domenica 30 giugno 2013
Repressione e carcere. Assemblea-dibattito a Firenze.
Il
CPA Firenze Sud e il Collettivo del Fondo Comunista organizzano
ASSEMBLEA-DIBATTITO
Generalizzazione
della repressione come
sistema di controllo
Morti
nei commissariati e nelle carceri
Carcere
e sua articolazione
Condizioni
della prigionia politica
L'utilizzo
del reato di associazione a delinquere contro i movimenti politici e
sociali
INTERVERRANNO:
Collettivo Olga
Collettivo Fuori Luogo
Libera Officina 1° Maggio
Venerdì
5 luglio 2013
Fondo
Comunista – Via Rocca Tedalda 277
Tel.
366-3925033 – Bus 14 via Ripa
Treno:
Fermata FS Rovezzano
Ore
19 Apericena
Ore
20.30 Iniziativa con
proiezione di audiovisivo
In
occasione della Giornata Internazionale del Rivoluzionario
Prigioniero, il 19 giugno scorso, abbiamo pensato di organizzare
questa iniziativa concreta per approfondire e trovare una maggiore
conoscenza sullo sviluppo del processo di consolidamento di questo
sistema, e sull'articolazione della repressione sia a livello
culturale che a livello militare. Crediamo che la repressione e il
carcere, in questo momento di sfaldamento irreversibile del sistema
capitalista, abbiano raggiunto una funzione necessaria per la
semplice sopravvivenza del sistema che, quindi, non ne può più fare
a meno oramai a livello preventivo e di controllo come non può fare
a meno della costruzione della forma culturale atta a garantire
l'assoggettamento al sistema stesso. Nel momento in cui il sistema
impone la sua “legalità” come parametro discriminante e confine
tra la sottomissione condizionata e la galera, la storia e l'analisi
del passato e del presente sono un'arma irrinunciabile come altre.
sabato 29 giugno 2013
Sempre più in compagnia
Andrà a finire che la cosa più bella su Margherita Hack, subito dopo che è tornata alla terra, l'ha detta l'astronauta siciliano che sta orbitando lassù, da qualche parte giro giro. "Le stelle che hai amato ti rispettano", ha detto; e su questo non mi sembra che possa esistere alcun dubbio. Non sarà nemmeno una gran frase, per carità; ma credo che immaginare le stelle che, per un millesimo dei loro secondi (che corrisponderà senz'altro a qualche nostro millennio), si inchinano al pensiero di questa donna, può servire.
E così, da poche ore, siamo sempre più in compagnia. Quando muore qualcuno, si è soliti dire di essere sempre più soli; in questo caso, va detto, senza Margherita Hack siamo sempre di più in compagnia. Ma non di lei.
Siamo sempre più in compagnia di cialtroni di ogni sorta, a base di dèi, miracoli, "soprannaturali" e quant'altro; siamo sempre più in compagnia dei loro mortiferi bruciori. Sempre più in compagnia di padripìi, papibuoni, papiemeriti, barboni con le vergini in paradiso e le cinture al tritolo (di altri), apparizioni di madonne, Brosio a Medjugorje, buddismi e buddanate, misteri misteriosi, fantasmi, morali e moralismi, teocrazie e tutto il resto.
Sono di più, negarlo sarebbe inutile e stupido. Così, quando se ne va qualcuno che certe cose non ha avuto mai paura a dirlo, e ha contrapposto a tutto ciò una scienza che non si era mai isolata in nessun empireo irraggiungibile, bisogna prenderne atto e basta. Come bisogna prendere, in ogni momento, atto della morte, ed accettarla come semplice fine di quel gioco incredibile che si chiama vita.
Che dire d'altro? Più niente, e forse riuscire ad emettere, su qualche radiofrequenza cosmica, anche qualche sorriso. Mancherai, ma ci sarai. Ciao, Margherita.
venerdì 28 giugno 2013
I Dannati della terra
Frantz Fanon. |
Com'erano belli, i
Dannati della terra. Ma quelli lontani, che per trovarli bisognava
fare dei lunghi viaggi per andare, poi, a cacciarsi in guai grossi.
Da quando il Frantz della Martinica, o dell'Algeria, aveva scritto
quel suo famoso saggio pubblicato nel '61 da François Maspero con la
prefazione di Sartre, con un titolo che riprendeva il primo verso
dell'Internazionale di
Pottier (“Debout, les damnés de la terre!”), l'anticolonialismo
era entrato a pie' pari nel bagaglio del Rivoluzionario; e non sto
certo parlando di mezze calzette, ma di Steve Biko, di Ernesto
Guevara, di George Jackson. Il ruolo della classe, razza e
violenza nell'ambito delle lotte di liberazione nazionale, nuovo
modello mondiale, rivoluzione globale, anti-imperialismo; è
difficile immaginare gli anni '60 e '70 senza quel libro che ebbe
influenza sul movimento di liberazione palestinese come sulle
formazioni nordirlandesi, sulle Black Panthers e, praticamente, su
tutti i movimenti che lottavano per l'autodeterminazione, per una
nuova società e contro il razzismo. Roba di quando si voleva
cambiare il mondo; e quando si vuole cambiare il mondo, è bene che
il mondo rimanga lontano. O nelle idee,
se si vuole; e così, si creavano scenari collettivi mentre tutto
il mondo stava esplodendo
dall'Angola alla Palestina e
scoccava l'ora del fucile.
Un impeto di fratellanza e di condivisione pressoché totale con le
lotte di liberazione dei popoli in lotta contro il colonialismo
imperialista; i quali, appunto, lottavano in Angola, in Palestina,
nell'Irlanda del Nord, ovunque. Terre lontane, abitate da gente mai
vista. E chi lo aveva mai visto, un angolano? Di palestinesi, forse
ci sarà stato qualche studente qua e là; e, del resto, l'impulso a
scrivere questa cosa mi è venuto, nel tardo pomeriggio di stasera,
mentre passavo casualmente a piedi davanti al cenacolo di
Sant'Apollonia, nel centro di Firenze, dove hanno resistito al tempo
le scritte degli studenti greci antifascisti tracciate sui muri negli
anni '70, prima della caduta del regime dei Colonnelli. La
Rivoluzione doveva essere nell'aria, e l'aria non è limitata ad un
luogo, a una città, a un puntino nel mondo; l'aria avvolge tutto il
pianeta, e la Terra intera era in collegamento. L'Angola era appena
fuori dal tuo portone, la Palestina sulla strada accanto. Le Pantere
Nere erano in Santa Croce, la Grecia oppressa nel cenacolo, il
Vietnam vittorioso nelle cartelle; giravano le idee, le
teorizzazioni, i metodi, le pratiche adattate alle varie realtà. E i
Dannati della terra stavano dappertutto, soprattutto perché se ne
vedevano pochissimi. Ne arrivava, ogni tanto, qualcuno con viaggi
rocamboleschi; le città erano diverse,
e oggi se ne constata la scomparsa proprio mentre i Dannati della
terra sono, finalmente, arrivati.
"La Grecia ai greci - PAS". Firenze, S. Apollonia. |
Il
problema è sempre il solito. Erano stati immaginati un po' troppo.
Erano stati nominati Rivoluzionari per natura, fratelli e compagni
per diritto, e trasformati sbrigativamente in popoli
interi. In lotta, chiaramente; a condizione che la lotta fosse a casa
loro, raccontata da libri e reportages, resa universale da film e
canzoni, e vista quasi sempre attraverso dei leader,
o figure carismatiche, o eroi, o martiri, o teoreti. Si arriva,
probabilmente, a provare (forse inconsciamente) un certo senso di
inferiorità collettiva: nessuno parla certamente della lotta di
liberazione del valoroso popolo italiano, o francese. Ci vuole o un
regime oppressivo, e allora è tutto el pueblo de España
che lotta compatto contro Franco, o povo português
che si libera dal fascismo salazarista, o ellinikos laòs
che scrive sui muri di Sant'Apollonia; oppure qualche ignoto negro
colonizzato e sfruttato, prototipo del Dannato della terra che
infiamma le menti ed i cuori. Poi passa il momento. La Rivoluzione
non viene fatta per motivi che non sto a spiegare. Le scritte sui
muri sbiadiscono. Non si muore più ammazzati dalla polizia italiana
mentre si manifesta per l'aggressione all'Angola. Ci si rintana in
filosofie orientali o in eroine, oppure si prendono le armi passando
la vita in anonimi appartamenti aspettando che, una mattina presto,
sfondino la porta i Carabinieri speciali e ti terminino in mutande
nel corridoio, in laghi di sangue. Si va in galera a prendere atto,
quale che sia; un giorno si esce, e si continua a vivere abiurando o
restando fedeli, dissociandosi o tacendo, scrivendo libri o tornando
in galera, morendo o tenendo conferenze. Se non si è, naturalmente,
già morti, generalmente ammazzati. Nel frattempo, mentre accade
tutto questo, i Dannati della terra non cessano ovviamente di essere
tali; e, se si vuole, diventano ancora più Dannati. Ma non gliene
frega più niente a nessuno, dopo un po'. Non si sono liberati un
cazzo; anzi, in parecchi casi sono diventati ancora più schiavi.
