martedì 28 febbraio 2017
Enne
Non so, e
non ho mai saputo, se questa storia io la abbia sentita nel portico,
quand'ero ragazzino, o se me la sia sognata in qualche recesso del
tempo; forse, tutte e due le cose. Forse anche il portico è un
sogno, e i sogni sono fatti magari anche di portici, in qualche primo
pomeriggio d'estate, quando i racconti delle donne e dei parenti sono
una specie di diversa declinazione del sonno. Non c'è quasi più
nessuno, del resto; sono passati quasi cinquant'anni.
Si diceva, e
si sognava, che c'era stata una ragazza in paese. Il paese non lo si
diceva mai. Poteva essere quel paese lì, a cinque minuti di una
strada che allora era sterrata, polverosa e senza nome, e buia come
l'inferno, la notte, se non c'era un po' di luna; o poteva essere un
altro paese dell'Isola, Capoliveri, il Poggio, Marciana Marina. Si
escludeva Portoferraio, perché Portoferraio non era un paese; c'era
questa giovane ragazza, chissà quando, che era un po' strana. Quando
si diceva “strana”, c'era sempre qualche risatina e qualche
“eeeh...”; io, che ero piccolo, non ne capivo il perché, e non
lo avrei capito nemmeno sognando. Dicevano che portava addosso non si
sa quante gioie di bigiotteria, e che cosa fosse la bigiotteria
dovevo cercare di immaginarmelo perché alla mia età il lessico non
è molto, e tutte le parole sono nuove. Il nome lo dicevano, ma non
mi riesce proprio di ricordarmelo per quanti sforzi faccia;
cominciava, mi sembra, con la N...o qualcosa del genere che mi
dovette suonare bizzarro, qualche anno dopo avrei detto “esotico”
dopo aver imparato anche quella parola. Forse, mi dicevo, non era
dell'Isola; le ragazze e le donne, all'Isola, avevano o nomi semplici
di sante (Maria, Antonia, Caterina), oppure dei nomi unici scovati
dal ghiribizzo dei genitori. Ce n'era una, famosa, che si chiamava
Eneide; un'altra, concepita di sicuro al ritorno di un soldato dal
fronte, si chiamava Guerramondiale e non si immagina come dovessero
chiamarla da piccola, tipo “monta su, Mondi...”. Il nome di
quella ragazza non doveva rientrare in quelle due categorie;
altrimenti me lo sarei ricordato. “Enne”.
Non portava
soltanto le gioie di bigiotteria, si diceva. Aveva sempre anche delle
calze verdi, che dovevano fare chissà quale impressione. Si
peritavano, nel portico, a dire che era probabilmente molto bella; in
un posto dove le calze erano sempre e solo nere, in una specie di
lutto continuato al pari dei vestiti, una ragazza di paese con le
calze verdi proprio la si notava, e la si scansava. Viveva, dicevano,
da sola non si sa in quale stanza, o tugurio; nel prosieguo degli
anni, diventato grande, mi capitò di leggere, a proposito di
un'antichissima canzone, che le “maniche verdi” erano come il
segno distintivo di una donna di facili costumi. Lo avessi saputo
allora, avrei capito, anzi non avrei capito lo stesso perché non
sapevo di certo che cosa fossero, i “facili costumi”. Io, a
cinque anni, ero innamoratissimo di una giovane sposina della casa
accanto, di quando il portico non era ancora diviso prima da una
grata, e poi da un muro. Si chiamava, e questo me lo ricordo
benissimo, Iliana; non “Liliana” o “Ileana”, proprio Iliana,
e avrà avuto, chissà, ventidue o ventitré anni. Ora ne dovrà
avere più di settanta. L' “amore” consisteva nell'immaginarmi un
uccellino, e andavo sempre a mettere il capo sotto il suo braccio per
“dormire”; dev'essere stata anche la prima volta che ho
appoggiato il capo su un seno di donna. E mi ricordo anche del
marito, un giovanottone simpatico che, anche quello lo avrei imparato
tempo dopo, portava un cognome identico a quello di un famoso
musicista d'opere liriche.
