martedì 18 dicembre 2007

Martellate


La casa dove ho abitato per due anni e mezzo con la mia ex moglie, nelle campagne senesi, era smisurata. E decrepita. Non saprei nemmeno come definirla, in quel borgo millenario addossato a un'abbazia esattamente sul percorso della via Francigena, l'antico cammino dei pellegrini di Santiago de Compostela. Campagna dura. Buio duro, spesso, una melassa di nero diluita soltanto dal castello sì illuminato, ma mezzo coperto da una collina che lasciava, da lì, soltanto baluginare un alone; sul lato della casa dove avevo la stanza, non si vedeva nulla. La sensazione di essere ogni giorno, dopo il tramonto, all'inizio del proprio viaggio al termine della notte; l'unica finestra aperta, l'unico punto di luce nel raggio di chilometri. Ci saranno stati gli assassini pronti a impiccarmi alla quercia grande? Tanto più che un albero enorme, non una quercia ma un olmo inglese maestoso, ce lo avevo proprio lì, davanti, più alto della casa e suo compagno più vecchio.

Al mattino, era come un dominio. Il pezzo di viottola sterrata che passava davanti all'ingresso era davvero l'antico percorso della Francigena, segnalato da piccoli cartelli; Herru Sanctiagu, Grott Sanctiagu, e ultreya, e sus eya. Deus adiuva nos! Ma le suggestioni d'epoche lontane duravano poco. Finivano nelle necessità quotidiane di cavarsela in quel posto che, ottobre arrivato, tornava a qualcosa di ancora più remoto. All'isolamento di un cittadino che, per motivi suoi, aveva deciso di svanire per un po' ritrovandosi in un buco fuori dal tempo.

D'inverno, al risveglio, queste necessità quotidiane consistevano nello scongelare la casa. Centonovantasette metri quadrati riscaldati soltanto con una stufa a legna e due caminetti. Nessun bombolone di gas esterno, nessun allacciamento, niente. Bisognava svegliarsi a ore antelucane e andare alla legnaia, con una carriola sfondata. Prendere la legna secca e accendere prima la stufa e poi i caminetti. Nel lavandino del bagno, in certe giornate particolarmente rigide, c'erano letteralmente i ghiaccioli. Se nevicava si restava isolati, cosa che accadde per due giorni filati fra il 13 e il 15 dicembre del 1995. Nella mia stanza non c'era niente, tranne una stufa elettrica e un gatto di nome Palla, che spesso s'infilava nel letto con me e mia moglie, o con me quando dormivo da solo nella brandina della mia stanza. Ci si riscaldava in tutti i modi possibili.

Essendo ai piedi di una montagnola, la casa era la prima a essere presa in pieno dai venti di caduta; certe nottate sembrava che dovesse crollare da un momento all'altro. Non s'è mai saputo quando fosse stata costruita, di preciso; doveva avere perlomeno quattrocento anni. Buchi dovunque. Non era raro che ci fossero i topi; e dall'olmo, una notte, vedendo la luce persino una civetta s'era azzardata a posarsi sulla finestra, un caso più unico che raro. Più raro ancora che tornasse, quasi ogni sera, perché ero andato al frigorifero e le avevo tagliuzzato alcuni pezzi di carne che veniva a beccare. E tutto questo era quella casa che cadeva a pezzi, come le due automobili che tenevo perché una fosse sempre a disposizione in caso di guasto dell'altra. Una Fiat Uno scassata e una Giulietta ancora più vecchia, puzzolente, che faceva due metri con un litro; però, quando l'accendevo, mi dava uno strano piacere sentire quel rombo da Alfa Romeo d'altri tempi.

Tutto era scarno, ossuto, vecchio. Mobili sghembi, brutti, fuori moda perché non avevamo soldi per comprarne di nuovi. Impossibile tenere pulito tutto quanto, soltanto per passare il cencio bisognava fare una sudata immane da quant'era enorme. C'erano delle stanze vuote; e, fuori, il mare verde. E l'oceano dei girasoli. E il contadino spietato, che ti guardava in cagnesco. La benzinaia orripilante. Il vecchio sulla porta che non diceva nulla. Chi viene, a stagione migliore, a visitare quei posti incantevoli per gli occhi, sistemandosi negli agriturismi rileccati, facendo le gitarelle a cavallo e dedicandosi alla gastronomia, non sa nulla dell'autentica carogneria delle campagne toscane, delle sue storie di merda, della sua cupezza. Bisognerebbe starci d'inverno; ma d'inverno non c'è nessuno. D'inverno ci sono solo il bosco, la collina e il vento; e un buio da fare paura, quel buio e quella solitudine che hanno fatto assumere ai toscani la loro particolare consuetudine con l'inferno.

