venerdì 4 luglio 2008

A che serve volare

Proprio non ce ne avevo voglia di mettermi a tavola a casa mia, stasera; c'era qualcosa che mi chiamava fuori, in queste giornate torride di veneziane abbassate, di aire acondicionado, di antizanzare e di Philip Dick. Ma di Philip Dick, dei suoi marziani e delle stimmate di Palmer Eldritch si parlerà un'altra volta, anche se nel mio tardivo amore per la fantascienza sono certo di aver terminato di leggere una delle cose più folli e più belle che mi siano capitate fra le mani.

Così, con la scusa di mangiare, me ne sono andato dal lampredottajo all'angolo fra via Simone Martini e via Livorno; passando rigorosamente per via dei Bassi, perché mi sono messo a adorare quel miscuglio di palazzoni e di casette antichissime che è questo bizzarro quartiere che sta diventando uno dei tanti luoghi in cui sono nato. C'è un piccolo spiazzato, al quadrivio; una baracchina, sedie di plastica. Alle dieci di sera di luglio è tutto quel parcheggiare di motorini e apecar, e sulle sedie una congrega d'uomini e birre. In questi casi mi metto nella mia posizione preferita, defilata, sotterranea quasi; ad un angolo a osservare, coi miei panini e il bicchiere di vino. Vino si fa per dire, perché non gli era rimasta che una bottiglia di lambrusco, e m'è toccato adattarmi; ma sul lampredotto non ci si bevono né l'acqua e né la cocacola.

Uno di quei siciliani segaligni, ossuti, che, se non fosse stato per la bassa statura, sarebbe parso Piero Ciampi nato e sputato. La stessa espressione, la stessa ubriachezza anche se a base di Ceres e non di vino. Parlava quella strana lingua dei siciliani trapiantati a Firenze da chissà quanto tempo, il siciliano con le "c" aspirate, inframezzando frasi per me del tutto incomprensibili ad aperture gridate ai suoi compari, siciliani o calabresi anche loro, le camicie sbottonate. Assieme a lui, il suo amore di cui stava raccontando la storia tra una birra e l'altra: una cagnetta, un cucciolo di cane lupo di nome Stella con un orecchio ritto e l'altro piegato, l'andatura goffa e un'attrazione irresistibile verso chi se ne stava lì a mangiare il panino. Ogni tanto se la prendeva in collo, Stella, e giù baci su baci; "la terrò con me finché campo", diceva. Poi la rimetteva giù, quei tre mesi o poco più di morsi al mondo, e di nuovo a dirigersi verso i mangiatori di panini. Tant'è che, in seguito ad uno sguardo eloquente di approvazione, le ho fatto cuocere un würstel, gliel'ho fatto spezzettare e mettere in un piatto di plastica e le ho fatto preparare un po' d'acqua da bere in una delle vaschette che si usano per metterci il lampredotto o la trippa. E il siciliano giù a carezzarsela con la bottiglietta di birra in mano, a dirle cose in cui non ci capivo nulla ma che, credo, si capivano benissimo; e l'amore è amore. Per un essere umano, per un cane, per un'idea o per un'illusione. Poca differenza fa.

Guardavo, perché mi piace guardare. Mi piace anche pensare che nessuno, in quel momento, sa che cosa mi stia passando per la testa. Nessuno sa che tornerò a casa entro pochi minuti e mi metterò a raccontarlo, e nessuno di loro probabilmente lo saprà mai. Mi piace immaginare d'aver fermato un momento e di averlo installato nel ricordo d'una qualsiasi serata d'un quartiere di periferia. E le periferie non sono facili, mai. Passa una madre con una bambina di sette o ott'anni che, chissà, voleva andare a fare una carezza alla cagnetta; la madre comincia a tirarle un ceffone, le dice che la deve smettere, che non la porterà più fuori, e giù una serie di manate quando la bimba si mette a piangere, ci sarebbero mancati soltanto i calci e i tackle scivolati per completare l'opera. Il gestore della baracchina s'azzarda a gridarle un ironico "complimenti, signora!", mentre la donna tira la bimba per il braccio per farle attraversare la strada. Nel frattempo, Stella si mangia il suo würstel, sovrana, piccolo cane in mezzo ai piccolissimi umani.

Un ragazzo che bercia al cellulare con la sua fidanzata, una storia di qualcuno che lei non deve più vedere, i "ma io fo quel che voglio" che si captano dall'apparecchio. E il siciliano che continua a carezzare la cagnetta, guardandola, guardandola. E' ora di pagare e di andarsene, perché i momenti è sempre bene non dilatarli. Riprendo la macchina, passando per un'altra serie di antiche case. San Bartolo a Cintoia, un borgo inglobato tra i palazzoni, ma rimasto com'era. Gli incroci con vecchie strade con le targhe bianche e blu, i nomi di tempi lontani, via dei Querci, via del Saletto, via della Madonna di Pagano. La casa del popolo aperta, e un gruppo di donne e di anziani con le sedie sul marciapiede, a chiacchierare. Procedo pianissimo, e non soltanto perché la strada è stretta. Mi metto a canticchiare la prima canzone che mi passa per la testa, A che serve volare di Roberto Carlos, che in brasiliano si chiama Por isso corro demais; e per la testa, di certo, le cose non passano quasi mai a caso. A che serve volare, appunto. Servirebbe andare piano, con lentezza, per via di San Bartolo a Cintoia e per la vita intera. Mettersi a pensare che c'è qualcosa, qualcosa che non vuole morire; anche in forma d'un salsicciotto dato a un cucciolo di cui un uomo mezzo ubriaco di birra è innamorato. Qualcosa con le sue bellezze, le sue bruttezze, le sue strade, le sue bottiglie, la sua infinita meraviglia qualsiasi.

1 commento:

Anonimo ha detto...

nomi diversi per quel qualcosa di cui siamo perdutamente persi
alle