Portava
calze verdi, Enne, e viveva da sola. Insomma, faceva la puttana ma
io, quando sentivo raccontarne, cercavo di figurarmi la bigiotteria e
le calze verdi. Quasi di sicuro, se ero presente, si ingegnavano a
non farmi venire strane idee in testa, i bambini piccoli devono
essere tenuti nel loro limbo di uccellini innamorati. Mi sono chiesto
tante volte, poi, da dove sarà piovuta, la Enne, arrivata magari
alla deriva come succede non di rado nei posti a cui la sorte e la
geografia hanno riservato d'essere circondati dal mare. O forse no;
nel villaggio ci sono sempre lo scemo e la puttana.
Però si
diceva, a volte, che quella ragazza aveva avuto un padre. Si nominava
quasi sempre, a quel punto, una cosa, un “palazzo di giustizia”
che, porco pionòno, nemmeno quello sapevo che accidenti fosse. Il
palazzo, d'accordo; ma la giustizia? Che diavolo era, la giustizia? E
che ci faceva in un palazzo? Poi dicevano che il padre di quella
ragazza era innocente, e terminavo anche di fare domande.
Ripensandoci, non mi veniva nemmeno da bambino di interrompere sempre
a chiedere che cosa volesse dire una parola; ero già impegnato a
fabbricarmele da solo, le parole, e quelle le sapevo solo io.
Era
innocente. Non aveva fatto nulla. Poi partivano sempre col “Palazzo
del mistero”, ma quello lo conoscevo anche se non c'ero ancora mai
stato. Era una grotta a mare tra Pomonte e Chiessi, che ci si
arrivava giù per un viottolo scosceso che avrei fatto solo a
diciassette o diciott'anni, quand'ero allampanato e secco come un
chiodo. Chissà chi glielo aveva dato, quel nome così poetico; anche
perché, in fondo, di misterioso aveva poco. Era una grotticella come
ce ne sono tante, neanche un po' delle dimensioni d'un palazzo, e si
apriva su una spiaggetta di sassi. Non c'era quasi niente nel Palazzo
del mistero, dicevano, e giù ancora risatine; e quel “quasi”, mi
sa, voleva significare che la Enne se ne serviva per portarci
qualcuno a fare chissà cosa al sicuro da sguardi indiscreti. Beh,
giù, chissà del resto cosa ci andavo a fare, io, da ragazzotto;
allora erano già passati i tempi dell'uccellino con la testolina
sotto l'ala, come natura vuole.
Poiché, e
lo dico sempre con dieci benefici di quindici inventari, il mio
temperamento (o indole, una
parola difficile che all'inizio pronunciavo indòle)
è sempre stato romantico con qualche frequente spruzzata di
ridicolo, io m'immaginavo sì qualche piccola cosa; ma doveva essere
per forza amore. La
Enne era innamorata di tutti, portava le calze verdi e andava al
Palazzo del mistero (che ci doveva durare, poveraccia, una fatica non
di poco conto, specie al ritorno su per quelle pènte). Qualche cosa
se la lasciavano sfuggire, però; per esempio, che “dormiva con
tutti”. Ecco, andava a dormire. E faceva proprio bene, un bel
riposino in compagnia di tutti, del ciabattino, del maresciallo e
magari anche del prete. Chissà, forse anche di quel mio zio, che
all'epoca era un bel ragazzo e che è morto un mese fa quasi a
novantott'anni, con la bara portata fuori davanti all'Isola che si
vedeva chiarissima in una mattinata gelata ma che si sarebbe vista
anche l'Australia, da Piombino. Era innamorata di tutti, sì, e
quindi ci dormiva. Un bel sonnellino di quelli che, di sicuro, a quel
punto andavo a fare anch'io, lasciandoli tutti lì nel portico a
raccontarsi le storie.