Silenzio o quasi. Cinque anni prima ci si sarebbe indignati e scesi
in piazza per la Sierra Leone o per Timor Est, popoli fratelli e
dannati; cinque anni dopo manco si sa più dove cazzo siano la Sierra
Leone e Timor Est, forse accanto a Timor Ovest ma non è detto. Si
manifestano i rimpianti, le disillusioni e le spietate analisi degli
errori. Ci si continua peraltro a scannare verbalmente, perlopiù tra
fantasmi. Qualcuno decide di fare carriera, non di rado in modo
impensabile; qualcun altro si accontenta di un impiego sicuro, mette
su famiglia, si trasferisce in campagna e scopre una vasta gamma di
belle e interessanti cose, dalla medicina alternativa alla cucina
tradizionale. Ed ecco, un bel giorno, che i Dannati della terra
giocano un tiro mancino. Poiché nessuno o quasi li ha conosciuti,
imbracciano la loro Dannazione e cominciano a arrivare a frotte.
Pigliano
qualsiasi mezzo disponibile: gommoni, motoscafi, aeroplani, piedi, Trabant, camion, torpedoni, cammelli, navi fatiscenti,
barconi, ogni cosa. Visto che le lotte di liberazione
non hanno funzionato, cercano di liberarsi da pessime cose che
-peraltro- sono aumentate: guerre, fame e malnutrizione, malattie,
disoccupazione. Fermi restando la consueta tirannia (sovente in forma di democrazia) e lo sfruttamento; che è aumentato a
dismisura perché il colonialismo diretto delle occupazioni è quasi
scomparso, oramai i loro stati
ce li hanno pressoché tutti, ma è venuto allo scoperto il
colonialismo globale del Mercato, del Sistema capitalista trionfante,
dei modelli culturali. Dalle nostre parti, che son parti di antica
cultura urbana nella quale la solidarietà di classe aveva
avuto elevati momenti tanto da far parlare di “territori liberati”
per alcuni quartieri dei centri storici, siamo presi alla sprovvista.
Anche e soprattutto perché 'sti Dannati della terra non
corrispondono neanche un po' al gran bel libro di Frantz Fanon.
Ci
tocca quindi scoprire in primis che, ai Dannati della terra, non
gliene frega nulla della Rivoluzione e che non sono mica così internazionalisti come dovevano essere, porca paletta. I movimenti di
liberazione non hanno lasciato
traccia alcuna. In generale, i Dannati della terra preferiscono una
qualche forma di essere soprannaturale, sotto varie denominazioni,
che hanno scelto come supremo leader; invadono non solo le periferie,
ma anche i centri dai quali, nel frattempo, gli abitanti autoctoni
vengono coscienziosamente espulsi per far posto ai salottini, alle
banche, ai localini alla moda, ai negozi per turisti, alle pizzerie a
taglio, agli “stilisti”. Le vie un tempo “liberate” dalla
Rivoluzione postuma ventura si trasformano in suk con gran
costernazioni e isterie; e i Dannati della terra smettono di essere
“fratelli”, “compagni” o roba del genere, e diventano più
prosaicamente i Dannati di via Palazzuolo, di via Panicale, o delle
Piagge, o di San Donnino. Le Dannate della terra magari somigliano pure un po' a Angela Davis, però battono a partire da
una cert'ora sul viale Guidoni o nei pressi dell'uscita di
Prato-Calenzano; altri Dannati della terra, provenienti non di rado
da paesi mai presi in considerazione, cominciano a far dannare le
classi medie, i loro
giornali e le questure. Dai valorosi paesi d'un tempo giungono
notizie sconcertanti: i palestinesi non vanno più dietro al compagno
Arafat, ma a dei barboni che li mandano a immolarsi in nome di Allah.
In Iran, la Rivoluzione non la fanno i Mujahedin del Popolo, ma altri
barboni, il solito Allah e i veli che coprono le donne (esseri
notoriamente impuri e diabolici). L'Angola si sfibra in lotte
intestine (naturalmente e prontamente definite “tribali”).
L'Irlanda del Nord tira avanti per un po', poi alla fine si stufa e
tiene un po' di folklore, Shankill Road da una parte e i murales con
Bobby Sands e la Bloody Sunday dall'altra, divenuti ottime
attrazioni turistiche fotografate da ragazzotti di Lodi in posa
davanti alla scritta “You are entering free Derry”. E i vecchi
compagni d'un tempo, oltre ad essere appunto invecchiati, sono sempre
di più in preda a rabbie terribili.
Il
fatto è che avevano compiuto un errore, vale a dire quello di
fabbricarsi rivoluzioni altrui (magari a sostegno della propria,
certo) secondo ciò che avevano in testa; lo stesso errore, peraltro,
di chi la Rivoluzione la andava a “esportare”. Rivoluzioni altrui
senza conoscere nulla degli Altri, che comunque manco si vedevano.
Rivoluzioni immaginarie, perché la fantasia è una cosa bellissima,
ma non può andare al potere. La fantasia fa a cazzotti col potere.
La fantasia, casomai, il potere lo dovrebbe distruggere; ma questo,
forse, è un discorso diverso. Bellissime costruzioni che, alla fine,
servono soltanto per il solito rimpianto dei “vent'anni” e per
fabbricare il mito della “generazione”; il risultato è che
questi vecchi compagni, magari ancora scannandosi, insultandosi e
dichiarandosi odi inestinguibili, parlano di “generazioni” più
della Bibbia. E, una volta messi davanti ai Dannati della terra,
quelli veri che sono arrivati a centinaia di migliaia a sconvolgere
tutto quanto, hanno reazioni a volte un po' contraddittorie e
scomposte.
Chi
se li vede nei quartieri popolari a rubare, spacciare e fregarsene di
tutto e di tutti; chi se li vede nei campi di pomodori a prendersi
caporalate e fucilate; chi se li vede unirsi non per rivendicazioni
salariali o politiche, ma per avere una moschea; chi se li vede, una
volta ammazzati in Piazza Dalmazia, preferire una preghiera culo
all'aria allo scontro preconizzato; chi se li vede fare i furbi
individualisti; chi se li vede lontanissimi dai propri ideali d'un
tempo, agli antipodi, e comincia allora a provare rabbie spaventose
perché loro dovevano
essere così, come se li erano immaginati quando lottavano anche per
loro senza che loro
ne sapessero un accidente. Così, a volte, accadono cose curiose: ad
esempio, si sentono parlare compagni e compagne sessantenni con
accenti insoliti. I “fratelli” di un tempo sono diventati
“stranieri” come nelle bocche di leghisti qualsiasi o di
pensionati sull'autobus con la “Nazione” in mano; le “sorelle”
che si stavano “liberando” e che “prendevano coscienza della
loro condizione di donna”, sono diventate stronze succubi e puttane
del maschio come nelle rabbie e negli orgogli dell'Oriana Fallaci.
Pagano caro, questi Dannati e Dannate della terra, non soltanto il loro non aver
corrisposto a ideali e a lotte sconfitte; pagano anche le ultime "speranze", quelle a base di presupposte ribellioni una volta constatato in che razza di posticino e tra che razza di gente sono arrivati. Questi, invece, non si ribellano una sega: lavorano, chiedono soldi fuori dai supermercati, pregano, cascano dalle impalcature senza dir nulla, accalcano le celle, si beccano i gazebi di Borghezio e il Casseri da Cireglio (PT), figliano, fanno qualsiasi cosa ma non scendono in piazza e spaccano ogni cosa. Se ne guardano bene. Arriva l'imam e rimette tutto a posto; sennò arriva la questura e li rispedisce alla loro Dannazione. Pagano tutto questo
come se fosse stata, e fosse tuttora colpa loro, mentre si occupano di cose parecchio
terra-terra: trovare un lavoro, un maledetto documento, soldi da
mandare a casa, “integrazioni”, lingue da imparare, figli che
cambiano pelle e cultura.
E
pagano anche ulteriori idealizzazioni fatte sulla loro pelle.
Riempiono le carceri non per lotte per i diritti e l'emancipazione,
ma per miseri “reati comuni”. Sono guardinghi e stanno per conto
loro, nelle “comunità”. Ogni tanto si trovano un leader che
dialoga con le istituzioni.
Qualcuno ottiene la “cittadinanza”, che però non è del mondo ma
del solito, stupido, concreto Stato. Qualcuno viene suicidato nelle questure;
qualcun altro viene pestato dal forzanovista o dal naziskin mentre i
vecchi compagni ricordano, già, di com'eran belli i Dannati della
terra letti nei libri. Com'era bello George Jackson mentre ora ci
hai, nell'appartamento accanto, tre o quattro di quei negracci
puzzolenti e ladri con la radio che manda musica di merda a volume altissimo. Com'eran belli i Dannati delle giungle, delle
Ande, di Sabra e Chatila, mica come quei dannatissimi Dannati che son
venuti dall'ex grande Unione Sovietica & satelliti ad essere
chiamati porci ucraini, troie moldave, rumeni stupratori e albanesi
assassini; questi, proprio, erano inattesi. E sono addirittura
biondi, almeno in parecchi esemplari. Com'eran belli i Dannati della
terra che ispiravano i Nuclei Armati Proletari, mentre ora ispirano i
Nuclei della Polizia Antidegrado. Com'eran belli i Dannati della
terra che regalavano a tanti giovani ricordi per passare la
vecchiaia, mentre ora vendono paccottiglia in un centro città da cui
la Storia è volata via assieme a libri che non legge più nessuno.
mercoledì 26 giugno 2013
martedì 25 giugno 2013
U sciü Andrià, la pietrificazione e lo sciopero dei braccianti
La città di Bonifacio, nell'estremo
sud della Corsica (la Sardegna dista soltanto 12 miglia, con lo
stretto detto, appunto, Bocche di Bonifacio), ha
una storia millenaria. Sembra che il luogo dove sorge, un porto e una
rocca naturali e pressoché inespugnabili, fossero abitati già 6500
anni fa; ma il nome di “Bonifacio”, secondo la tradizione, è
dovuto a a Bonifacio II di Toscana, marchese di Lucca, che nell'anno
833 vi fondò un villaggio a difesa dalle incursioni dei Saraceni.
