mercoledì 11 luglio 2007

La fiaccola dell'Anarchia


Questo è un post molto "antico": risale al 2 aprile 1999 e già dal titolo si capisce che proviene dal newsgroup di Guccini. Ma Guccini c'entra solo marginalmente; o, meglio, è la filigrana della carta. C'entrano, invece, due persone che ho conosciuto. La prima è un mio vecchio padrone di casa; la seconda è la nonna della mia ex moglie. C'entrano dei periodi in cui m'è capitato di condividere la vita di queste persone. Non voglio dire altro.

Qualche volta, senza bandiere né slogan, m’è capitato di vedere accesa la fiaccola dell’Anarchia.

La canzone di Guccini è In morte di S.F. Lui aveva le iniziali invertite: F.S; era il mio padrone di casa dei tempi dell’università.

F.S., come le ferrovie; come i binari che correvano sotto casa facendo sobbalzare tutto ad ogni pur misero locale che passasse, come i binari impazziti che aveva dentro. Una malattia lucidissima, terrificante, incurabile; sui certificati che ogni tanto mi faceva vedere c’era scritto: sindrome paranoico-schizofrenica con accentuata mania di persecuzione. Faceva il magazziniere, ed era una delle persone più intelligenti, simpatiche e colte che avessi mai conosciuto; gli piombai in casa una mattina di gennaio, attirato dal basso prezzo che pretendeva per una stanza luminosa e grande. Il giorno dopo sbarcai coi miei libri, una macchina per scrivere dei tempi di Noè ed un cartoccio di pizza coi capperi e le olive.

Aveva viaggiato sempre, e mi raccontava qualche volta di quando e come avesse incontrato la bestia. Una volta, mentre era al lavoro tra i suoi scatoloni di giocattoli, mentre stava scrivendo chissà cosa su quale registro o bollettino di carico e scarico. Descriveva minuziosamente tutte le fasi della sua implosione, del suo scomparire dentro sé stesso, e ci scherzava sopra; parlava dei suoi viaggi, delle sue ragazze, del posto dov’era nato. Un posto con il nome più bello che abbia mai sentito: si chiama Falce Torta, due o tre case sprofondate nella campagna casentinese, dove pochi anni prima era morta sua nonna Fosca, che usava dire che "la vita è come un forcone, chi infila, infila".

Cucinava benissimo, mi ricordo sempre le sue seppie in zimino; sapeva fare ogni cosa. Accanto al suo letto d’uomo solo, bucherellato dalle cicche spente, teneva una foto di Dacia Maraini. Mi diceva che era una gran donna. Leggeva i suoi libri con un quaderno sempre aperto, per annotare quel che lo aveva colpito; poi, a volte, lanciava via tutto. Mi diceva d’andare in camera mia, mettendomi una mano sulla spalla, perchè stava arrivando la bestia e se n’accorgeva. S’attaccava al telefono senza comporre il numero, e ascoltava per ore il tu-tu-tu completamente immobile. Credevo che i suoi libri fossero tutti sfasciati dall’uso e dalla lettura, ed una volta, invece, capii il perchè. Li lacerava, li buttava dalla finestra, li prendeva a calci. Non mangiava nulla, fumava e beveva litri di caffé. Diceva che era tutta colpa della Polizia, delle botte che aveva preso durante una certa manifestazione, poi si metteva in contatto con delle cose verdi che stavano sul pianeta Vega.

Una volta lo hanno trovato completamente nudo in una chiesa che insultava un crocifisso e pisciava all’altare; usava rovesciare il bidone della spazzatura sul tabernacolo sotto casa. Faceva quel che gli ordinavano. Sudava. Piangeva. Si chiudeva in camera. Quando usciva, aveva un grande sorriso e non si ricordava di niente. Si ricominciava a tirar mattina davanti a un fiasco di vino, a leggerci le poesie che amavamo; ho conosciuto una grandissima poetessa francese del ‘500, Louise Labé, grazie ad un magazziniere paranoico.

S’andava insieme a teatro, in bicicletta, ben attenti a indossare i nostri soliti maglionacci del mercato e blue jeans di seconda mano, per ascoltare parole. E una volta la bestia lo prese durante la Tempesta di Shakespeare, durante un monologo di Ariel, lo spirito del vento. Un giorno dovetti andare via, e ogni tanto ripasso sotto casa sua. Vedo sempre la sua Vespa ammaccata, e la finestra della mia stanza, ora chiusa, ora aperta.

