C'è chi non gliene importa nulla, se non perché è un "giorno di festa" e le feste vanno sempre bene; religiose, civili, e persino mischiate come è stato quest'anno in cui il 25 aprile era anche "pasquetta"; gitarelle fuori porta, l'ultima strafogata prima di ricominciare a lavorare o a santificare quotidianamente San Precario; e così si vedono le scene come quella cui ho assistito coi miei occhi la mattina di pasqua in una pasticceria vicino a casa mia, quando due eleganti signore anzianotte, probabilmente appena uscite dalla santa messa pasquale, si sono azzuffate con graffi e male parole davanti a tutti per questioni di precedenza sulla consegna delle paste. Finché il pasticciere non le ha buttate fuori tutte e due; miracoli del dí di festa.
Poi c'è chi il 25 aprile lo disprezza, e ne approfitta anzi per compiere le fatidiche
provocazioni (fasci littori, croci celtiche, saluti romani e tutta la panoplia contenuta nel
Kit del fascista del III millennio che va così di moda ora, fra un po' lo venderanno persino nelle edicole e non è detto per forza che sia abbinato a
Libero o al
Giornale). C'è persino chi vuole abolire la "disposizione transitoria" della Costituzione (è transitoria da sessantacinqu'anni o giù di lì, mi dico a volte) che vieta la "ricostituzione sotto qualsiasi forma del Partito Fascista", non tenendo però conto che, in Italia, il partito fascista non si è mai sciolto. Tutt'altro, e non è possibile altrimenti in un paese come questo, ammalato di fascismo in tutta la sua storia.
C'è chi il 25 aprile se ne va alle manifestazioni più o meno
istituzionali, quelle coi gonfaloni, coi sindaci, coi politicanti che ci devono essere almeno finché la
festa della Liberazione esisterà ancora; toccherebbe ricordare a costoro che festeggiare una liberazione di sessantasei anni fa da un fascismo cui è stato poi permesso di perpetuarsi e di prosperare quanto e più di prima, non ha senso. Il 25 aprile dovrebbe essere non tanto la festa di una presupposta e passata "liberazione" che non c'è stata, quanto quella di una liberazione futura da un sistema che ha prodotto le peggiori macerie che si possano immaginare. Non importa nulla, poi, fischiare questo o quel politicante della "parte avversa": non ci sono "parti avverse", se ne devono andare via tutti quanti.
C'è chi, il 25 aprile, esercita
purezze (più o meno accompagnate da
durezze) e aborre mescolarsi con altri. Ha a sua disposizione, oltre ad un
passato da cui s'è sentito fornire una qualche imprecisata patente di superiorità, tutta una serie di battutone fabbricate da professionisti (tipo:
"L'antifascismo è il peggior prodotto del fascismo"), le proprie sacre "disillusioni", uno più
momenti storici passati i quali cercare di vivere (e cercare di lottare) non è più stato degno -anzi, persino disprezzabile-, una sequela di rancori verso tutti e verso tutto e la tendenza a "smitizzare" qualsiasi cosa -tranne ovviamente i propri miti fondanti. Naturalmente, costoro se ne restano a casa, o vanno a fare la gitarella assieme alle famigliuole, o se ne restano a dormire, a scopacchiare, a farsi preparare il manicaretto, a leggere. Dovessi scegliere una categoria di morti esemplari, credo che difficilmente costoro potrebbero essere battuti.
Infine c'è chi, il 25 aprile, fa il Venticinque Aprile. Lontanissimo da tutti questi tizi, dalle gitarelle, dalle disillusioni, dai politicanti, dai fascisti armati di tricolori di merda, di spray e di vigliaccheria, dall'astio codificato, da "umorismi" cupi come un due novembre di pioggia, e vuoti come la loro elegantissima testa. C'è chi si riprende una piazza, e persino un paio, un quartiere, una storia. Senza nessunissima "purezza", anzi tutt'altro: quella piazza diventa tutto l'impuro che è possibile immaginare. Gli anarchici accanto agli stalinisti. I trotzkisti accanto ai superstiti partigiani che non vanno a farsi tricolorare assieme al sindaco della Ruota della Fortuna. Forse, chissà, sessantasei anni fa doveva essere così, quando c'era un nemico da combattere senza quartiere e il nemico aveva armi, ammazzava, deportava. Bancarelle su cui campeggia il volto di Emilio Canzi, comandante partigiano anarchico piacentino, assieme al labaro della brigata Garibaldina intitolata a Vittorio Sinigaglia (uno che negro, ebreo e comunista lo era davvero). I "puri" considererebbero tutto questo come il delirio dell'antisettarismo, dato che il passato deve essere sempre e comunque usato per dividere e per stabilire verità talmente assolute che hanno portato, come era del resto logico e prevedibile, al niente. Al niente e al fascismo, che non è stato
prodotto dall'antifascismo ma dal cessare di ritenerlo un nemico comune da sconfiggere e da eliminare sul serio.