Fatto sta che i primitivi abitanti di Bonifacio furono toscani:
coloni lucchesi e pisani, che vi portarono, presumibilmente, il loro
antichissimo dialetto toscano. Per due secoli, come altre parti della
Corsica, Bonifacio appartenne alla Repubblica di Pisa; fino al 1490,
quando la città passò sotto il controllo della Repubblica di
Genova (una leggenda narra che i genovesi entrarono in città
approfittando di un matrimonio e del fatto che i bonifacini erano tutti briachi). Fatto sta che, con la conquista genovese, tutti gli
abitanti di origine toscana furono espulsi e dovettero, dopo secoli,
rifare il viaggio verso le terre dei loro avi destinando così alla
scomparsa quello che doveva essere il più antico dialetto toscano
mai esistito. Il quale fu sostituito da un parlare ligure della
Riviera di Ponente, dato che i nuovi coloni provenivano in massima
parte dalle coste tra Savona e Taggia; un dialetto ligure,
ovviamente, del XV secolo. Il quale, totalmente isolato dalla
Liguria, si è mantenuto praticamente tale e quale fino ad oggi,
parlato ancora da un centinaio di bonifacini e, probabilmente,
compreso da una metà della popolazione della bellissima cittadina.
Bonifacio, con tutta la Corsica, passò alla Francia nel 1768; e, da
allora, a Bonifacio la situazione linguistica divenne realmente
variopinta. Tutta la popolazione parlava il bonifassin,
ma nel contado si parlava già il còrso meridionale che, come è
ovvio, riempiva il dialetto ligure di prestiti. La lingua ufficiale
dello stato era però il francese, e nel bonifacino comparvero ben
presto anche parole francesi. Oggi, come detto, solo una
ristrettissima minoranza dei bonifacini, forse un centinaio di
persone, è ancora capace di parlarlo speditamente; altre poche
centinaia, sui 2700 circa abitanti, lo capiscono più o meno; ma a
Bonifacio si parla còrso e, più che altro, francese. Ma il
bonifacino non è ancora morto.
Bonifacio. |
Questo per quanto riguarda, in sintesi,
la storia di Bonifacio e dei suoi linguaggi. Però, ora, si va a
raccontare un'altra storia, avvenuta nei primi mesi di centodue anni
fa, tra il gennaio e il marzo del 1911. E non è una storia molto
comune.
All'inizio del XX secolo, tale André
Serra, detto U sciü Andrià (“il sor
Andrea”), un bonifacino di qualche cultura e autore di parecchie
opere tra cui una “Storia di Bonifacio”, dopo essere stato -a suo
dire- ufficiale della Guardia Papale in Vaticano si ritirò nella sua
città natale. Nella sua proprietà, detta “La Pomposa”, creò
anche un museo paleontologico; era nato il 13 agosto 1849 e di lui si
sapeva, in realtà, che aveva fatto una certa carriera come
funzionario della Compagnia Ferroviaria Parigi-Lione-Marsiglia, dalla
quale fu messo in pensione come Funzionario Scelto di 4a Classe. Come
un impiegato delle ferrovie fosse potuto diventare Guardia Papale,
rimane un mistero; fatto sta che André Serra, ritiratosi in
pensione, iniziò a scrivere come un forsennato. Terminata che fu la
sua “Storia di Bonifacio”, della quale si parlerà meglio dopo,
si diede da fare per pubblicarla; ma non aveva il denaro sufficiente
per farla stampare da un editore. Fece il giro dei suoi amici e
conoscenti “nelle diverse classi della società bonifacina”,
chiedendo contributi per la pubblicazione della sua opera; ma tutto
quel che ricevette furono dei...consigli. A piene mani, ma senza il
becco di un quattrino. Si sfogò il buon sor Serra, in francese: "Ces gens de bon sens,
d'esprit, d'honneur (...) M'ont dit qu'il n'y a point de plaisir que
l'on ne fasse plus volontiers à un homme que celui de lui donner...
un conseil ! Et des conseils, Dieu sait si j'en ai reçu !"
Ma
era un tipo ostinato, e riuscì comunque a pubblicare la sua opera.
Nella prefazione, si rivolse così ai suoi lettori: “Credo che non
rimpiangerete i cinquanta soldi che questo librò vi è costato; ma
quando lo avrete letto, se riterrete che stoni nella vostra
biblioteca, potrete sempre andare a venderlo a Parigi sui
Lungosenna...” Della “Storia di Bonifacio” non rimangono oggi
che poche copie; è un libro raro. L'autore vi compie un autentico
miscuglio, un'accozzaglia di dati provenienti a volte da fonti
storiche, ma più spesso da storie e leggende, mettendo in mezzo
Bonifacio, Roma antica, i papi, la guerra di Troia, tirate filosofiche sulla vita e sulla
morte, e, dulcis in fundo, la pietrificazione. André Serra scrisse
molte altre opere introvabili, di cui però possediamo i titoli:
”Dizionario medico-scientifico”, “Gli addii” (poesie), “Gli
Inferi” (poesie), “Filosofia: fondamento dell'anima”, “Le ore
della vita”; “Raccolta poetica”; “Il bimbo sventurato”
(dramma in tre atti e tre quadri), “Lettera ai morti”, “Corso
di mitologia, filosofia, fisica e pietrificazione”.
La
pietricazione era il cavallo di battaglia di André Serra; verso il
1908, sotto la Loggia di Bonifacio, si era messo a tenere conferenze
sul seguente tema: ”La trasformazione in pietra dei resti
di vegetali e animali”; il 13 giugno 1909, davanti a un
uditorio esterrefatto, aveva tenuto una concione (in francese) sulla Pietrificazione
umana;
se ne possiede ancora il testo integrale. Al tempo stesso, però,
André Serra coltivava profondi ideali di giustizia ed uguaglianza e si dava da fare
anche per difendere gli interessi dei lavoratori; fu così che, il 21
agosto 1910, a tale personaggio si deve la fondazione del primo
sindacato di Bonifacio e dell'intera Corsica meridionale: il Syndicat Mutualiste d'Ouvriers de Bonifacio. Il
sindacato fu costituito assieme al fabbro Joseph Lombardo e al
muratore Constantin Milano.
Ben
presto, il “Sindacato Mutualista degli Operai di Bonifacio”
riscosse un notevole successo tra i lavoratori della cittadina; le
riunioni si tenevano in casa di André Serra, in rue du
Corps-de-Garde. Furono organizzate parecchie manifestazioni, durante
le quali gli operai sfilavano in città preceduti dalla bandiera
rossa. Oggi, di quel sindacato non resta che un timbro con il motto
“Tutti per uno” sormontato da due mani che si stringono; e una
canzone, intitolata A greva di i pialinchi,
da cantarsi sull'aria
del “Régiment de Sambre et Meuse”.
La fontana di Longone. |
Nei
primi mesi del 1911, 425 lavoratori agricoli e braccianti del contado
di Bonifacio, stanchi dei salari da fame si erano riuniti, organizzati
proprio dal Sindacato di André Serra, ed erano scesi in sciopero
(termine per il quale il dialetto bonifacino usa la parola francese, greva). Ben presto erano stati raggiunti
nell'agitazione dagli operai della locale fabbrica di tappi; il 28
febbraio 1911, un'autentica folla per le dimensioni di Bonifacio si
radunò quindi vicino alla fontana di Longone (Lungùn), un nome che
aveva provocato parecchie e fantasiose ipotesi etimologiche ma che,
al sottoscritto, suona assai familiare: all'isola d'Elba, infatti, il
vero nome di quella che oggi è Porto Azzurro, era Portolongone. Non è improbabile che, tra gli antichi toscani di Bonifacio, ci
fosse pure qualche elbano; e si sa da documenti antichi che nel nome originale il "porto" non c'era: si chiamava "Longone", o "Lungone" e basta. Tra la Corsica e l'Elba i nomi sono sempre stati gli stessi; così ci sono, ad esempio", sia "Galenzana" che "Pomonte" in tutte e due le isole. Insomma, perlomeno mi piace pensare una cosa del genere.
I lavoratori in sciopero si presentarono,
secondo le testimonianze rigorosamente in bonifassin, ”cu asi, pulitrücci e asinini, carghi di ferri da
travaggià, di bariloti e di catini”; insomma erano arrivati direttamente dai campi con gli asini carichi e gli attrezzi da lavoro, “Con asini, asine e asinelli, carichi di attrezzi da lavoro, di barilotti e cesti da soma”.
Erano i pialinchi, ovvero i braccianti, i lavoratori agricoli (da piale, vale a dire la piccola parcella di terra lavorata). E non scherzavano per niente:
prese la parola un rappresentante, dichiarando quanto segue: ”I
poveri ne hanno abbastanza di essere schiavi di tutta questa banda di
ricconi (…) Non vogliamo più mangiare acciughe, vogliamo carne e
maccheroni, e vogliamo bere buon vino e non l'acqua della fontana di
Longone!” Continuò un altro: ”I sindacati
sono stati formati per difendere le nostre rivendicazioni, e se il
salario delle giornate di lavoro non aumenterà, noi non pagheremo
più le tasse e i contributi!”. Chiedevano un aumento di
cinquanta “patacconi” a giornata, vale a dire circa tre franchi;
quel che ottennero furono dieci patacconi in più. Si rimisero al
lavoro, dopo quello sciopero di zappatori e di fabbricatori di tappi
per le bottiglie di vino che non potevano bere. Sembra che dopo la
prova di forza, il Sindacato di André Serra continuò ancora per un
certo tempo a far sentire la propria voce; quanto a lui, U
sciü Andrià, qualcuno gli andò a dire che, pur sempre,
aveva una tenuta agricola ed era pure lui un padrone. Rispose, unico
fra tutti, aumentando il salario dei suoi lavoratori ai cinquanta
“patacconi” a giornata richiesti.