Una
volta non andai a dormire. E allora sentii la fine di quella storia.
Non la avrei voluta sentire, però. Le storie dovevano essere buffe,
divertenti; i fatterelli,
come li si chiamava (la parola “storia” la conoscevo, ma per me
voleva dire soltanto di quando mi dicevano “su mangia e non fare
storie!”, e io non le facevo per niente, figurarsi). Quella non
finiva per nulla bene, non era buffa, non era divertente. Dicevano
che la Enne, un giorno, la avevano trovata morta affogata, non si sa
dove. Forse vicino al Palazzo del mistero, forse da qualche altra
parte, ché all'Isola non mancano di certo posti per affogare. A
riva, con le sue calze verdi, sbattuta un po' dalla risacca, con dei
brutti segni sul collo. Dicevano che aveva i capelli sciolti, e non
li portava quasi mai così; erano lunghissimi. Aveva una macchia di
sangue “giù”, e quel “giù” no, non sapevo che cosa volesse
dire. Tanto era morta affogata, e tanto bastò. Mi chiedo ancora
perché, quella volta, davanti a me che non avevo ancora sei anni, mi
avessero voluto raccontare quella fine, senza mandarmi a dormire; e
chissà che, quella volta, non abbia cominciato, non so dire come, a
ingrandire. Dal che, tempo tempo dopo, mi è venuto a volte da
pensare che un bambino lo si ingrandisce facendogli prendere un po'
coscienza con l'esistenza della morte. Magari raccontando una storia,
il fatterello d'una povera ragazza che aveva cambiato sonno sulla
riva del mare.
Non
era sincero nessuno. Chissà chi la aveva ammazzata, la Enne, magari
per non pagarla, per non darle quei miserandi e pochi soldi che
chiedeva. Dicevano poi che la avevano presa, e che le avevano fatto
fare un funerale alle sei di mattina, non in chiesa, in fretta e
furia, e seppellita in una tomba senza nome in un cimitero lontano, a
Portoferraio, che poi è rimasto bombardato dai tedeschi nel '43. Me
ne andai via, o forse mi rintanai in qualche sogno mentre la mi'
mamma s'arrabbiava con chi non aveva tenuto la bocca serrata davanti
a un bimbo. Me la vedo a fare
dei gesti a tutti gli altri e le altre, “giù...! giù...zitta!
Zitto!”
Nel
sogno era notte.
C'era
la Enne, bellissima, forse le davo pure la faccia della sposina della
casa accanto, quella dell'uccellino. Arrivava una persona, che mi
vedevo con l'aria triste, sperduta; e magari mi vedevo io stesso, già
grande, ché i bimbi se lo mirano nella loro nebulosa, a volte; ché
i bimbi, assieme all'esistenza della morte, imparano automaticamente
anche quella del tempo, cioè imparano tutto quel che serve della
vita e non esiste nessuna “minore età” se non per i fabbricatori
di leggi e di galere. Facciamo che ero io, quello che arrivava, nella
notte; o facciamo anche che eri tu, non importa. Era così contenta,
la Enne, che stavi arrivando; mi chiamava, o ti chiamava, persino
amore. Sono contenta che sei venuto.
E
siccome i sogni hanno il vizio di restare inalterati, e di non essere
proprio nessuna realtà parallela, ma soltanto una diversa proiezione
della realtà reale, la gratitudine che provo verso la Enne, verso
quella ragazza strana con le gioie di bigiotteria e le calze verdi, è
rimasta pari soltanto a quel granello di felicità da quattro soldi
di aver ricacciato via la sua schifosa morte, che mi avevano voluto
raccontare. Di esser passato oltre, di averla presa con me in quella
notte come ce ne sono state non poche, e nella maggior parte delle
quali me le sono dovute patullare da solo, la tristezza, la
solitudine, la cattiva coscienza o una cena di pane e rinoceronte.