*

La canzone di Guccini è Amerigo. Quello che probabilmente uscì chiudendo dietro sé la porta verde; e, infatti, c’era una porta verde, ed un grande cancello verde. Dietro, un diospero che di novembre, quando il cielo sullo sfondo si faceva d’un profondo grigio argentato, lanciava le sue macchie d’un arancione carnoso a creare il più bel contrasto di colori che abbia mai visto. E i campi di grano dietro la casa, il mare d’erba verde ondeggiante, il Castello illuminato la notte. La notte, quando ammaestravo una civetta che mi veniva alla finestra dello studio, attirata dall’unica luce accesa nel buio più assoluto, con dei pezzettini di carne tritata. Mi guardava coi suoi occhi verdi. Come Mafalda, la vecchia Mafalda. Venuta da chissà quale angolo della campagna, venuta da chissà quale tempo.

Non si ricordava di quel che aveva detto un minuto prima, ma mi parlava di suo nonno. Di suo nonno che, quand’era bambina, se n’andava a tagliare il bosco in quei boschi fra la montagna senese e la Maremma, e che, per guadagnare due soldi, una volta all’anno se ne andava a piedi fino a Piombino per fare chissà cosa. Di suo padre stravolto dalla fatica e dal vino, che tornava a casa a massacrare di botte sue moglie, mentre lei e i fratelli si nascondevano nella stalla, a volte nella merda. Di suo marito mandato a fare il conquistatore in Abissinia per ordine di Mussolini, e quando le nominavi Mussolini dovevi stare attento che non avesse il trinciapolli in mano. Della sua prima figlia, morta a nove anni nel ‘43 in un bombardamento, e della sua seconda figlia, morta a trentuno anni di leucemia.

Ma lei, di fiaccole, se ne intendeva per davvero. A quindici anni era dovuta andare a lavorare in fabbrica, per tirar su cinque lire al giorno; una fabbrica di fiammiferi. Si ricordava ancora a memoria tutte le miscele necessarie per fare gli zolfanelli, di quando arrivavano i Lancia Rho carichi di legno, quei camion colle gomme piene che sembravano sempre sul punto di dar di balta, e che invece montavano anche su’ muri. Di come in fabbrica non ci fosse neanche non dico un estintore, ma neanche una sistola attaccata a una cannella, neanche un sacco di sabbia; e del capataz che girava tutto il giorno tra le operaie col sigaro acceso, che non le lasciava neanche andare in bagno e poi tanto era inutile perchè il bagno non c’era, di quando tornava a casa che puzzava di zolfo come neanche il Demonio.

Era vecchia, risecchita, e quegli occhi verdi chiari che sembravano dipinti dal Beato Angelico; quegli occhi verdi che s’attaccavano a qualunque cosa odorasse di zucchero e di vino. Metteva lo zucchero sui pomodori crudi e se li mangiava; zucchero sul tavolo, e c’inzuppava il pan bagnato. E il fiasco davanti, di quel vino ai margini del Chianti, di quella specie di melassa rossa. La grappa fatta in casa, che qualcuno doveva nasconderle in alto perchè era capace di scolarsene una bottiglia in un giorno. Era diventata il punto di riferimento di tutti i cani della zona, i vicini non volevano che desse loro da mangiare e lei se ne fregava altamente. Ne aveva otto. La lucetta votiva appesa sotto i ritratti delle sue figlie, di suo marito, e ogni sorta di cose nella sua camera, anche raccolte nel bidone della spazzatura davanti casa.

Le cose, le cose e la terra, e a culo tutto il resto, anche il suo funerale in un giorno soffocante di fine luglio, con cinque persone a seguirla, nella luce accecante come quella d’una bomba.

E che ci giunga un giorno ancora la notizia d’una locomotiva, come una cosa viva, lanciata a bomba contro l’ingiustizia.

3 commenti:

redshadow ha detto...

Questo è anche il primo post che lessi, non ricordo più nemmeno in quale portale che riportava ifg, di tale Riccardo Venturi che, mi viene abbastanza da ridere a scriverlo ora, immaginai come un serioso intellettuale dalla barba bianca (non chiedermi perchè!!!!)...:-))

Riccardo Venturi ha detto...

Ci sarebbe da scrivere non un post, ma un libro intero su come ci siamo immaginati la prima volta, quella senza esserci ancora mai visti! Erano forse tempi in cui mettere delle semplici "foto di corredo" non era così semplice, e forse non era un male. Si poteva immaginarci, e quindi essere magari contenti se la realtà corrispondeva almeno in parte alla fantasia, oppure essere sorpresi se non le corrispondeva affatto. E posso anche capire il perché della tua prima impressione, Red; era un periodo in cui ancora scrivevo con molte (troppe) mene di perfezione formale, che davano realmente una certa immagine di me. Ora ritengo di aver subito un'opportuna e piacevolissima involuzione stilistica. Magari l'immagine che ne risulta è comunque distorta, ma credo che almeno la barba bianca sia stata eliminata :-)

Riccardo Venturi ha detto...

Post Scriptum. Curiosamente, fai questo commento proprio il giorno in cui ho deciso di dare un seguito a una certa cosa. Seguirà comunicato su "Fabrizio", su "Brigata Lolli" e sul ng di Guccini.