A lungo mantenne il fantasioso “museo paleontologico” nella sua tenuta della Pomposa;
era un piccolo edificio con il tetto a punta che fu gravemente
danneggiato durante la II guerra mondiale. La cosa stupefacente erano
i “reperti” che vi erano ospitati: sassi. Di tutte le dimensioni.
Dai ciottoli ai pietroni, etichettati a formare una “storia della
pietrificazione” di Bonifacio e dintorni: così i sassi più
piccoli erano “foglie e insetti pietrificati”, mentre quelli più
grossi potevano nascondere qualche antenato trasformato in pietra,
magari il bisnonno Giuseppe o la trisavola Franca Maria. Agli
ingressi, si trovavano delle colonnine sormontate da grosse pietre di
forma fallica, che rappresentavano, naturalmente, la “madre Terra”!
La canzone sullo sciopero dei
braccianti di Bonifacio del 1911 fu scritta da tale Léon Camugli,
sul quale non sono riuscito a trovare notizie più precise; e me ne
dispiace. Era, con tutta probabilità, un membro del sindacato di
André Serra che aveva preso direttamente parte allo sciopero. Si dice tuttora che sia la canzone più famosa in
dialetto ligure bonifacino.
Erano un bel po' di braccianti
che potevano formare un battaglione,
ce n'erano quattrocentoventicinque
davanti alla fontana di Longone,
con asini, asine e asinelli,
carichi di attrezzi da lavoro,
di barilotti e di cesti da soma
e si misero tutti a cantare:
I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.
Dato che ora tutto aumenta,
persino il pane e il sapone,
e che non si può più mangiare pesci
e che il vino costa dieci patacconi,
non se ne può più di mangiare sempre acciughe,
vogliamo carne e maccheroni
e bere un gotto di vino o due
invece dell'acqua di Longone
I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.
Il ricco non si sporca mai di fango,
ma quando piove e quando fanno i tuoni
noialtri poveri disgraziati
ci rintaniamo dentro la baracca;
vogliamo un bel fascio di legna
da mettere dentro il caminetto,
ora che viene l'inverno
bisogna riscaldarsi un pochettino.
I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.
Non si può avere un poco d'olio,
ci vendono quello di cotone
e invece delle scarpe da signori
ci danno le scarpe di cartone;
i sindacati sono stati formati
per far valere le nostre ragioni,
se non ci aumentano il salario giornaliero
non pagheremo più contributi.
I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.
che potevano formare un battaglione,
ce n'erano quattrocentoventicinque
davanti alla fontana di Longone,
con asini, asine e asinelli,
carichi di attrezzi da lavoro,
di barilotti e di cesti da soma
e si misero tutti a cantare:
I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.
Dato che ora tutto aumenta,
persino il pane e il sapone,
e che non si può più mangiare pesci
e che il vino costa dieci patacconi,
non se ne può più di mangiare sempre acciughe,
vogliamo carne e maccheroni
e bere un gotto di vino o due
invece dell'acqua di Longone
I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.
Il ricco non si sporca mai di fango,
ma quando piove e quando fanno i tuoni
noialtri poveri disgraziati
ci rintaniamo dentro la baracca;
vogliamo un bel fascio di legna
da mettere dentro il caminetto,
ora che viene l'inverno
bisogna riscaldarsi un pochettino.
I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.
Non si può avere un poco d'olio,
ci vendono quello di cotone
e invece delle scarpe da signori
ci danno le scarpe di cartone;
i sindacati sono stati formati
per far valere le nostre ragioni,
se non ci aumentano il salario giornaliero
non pagheremo più contributi.
I poveri non devono essere schiavi
di tutta la banda di ricconi,
ci metteremo tutti in sciopero
se non ci danno cinquanta patacconi.
Centro Popolare Arcobaleni
Quasi una maledizione, quest'anno, al CPA Firenze Sud. La "Tre Giorni di musica popolare" di fine maggio c'è toccato farcela con un tempo da lupi; l'ultima serata, che di solito si svolge all'aperto e col caldo del periodo, sono state sistemate seicento persone tutte dentro, con le tavolate nei corridoi di tutti i piani, perché diluviava e faceva un freddo cane. Ieri pomeriggio, che invece dovevamo fare una certa cosa in occasione dei "fochi" di San Giovanni, su Firenze s'è scatenato un uragano o quasi. E' andata a finire che quella certa cosa l'abbiamo fatta lo stesso, così come c'è venuta; in compenso, verso le otto e mezzo, mentre eravamo al "Bar Inferno" (il bar estivo sul retro), ci siamo trovati di fronte la meraviglia che si vede nella foto. Un arcobaleno da far restare incantati; e, infatti, lo siamo restati sul serio. C'è chi ha preso delle seggiole e s'è messo a sedere, per guardarlo; gente che usciva dalla porta, e rimaneva a bocca aperta; un paio di donne che non frequentano normalmente il CPA, e che non s'aspettavano di vedere quel prodigio in mezzo all'autentica foresta primordiale che sta dietro a quella sèntina di terroristi, brigatisti, facinorosi, black bloc, schedati, denunciati, arrestati, cassintegrati, precari, strani tipi, cani e via discorrendo. Tutti lì con l'arcobaleno negli occhi, che a un certo punto s'è addirittura raddoppiato. Dopo la tempesta, l'arcobaleno; almeno per una volta ha funzionato così, e con un arcobaleno di quelli veri, indimenticabili. Domani si ricomincia con le tempeste, e fossero soltanto quelle atmosferiche. Mi piacerebbe solo pensare che le si affronteranno un po' meglio con un arcobaleno impresso dentro.
domenica 23 giugno 2013
Bella corsa
E' una di quelle cosa che
non ti puoi ricordare come t'è presa, e non dico a ventitré anni di
distanza; nemmeno ventitré minuti dopo me ne sarei ricordato. Una
cosa che si fa e basta; poi, magari, nel tempo che segue ci si fanno
sopra tutte le ipotesi possibili, quando accade di ripensarci. Una
volta si tira in ballo la suggestione del posto; un'altra una certa
propensione al gesto insolito; un'altra ancora il caldo tremendo che
dà alla testa. Tutte cose possibilissime, sicuramente. Il posto era
lo stadio di Delfi, in Grecia; era l'estate del '90. Ci capitai in
una giornata a dir poco infernale, una mattina di luglio che saranno
stati senz'altro più di quaranta gradi. Con una Ritmo scassata, con
la quale avevo attraversato tutta la Jugoslavia sbucando a Salonicco
dopo essermi fatta una precisa idea che in quei posti, a breve,
sarebbe successo qualcosa di brutto; non ci voleva purtroppo molto
per capirlo. Avevo ventisett'anni, e mi ricordo della brutta città
di Trebinje dalla quale, l'anno dopo, avrebbero preso Dubrovnik come
a sassate nel mare da una scogliera; solo che i sassi erano bombe.
Mentre ero fermo a un incrocio per domandare chissà cosa in chissà
quale lingua, venne incontro un soldato tanto giovane quanto
incredibilmente alto; veniva dalla lontana Vojvodina. Dette
l'indicazione e poi chiese se avevo qualche sigaretta; gli lasciai un
pacchetto intero di Marlboro jugoslave che avevo comprato a un
chiosco per la strada. Meglio non fumarle nemmeno, le Marlboro
jugoslave; da quel che capivo nelle scritte sul pacchetto erano
fabbricate su licenza con tabacco locale, e di Marlboro avevano solo
il nome e il pacchetto. Ne avevo presa in bocca una e mi aveva quasi
strangolato.
E ne avrei chissà quante
da dire su quel viaggio. Quando si lasciava la costa dalmata,
s'entrava in un altro mondo e non sono parole da “Lonely Planet”
o roba del genere. Siccome s'era deciso d'andare in Grecia via terra,
bisognava traversare tutto il Montenegro interno e il Kosovo: dopo un
po' di quelle strade, Dubrovnik sembrava davvero l'ultimo avamposto
della civiltà. Montagne spaventose, gole di cui non si vedeva il
fondo, e boschi impenetrabili; partiti da Dubrovnik in un'estate
rovente, s'era arrivati in cima a scollinare, dopo ore e ore di
macchina, in pieno inverno. Con una nebbia fitta, il riscaldamento
acceso e gli asciugamani da mare buttati addosso a fare da coperte.
Ad un certo punto, dalla nebbia, apparve un vecchio contadino con una
zappa sulla spalla, che saliva a piedi a passi lentissimi; anche lui
sarà stato alto, minimo, due metri. Lo avevo letto da qualche parte
che il popolo dalla statura più elevata in Europa non erano affatto
i norvegesi o gli svedesi, come si crede, ma i montenegrini. Passati
in Kosovo con un tempo di nuovo afoso, ma puzzolente e nuvoloso, era
cominciata la sfilata di strani fuochi accesi nei campi e di cani
morti, un po' dovunque; e di scritte sui muri che, traducendole alla
bell'e meglio, dicevano cose tipo: Vi vinceremo con il cazzo. La
Macedonia, poi, con la città di Titov Veles e le sue baracche di
legno con scritto “Advokat”; dovevano essere, credo, quelli che a
Napoli si chiamano “avvocaticchi”, quelli che patrocinavano in
cause da due soldi. Poi, al confine tra la Jugoslavia e la Grecia, a
Gevgelija, uno spettrale casinò. S'entrò in Grecia come uscendo da
un incubo; ma, a distanza di anni, è quell'incubo che ho ancora,
incancellabile, in testa. Assieme ai bambini di Priština attaccati
alla macchina a chiedere di tutto. Assieme alle fontanelle di Skopje
che buttavano rocchi d'acqua mai visti. Assieme a tutto un paese che
viveva le sue ultime ore, probabilmente sapendolo alla perfezione.
