martedì 2 dicembre 2008

Di dove sono, di dove siamo



Tra tutte le categorie di persone che mi è stato dato di conoscere (e la conoscenza è sempre e comunque una ricchezza), ve n'è una, alquanto buffa, che in mancanza di un termine appropriato definirei gli anagrafici. Sono, come diceva Georges Brassens, i coglioni nati da qualche parte, quelli che cianciano di “identità” (una delle parole più massacrate del lessico italiano, con tutte quelle dentali sorde e sonore che si confondono), quelli che hanno le “radici ben salde”, quelli che, stabilitisi altrove, nutrono le proprie origini con incontrollate e incontrollabili scemenze; quelli che, con i propri intrecci di nostalgie e di roboanti dichiarazioni di non nostalgia, nelle quali si finisce sempre per non capirci più niente, producono un calpestio ritmico, un tramp-tramp che ricorda gli Idioti in marcia di Cyril Kornbluth (con la speranza che qualcuno, prima o poi, li spedisca su Venere). Gli idioti anagrafici, appunto; o meglio, gli idioti della verità anagrafica. Quelli per cui si deve essere di un posto e basta. Quelli della nàscita registrata su un atto. Boccaccio era di Certaldo, di Firenze o di Parigi? Ma sarà stato di dove voleva lui, no? Bonvi era di Modena e di Parma, perché sua madre, per ottenere dei benefici annonari, ne aveva registrato la nascita, in tempo di guerra, in entrambe le città; e non lo sapeva neppure lui, dove fosse venuto al mondo di preciso. Magari né a Modena e né a Parma.

Eppure basterebbe poco. Sarebbe sufficiente essere delle spugne. Io sono nato a Firenze il 25 settembre del 1963, come risulta da un atto di nascita (esattamente il n° 2379/1/A; lo riprendo dalla carta di idendità); quindi sarei definito fiorentino. Tutto bell'e pronto. Ingabbiato dalla nascita fino alla morte. Non potrei dire di essere d'altrove. Vietato, anzi, verboten. Considero uno degli atti più degni della mia vita quello di aver desiderato liberarmi da questa gabbia, anche se a Firenze di nuovo vivo in pianta stabile da un paio d'anni, anche se voglio bene a questa maledetta città, anche se ora come ora non intendo più smuovermene. Durante tutto il mio cursus, dal punto di vista formale, non ho fatto altro che mentire su dove sono nato, provocando talvolta sturbi e sarcasmi; ma è perché io non sono, dentro, di un posto solo. Sono nato in tutta la mia storia, in quella della mia famiglia, in quella dei miei sogni. Sono di tutti i posti dove mi sono trovato a vivere. Perché è inutile dirsi “anarchici” e berciare “nostra patria è il mondo intero”, quando poi, alla fin fine, ci si abbàrbica ad una scartoffia.

Io sono elbano perché dall'Isola d'Elba viene tutta la mia famiglia da parte di madre. All'Elba, con tutta probabilità, sono stato concepito (quant'è ridicola la terminologia che sostituisce un semplice fare all'amore, che si voglia o meno fare un figlio). Ci ho passato la mia infanzia, anche quando non c'ero; perché c'ero in un modo più vasto e profondo della presenza fisica. C'ero sempre, e quando c'ero anche fisicamente mi fabbricavo i sogni per quando non ci sarei stato. Così funziona ancora, anche in questo momento. Ho visto partire uno ad uno tutti i membri di quella tribù che s'era, e ne sono rimasti pochi. Ci ho portato tutte le persone che ho amato, perché non posso amare nessuno senza che almeno veda l'Isola d'Elba. Ho raccontato le sue storie, ricamandoci sopra, mescolando i fatti alla fantasia e la fantasia ai fatti; ed è questa la vera essenza della memoria. Una memoria fatta di sola verità non è memoria, ma aridità. E' la memoria senza sogni degli imbecilli.

Sono livornese, perché in quella città ho vissuto e me ne sono impregnato. A modo mio. Una Livorno fatta di silenzi, di notti in giro, di albe sui fossi. Una Livorno fatta del suo impagabile modo di esprimersi, ma anche di quella sottile mescolanza di plebe e di aristocrazia la cui seconda componente viene oramai sottaciuta, o addirittura schernita. Una Livorno di miseria e nobiltà. Una Livorno che, quando ci stavo, dal mio modo di parlare mi prendevano per fiorentino, mentre quando tornavo a Firenze mi prendevano per livornese. Sono felicissimo di avere mescolato anche il mio modo di parlare, di avere imparato come si fa un ponce, di avere detto a mezzo mondo di essere livornese. Poi, tanto, in un modo o nell'altro la famosa verità viene a galla, la verità degli atti anagrafici. La verità nuda e cruda, però a me piace quella vestita e cotta.

