallone, o persino a Napolitano quando patriotteggia serafico in mezzo alla merda che è diventata l'Italia. Sbàmm!

Così, i catarulli pasteggiano a strippapelle e poi se ne vanno a fare le loro faccende. Dormire, infilando le loro interazioni di van der Waals in quale muraccio o sottotetto che van der Waals non deve avere mai visto. Del resto, cazzo volete che abbia visto di catarulli o gechi il signor Johannes Diderik van der Waals. In Olanda. Mira mira l'olandesina. Lui avrà studiato le interazioni, ma i catarulli esistono prima di loro, e di lui.

Camminiamo tornando quieti per una strada che fu buia e sterrrata, e che vide cadute nei fossi per primi amori delusi e sbronze con amici d'adolescenza, al Crino, persi nelle nebbie del tempo ma non in quelle del ricordo. Una lampada, e due o tre gechi, catarulli, catellùcoli, katargyroi, che quasi danzano o così ci sembra. Stelle che si muovono, lune che impazzano nell'indaco scuro. A volte, sebbene raramente, lanciano dei fischi e, chissà, obbediscono a gerarchie che ci sono ignote. Dal loro mondo alla rovescia può essere che ci osservino, a alla rovescia siamo noi. Il loro Van der Waals studierà come diavolo facciamo a aderire a quelle strisce d'asfalto o di pietrisco. Poi arriva l'inverno che comanderebbe il sonno; noi, invece, vegliamo. Stiamo svegli fino al primo giorno in cui, su un muro o su un soffitto, non ne vediamo uno; e dura sempre poco. Troppo poco, come la lampada accesa nel portico, come la vita che è una lampada accesa nel portico del senza fine.