Quel che ho in testa è un mondo morto.
E così, l'Ellade. Con
tutti gli Erodoti, Ulissi, Platoni e Eschili che avevo in testa, mi
venne da chiamarla subito così; e, del resto, Ellade si dice anche
in greco, sebbene sia una parola ritirata fuori soltanto dopo
l'indipendenza del 1821, quando si trattò di dare un nome a quel
paese uscito fuori da secoli di turcocrazia. Ancora durante la
guerra, l'eroe Athanasios Diakos, prima di essere impalato e messo
allo spiedo da Omer Bryonis, per dirgli che era nato greco e sarebbe
morto greco aveva usato la parola “grekos”, e non “ellinas”
che ancora non esisteva; o meglio, esisteva ma significava qualcosa
come “gigante”, o “orco”. Gli “elleni” erano diventati
esseri della mitologia popolare, venuti da un passato lontanissimo.
Dopo qualche giorno tra Salonicco e la penisola Calcidica, quella
dalle tre “dita”, si capitò a Delfi. Era la fine di luglio, e
dopo la parentesi invernale in Montenegro l'estate era tornata a
picchiare sodo. Ero magro. Per quell'estate mi ero anche tagliato la
barba e portavo un paio di occhiali scuri con le lenti graduate. Se
ci ripenso, mi rivedo straordinariamente brutto; non che sia mai
stato una gran bellezza, ma l'apice dello schifo dev'essere stato
proprio in quel periodo.
La Grecia era un
bombardamento; era la prima volta che ci mettevo piede, e tutte le
scemenze classiche di licei, letture, esametri e filosofie mi avevano
ben presto sopraffatto anche mentre ero a sciagattarmelo in un mare
spettacolare. Si dormiva in camere ammobiliate che non costavano
nulla, come in Jugoslavia; il greco moderno lo parlottavo a cazzo di
cane, perché quando si mette piede in un paese dopo anni di
libriccini con le frasi da tradurre, ci si accorge subito della
differenza che passa tra una lingua e il suo simulacro descritto
nelle grammatiche dei professori. Si rivalutano addirittura i
manualetti di conversazione con le frasi fatte, che ti tirano fuori
dai guai: tipo “èchete domatia?”, avete stanze? Oppure “pòsso
kostìsi?”, quanto costa? S'impara alla svelta, quando si fora, che
in Grecia il gommaio si chiama “vulkanizèr”, e anche che il
Parnaso non è letteratura, in quel momento, ma un'orrenda serie di
tornanti pericolosissimi. Per non parlare dei camionisti greci,
criminali a piede libero; o del canale di Corinto che uno pensa a
Corinto e s'immagina chissà cosa, e si ritrova davanti un taglio
pieno d'acqua di mare in mezzo a una zona industriale brutta anche
per lo standard delle zone industriali. E sono cose che fanno bene, o
perlomeno ne fecero parecchio a me. M'andò via dal capo, e di
brutto, tutta la melma che ci avevo dentro. Scomparvero le aurore
dalla rosee dita e le coronate di viole, divine e dolceridenti Saffo;
e mi apparve un paese chiamato Grecia. Con la sua gente che a volte
diceva parole sperse nella notte dei tempi, come “logos”, e a
volte usava parole italiane, slave e turche. Mi apparve il cameriere
che faceva battute da caserma portandomi in tavola una specie di
pupazzetto col cazzo ritto. Mi apparve la casa di Leonard Cohen,
vuota, a Idra, mentre un asino se ne stava là placido a non far
niente sotto il sole; il tutto mentre vivevo, da giorni e giorni,
un'ora indietro. Mi ero scordato del fuso orario e non avevo rimesso
l'orologio; me ne accorsi dopo due settimane perdendo un traghetto.
Non posso quindi dire con esattezza che ora fosse a Delfi, le
undici, mezzogiorno o chissà.
Prima, però, c'era stata
un'incursione dell'Ellade. A Micene, segnalata da vecchi cartelli
scrostati in greco antico, “Mykenai”. Passando sotto la Porta dei
Leoni, che in quel caso non si usa affatto il termine comune per
“porta” (che è “porta”, come in italiano), ma l'antico
“pyle”. C'era una marea di turisti e si sentiva parlare solo
italiano e tedesco; eppure, passando sotto quella porta e entrando
dentro nel sito archeologico dopo avere attraversato il solito paese
sgarrupato e polveroso, qualcosa la sentii. Si manifestò poco dopo
dentro la tomba di Agamennone, dove cominciai a sentire dei rimbombi
che non mi spiegavo e che, in seguito, mi sono rifiutato di spiegare
lasciandoli così come sono, nella mia memoria. Ci sono dei posti che
fanno di queste cose, e uscii fuori di lì tenendomi rigorosamente
per me tutta una pappardella sulla Lineare B che avevo in mente di
infliggere a chi stava con me; bisognerebbe bruciare tutti i licei
classici, e maledetto quel venti di settembre del '77 quando ci misi
piede, in quella fogna di scuola. Micene, però. Micene dove il passato remoto mi aveva emesso i suoi suoni, anche se magari era un bambino di Abbiategrasso che pestava i piedi perché voleva il gelato, facendo eco in quel posto dove Agamennone erano le pietre e la terra che s'innalzavano nella penombra rarefatta. Al ritorno,
provai per il paese sgangherato e polveroso un moto di istintiva
simpatia; dovevano mangiarsi la loro polvere e i loro souvlakia, e
lavorare, e vivere, e finire in galera sotto i Colonnelli, e mandare
i loro figli soldati, e far fronte alle cannelle secche dell'acqua,
con alle spalle la porta dei Leoni e la tomba di Agamennone che,
ovviamente, utilizzavano per vendere paccottiglia ai turisti.
Prima d'arrivare a Delfi,
ché comunque bisognava pagarlo sempre e comunque il tributo
all'antichità classica, s'era fatto un salto nei Balcani. Si passò
da un paese a poca distanza, Arachova, che ha un nome slavo; segno
che, in mezzo agli oracoli e ai teatri, dovevano esser passate genti
parecchio variopinte nei secoli. Come variopinti erano i tappeti che
vi si facevano, tappeti e panni, non so dire se arazzi o chissà
cosa. Stupendi e cari assaettati, specie per chi viaggiava coi soldi
contati. Il paese era una distesa disordinata di case moderne
addossate a una montagna, e mi venne fatto di paragonarlo a città
come Potenza o roba del genere; si bolliva dal caldo. S'arrivò,
finalmente, a Delfi. Lo Stadio era pieno di gente, anche quello;
c'era, da qualche parte, un museo chiuso e menomale, perché ho
sempre cordialmente detestato i musei tranne quello di Van Gogh a
Amsterdam, dove dovettero tirarmici fuori di peso o quasi, e quello
di Marc Chagall a Nizza. Al colmo del ridicolo, avevo una canottiera
e un paio di pantaloni corti che avrebbero potuto benissimo essere
definiti “ascellari”, come quelli di Fantozzi. Ma avevo
ventisett'anni, porca dell'eva troia. Bisogna tenere conto di questo,
e cerco di farlo in questa serata di prima estate, a quasi
cinquant'anni, da solo qua dentro mentre gira il ventilatore. La mia
parte di mondo e quella corsa.
Successe così,
all'improvviso, senza un pensiero. La persona che era con me era
voltata da un'altra parte dentro lo Stadio, e mi chiedo ancora oggi a
che cosa pensasse, che cosa vedesse. Famiglie intere di tedeschi e
olandesi, borracce, panini smangiucchiati, il venditore di souvenir.
Forse qualcuno stava sugli spalti, nonostante ci fosse da ustionarsi
a mettersi a sedere sui gradini. Mi levai ogni cosa di dosso. Gnudo.
Così, senza pensare a niente; e mi misi a correre, correre, correre
senza sentire più nulla.
Ripensandoci, ritengo
altamente improbabile che, in un millesimo di secondo, mi sia fatto
tutto il ragionamento classicista sulle Olimpiadi, e sul fatto che i
corridori erano rigorosamente ignudi; non mi sarà venuto certamente
in testa che la stessa parola “ginnastica” significa “esercizio
che si fa nudi”. Nudo con le scarpe da ginnastica, giustappunto, e
senza calzini; dovevano puzzarmi i piedi da fare ribrezzo. E
cominciai a correre immaginandomi boati, che magari erano quelli di
tedeschi che sghignazzavano o di italiani che coprivano gli occhi ai
bambini. Presi un via di quelli che non m'era mai successo prima, né
mai m'è risuccesso dopo. Correvo e basta. Non sentivo più nemmeno
il caldo. Sudavo e mi sembrava d'aver fresco addosso, il fresco del
vento; mi feci tutto il giro dello stadio, in un tempo sospeso.
Ultimato il giro, farfugliai qualcosa tipo “scusa, m'è venuto di
farlo”; sentii un “capisco, tranquillo, capisco”. Mi rivestii
mentre due o tre persone, non so se a presa di culo o cosa, mi
facevano un applauso. M'ero fatto la prima e ultima Olimpiade, mia e
basta, irripetibile e con delle scarpe fetide.
