giovedì 12 febbraio 2015

La famiglia (canzone anonima)

E' vero: ho sperato a lungo di trovare una canzone del genere. Quando, finalmente, la trovo, mi trovo pure davanti ad un testo di cui non si sa nulla. Ignoto l'autore, ignota la musica, ignota la provenienza, ignoto tutto. Canti di Lotta, unico che la riporta, è un sito del tutto “popolare” nell'accezione più vasta del termine: notizie spesso essenziali, grafica alla bell'e meglio, spesso testi scarni senza nient'altro (come in questo caso). Si tratta di un sito che esiste fin dal 1997, che merita il più grande rispetto; naturalmente, chi possedesse eventualmente maggiori notizie su questa canzone è pregato di farsi vivo. Per ora viene presentata così com'è.

Speravo di trovarla, e di trovarla con le cose che dice. Chiunque le abbia scritte. Da quel che dice, è quasi indubbio che provenga dagli anni '70 e, probabilmente, dal femminismo militante; opportuno quindi riproporla, e con attenzione, in quest'epoca dove la “famiglia” e l'orripilante familismo la fanno da padroni. Si tratta di un testo che riconduce invece a quel che effettivamente è la famiglia non solo borghese, ma anche quella proletaria: un luogo di violenza e di sopraffazione, specialmente nei confronti della donna. Nei “quadretti edificanti” proposti dalla canzone non si fanno sconti: la famiglia, di qualsiasi estrazione, è una galera con tutte le sue sbarre. Matrimonio religioso, matrimonio “civile”, matrimonio “operaio”: distinzioni non se ne fanno.

Il primo “quadretto” riguarda il classico matrimonio religioso; nella sua chiusa, in due versi, ci mette davanti quel che accade tutt'oggi: La famiglia è come un campo / molto spesso un camposanto. Il secondo “quadretto” riguarda invece il matrimonio “civile”: firme al posto del prete, ma sempre in un lager si va a finire. Il terzo “quadretto” è forse quello più sottile e veritiero: non importa essere né alienati e né aguzzini di natura, ma quando l'ometto si sente “capofamiglia” comincia come d'incanto a sentire “duro cuoio di stivale” e “viene fuori la violenza”.

E così la “famiglia” viene finalmente ricondotta a ciò che è, in quanto riconosciuto “pilastro”, fondamento della società. Un pilastro e un fondamento che, venendo per primo nella vita di un essere umano, ne anticipa tutto il susseguirsi: la minorità in primis, l'obbedienza, le imposizioni, le “regole” (“finché ti mantengo e stai in casa mia devi obbedire senza fiatare”). Una caserma, in pratica; logico che, in una canzone come questa, le similitudini col camposanto, col lager e col poligono di tiro siano ben presenti. Verranno la scuola e, soprattutto, il lavoro; c'è stata, fino a qualche tempo fa, anche la caserma obbligatoria che, dicono, è stata “abolita”. Ma non è esattamente così: la caserma è stata semplicemente trasferita nella vita comune. La si ritrova nel securitarismo, nelle paure, nella “legalità” opprimente, nelle telecamere, nel pensiero unico, nei “social networks”, in mille altre cose. Come in caserma, chi si ribella e chi non si sottomette deve essere eliminato, messo in un angolo, dimenticato.

E' assolutamente naturale che il familismo, assieme a tutte le forme di repressione condotte in nome della “salvaguardia dei minori” (i quali, peraltro, trovano una delle loro più frequenti cause di morte proprio in ambito familiare, si pensi ad esempio alle quotidiane stragi prodotte dai “capifamiglia”) e del “controllo parentale”, sia diventato una grancassa sulla quale battono tutti, al pari del “lavoro”. Destre, centri, sinistre, tutti fanno a gara per accattivarsi la “famiglia”, e senza neppure una distinzione di classe che, del resto, in questo ambito non c'è mai stata. La famiglia borghese e la famiglia operaia (per non parlare della famiglia contadina) presentano le medesime forme di oppressione, i medesimi meccanismi gerarchici, le medesime e quotidiane violenze, piccole e grandi. La guerra, ed è un aspetto da sottolineare, comincia in famiglia.