Di
essere, per questo, sempre pronto a fermare ogni pensiero, a ore che
voialtri spesso non concepireste neppure, e a fare immediatamente la
Enne anche se vi toccherebbe, malauguratamente, di avere a che fare
tutt'altro che con una bella ragazza con le calze verdi e disponibile
a dormire con voi. Non si dorme affatto. Però io sono lì, e sono
contento che sei venuta, sono contento che sei venuto. Nel tuo buio
della notte, col tuo tutto e col tuo niente, col tuo bello e col tuo
brutto, con la tua indifferenza e con la tua putrescenza, con la tua
minuscola piccineria o col tuo alito all'immenso. E' questo che la
Enne mi ha mandato a dire quella volta, in mezzo a un sogno con
Paperino e a un'altro coi calciatori, mentre il portico si svuotava e
tutti se ne saranno tornati alle loro case.
Mi
sarò svegliato verso le sei del pomeriggio, sudato fradicio, ci sarà
stato lo scirocco, quel tremendo scirocco dell'Isola che trasforma
tutto in una ragnatela grassa e soffocante. Poi ci sono state le
canzoni, tanto tempo dopo, quelle non me le aspettavo di certo. La
Enne si deve essere infilata, con le sue calze verdi, nei sogni di
altri bambini lontanissimi, che però non stavano nel portico e che
la storia non la conoscevano troppo bene. Una canzone la aveva
scritta un genovese e diceva che la Enne s'era buttata dal terzo
piano col telefono rotto; l'altra era addirittura di un canadese
ebreo, e diceva che invece s'era sparata con una calibro 45. Però in
tutte e due le canzoni c'erano le calze verdi, il Palazzo o la Casa
del mistero, c'era che dormiva con tutti. E c'era, sì, che era
contenta che sei venuto. I sogni viaggiano, e i sogni sono storie,
sono fatti. Sono la realtà che si traveste, anche lei con le calze
verdi, da immaginazione. Sono isola e sono terra. Sono notte, e in
quella notte stai arrivando. E in quella notte tutto arriva, nel buio che potrebbe non avere fine come potrebbe non avere avuto inizio.
sabato 18 febbraio 2017
Via Taddea
Via Taddea è una delle più antiche strade del quartiere di San Lorenzo, a Firenze. Sembra che prenda nome da una famiglia Taddei, che qui aveva il suo palazzo dove soggiornò pure il pittore Raffaello.
E' una di quelle strade fiorentine strette, ombrose, in alcuni angoli persino buie ma che inaspettatamente si aprono in sprazzi di sole. Il palazzo nobiliare è accanto alle case della gente comune e alle vecchie botteghe e ai fondi, senza soluzione di continuità, in un'unica severità. Al numero 21 di via Taddea nacque, il 24 novembre 1826, Carlo Lorenzini detto il Collodi, l'autore del Pinocchio. Da questo vicolo partì il Burattino senza Fili per il suo giro del mondo.
A brevissima distanza dal Palazzo Taddei dove soggiornò il pittore Raffaello (al numero 17 della strada), una vecchissima e modesta casa popolare che ancora oggi è tale, coi panni stesi e le mutande a asciugare al filo sopra la breve lapide dedicata al "padre di Pinocchio".
In cima alla strada, invece, al numero 2, nel 1921 si trovava il Sindacato dei Ferrovieri.
Come ricorda la lapide, la sera del 27 febbraio 1921 la sede del Sindacato fu assalita da una squadraccia fascista, durante un'intera settimana di situazione insurrezionale a Firenze e di scontri sanguinosi. La Resistenza antifascista fu particolarmente dura proprio nei quartieri di San Lorenzo, di Santa Croce e di San Frediano, da parte degli Arditi del Popolo e delle Formazioni di Difesa Proletaria.
Durante l'assalto al sindacato dei ferrovieri in via Taddea, fu ucciso il sindacalista comunista Spartaco Lavagnini.