M'è capitato, sì, di
raccontarlo a qualcuno negli anni che son venuti e passati. Ogni vita
ha i suoi episodi, e in gran parte sono formati da stupidaggini cui,
venuta l'età, si attribuisce chissà quale valore, o particolarità;
e il confine tra le seghe mentali in cui ci si dibatte per tutta
un'esistenza senza costrutto e la Ricerca del tempo perduto
di Proust, sono molto labili. Gira il ventilatore, e rigira nella sua
meccanica che non comprendo minimamente nonostante, per molti, sia
semplicissima; ma mi basta che giri e agiti l'aria caliginosa. Al
termine della corsa allo stadio di Delfi, andai verso il venditore di
souvenir e comprai una cartolina illustrata; la spedii, unica della
mia vita, a me stesso. A Riccardo Venturi, via Federigo Tozzi 3,
50135 Firenze. Ci scrissi soltanto, a me stesso: Bella corsa. Mi
sembrava d'aver fatto chissà cosa. Arrivai a raccontare che il giro
dello stadio erano quattrocento, poi addirittura ottocento metri;
raccontandolo più spesso, un giorno o l'altro avrei detto che avevo
corso per tre chilometri. Da qualche parte, poi, ho letto che il giro
dello stadio di Delfi misura, in tutto, centosessanta metri. Bella
corsa lo stesso, Riccardo d'un passato che s'allontana, di quando
dentro a quel giro c'era ogni cosa che sarebbe stata senza, col vento
in faccia, saperlo.
sabato 22 giugno 2013
giovedì 20 giugno 2013
Viglietti
Mentre no Brasil, nonostante uno sguizzero di merda che dice che il pallone è più importante de' poveri (senza conoscere la vera storia del pallone, fatta da poveri), con due o tre maniffe il prezzo de' viglietti di' busse cala, dalle nostre parti dell'Isolotto vi voglio raccontare tre quarti di cosa.
Da quando non ho più la macchina, se rientro a casa dopo le ventuno e cinquantacinque son fettoni. Prima di qualche mese fa, il 9 (linea storica nata con l'Isolotto, e che ha avuto pure il bus Aerfer a due piani), aspettava l'ultima corsa della tranvìa; poi è finito tutto. Il borgomastro ha deciso che la crisi dipendeva da due ore di corsa del nove, e allora ha tagliato tutto in nome del patto di stabilità e della majaladisumà. Al posto del nove ha messo il "Nottetempo": servizio a richiesta chiamando un numero che non risponde mai, e dopo vi spiego perché. Viglietto a quattro euri.
Risultato: quando torno a casa dopo le ventuno e cinquantacinque, e ci torno sempre dopo perché a cinquant'anni mi potrei anche permettere di non osservare orari da seconda media, piglio la tranvìa e scendo a Batoni. Da Batoni a casa mia sono due chilometri e mezzo. Le soluzioni sono due: o piglio il taksim (taksim! taksim!), o me la fo a fettoni. In pratica, me la fo a fettoni passando dalla stupefacente via del Palazzo dei Diavoli. Alla fine c'è il tabernacolone della madonna; e la madonna a me, en resumidas cuentas, mi sta simpatica. Poi c'è via Cassioli col bar "Oasi" aperto fino a tardi, casomai mi pungesse vaghezza d'un caffeino o d'una techilina liscia del Giuseppe Corvo (quella hanno). Poi la tranquilla e segreta via Segantini con le sue rose. Poi la strada più corta di Firenze, via Passaglia. Poi l'ultimo pezzo della meravigliosa via de' Sabatelli che sbocca in via Pio Fedi. In via Pio Fedi, i' mi' amico pizzaiolo che ha votato per Grillo, che gli piscio sempre nel lavandino e lui s'incazza e dice che sono una bestia ma poi sta zitto perché è alto un metro e 55 e io quasi un par di metri. Poi casa mia, miao miao, miciuuuuuu, e lui arriva nero nero, sinuoso, insondabile e piacevolmente stronzo come san esser istronzi soltanto i gatti.
Divago.
I viglietti bisognerebbe essere in Brasile, la patria do futebol, o Maracanã (l'avrà mai saputo qualcuno che si pronuncia con la nasale finale?), lo sguizzero, le proteste, Cesare Battisti e la compagna Russeffa che para il culo ao capital nel nome d'un gesuccristo che se ne sta lassù sul Corcovado a braccia spalancate, ma non sono spalancate più per i pendolari. E, allora, bisogna scendere nella rua; e i viglietti calano. Qui no. Qui non c'è il Corcovado, c'è l'incrocio con via Lippo Memmi. Cammino nella notte profumata di gelsomini oramai mezzi marci. Fo una pisciata addosso a una Clio. Annuso l'odor di pasta di pane d'un laboratorio. Passo oltre due sedicenni che si baciano intuendo anche something else, che iddio li benedica. Che faticata, ma vado come un treno e le gambe filano; però non sarebbe giusto, ma bisognerebbe instillarci dentro un bicchierino di rebeldía. Va a finire che la rebeldía si mischia all'odore dei gelsomini marcenti, però.
Eccomi a casa.
Il numero del "Nottetempo", come mi hanno raccontato, non risponde mai perché c'è un solo operatore e non ce la fa mai a evadere tutte le chiamate. Si chiama, vagamente, truffa.
Nella foto, Daniel Viglietti, un grande artista uruguagio. Casualmente, il suo cognome è uguale a come son chiamati i biglietti negli scritti di Federico Maria Sardelli. Mi fumo un sigaro bevendo un caffè che mi fa venir sonno; la notte comanda. Il gatto nero gira e lancia occhiate d'infinito.
mercoledì 19 giugno 2013
Taksim
Oggi ho fatto un salto in piazza Taksim, era quasi vuota. Ma non perché l'ha sgomberata con la forza la polizia; era vuota perché ancora non s'è riempita.
Proprio come tutti i giorni di questa tempesta. Dovevo andare all'ambulatorio comunale di piazza Taksim, sotto i portici fra la farmacia, la bottega del pizzicagnolo e il bar latteria, a ordinare le medicine. E' scoppiato il caldo, quello vero; è andata a finire che, per fare i seicento metri da casa mia alla piazza, ho fatto una camiciolata di sudore. L'ambulatorio, però, era ancora chiuso; ne ho approfittato per un giro.
C'era la solita gente di piazza Taksim, rarefatta e accaldata. Il trippaio che sonnecchiava senza manco un cliente. Due o tre spazzini che ripulivano la tettoia del mercato. Gli sfaccendati davanti al bar dell'Eva, la più bella di piazza Taksim, che giocavano a briscola e ventuno, o leggevano lo Stadio e la Gazzetta dello Sport. Un ragazzo senegalese a sedere appoggiato a una colonnina del portico, che si schiacciava una pennica. E il sottoscritto in attesa dell'apertura dell'ambulatorio, mézzo di sudore, in pantaloncini e con una maglietta arancione col gatto Silvestro che fa il pugno chiuso. Un giorno si riempirà.
Si riempirà, questa piazza Taksim a pochi passi da casa mia, quando si alzeranno i pensionati lasciando le carte da gioco sul tavolo. Quando il trippaio si metterà a distribuire panini a gratis alla gente che arriva a frotte. Quando si sveglierà il ragazzo senegalese con paio di sguardi differenti. Si riempirà come, in dei giorni qualsiasi come questo, si riempiono le piazze di tutto il mondo, dalla Turchia al Brasile. Arriveranno da ogni parte, anche in questa piazza addormentata e calcinata da sole di prima estate.
Si smetterà, allora, di credere nelle loro baggianate. Si smetterà d'andare a dare il voto di protesta a un buffone genovese, o al boy scout della Ruota della Fortuna, o al puttaniere di turno, o al responsabile altrettanto di turno. Si smetterà di leggere i giornalacci del "degrado" e si andrà in dieci, cento, mille, centomila piazze Taksim. E parleranno il presidente, il ministro, il capo della polizia e il vigile urbano, magari proprio quello della squadretta adibita ai pestaggi; e, mentre parleranno, prepareranno già i loro idranti insanguinati, i loro manganelli rinforzati, i loro peperoncini e le loro democrazie.
Toccherà pigliarli addosso. Al trippaio, agli sfaccendati e alle loro carte da gioco, al senegalese, ai vecchietti che passano, al tipo sudato con la maglietta del gatto Silvestro. Toccherà assaggiare la brutalità e la violenza dei figli dei lavoratori. Toccherà concluderne, come avranno fatto ad esempio quelli nella piazza Taksim di Terni, che parecchi lavoratori avrebbero fatto meglio a farsi una vasectomia prima di mettere al mondo dei figli del genere. Toccherà appallottolare le gazzette di uno sport diventato uno strumento di repressione come gli altri. Toccherà essere sgomberati a Istanbul per riformarsi a Rio de Janeiro, formarsi all'Isolotto per essere sgomberati e ammazzati a Atene, riformarsi ancora chissà dove e piangere lacrime di lacrimogeno, e essere sollevati fino alla luna da getti d'acqua mista a Zyklon B. Toccherà questo ed altro, prima di spazzarli via tutti.
E si riempiranno tutte, le piazze. Quando si capirà, senza ritorno, che piazza Taksim ce la abbiamo a portata di piedi, o a due fermate d'autobus. Che tutte le piazze del mondo sono fatte per questo, e che si parlano, e si rispondono. Che le piazze e le città intere se le sono prese, dappertutto, a base degli stessi ingredienti. Che Erdogan distrugge i quartieri in nome del degrado esattamente come Matteo Renzi, che la distruzione del parco Gezi e quella delle favelas sono figlie delle stesse cose. Che la militarizzazione e la repressione delle piazze la si combatte prendendo e andandoci, e standoci. Alla fine, quei loro maledetti idranti si seccheranno come gli acquedotti privatizzati. Alla fine, il peperoncino quello vero glielo strusceremo sul muso, legioni di habaneros e di diavolicchi calabresi ficcati nello sfintere a quei servi.