Comincia con le ingiustizie, comincia con le “alleanze”, comincia con gli scontri, comincia con le ingiustizie. Comincia con l'embrione del Führerprinzip (“Qui comando io e tu fai come ti dico”), con la blandizie, col bastone e con la carota. Comincia col culto del “sacrificio”, comincia con l'esaltazione della “verità” (a condizione che la verità coincida con quella di chi comanda), comincia con le convenzioni, con le idiozie trasformate in tragedie, comincia con la meritocrazia, comincia con la “protezione” contro il mondo che è tanto brutto e cattivo, pieno di orchi e pronto a schiacciarti. Quando, prima o poi, si viene fuori dalla “famiglia”, ci si accorge che il mondo è comunque brutto e cattivo, pieno di orchi e pronto a schiacciarti -sempre che i brutti i cattivi, gli orchi e gli schiacciatori tu non li abbia già sperimentati per venti o trent'anni in casa. Cosa terribilmente frequente. Cosa che non ha bisogno neppure di fatti clamorosi e sanguinosi, visti i danni spesso irreversibili che, ad esempio, sulla psiche e sul carattere degli adolescenti vengono inflitti dal carcere giornaliero che va sotto il nome di “famiglia”.

Pronti, magari in tempi di “crisi”, di “mancanza di futuro” e di “speranza”, a riprodurre imperterriti gli stessi meccanismi, con il pretesto della “riproduzione umana”. Nuove famiglie come approdo naturale, nuove galere, nuovi fili spinati. Anche per gli omosessuali, ora che la grancassa in salsa “progressista” batte così tanto sui “matrimoni gay” come forma di diritto civile. Nuove firme e nuovi contratti, quando invece il “matrimonio” dovrebbe semplicemente essere soppresso, quali che siano le scelte e le tendenze sessuali di ognuno di noi. Nuove catene spacciate come “conquiste”.

Gli anni '70, dai quali proviene quasi certamente questa canzone, furono anche quelli di “Contro la famiglia”, ai suoi tempi l'opuscolo più solforoso e sequestrato di tutto il movimento di quell'epoca. C'è stato un periodo in cui era assai più facile reperire le pubblicazioni delle Brigate Rosse che quell'opuscolo (poi ripubblicato nel 1995 da Stampa Alternativa). Troppo pericoloso. Metteva in circolo troppe cose da non dire. Eppure ha continuato a vagare, e continua a farlo, sotterraneamente, ai giorni nostri. Giorni in cui il “Libro Nero della Famiglia” riempie le cronache. Giorni in cui in nome della famiglia si commettono le cose più atroci e liberticide. Giorni in cui chiese, parlamenti, papi buoni e meno buoni, religioni di qualsiasi atroce “dio” tribunalizio e spietato, istituzioni e economie si servono della “famiglia” come sempre se ne sono servite: come di un'arma micidiale rivolta contro l'essere umano e come forma di ricatto generalizzato.

Una delle forme più elementari, per una donna e per qualsiasi essere umano, per evitare una buona dose di violenza sarebbe quella di non andare a ficcarcisi dentro giulivamente, evitando accuratamente di cadere nella trappola della famiglia. Vivere la propria vita e la propria sessualità in maniera totalmente libera. Lavorare con lentezza. Rifiutare il capitalismo, che è della stessa famiglia della famiglia. I figli? Farne se se ne ha proprio voglia, e con chi se ne ha voglia e desiderio. Abolire le “minori età”, le minorità, rifiutare di imporsi sotto il travestimento assassino dell' “educazione”.

Utopie? Naturalmente. Sogni? Altrettanto naturalmente. Eppure leggetevela bene questa canzone della quale non si sa nulla. Non è un caso, forse, che non se ne sappia nulla.

Quanti sposi ben vestiti s'inginocchiano all'altare,
chiesa piena di parenti cerimonia di due ore
sono in festa in una nicchia gli angeli con la Madonna,
l'uomo spera che sia vergine quella notte la sua donna
All'altezza del taschino mostra un bel rigonfiamento
non è il cuore, è 1a pistola: gli conviene stare pronto.

Matrìmonio relìgioso
com'è bello essere sposo
la famiglia è come un campo,
molto spesso un camposanto

Una coppia ín municipio, sindaco col tricolore
lui gli sta leggendo il codice, loro firmano l'amore
Lacrimucce della mamma, la veletta della zia
dopo il pranzo delle nozze sono pronti a andare via
Di già pensano alla casa, alle nuove proprietà,
i regali deí parenti e per sempre fedeltà

Matrimonio in municipio
com'è bello sul principio,
la famiglia è come un prato
però col filo spinato

Io non sono un alienato e neppure un aguzzino,
spero che mi vada bene, non è detto sia destino
però spesso sento dentro duro cuoio di stivale
e persino dentro il letto sono spinto a farti male
sfogo la vigliaccheria che mi lega al mio lavoro
e considerarti mia mi riconferma nel mio ruolo

Matrimonio oppure senza,
viene fuori la violenza.
Questa vita è come un prato
un poligono di Stato.