venerdì 28 maggio 2010

La manona


Ecco che è passato un altro ventisette di maggio. Coi suoi soliti preavvisi. Un manifestino attaccato al CPA. Un post su un altro blog che lo ricordava, assieme alla poesia di una bambina. Mi dicevo di non parlarne più, mi dicevo.

Anche perché, come sempre, mi sarei ritrovato a dire cose già dette e stradette. A ricordarmi, come faccio da diciassette anni a questa parte, che quella bambina della poesia l'ho vista coi miei occhi tirare fuori dalle macerie, a un metro e mezzo di distanza. A ridire di come, da allora, non ho più sopportato nemmeno la vista di un ovetto Kinder. A raccontare di nuovo di un piede in pigiama a righe, e di un fagottino che mi passava davanti in braccio a un pompiere. Tutto di quella notte maledetta, fin dall'esplosione, fino nei più minuti particolari. L'insegna dissolta dell'Antico Fattore, che aveva lasciato solo la traccia annerita della scritta "Trattoria". La Mercedes scura targata FI H9 e qualcosa sepolta nel suo garage. I vetri. La mattina.

E avrei dovuto, un'altra volta, tirare in ballo quello che, proprio in quei momenti, stava succedendo altrove. Non avevo però la minima intenzione di farlo. Piano piano quella cosa si è come dilavata nel tempo, e ne sono rimaste quantità omeopatiche. Rimangono solo quelle immagini. Dovrei, quindi, tornare a dire quella cosa dell'inferno, quella che non mi fa paura perché l'ho già visto, a Firenze, nella mia città, la notte del 27 maggio 1993. Con addosso una divisa bianca sporca, un ridicolo casco rosso in testa, le spalle curve, le mani coi guanti di lattice.

Raccontare di nuovo tutto questo; ma l'ho già fatto tante, troppe volte. Anche se non è mai stato per dire "io c'ero". Non avrei voluto affatto esserci. Potessi, cancellerei quel giorno. Potessi, cancellerei ogni cosa. Avrei voluto continuare a dormire nella camera del magazziniere pazzo. Quel che stava accadendo altrove, sarebbe accaduto lo stesso; non c'era nessun bisogno che si accoppiasse a una strage. Vorrei che quelle persone, quella famiglia e quello studente, fossero ancora vive e avessero condotto una vita normale. Nadia sarebbe, ora, una giovane donna. La sua sorellina sarebbe una ragazza. Lo studente si sarebbe laureato, e ora sarebbe tutto quel che il destino avesse voluto; un professionista affermato, un precario, un soddisfatto, un deluso, un famoso, un nessuno, un suicida. Qualsiasi cosa. Il destino, però, è stato interrotto. Per quanto mi sia posto domande sul perché di quella interruzione, non ho mai trovato risposte plausibili.

Poi, un mese dopo, ci fu la mia, di esplosione. Ho raccontato troppe volte anche quella. Volevo disfarmene in qualche modo, e la sua fine è stata quella di essere stata, almeno da alcuni, dileggiata. Ma va bene così, non ci sono problemi. Tutto, prima o poi, salta in aria. In quei giorni andò persino la Fiorentina in serie B; avrei dovuto, chissà, parlare anche di quello. E di una bicicletta verde, di uno studio pieno di scartoffie che mi disgustavano, di notti strane, di persone andate, d'incroci di vento. Eppure ogni tanto, da quei giorni mi proviene qualche molecola; passa e va.

Firenze, poi. È stata più brava di me a dimenticarla, quella notte. Ancora qualche articolo non letto sui giornali, ancora qualche testimonianza, e poi tutto sfumerà via. La torre l'hanno rifatta più bella e più antica di prima. Hanno rifatto alla perfezione la casa di fronte, e chissà chi abiterà nella stanza dov'è morto lo studente. Chissà cosa farà. Hanno messo una lapide con la poesia di Nadia, e un'informazione scritta in non so quante lingue. L'altra mattina, presto, passando per caso in macchina dal lungarno, mi è venuto di scendere un attimo; c'era un turista che stava traducendo dall'inglese, a dei suoi compagni, l'iscrizione in una qualche lingua slava, ceco o slovacco credo. Hanno piantato un ulivo dove ci fu il cratere del Fiorino, ché per far esplodere la loro bomba scelsero proprio un furgone che portava il nome dell'antica moneta di questa città. Tutto è ridiventato turismo e curiosità. Gli Uffizi sono a un passo. Nessuno, su quella notte, ha scritto nemmeno una canzone; ce ne sono a decine su Piazza Fontana, c'è Ringhera di Della Mea su piazza della Loggia, c'è Agosto di Lolli per l'Italicus. Per via dei Georgofili neanche una. Non è stata una strage abbastanza di stato, forse. È stata la mafia. Naturalmente, mafia e stato sono due cose molto differenti. Ci sono stati solo i Delsangre che, sulla copertina del loro secondo album, hanno messo un'immagine di via dei Georgofili. Ma, tanto, chi cazzo li conosce i Delsangre. Fanno canzoni sugli indiani in Maremma, sui partigiani romagnoli, sui banditi siciliani e uno di loro fa il tifo per la Lazio.

Sollevò anche me, quella bomba. Mi prese. Mi spinse via dalla mia città. Ho fatto fatica, un'estrema fatica, a ricuperarla; la stessa fatica di ricuperare me stesso. È una fatica che faccio ancora, e che farò sempre. Dovunque mi trovassi, mi seguivano ombre. Quella notte è stata un bivio, uno spartiacque; c'è il prima e c'è il dopo. Ecco, già. Ne sto ancora parlando. È l'alba, ché non son cose, queste, che si lasciano scrivere col sole che batte. Non mi è riuscito dormire. Sono diciassette anni che non mi riesce più dormire attorno a questa data. Ora, da Firenze, non intendo più muovermi; cursum perficio. Sono diventato uno specialista delle sue periferie, quelle in cui nessuna mafia o nessuno stato penserà mai di piazzare un'autobomba come simbolo. Vado in giro a fotografare le vecchie autovetture. C'è stato di tutto e il contrario di tutto; ci sono stati amici diventati nemici, amori diventati odi. Non lo sapevo ancora, quella notte, mentre vedevo portare via quei morti, mentre cercavo di soccorrere i feriti come meglio potevo. Mi stava prendendo la manona di quella bomba, e sbattendomi altrove per mezza vita, e facendomi rimbalzare per tutti gli altrove di questo mondo.

Nella foto: Dal settimanale "Epoca" dei primi di giugno del 1993. Nel riquadro in basso a sinistra si vede uno con le spalle curve, una divisa bianca sporca e un ridicolo casco rosso in testa.