E' aperto l'ambulatorio, finalmente, in piazza Taksim. Ne esco dopo un po', nel bollore estivo. E guardo la piazza, sempre vuota. Chiama e rispondi, anche qui arriverà; e che sia dal gran viale di Istanbul o dal viale delle Magnolie, è lo stesso vento.
martedì 18 giugno 2013
Le squadracce "antidegrado" di Matteo Renzi
Il seguente comunicato di Firenze Antifascista è ripreso dal Centro Popolare Autogestito Firenze Sud.
La testimonianza di quanto accaduto giovedì sera alla Stazione di SMN
Con questa comunicazione Firenze Antifascista vuole rendere pubblico e diffondere il più possibile il racconto di un testimone oculare rispetto a quanto accaduto nella serata di giovedì 13 giugno nei pressi della Stazione di Santa Maria Novella:
La sera del 13/06, verso le 23.00, alla stazione di SMN, all’altezza
della fermata della tramvia via Alamanni sul lato della scalinata, ho
visto un gruppo di 10-15 persone che si distingueva perché indossavano
tutti guanti neri e si aggiravano nei pressi della fermata con fare a
dir poco agitato e aggressivo. Mi sono avvicinato facendo il vago, come
fossi un passante indifferente e ascoltando ciò che dicevano mi sono
reso conto che stavano aspettando qualcuno.
Mi sono quindi fermato per vedere cosa stesse davvero succedendo. Ho
così potuto sentire che si scambiavano frasi del tipo: "stasera è
bandaccia", "dove cazzo sono, non vedo l'ora", "sono in ritardo". Erano
sempre più agitati e evidentemente erano sotto l’effetto di cocaina.
Dopo circa 10 minuti ho notato un altro particolare: insieme a quelli
che indossavano i guanti erano presenti alcuni uomini più anziani con in
mano una radiolina.
Proprio dalla radiolina ad un certo punto è arrivato il segnale che
stavano aspettando. Ho sentito chiaramente quella voce dire: “dall'altra
parte della strada! Stanno arrivando! Attraversate!".
Gli individui più giovani, quelli con i guanti neri e sicuramente più
prestanti fisicamente, sono corsi sull'altro lato della strada.
Ho praticamente attraversato con loro. Ho visto che nel frattempo stava
arrivando la tramvia. Quando si sono aperte le portiere è sceso un
gruppo di persone di cui 5 o 6 ragazzi di colore e con tutta probabilità
senegalesi.
Neanche il tempo di rendermi conto delle loro reali intenzioni che gli
si sono scagliati addosso con una ferocia indescrivibile.
Nel parapiglia ho visto sicuramente che un senegalese è stato prima
schiantato su una vetrina accanto al negozio TIM e poi inseguito insieme
agli altri che scappando avevano già raggiunto la parallela. Avevo
paura che se li avessero raggiunti nella parallela senza che nessuno
fosse presente ad assistere alla scena si sarebbero sentiti liberi di
far di peggio. Quindi mi sono mosso e li ho inseguiti anch’io, ma non
sono riuscito a stargli dietro…penso che fortunatamente siano riusciti a
scappare!
Ma tornando indietro ho notato i due uomini più anziani, quelli con la
radiolina che si stavano allontanando. Così ho iniziato a seguire loro.
Sono riuscito a sentirli parlare al cellulare e uno dei due ripeteva
ossessivamente: “dove siete? Vi serve una macchina? Vi mando una
VOLANTE?”
Ho capito allora che non si trattava solo di un gruppo di fascisti, ma
che questi avevano anche la divisa…
Sono riuscito a seguirli fino al “Parcheggio Europa” all'altezza di via
Montebello.
Ad un certo punto però uno dei due, il tipo che "dirigeva l'operazione",
il solito che aveva distribuito i guanti neri prima dell’aggressione si
volta e mi chiede: “chi sei? Perché ci stai seguendo? Dammi i
documenti!” Io gli ho detto che non gli stavo seguendo ma che mi ero
perso e stavo cercando via Montebello…per quanto riguarda i documenti
gli ho invece chiesto perché avrei dovuto mostrarglieli. “Per questo!”
mi ha risposto lui tirando fuori il tesserino della POLIZIA MUNICIPALE.
Ho visto che non ha annotato il nominativo ma con fare intimidatorio mi
ha chiesto: “Abiti ancora qui?” A quel punto mi ha invitato a “levarmi
dal cazzo” e, ricevuta anche l’indicazione su dove fosse via Montebello,
non ho potuto che andare nella direzione opposta e poi tornare sui mie
passi.
Sono tornato alla stazione. Preso dalla rabbia e dall'adrenalina sono
tornato alla fermata della tramvia. Lì c’era una macchina della "GEST"
in mezzo alle rotaie mentre alla fermata dell’autobus poco più avanti
c'era un senegalese che mi osservava. Mi sono avvicinato per chiedergli
se avesse visto la scena e se sapesse cosa fosse successo. Nonostante
fossero tutti in borghese e non vi fosse nessun modo per riconoscerli a
colpo d’occhio, lui mi ha detto subito: “questi sono della
MUNICIPALE!”... Poi, facendomi il segno della pistola con le mani mi ha
detto: “molti italiani quando vedono noi impazziscono…” Non ho avuto
tempo di chiedergli altro perché è arrivato l’autobus, lui mi ha
salutato e se n’è andato…"
lunedì 17 giugno 2013
Galere, anarchici e poliziotti
" La soglia del senso comune ci impedisce di pensare ad una società che sia priva del carcere, e fa bene, secondo me, perché il senso comune non è sempre da mettere sotto i piedi, in quanto una società con queste condizioni di distribuzione dei rapporti produttivi, con queste condizioni dei rapporti culturali e dei rapporti politici, non può fare a meno del carcere. E pensare ad una possibile eliminazione del carcere da questo contesto sociale è una bella utopia che può soltanto alimentare le pagine dei libri di quelli che, lavorando all'Università, scrivono pagati dallo Stato.
Il resto, secondo me, è veramente perdita di tempo, perlomeno da quello che ho potuto capire. Può essere che ho capito male queste tesi sull'abolizione del carcere, eppure mi sembra di avere notato alcuni di quelli che oggi sono sostenitori dell'abolizionismo, gente che conosco personalmente, essere gli stessi che ieri si dicevano non dico stalinisti, ma comunque sostenitori del materialismo storico sul carcere, cioè sostenitori delle analisi del carcere come realtà strettamente legata allo sviluppo della formazione produttiva, ecc. Questi stessi oggi sono per l'abolizione del carcere perché questa ipotesi è di natura anarchica, libertaria almeno, e non è di natura autoritaria o stalinista. A prescindere dalle straordinarie capacità di evoluzione politica, con cui questa gente non finirà mai di stupirmi, persisto nel dire che, comunque, questa tesi sull'abolizionismo è sempre una stupidaggine, anche se la si qualifica come anarchica. E perché non potrebbe esserlo? Forse che gli anarchici non dicono stupidaggini? Non è una strana cosa. Io conosco un sacco di anarchici che dicono stupidaggini. Secondo me non esiste una equivalenza tra anarchico e intelligente, l'anarchico non deve essere per forza intelligente. Io conosco moltissimi anarchici stupidi. E conosco moltissimi poliziotti intelligenti. Che c'è di male? Non vi ho mai trovato niente di strano in questo. "
Chiusi a chiave. Una riflessione sul carcere.
= Alfredo Maria Bonanno =
1993, Laboratorio Anarchico di via Paglietta, Bologna.
domenica 16 giugno 2013
venerdì 14 giugno 2013
La Giunta.
Questi due uomini e questa donna affacciati al balcone con la bandiera nazionale e uno striscione, sono lavoratori della ERT, la Ελληνική Ραδιοφωνία Τηλεόραση, vale a dire la Radiotelevisione pubblica della Grecia. Che cosa sia accaduto alla ERT in questi giorni, lo sanno tutti; il "governo" di Samaras la ha chiusa. Mandando nel tritatutto duemilacinquecento dipendenti con la generica promessa di "riaprirla" con personale ridotto all'osso e mandando la polizia a spegnere i ripetitori principali. Esiste un solo precedente per una cosa del genere in Grecia: risale al 1941, quando le emissioni radiofoniche greche vennero interrotte dai nazifascisti italiani e tedeschi che avevano invaso il Paese.
Vorrei comunque far notare che cosa si dice nello striscione che si vede nella foto. Dice, precisamente: ABBASSO LA GIUNTA - LA ERT NON CHIUDE.
Metto l'accento sul termine utilizzato per definire il "governo" di
schiavi di Samaras: "Giunta". Esattamente lo stesso, Χούντα, che viene
da tutti, in Grecia, usato per definire il gruppo di militari fascisti
che prese il potere col colpo di stato del 21 aprile 1967; i famosi
"Colonnelli", insomma. Questo malgrado neppure la giunta militare guidata da Papadopoulos, Pattakos e Makarezos, direttamente al servizio
della CIA, fossero arrivati a tanto; bisogna arrivare a pensare in questo modo. La sia messa così: la dittatura militare fascista si serviva della televisione come grancassa del regime; la dittatura "democratica" attuale, invece, chiude tutto (ma, naturalmente, soltanto nell'ambito del servizio pubblico).