Sono pure di una quieta cittadina svizzera che si rifiuta a tutti, chiamata Friburgo, o Friborgo, o Fribourg. I cui abitanti sono considerati degli orsi persino dagli altri svizzeri. Sono di quella sommessa, nascosta melassa di turchi e portoghesi che andavano ordinati in fila, con in testa il capobanda col tamburo, per festeggiare le vittorie della nazionale ai campionati europei, e che la sera della finale, sconfitti in casa inopinatamente dalla Grecia, scesero in strada a festeggiare lo stesso, e incontrandoli mi veniva la voglia di cantare Grândola vila morena. Sono di uno snack bar con un ragazzino di 14 anni con addosso la maglia del Galatasaray, sono delle fiabesche gole del Gottéron, un altro posto dove sicuramente sono nato, natissimo. Sono anche della mia finzione di fare il vegano quando di nascosto, oppure quando ero solo o altrove, mi ingurgitavo ogni sorta di salsicciotto che mi capitava a tiro. Così come adesso mi ingurgito, ancora, piattate di seitan perché mi piace e sono contento di averlo conosciuto; sono nato anche nella voglia di andarci via, da quel posto, perché da dove si è nati si ha sempre voglia di andare via.

E sono di quelle campagne senesi dove, per due anni e mezzo, mi sono letteralmente rifugiato, scomparso, svanito. Di quella piana del Casone e del suo orologio fermo alle otto e mezzo di chissà quanti decenni prima. Dei tubi gelati in bagno, del mare verde e dell'orripilante benzinaia che mi aveva preso a benvolere. Ci sono nato davvero, in quel posto, o forse rinato dopo una delle mie diverse morti; ben sapendo che noi che siamo nati dove vogliamo, senza atti ufficiali, moriamo e nasciamo una quantità imprecisabile di volte; eppure, e volte, ce ne vergogniamo. Coscienti di dire menzogne perfino alle persone più vicine, agli ”amici”, alle pietre e ai muri. Spugne siamo, afferriamo parlate e modi di dire e poi centrifughiamo tutto nell'idioletto. Si mescola lo stórto col ciugnare, il budello d'eva col c'est la galère, il dé bambolo col grüezi mitenand.

E sono di quei neri posti in cima alla Francia, dei suoi boschi di civette e dei suoi terrils, dove sicuramente devo essere nato perché quando ne vedo uno in fotografia, o quando semplicemente vedo passare una macchina targata “59”, mi prende un tuffo al cuore. Dove, nascendo, ho finito per seminare rancore, come spesso mi capita. Quante secche parole mi devo essere preso, non lo so neanche; e quando sono filtrate in qualche modo, ho imparato a pigliarle con rassegnazione, come un prezzo che deve essere pagato. Sono nato nei miei sbagli, e non dico più nemmeno che, tanto, ci nascete pure tutti quanti voi; quel che voi siete, è affar vostro.

E sono nato in chissà quali e quanti altri luoghi, in molti dei quali non ho mai messo piede. Luoghi ed epoche vicine e remote. Spagne repubblicane, città medievali, isole glaciali, antipodi pirateschi. Sono nato in un'officina meccanica del centro di Firenze dove, da bambino, e non mi ricordo neanche perché, sognavo di lavorare. Sono nato a Lisbona in tempo per partecipare coscientemente alla Rivoluzione dei Garofani. Sono nato a Firenze il 25 settembre 1963, alle 23,45, alla maternità di Careggi; morirò un giorno, dove non si sa, e senza poterlo scegliere. Quello no, non si può. Ma scelgo di essere nato, di essere di dove voglio. Nasco ogni giorno in dieci posti diversi, in barba agli anagrafici e in culo ai fatti e alle loro verità senza sangue.

Attualmente, sono nato a Piacenza. E' bello nascere in un posto che non ti saresti mai immaginato. Ho cominciato coll'impratichirmi della città, imparando a muovermici e assimilando i nomi delle strade. Girandoci in macchina a casaccio, prendendo dei punti di riferimento, ascoltando come parla la gente. Tra qualche mese sarò un piasintèin dal sass e aggiungerò un altro luogo, un altro modo, un'altra vita; magari, chissà, potrò insegnare persino a chi ci è nato per davvero, in quel posto, come ci si nasce e si riesce ad amare anche un marciapiede con meraviglia e con occhi da bambino.