domenica 14 luglio 2013

Perché il 20 luglio andrò a Genova



Io credo che, il 20 luglio a Genova, saremo in pochi.

Sono passati dodici anni. Il tempo sembra andare ancora più veloce di prima; non so se sia a causa dell' “era telematica” o di qualche altra cosa. Ultimamente ho avuto modo di fare due chiacchiere con dei ragazzi e delle ragazze di una ventina d'anni circa, e non sono ragazzi disimpegnati. Qualcuno milita in dei movimenti antagonisti e ci ha anche già un paio di denunce sul groppone; anche se, ora come ora, per beccarsi una denuncia (o anche peggio) basta davvero poco. Bene; la situazione è piuttosto curiosa. Tutti conoscono il nome di Carlo Giuliani, ma come una specie di icona. Quasi fosse morto non dodici, ma centododici anni fa; in alcuni casi, slegato totalmente dagli avvenimenti. Due o tre di questi ragazzi, che pure conoscevano il nome di Carlo Giuliani, mi hanno detto di non sapere che era stato ammazzato a Genova nel 2001. Nel 2001 avevano sette, otto anni; dei bambini. Il venti di luglio di quell'anno è probabile che stessero facendo il bagno e giocando su una spiaggia, come del resto è giusto che sia.

Sono stato ben lontano dallo scandalizzarmi e dal cedere alla tentazione di fare la solita, pedante e stantia “lezione di memoria” a quei ragazzi. Mi sono quasi rotto le scatole della “memoria generazionale” o roba del genere. Non voglio correre il rischio di trasformarmi nel solito trombone degli anni '70, tutto piagnistei sulla rivoluzione sognata, “disillusioni” e pappardelle del genere. Di fronte a me avevo ragazzi qualunque, che il loro mondo lo hanno visto e lo vedono così com'è, sulle loro spalle. E allora bisogna accettare ogni cosa, anche che un ragazzo ammazzato dallo Stato dodici anni fa sia diventato una specie di nome che vola, uno che c'è e non si sa, un sentito dire, una palla di gomma alla deriva nel mare.

Anche e soprattutto per questo andrò a Genova. Dovessimo essere pure in venti in quella maledetta piazza che, è inutile fare, continua imperterrita a chiamarsi “Alimonda”. Non esiste nessuna “piazza Carlo Giuliani ragazzo” con tanto di cartello, in questo paese; e forse, ora che ci penso, è meglio così.

C'è una cosa che quei ragazzi hanno ben presente, anche senza sapere bene quel che accadde a Genova in quei giorni. Hanno ben presente che, senza nessun “G8”, senza nessun assalto alla Diaz, senza nessuna macelleria messicana, potrebbe toccare anche a loro. Prelevati e portati in questura per una scritta o una testimonianza scomoda su cose che hanno visto e non dovevano vedere. Tritati senza aver tirato nessun estintore al carabiniere. Intimiditi, impauriti, spauriti così, diciamocelo forte e chiaro, lo siamo tutti senza nessuna distinzione di età. Questo lo sanno senza nessun bisogno di icone; lo sanno per la loro storia di tutti i giorni.

E allora si va a Genova, in quella piazza, senza nessuna “celebrazione” vuota di senso. Ci si va per vedere a quale punto miserevole siamo arrivati, e per cercare di constatarlo definitivamente e senza false illusioni. Ci si va per toccare uno sfacelo, perché di fronte allo sfacelo è bene non fare come gli struzzi. Ci si va non per una canzone o uno slogan; ci si va per non arrendersi, certo, ma si deve anche essere coscienti che la resa avviene ogni giorno quando ci si rinchiude nei ghetti che ci hanno preparato. Piazza Alimonda, il venti di luglio di ogni anno, è uno di quei ghetti. Un ghetto volante. Mi ritrovo a pensare che sarebbe meglio rivedersi in un'altra piazza, una qualsiasi, persino non di Genova; e occuparla. Quel che altrove fanno, tra gli eserciti e la merda, tra i lacrimogeni e gli spari, tra ogni cosa e il suo contrario.

Ci vado e ci si va, in quella piazza, con queste cose in testa. Lo dirò se ne avrò modo; oppure me lo terrò per me, con un panino in mano e con davanti facce che conosco e non conosco. E niente memoria. Non c'è più da prenderla a pretesto. Fare conto che tutti quanti, anche se c'eravamo con la polizia alle calcagna, anche se ci hanno presi e portati via, anche se siamo dovuti scappare senza sapere nemmeno dove si andava, avessimo tutti sette o otto anni. Forse, ora che ci penso, è questo l'unico modo plausibile per dire che “Carlo vive”, perché ogni anno che passa è invece sempre più morto in modo direttamente proporzionale a quanto lo “ricordiamo”.

Riprenderci quella piazza come se fosse uguale a ogni altra, di ogni città, di ogni paese. Ci sarebbe forse il caso, allora, di vederselo rispuntare per davvero, Carlo Giuliani. Sotto altri nomi, magari quelli di quei bambini del 2001 che volevano giocare mentre un qualche suo genitore sbiancava in volto con una radiolina all'orecchio. Mentre a Bolzaneto si alzavano grida che nessuno sentiva. E' per questo che bisognerebbe andarci, in piazza Alimonda, finché quella piazza non si levi e decida di chiudere il discorso, una volta per tutte, nell'unica maniera possibile.

Credo che saremo in pochi.
Credo che saremo, ognuno, con la propria solitudine ed il proprio smarrimento.
Credo che, sul treno, farò qualche sogno.
Credo.