Forse si sta perdendo anche quella. Forse tutto quanto si sta perdendo. E non intendo dire nulla al riguardo, perché ai tanti presunti nostalgici della "civiltà contadina" avrei fatto passare anche un solo inverno in quel posto. Uno solo. Ce ne ho passati tre, fra il '94 e il '96. Totalmente dimenticato. Chi mi conosceva non sapeva più dove fossi, a parte i miei e pochissimi altri. Nessun nome sull'elenco del telefono. Nessuna traccia. Vecchi amici che amici non erano. Vecchi amori volati via. Vecchie illusioni svanite. Tutto ripulito. Gli ultimi tempi mi riuscivano delle cose strane. Uscire in gennaio alle sei di mattina a prendere la legna, ma in camicia. Non sentivo più nemmeno il freddo. Buttarmi in vasca da bagno, nell'acqua bollente, in mezzo alla nebbia di vapore perché nella stanza ci saranno stati tre gradi di temperatura; e uscirne fuori completamente nudo, senza tirarsi nemmeno addosso un accappatoio. Farsi dodici chilometri a piedi sotto una nevicata per andare a fare un po' di spesa a Colle, il posto più vicino dotato di negozi, dato che le due macchine non avevano le catene. Gli ultimi quattro chilometri abbonati da una campagnola della Guardia di Finanza che mi aveva dato un passaggio. Credo di campare ancora di rendita, quanto a resistenza fisica, su quei tre inverni passati in quel posto chiamato Abbadia Isola, comune di Monteriggioni, località Pian del Casone.

Poi cominciarono a piovere calcinacci in camera, e a allargarsi certe crepe. Per rimettere tutto a posto in modo decente ci sarebbe voluta una marea di soldi; a mia moglie, visto che la casa era sua, toccò vendere tutto, alla svelta, e a un prezzo stracciato. Vendere a chi, invece, i soldi ce li aveva e poteva permettersi di dire: prendere o lasciare. Ci avrà fatto un posto da favola, una casa di vacanze, un posto dove dare feste; non per niente, nelle vicinanze, c'era una famosa agenzia immobiliare svizzera specializzata nel settore, la Cuendet. Diventerà tutto così, e non lo dico, non lo posso dire con nostalgia o con rimpianto. Nemmeno io appartenevo a quel mondo. Mi ci sono ritrovato a vivere. Ci ho lasciato un pezzo di me, ma non dico altro.

S'andò a Livorno. Stacco completo. Una specie di ritorno per me, la novità totale per la mia ex moglie. E questa è un'altra storia, in gran parte la storia di due dissoluzioni. Quella poca roba che c'era fu smontata e traslocata, se ancora utilizzabile; quella inutilizzabile fu invece accatastata fuori, ché qualcuno se la venisse a prendere per farne quello che volesse. Il notaio e gli assegni circolari. Le consuetudini d'una transazione immobiliare. Arrivò l'ultimo giorno. L'ultimo viaggio con la macchina, a prendere le minutaglie rimaste. E a fare le ultime due cose, programmate da tempo, decise a mente fredda, calcolate, studiate.

C'era da prendersi una vendetta sugli acquirenti che, sborsando due lire, s'erano ritrovati con un capitale. E non solo una vendetta, ma dare praticissimo luogo a quell'umanissima cosa che si chiama piacere di distruggere, di demolire. Per il semplice gusto di farlo. Urlando come un matto, bestemmiando iddìo e cantando tutto quel che passava per la testa, anche La macchina del capo ha un buco nella gomma. M'ero portato dietro, nascosto nel baule, a tutti ignoto, un mazzuolo di settanta centimetri fregato al mio ex suocero. Cominciai a sfasciare tutto. Vetri, finestre, i caminetti, infissi, la vasca da bagno, i semplici muri, i pavimenti in cotto antico (che fa tanto figo, e ci mettessero quelli in cotto moderno!). A rischio quasi di farsi crollare qualcosa addosso; ma sono figlio d'un catastale e fratello di un geometra, dove sono le strutture portanti e i muri maestri lo so riconoscere. Un'ora e mezzo di distruzione pura, milioni di danni. Li pagassero quei merdosi! L'ha detto pure quel famoso mio amico che nei blog si può sbruffoneggiare, e allora perché non farlo. Tanto, oramai, chissà che bel quartierino ci hanno fatto. Però la loro faccia, quando sono entrati, è una delle cose che mi piace immaginare quando mi girano i coglioni; e ultimamente mi girano spesso.

La seconda cosa era diversa. Sulle mattonelle della cucina ce n'era una con una stellina. Una decalcomania con una stellina sorridente che la madre della mia ex moglie ci aveva appiccicato per la figlia, quando era piccina. Si chiamava Mila. Morta a 31 anni per una leucemia fulminante. Nessuno mi poteva vedere. Nessuno mi vide posare per cinque minuti il mazzuolo vendicatore e staccare delicatamente quella mattonella verde con la stellina, che ho ancora qui con me. Riporla delicatamente in una borsa, e portarmela via. Poi ripresi a colpire, a spaccare, a tirare martellate all'universo.

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