mercoledì 21 gennaio 2009

Cipolle e pomodori



Questa è la storia di un uomo, di un carretto e di due balle di verdura mezza marcia.

Sia l'uomo, sia il carretto e sia la verdura mezza marcia si trovavano su un'isola, alla metà di settembre del 1943; e su quell'isola la guerra era stata solo figli mandati a combattere e a morire in terre o in mari lontani. A volte persino sulle montagne, ché qualcuno era abituato più ad arrampicarsi per balze e per pente, che a navigare.

La guerra, com'è fatta ad avercela addosso sul groppone, non se lo poteva ricordare più nessuno, nemmeno i vecchi più decrepiti e raggrinziti. Sarebbero dovuti essere vecchi di secoli, per ricordarsene; dei tempi degli Spagnoli e del granducato s'era persa non soltanto la memoria d'uomo, ma anche quella delle generazioni. Quando nel mondo infuriava la guerra, tutto scorreva come prima sull'isola; morivano i ragazzi, li piangevano, le madri e le sorelle portavano il lutto, i padri e i fratelli andavano nei campi e zappavano più forte, o preparavano un vino dal sapore di sventura. Le fidanzate sposavano chi era tornato; batteva il sole.

Il paese principale dell'isola, che era una piccola e storica città, era stata fortificata dal granduca, che la voleva inespugnabile. Per un po' s'era chiamata col suo nome, ma non era mai entrato nell'uso. Il nome vero era quello d'un porto e d'un minerale che su quell'isola veniva estratto fin dai tempi antichi. Un giorno avevano impiantato l'industria, per fare l'acciaio. Un acciaio cui avevano dato il nome dell'isola, quello latino. Molti passarono dai campi alla fabbrica, e qualcuno in quella fabbrica ci morì male.

Il 16 settembre 1943, alle undici e venti, arrivò la guerra. Arrivò quando, pochi giorni prima, tutti avevano sperato che fosse finita. C'era stato l'armistizio, poi lo sbando, e poi ancora l'invasione dei vecchi alleati. Per prenderla, l'isola, decisero di bombardarla con gli Stukas. Un poeta, qualche anno prima, scrivendo d'una città di mare aveva concluso su un'infinita occhiuta devastazione che era la notte tirrena; nel tardo mattino tirreno di quell'isola e del suo porto principale, la devastazione giunse dal cielo, infinita, ma senz'occhi. La gente scappava, e veniva mitragliata.

Bombe sul porto, sulle acciaierie, da ogni parte. Rovine. La vecchia calata, polverizzata. Le ciclopiche fortificazioni del granduca, squarciate. Se ne accorsero da tutta l'isola, che non è grande ma nemmeno piccola, che al porto c'era l'apocalisse. Bastava scollinare e si vedevano le colonne di fumo. Anche dai paesi più lontani si sentivano i sibili degli aeroplani, si sentivano gli scoppi delle bombe. E siccome nessuno poteva farci niente, si suonavano le campane delle chiese, si facevano i segni della croce.

Da uno di quei paesi lontani partì un uomo, ma non per andare a vedere cosa stava succedendo. Lui, quella mattina, al porto ci doveva andare perché non c'era più nulla da mangiare. Una moglie e sei figli, aveva; il più grande era andato a fare la guerra. E non se ne sapeva nulla. Ne restavano cinque, e la loro madre. Lui faceva il vino, e il vino chissà chi lo comprava, in quei frangenti. La terra era poca, e l'estate era stata secca. Perdurava. Faceva ancora un caldo da scoppiare.

Prese il suo carretto e s'avviò, piano, tirandolo a mano. Al porto, di sicuro, qualche po' di roba l'avrebbe trovata. Qualche mazzo di verdura, tre cipolle, un pomodoro, o qualche scarto di catalogna; ché è amara come il fiele, la catalogna, ma va bene lo stesso. Buttavano le bombe; e mica le avrebbero buttate fino a sera. Per arrivare dal paese al porto, trascinando un carretto a mano, gli ci sarebbero volute ore. E ore gli ci vollero.

Quando arrivò, c'era l'inferno. Il porto non esisteva più. Le acciaierie, ed il loro lavoro, erano state rase al suolo. Dietro il porto, dietro la calata, quel che restava delle case bruciava ancora. Le navi e le barche alla fonda erano colate a picco. C'era ovunque un puzzo tremendo, di bruciato, di cadaveri, di polveri mischiate, di sangue. C'erano pezzi di gente in mezzo ai pezzi di muri. L'uomo non sapeva più cosa fare. Altro che bombe, sul porto s'era abbattuta la mannaia della morte; vagava col suo carretto in mezzo alle urla, agli ordini degli invasori, ai fratelli della Misericordia che le bombe gli avevano distrutto tutto quanto c'era in sede, e che portavano i morti e i feriti a mano, o su delle lenzuola. Senza sapere dove portarli perché anche l'ospedale era mezzo crollato, con quelli che c'erano dentro.

