sabato 26 luglio 2014

Attila e sua madre

Negli anni '70, quand'ero ragazzo, le poesie di Attila József erano abbastanza conosciute; non credo che lo siano ancora adesso. Tra di esse, questa: „Mia madre”. Prima di parlarne un po', è bene di parlare della breve e tragica vita del più grande poeta ungherese moderno, un comunista che nemmeno la rivoluzione anticomunista del '56 si sognò minimamente di toccare. 

Attila József, o meglio József Attila (come è obbligatorio dire in ungherese), era nato a Budapest, nel quartiere popolare di Ferencváros famosissimo per una squadra di calcio, l'11 aprile 1905. Era figlio di un operaio, Áron József, e di una contadina, Borbála Pőcze. Il padre abbandonò la famiglia quando Attila aveva tre anni, e la madre non riuscì mai a mantenere i figli col duro lavoro di lavandaia a domicilio. Dire che la famiglia di Attila József era povera non rispecchia la realtà: lui, la madre e le due sorelle crepavano letteralmente di fame. Ad un certo punto la madre, sola, non ce la fece più e Attila, tramite un'istituzione nazionale di assistenza sociale, fu affidato ad una coppia di contadini che lo misero a spezzarsi la schiena nella loro fattoria. 

Attila era un ragazzo altissimo e fragile; le condizioni di vita erano talmente dure, che fuggi dalla campagna per tornare a Budapest dalla madre. La quale, nel 1919, morì di stenti e di lavoro pagato niente; aveva 43 anni. Venne quindi cresciuto dal cognato, tale Ödön Makai, che lo fece studiare in una scuola superiore; Attila era intelligentissimo, e aveva cominciato a scrivere poesie da giovanissimo. Ma non si trattava di poesiole rassicuranti e graziose: Attila vi metteva dentro tutto quel che vedeva attorno a sé. Miseria. Ingiustizia. Fame. Morte. Si iscrisse all'università di Szeged perché voleva diventare un insegnante, ma ne fu espulso per aver scritto una dura poesia di denuncia; da quel momento tirò a campare coi magri proventi dei suoi scritti, che qualcuno cominciava a conoscere. Immediatamente dopo, cominciò a dare segni di schizofrenia, finendo in cura psichiatrica. Il 3 dicembre 1937, dopo trentadue anni di questa vita, andò in una stazioncina di campagna dal nome per noi impronunciabile, Balatonszárszó, e si buttò sotto il primo treno che passava. Per divenire ed essere considerato il più grande poeta che il destino avesse dato all'Ungheria nel XX secolo dovette, naturalmente, provvedere a ammazzarsi dopo un'esistenza di merda; succede così.

Attila József e sua madre.
Attila József e sua madre.

Quando, il 6 gennaio 1931 (datava sempre scrupolosamente le sue poesie), Attila József scrisse questa poesia, sua madre era morta oramai da dodici anni; Attila, di anni, ne aveva ventisei. La sua lingua era, al tempo stesso, delicatissima e perfetta, e durissima e popolaresca. Col tempo, era diventata anche cinica, di quel cinismo che ha chi avverte attorno a sé, in ogni cosa, il peso di una società ostile. Ma era anche poesia lucidissima che esprimeva una coscienza di classe: per questo non è sbagliato dire che era un poeta proletario, uno dei principali che l'intera Europa abbia avuto. In tutto ciò che scrive si avvertono le sue concezioni sociali derivate dalla sua vita, dall'esserci dentro senza via d'uscita. Un suo verso dice: “Soltanto i poveri andranno all'inferno.” E', la sua, una poesia che non consola affatto; una poesia di risentimento, spesso faziosa, di durissima protesta. Ma, al tempo stesso, è una poesia semplicissima, non retorica, contenuta formalmente proprio per dare maggior mordente a ciò che vi si dice. Una cosa che in “Mia madre” è espressa al meglio. State per leggere ciò che è, a mio parere, uno dei capolavori della poesia del secolo passato.

La madre di Attila József era una donnetta striminzita, che a quarant'anni ne dimostrava venti di più. Proletaria, lavoratrice malpagata e donna. Con le spalle ingobbite. Anni dopo la sua morte, il figlio se ne ricorda, e se la ricorda così: portare a casa, per mangiare, qualche avanzo del padrone. Stanca e distrutta dal bucato imposto, perché il padrone deve avere la biancheria pulitissima. Spezzata dal capitalismo, e questa non è una metafora: così dice, precisamente, un verso della poesia. Ad un certo punto prorompe, inatteso, un monito. La madre diventa simbolo di tutte le donne proletarie, e di tutti i proletari. Dei poveri, degli sfruttati. Di milioni di esseri umani che, come lei, sono risecchiti e senza niente. Segno e simbolo del dolore del mondo, che è un dolore che ha una causa. Non dice di lottare, Attila József: ma leggendo ogni parola di questa poesia, ne dovrebbe venire l'imperativo categorico.

E' giunto quindi il momento, se non la conoscete, che la leggiate nella storica traduzione che ne fece un giramondo nato a Montalcino e dal nome bellissimo, Folco Tempesti, nel 1969. Buona lettura, e pensateci.

MIA MADRE

Una domenica sera mia madre è tornata
fra le mani recando due pentolini:
sorrideva in silenzio e s'è fermata
un po' nella penombra.

Nelle pentole c'erano gli avanzi
della cena dei nostri padroni;
anche a letto, dopo, io pensavo
che quelli ne mangiano pentole piene.

Mia madre, esile, scarna, è morta giovane:
le lavandaie muoiono presto.
Le gambe non reggono ai carichi,
la testa duole dallo stirare.

Ed è il bucato la loro montagna!
Per allietanti giochi di nuvole,
il denso vapore, e per cambiare aria
le lavandaie hanno, su, la soffitta.

La vedo: sta con il ferro da stiro.
Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo;
si fece sempre più striminzita
- pensateci, proletari.

Si aggobbì per lavare:
ed io non sapevo che era ancora giovane.
Sognava di avere un grembiule pulito
e allora il postino la salutava.

A bögrét két kezébe fogta,
úgy estefelé egy vasárnap
csöndesen elmosolyodott
s ült egy kicsit a félhomályban.

Kis lábaskában hazahozta
kegyelmeséktől vacsoráját,
lefeküdtünk és eltünődtem,
hogy ők egész fazékkal esznek.

Anyám volt, apró, korán meghalt,
mert a mosónők korán halnak,
a cipeléstől reszket lábuk
és fejük fáj a vasalástól.

S mert hegyvidéknek ott a szennyes!
Idegnyugtató felhőjáték
a gőz s levegőváltozásul
a mosónőnek ott a padlás.

Látom, megáll a vasalóval.
Törékeny termetét a tőke
megtörte, mindíg keskenyebb lett :
gondoljátok meg, proletárok.

A mosástól kicsit meggörnyedt,
én nem tudtam, hogy ifjú asszony,
álmában tiszta kötényt hordott,
a postás olyankor köszönt néki.