Quante cose in una vecchia e buia strada. Quanta gente. Il pittore, lo scrittore di fiabe, il sindacalista ammazzato dai fascisti. Mi piacerebbe, a volte, poter scrivere la storia di ogni strada, di ogni vicolo.
Ma poiché la Storia è anche fatta di immaginazione e fantasia, mi piacerebbe poter immaginare un burattino di legno, col suo vestitino di carta a fiori e il berretto di mollica di pane, che la sera del 27 febbraio 1921 sente confusione in capo a via Taddea e scende le scale di corsa per cercare di andare a dare una mano contro quegli assassini neri, proprio come quelli che lo avevano impiccato alla Quercia Grande.
Coi sui gomiti di legno e i suoi piedacci duri. Forse non ce l'avrebbe fatta a salvare il sindacalista, ma qualche stinco rotto e qualche dente fuori posto a quei maledetti glielo avrebbe assestato ben bene. Mentre, dal numero 17, accorreva il grande pittore a ritrarre il sindacalista ammazzato, nella sua morte in un vicolo della decrepita Firenze attraversato dall'Imponderabile Intrico.
giovedì 16 febbraio 2017
Surrealismo e Solitudine
L'ambientazione è stata perfetta.
Lavagna straziata dal dolore. Sembra una vecchia classe scolastica. I gessetti che piangono disperati e la cimosa piegata in due dal magone. Il parroco. Non si nega a nessuno un parroco, nemmeno a un ragazzino suicida. Un tempo, va ricordato, gli sarebbe stata negata degna sepoltura in terra consacrata, come al Miché della ballata di De André che era pure di lì vicino.
A Lavagna, fra due o tre giorni non gliene fregherà più una sega a nessuno.
Gli striscioni. Nessuno muore sulla terra finché vive nel cuore di chi resta. Non funziona propriamente così. Bisognerebbe una buona volta abolirlo, codesto cuore. Nel cuore, che è una pompa a durata scadenziale, non vive niente e nessuno. Tutto, casomai, vive nel cervello; ma il cervello non va molto di moda, sotto questi chiardiluna.
C'è pure Guccini, tra gli striscioni. Voglio però ricordarti com'eri, pensare che ancora vivi. Però quello era un incidente stradale, se ben mi ricordo. Con gli incidenti stradali, ora più che altro si consumano le vendette dei gladiatori innamorati. In questo caso, in questo ennesimo fatto di cronaca nel quale m'ingaglioffo, le modalità mi sembrano tanticchia differenti.
Uno a uno. Stavolta il ragazzino sedicenne non ammazza i genitori. Stavolta il ragazzino sedicenne s'ammazza per sé. Ha in tasca dieci grammi di fumo. Arriva a casa una delle tante declinazioni di sbirri, e il ragazzino si butta dalla finestra. Non è che ci si ammazza così per giocherellare, neppure a sedici anni. In un dato momento, si preferisce la morte a qualcosa che si paventa; ed è una cosa che esigerebbe perlomeno un granello di rispetto, quello dovuto ad ogni essere umano. Il minimo sindacale, per così dire. Almeno quello.
Oltracciò, quel che sto scarabocchiando ha il grave limite di essere, per forza di cose, mediato da una qualsiasi carta da deretano che riporta "i fatti"; in questo caso, Repubblica. Si tratta di un limite desolante, qualcosa che obbliga ad una scelta. O ne parli, o stai zitto. Se ne parli, occorre accettare la mediazione di una qualche spazzatura.
Detto questo, mi corre l'obbligo di rassicurare chi eventualmente stia leggendo. Non ho la benché minima intenzione di accusare chicchessia. Non desidero spargere odio. Non mi schiero da una parte o dall'altra. Sono perfettamente conscio che il mestiere di genitore è spaventosamente difficile, tant'è vero che proprio non mi sono sentito all'altezza d'intraprenderlo nella mia vita pur essendo i miei spermatozoi regolarmente funzionanti. Mi sarebbe piaciuto, a volte, parlare un po' del mestiere di adolescente; ma, quando lo ero, i blog non esistevano. Ora che invece esistono, e sono persino passati alquanto di moda, l'adolescenza risale per me circa al tempo delle guerre puniche. Destino cinico e baro.