Lo videro, col suo carretto. Una manna dal cielo. Bonòmo, fate un'opera bona, prestatecelo ché si deve andare a pigliare dei morti. Glielo prestò, ma volle andare con loro; non si sa mai che il carretto andasse perduto. Andavano vicino a un molo, a un casotto che era stato preso in pieno dalla prima ondata di bombe; c'erano sette o otto persone dentro, e viva non ne era rimasta nessuna. Tra quei poveri morti, sette o otto fra i tanti, a quell'uomo parve di vedere un volto familiare.

Chissà come dev'essere, per un padre, ritrovarsi davanti a un figlio che non vede da anni, da quando è partito per fare il soldato in guerra. Ritrovarlo morto, sconciato, appena arrivato dalla smobilitazione, giusto in tempo per essere fatto a pezzi a casa sua dopo essere scampato a chissà quale Albania, a chissà quale Grecia, a chissà quale merda di posto. Ritrovarlo così, per caso, mentre il ragazzo felice meditava di fare una sorpresa a casa, e quale sorpresa. S'immaginava magari sua madre che sarebbe svenuta, e poi rinvenuta, e poi gli abbracci, i fratelli, non c'è nulla da mangiare, tuo padre è andato al porto a cercare du' pezzi di cipolla. E la ragazza? Dov'è? M'ha aspettato o s'è messa con un altro? E con chi si doveva mettere, ché erano tutti a fare 'sta maledetta guerra?

Nessuna sorpresa, a parte quella di morire su un molo, senza nemmeno accorgersene. E tuo padre che ti riconosce, che diventa matto mentre i fratelli della Misericordia cominciano a capire, è ir mi' figliolo, è ir mi' figliolo. Si devono portare via, bonomo, tutti, bisogna portarli a seppellire sennò scoppiano le malattie che fanno più morti delle bombe. Bisogna. E ce li portano, al cimitero, anche quello mezzo barato, che non c'è più nemmeno un palmo di terra per scavarci una buca. Gliene risparmiò una, senza dire nemmeno una parola. Il suo figliolo volle tenerselo, per riportarlo a casa. Era tornato a casa. E a casa, si ricordò, c'erano altri cinque figlioli e una moglie.

Quand'ebbero finito, i fratelli della Misericordia gli riconsegnarono il carretto con una preghiera e due parole di conforto; poi tornarono, a piedi, a prendere altri morti, altri feriti, altro dolore. Rimase solo col suo figliolo, sistemandolo con cura sul carretto, composto, calmo. Ché gli era toccata la disgrazia più grande per un padre, e gli si erano seccate le lacrime. In guerra c'è penuria anche di quelle. Riprese la via di casa, ore di cammino, sotto il sole che digradava, col peso del figlio morto sul carretto, con l'attenzione a schivare i sassi e le buche sulla strada terrosa per non farlo cascare. E uscendo dal paese ammazzato, gli cascò l'occhio su due balle di iuta abbandonate sul ciglio.

Erano piene d'ogni ben di dio. Mazzi di cipolle. Insalata. Agli puzzolenti. Pomodori e melanzane. E dovevano essere stati lasciati lì dalla mattina presto, in fretta e furia. Il sole aveva già fatto quasi marcire ogni cosa, i pomodori erano spappolati, le cipolle sudavano umori, le foglie dell'insalata s'erano smollate. Ma era roba da mangiare. E tanta. Da sfamarsi per giorni. Erano cipolle morte come suo figlio. Pomodori rossi come il sangue di suo figlio. Insalata putrefatta come lo sarebbe stato, presto, suo figlio. Tutto sul carretto. Ore di cammino a trascinare la morte d'un ragazzo e di mezzo quintale d'ortaggi, quietamente, accuratamente sistemati. Sudava per la salita, e sudava perché trasportava cose preziose; la morte di chi da lui aveva avuto vita, e la vita per chi avrebbe saputo ritirarla fuori da quei vegetali morti.

Entrò così in paese, a sera quasi fatta, ché a settembre le giornate son già accorciate di parecchio. Non c'era nessuno in giro. Presto avrebbe bussato a casa, e la moglie, ancor prima di aprire la porta, gli avrebbe chiesto se avesse trovato qualcosa. Avrebbe sentito il vocìo degli altri figli, babbo, babbo, s'ha fame. Poi la porta si sarebbe aperta. Aveva trovato tutto, e quella notte si sarebbe vegliata, e la zuppa sarebbe stata cotta e mangiata perché domani sarebbe spuntato ancora il sole. Così per sempre; e la terra avrebbe ricoperto quel ragazzo trasportato da suo padre a casa, e da quella terra sarebbero cresciuti pomodori, melanzane, insalata, agli e cipolle vive, e belle, e forti.