Nonostante ciò, il "governo" greco è oramai, e a pieno titolo,
assimilato al regime fascista militare, anche nel senso comune; stessa
schiavitù, stesso asservimento (alla CIA o all' "Europa" dei banchieri
ha scarsa importanza, con l'avvertenza che, forse e terribilmente, per
parecchi greci neppure la giunta militare era arrivata a tanto nei
confronti dei propri cittadini, pur in mezzo a torture e repressioni). E
questi qui continuano imperterriti; ma si renderanno conto di che cosa
rischiano, ammazzando il proprio paese? Che cosa intenderanno fare, ancora? Dissolvere completamente la Grecia? Sarebbe ora, perlomeno, che lo dicessero forte e chiaro: Cittadini greci, scusateci tanto ma dobbiamo operare questo autosterminio. Poi dicono di Pol Pot!
Nel frattempo, i greci si rendono conto di vivere un incubo ben peggiore della dittatura militare, dei lager nelle isole, di Makronissos e di Leros; viene proclamato lo sciopero generale, decine di migliaia di persone scendono in piazza, e non resta che Internet. E questa, forse, è la risposta ai tanti (tra i quali, in certi periodi, mi ci devo mettere pure io) che vogliono "spegnere la televisione". La Grecia ci fornisce un esempio di spegnimento totale di un'intera televisione pubblica, dandoci modo di riflettere opportunamente sulle nostre tante, sesquipedali e oziose cazzate. Ecco le occasioni in cui la televisione viene "spenta": da un governo assassino votato allo sterminio dei propri cittadini. Con la speranza, del tutto reale, che l'ondata che lo spazzerà via sia trasmessa in diretta televisiva. Prossimamente su questi schermi.
domenica 9 giugno 2013
Quando si diventa canzoni
Per farti
scrivere una canzone addosso basta poco.
Basta, che
so io, che tu esca una sera per andare a un mercatino in una via centrale
di Parigi. Che tu incontri dei giovani identitari tradizionalisti
(i fascisti hanno sempre avuto una certa tendenza a tentare di
nascondere arzigogolatamente il loro puzzo di fogna e di morte), e
sei finito. Una spinta, una revolverata, una sprangata, qualsiasi
cosa, e fai la fine di Clément. Dimenticavo: devi, naturalmente,
essere antifascista. E militante. Di quelli sul serio e senza sconti.
E magari pure un anarchico che non passa il suo tempo a fare l'album delle figurine Panini su una guerra di settant'anni fa, forse perché ti sei accorto, già da ragazzo, che la guerra è oggi. Non uno di quegli “antifascisti” la cui attività preferita è
parare il culo coscienziosamente ai fascisti, sdoganarli, concedere
loro tutti gli spazi e la visibilità possibile e farsi loro perfetto
complice in nome della “democrazia” e della “libera
espressione”. Considero questa gente addirittura peggiore dei
fascisti, così come coloro che irridono l'antifascismo che cerca di
resistere attivamente ricordando con protervia i loro “anni
formidabili” e le loro “rivoluzioni” anche se si parla del
tempo che fa, per starsene però, oggi, rinchiusi in qualche
bugigattolo a tirarsi seghe su Facebook. Poi vanno ai funerali dei
compagni morti, senza accorgersi che il loro, di funerale, è stato
fatto già da tempo; e senza che ci sia andato un cazzo di nessuno.
E
così, su Clément Méric è già stata scritta una canzone.
L'odio, e poi il silenzio
Un colpo per una vendetta
Contro il rosso e il nero.
Hanno ucciso un fratello stasera
Contro la solidarietà e l'amore,
Cose che sempre odieranno.
Contro le tue idee così belle,
Ti hanno voluto spezzare le ali.
Stai tranquillo, perché le tue idee
Saranno urlate col pugno alzato,
Tu vivrai attraverso di esse
Nelle nostre lotte e nei nostri cuori
Là dove spunteranno i tuoi fiori.
I tuoi fiori ? Le tue idee così belle.
Un colpo per una vendetta
Contro il rosso e il nero.
Hanno ucciso un fratello stasera
Contro la solidarietà e l'amore,
Cose che sempre odieranno.
Contro le tue idee così belle,
Ti hanno voluto spezzare le ali.
Stai tranquillo, perché le tue idee
Saranno urlate col pugno alzato,
Tu vivrai attraverso di esse
Nelle nostre lotte e nei nostri cuori
Là dove spunteranno i tuoi fiori.
I tuoi fiori ? Le tue idee così belle.
Hai visto, Clément? Sono bastati cinque giorni, fra poco non hai fatto nemmeno in tempo a morire a diciott'anni per mano di tre pezzi di merda con le teste rasate e di una delle loro donne. Pure lei, si vede, identitaria tradizionalista; e, in un certo senso, è un'espressione che corrisponde a verità. La loro identità e tradizione è infatti la morte, come quella che ti hanno dato perché passavi sulla loro strada. Su una strada di uno di questi nostri gran paesi europei, quelli che mai più avrebbero dovuto vedere il fascismo, quelli che nelle loro costituzioni tanto strombazzate infilano le norme sul "divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista" per poi farne ricostituire a decine, e mandarli nei loro parlamenti.
Cinque giorni, Clément, e ci hai già la tua canzone. Forse un po' ingenua, ma bella. Stai pur sicuro che ne scriveranno altre, e pure di migliori. Come su Carlo Giuliani. Come su Alexis Grigoropoulos. Quando si diventa canzoni, bisogna per forza essere morti da un po' di tempo a questa parte. Non esistono più canzoni sui vivi che hanno preso questi stronzi e li hanno ricacciati nelle fogne da dove vengono; e come sarebbe possibile, del resto?
Firenze, 8 giugno 2013, ore 17 circa davanti all'unione sportiva Affrico.
Lo stato mette in atto il "No pasarán" agli antifascisti nella città "medaglia d'oro".
Sarebbe forse il caso di farla di cioccolata, questa "medaglia d'oro", almeno si mangia.
Quando si muovono, come ad esempio ieri a Firenze, sono protetti da cordoni di polizia e carabinieri da fare impressione. Ti dicono, agendo in combutta, di riunirsi da una certa parte, e invece sono dall'altra parte della città; e, nonostante tutto, chi ha voglia di fare antifascismo piglia macchine, motorini e biciclette e si sposta là, dove sono. Nella specie di parco giochi ritagliato loro dalle democratiche autorità di questa città "medaglia d'oro per la resistenza", un vialone deserto dove li fanno sfilare con le loro camicine bianche, il loro "grande capo", le bandiere al vento e i loro slogan gridati senza curarsi di prendere a pretesto, per la loro puzza di cadaveri, neppure un episodio di violenza sui minori. Chissà, forse gioverebbe ricordare a questi decomposti, mentre urlano sul Forteto e sui fatti che vi sono accaduti, che cosa fecero a loro tempo a due ragazze minorenni i loro camerati Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira.
Una perfetta sintesi: il grande capo di Forza Nuova, Roberto Fiore, si intrattiene amabilmente con un carabiniere davanti alla piscina Costoli. Questa foto si potrebbe intitolare semplicemente : "Lo Stato". Da notare la camicina bianca del fascistone che fa da contraltare al nero d'ordinanza del carabiniere: certo che fare i bianconeri davanti allo stadio di Firenze non è una bella uscita. Il Fiorin Fiorello Fascistello ha messo su anche una bella buzza: poi se ne hanno a male se gli si dà di porci...
E noialtri, dietro. Da ogni parte. Per pochi che possiamo essere in un sabato di giugno, mentre la città sembra essere tutta presa da cose importantissime, come la festicciola delle "idee" di un giornale di merda e l'addio di un miliardario a una squadra di pallone. Dietro, e a farli sudare; loro e i loro instancabili protettori. Dietro, e non soltanto per dire che "ci siamo"; perché lo sanno bene, che ci siamo. Lo sanno bene che nessuno li vuole, anche se solo in cinquanta hanno la forza di andare a dirglielo sul muso per tutto il Campo di Marte. Gridando anche il nome di Clément Méric, di un ragazzo, di un compagno che degli assassini come loro hanno appena trasformato in canzone.
Certo che non siamo potuti passare. Bisognerebbe essere non in cinquanta, ma in cinquemila per poter passare. E cinquemila non siamo perché chi dovrebbe essere con noi, e esprime tanta "solidarietà" e "comunanza", lo fa generalmente per mezzo di una bella tastiera. Magari una bella fotografia di Clément con un'altrettanto bella parola di invettiva, e poi di nuovo a masturbarsi a base di Spagne, di Sirie, di Egitti, di galere, di lavori e di ogni cosa, mentre qui si continua a crepare in mille modi e fantasiosi. Unica consolazione, quella che su questi "solidali" nessuno scriverà mai non dico una canzone, ma nemmeno una filastrocca dello Zecchino d'Oro.
Nel mentre che i fascisti non rinunciavano neppure ad essere ridicoli, altra loro perfetta identità e tradizione. Iperprotetti, sfilano per un viale completamente vuoto, che così sbarrato non lo sarebbe neppure se la Fiorentina giocasse la finale di coppa dei campioni. Nonostante ciò, riescono a farsi infamare a dovere da un gruppo di rugbyisti che se ne stanno a fare un torneo nel loro campo sportivo. Dei rugbyisti si erano dimenticati, ops; evidentemente, nel mondo della palla ovale c'è più sensibilità verso certe cose che nell'antagonismo a centoquaranta caratteri.
Succede, ora come ora, quando si diventa canzoni. Ci andiamo a fare certe cose ben sapendo che, un giorno o l'altro, qualcuno potrebbe scriverla pure su di noi, una canzone. Del resto, non è un caso che proprio a uno che scrive canzoni, O' Zulu, siano andati a fare una visitina a Velletri, in venti contro due.
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