Quel che mi preme, invece, è attribuire ad una persona ben precisa, almeno da quanto mi è dato leggere e con il beneficio di una decina di inventari, un riconoscimento ed una sorta di premio. Il premio universale per il Surrealismo. La persona destinataria di tale premio è la madre del sedicenne lavagnese suicidato per essere stato trovato in possesso di grammi dieci di un qualche cannabinoide.
La madre del sedicenne lavagnese autodefenestratosi ha tenuto, all'altare della parrocchia in occasione del funerale del ragazzo, il discorso che riporterò tra breve e che merita assolutamente di essere tramandato ai posteri come vetta inarrivabile del Surrealismo. Impallidiscano André Breton, Luis Buñuel, Tristan Tzara, René Magritte, Antonin Artaud, Max Ernst, Philippe Soupault. Si scostino deferenti di fronte a questa madre; la quale, oltre ad aver chiamato di persona la Guardia di Finanza affinché perquisisse il figlio, la ha pure pubblicamente ringraziata per avere ascoltato il suo urlo di disperazione. Come dire: grazie, Guardia di Finanza, per avermi aiutato a sbarazzarmi di mio figlio. La cosa è abbastanza comprensibile: c'è la crisi, non si arriva alla fine del mese, un figlio adolescente costa un occhio della testa e, per di più, si fa pure le canne. Ma bando alle ciance, e consegniamo ordunque alla Storia questo capolavoro che riporto integralmente, permettendomi soltanto, dada- e surrealisticamente, di suddividerlo in cesure poetiche. In mancanza di un titolo ufficiale lo chiameremo: Un cri désesperé d'une mère de Tableaunoir.
E la mamma ha preso la parola dall'altare:
"La domanda che risuona dentro di noi e immagino dentro molti di voi è:
perchè è successo, perchè a lui, perchè adesso, perchè in questo modo?
Arrovellandoci sul perchè,
ci siamo resi conto che non facevamo altro
che alimentare
uno stato d'animo legato alla sua morte senza possibilità
di una via d'uscita.
Allora abbiamo capito che forse la domanda da
porsi in questa situazione è piuttosto: come?
Vi vogliono far credere che fumare una canna è normale,
Vi vogliono far credere che fumare una canna è normale,
che faticare a parlarsi è normale, che
andare sempre oltre è normale.
Qualcuno vuol soffocarvi.
Diventate
protagonisti della vostra vita
e cercate lo straordinario.
Straordinario
è mettere giù il cellulare e parlarvi occhi negli occhi.
Invece di
mandarvi faccine su whatsapp,
straordinario è avere il coraggio di dire
alla ragazza sei bella
invece di nascondersi dietro a frasi
preconfezionate.
Straordinario è chiedersi aiuto proprio quando ci
sembra che non ci sia via di uscita.
Straordinario è avere il coraggio
di dire ciò che sapete.
Per mio figlio è troppo tardi ma potrebbe non
esserlo per molti di voi, fatelo.
(Ha detto la donna).
Noi genitori
invece di capire che la sfida educativa non si vince da soli
nell'intimità
delle nostre famiglie,
soprattutto quando questa diventa
una confidenza per difendere
una facciata,
non c'è vergogna se non nel
silenzio:
uniamoci facciamo rete,
(Ha aggiunto).
In queste ore ci siamo
chiesti perché è successo,
ma a cercare i perché ci arrovelliamo.
La
domanda non è perché, ma come possiamo aiutarci.
Fate emergere i vostri
problemi
(Ha detto la madre ai ragazzi).
E alla Finanza ha detto anche:
Grazie per aver ascoltato l'urlo di disperazione
di una madre
che non
poteva accettare
di vedere suo figlio
perdersi.