E così la piazza è tornata tale. Non dovrebbe esserlo, certamente, soltanto il 25 aprile per fare una festa militante, per un corteo che torna a percorrere le strade strettissime di un quartiere combattente, con gli abitanti che ancora si fanno vedere alle finestre a applaudire o a salutare col pugno chiuso. Verso questa città ho sicuramente delle critiche, ed alcune assai gravi, ma mi incazzo parecchio anche quando la sento definire gratuitamente una
città morta da qualche studentello fuori sede frequentatore di localini. Io non spreco la parola
Resistenza, e resistere non è certamente eleggere a propri "eroi" dei magistrati o dei giornalisti che sono dei servi come tutti quegli altri. Non è neanche una piazza e un corteo. Non è depositare dei fiori alla memoria di chi è morto combattendo per quelle stesse strade. È una pratica quotidiana, la Resistenza, che si esprime in ogni proprio gesto e in ogni proprio pensiero; è il non desiderare mai di cedere, senza per questo ritenersi persone "speciali" o autorizzate a sputare su ogni cosa in nome di chissà quale pretesa "coerenza" o "linearità". Resistenza è stare assieme, ognuno sí con le proprie individualità, che non vengono mai meno; alla fine, però, si vede la differenza tra essere in quattro o cinque mentecatti che si profondono in ardite analisi sempre più "radicali", ma che non vanno mai alla radice vera. Con tutte queste analisi non è stata fatta a pezzi nemmeno una telecamera. Con l'aforisma più alato non è stato impedito lo sgombero di un circolo anarchico, ma con la presenza di un centinaio di militanti (molti dei quali non anarchici) che hanno fatto sloggiare vigili urbani e carabinieri. A presidiare la Riottosa, squat anarchico e "vegano", sono arrivati fior di comunistacci e di carnivori; e i vegani sono arrivati pochi mesi dopo a dare man forte quando si trattava di cacciare da un'altra piazza dei fascistelli che volevano "distribuire il pane agli italiani". Cacciati via non solo dai militanti, ma dalla gente del quartiere.
This is Florence, my friends.E questo c'era in quella piazza antica, quest'anno pure mezza sconciata da dei lavori di ristrutturazione che non finiscono mai. Belle ciao, fischiailvento, insorgiamo, il
Menestrello che abbinava le canzoni di lotta alle canzonacce da caserma -che i partigiani lassù in montagna amavano oltremodo perché due risate bisognavà pur farsele prima di andare a rischiare di crepare per un avvenire che non c'è stato, ma che occorrerebbe riscoprire al posto di tutti i sistemi messi in campo per rinchiudersi insensatamente. E così il Venticinque Aprile ha un senso, e lo ha ben preciso. Una festa di popolo dove il popolo non accetta più di farsi disprezzare da nessuno. Vino a fiumi. Pappa col pomodoro. Paninacci e fette di pancetta e di formaggio. Libri. Musica fino a più di mezzanotte, in barba al priore della chiesa là davanti che ogni tanto va a fare querele e lai dalle pagine dei quotidiani di regime. La polizia e i carabinieri che arrivano in forze a mostrare i muscoli, e che vengono letteralmente inseguiti e cacciati via; è successo anche questo, in quella piazza. Senza per questo essere nient'altro che ciò che siamo, e senza preoccuparci di differenze e di eccezionalità. Tutti con al collo un bicchiere di plastica con una stella e un pugno chiuso stampati sopra, perché bere ora bisogna. Mirsilo non è affatto morto, ma bevendo alla salute dei compagni che non ci sono più e che ci sono ancora lo si ammazza un po' ogni giorno.
Dei 25 aprile di lorsignori non c'interessa. Se li facciano con le loro famose
unità della nazione, con i loro fascismi travestiti da
democrazia, con le loro fanfare e con le loro pasquette. Noi ci si riprende le piazze, e così avverrà il Primo Maggio, festa del lavoro coi negozi aperti. Non ci sottomettiamo, mantenendo le nostre prerogative di persone normali, di membri di una comunità, di militanti quotidiani senza voler né fare i Tarzan, né i finti "disperati" sdegnosi o gli intellettuali delle contorsioni atte soltanto ad assumere l'esclusiva della ragione. E allora si festeggia, anche se non ci sarebbe nulla da festeggiare. Si festeggia perché davanti ci ostiniamo a voler vedere qualcosa. Si festeggia perché viviamo nel presente, e in un presente orrendo una festa è anche e soprattutto una promessa. Quando smetteremo di festeggiare, ad esempio il Venticinque Aprile, vorrà dire che saremo tutti morti; e non ne abbiamo la benché minima intenzione. E la cosa più bella, e singolare, è che non rinunciamo a cercare di dare un po' di vita anche a chi si diverte a buttarla via, ai giocherelloni della distruttività, agli attori del
cupio dissolvi cui farebbe un gran bene esser mandati a fare un bagno caldo, anzi meglio: un bel
semicupio dissolvi.