E ha provato con ogni
mezzo di combattere
la guerra contro la dipendenza
prima che fosse
troppo tardi.
Non c'è colpa né giudizio nell'imponderabile,
e
dall'imponderabile non può che scaturire
linfa nuova
e ancora più energia
nella lotta contro il male.
Proseguite."
Di fronte ad un simile capolavoro, mi sono alzato con deferenza e mi sono tolto il cappello. Specifico che avevo sì un cappello, ma che l'ho regalato a un anarchico pisano dato che non lo portavo mai; indi per cui, il mio scappellamento è squisitamente metaforico.
Certo, in un impeto di salutare cattiveria, sulle prime mi sono immaginato la signora finalmente libera di fumarsi la cannetta che oramai non serve più al rampollo bell'e morto e sepolto; sinceramente, mi sono vergognato di me stesso. Ho conosciuto una volta una simpatica signora ultrasettantenne che si faceva il suo bravo cannino ogni tanto, è morta in grazia di Dio dopo una vita di lavoro e non si è persa. Ma sono, naturalmente, discorsi così tanto per fare. Quel che resta, è il discorso della Madre di Lavagna, che la Letteratura non potrà fare a meno di annoverare tra i suoi capisaldi con la speranza che la signora non abbia poi a fare come certi ex-surrealisti, come gli Aragon, i Dalí "Avidadollars" e gli Éluard, divenuti infamoni della peggiore specie. Ma nutro speranze positive.
Al che mi sono alzato dalla sedia e sono andato alla porta di casa. Con la sigaretta fatta con le cartine e il tabacco Pueblo. Non ci sono più i pini di fronte a casa mia, come magari saprà chi legge ancora questo blog. Non fa caldo ancora, questo no; ma nei primi giorni di malato sole...
Mi sono messo per qualche attimo a ragionare sulla Solitudine.
Ci ho avuto un rapporto normalmente complesso, con la Solitudine. Ambiguo. E surreale, appunto, com'è ragionevolmente logico che sia. L'ho mal sopportata, la Solitudine, in alcune parti della mia vita. Ho cercato di sopraffarla in qualche modo, a macchia di leopardo. I risultati sono stati generalmente disastrosi.
Alla fine mi sono accorto di essere intimamente portato alla Solitudine. Che è una compagna perfetta, e che non chiama nessuna Guardia di Finanza.
Quella Solitudine che ha la gentilezza e l'umanità di non imporsi a nessuno, che abbia cinque o novantacinque anni. Che fa fumare le sue cannette, i suoi dieci grammi di fumo, al bambino e alla nonna; e specifico che sono totalmente allergico ai cannabinoidi, se tiro anche una boccata di fumo strabuzzo gli occhi e tossisco a morte. Quella Solitudine che non va all'altare di un qualche dio di merda a tenere capolavori del Surrealismo. Quella Solitudine che non si unisce e che non fa rete. Quella Solitudine che non fa figli da perdersi per dieci grammi, e menomale che l'anima, come dicono, ne pesa ventuno.
Come finale Surreale, poniamo che quel ragazzo, anni sedici, dal suo volo sia atterrato qui da me. Per quel che mi è possibile alla mia età, lo avrei fatto accomodare e gli avrei fatto fumare la sua cannetta, come una delle ultime che mi sono fatto prima dell'insorgere dell'allergia. Me la aveva regalata un tizio che conoscevo, e che poi si è suicidato in carcere.
Gli avrei fatto conoscere i privilegi della Solitudine, dicendogli di non avercela con sua madre, povera donna all'altare, che vuole fare rete come un centrattacco, e che ringrazia pure la Guardia di Finanza. E' andata così. E' andata così. E' andata così, la sfida educativa, l'intimità delle famiglie, la linfa nuova, l'altare.
Però, sorridendo, un vaffanculo a tua madre te lo concederei. Finisciti 'sta canna, poi ci si fa un mojito. Amen.
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