lunedì 2 marzo 2009

Prào deve chiudere


Sabato scorso, in quel di Prào (che nel resto d'Italia e del mondo si chiama Prato; ma io preferisco la pronuncia loàle, che rende meglio l'idea), si è svolta una manifestazione che ha ottenuto risonanza nazionale. C'è la crisi, ed è arrivata anche a Cenciòpoli, o Lumpenstadt che dir si voglia; ed è di quelle nere. In una città dove, notoriamente, si usa costituire una società anche per l'uso dei cessi aziendali, si fa a gara per chiuderle, codeste società; il cimitero delle sarl, scarl, snc, sas e spà (con l'accento). Crolla l'occupazione; nelle annuali “classifiche del benessere” (che oramai sarebbe opportuno chiamare classifiche del malessere) la città precipita; non va in crisi micidiale soltanto un tessuto economico, ma un intero “modello”. Eh già, perché Prào, per chi non lo sapesse, è stata un modello. Qualsiasi cosa avesse a che fare coi cenci, doveva per forza passare da Prào; ora, invece, nel mercato globale, passa chissà da dove. Posti dai luoghi sconosciuti, che non sono “modelli”, che non hanno il collegio Cicognini, che non hanno il Buzzi, che non si sognano nemmeno di avere Curzio Malaparte.

E così Prào manifesta. Tutti insieme: lavoratori, imprenditori, preti, massaie, bottegai, politicanti in campagna elettorale. Manifestano facendo sfilare per la città un bandierone italiano di un chilometro e mezzo, ché anche nella crisi più nera siamo sempre a Prào e bisogna andà su i' Ghinnes de' Primati, come con il bananone arrugginito più grosso del mondo (quello sistemato fuori dal museo Pecci). Per le strade, come mi assicura chi c'è stato, dei cinesi non si fa menzione; e di cinese non ce n'è manco mezzo. I cinesi sono a lavorare, gliene importa una sega a loro della crisi de' pratesi; il mondo ora passa da loro, e lo sanno benissimo. Alle prossime elezioni municipali, sembra, si presenterà anche una listarella “anticinese”, ché in tempi di crisi come questa qualche voto di ex comunisti lo raggranella sempre. Dimenticavo: Prào era anche una città “comunista”, di quelle dove magari c'era pure l'associazione Italia-Cina, prima che i cinesi arrivassero davvero; e con paccate di soldi.

Ora, non vorrei che con questo inizio volutamente carognesco si credesse che io goda nel vedere tanta gente per la strada e una città con l'acqua alla gola. Non ci godo affatto, ma proprio per nulla. Però qualcosina la avrei da dire. Sul bandierone chilometrico c'era uno slogan ripetuto migliaia di volte: Prato non deve chiudere. Io, invece, sostengo che Prào debba chiudere. Urgentemente, se vuole salvarsi sul serio. Deve chiudere il suo “modello”. Deve, in primis, diventare davvero una città, ché una città non è soltanto lavoro, lavoro e lavoro con qualche abbellimento “culturale” (il solito museo dell'arte moderna, il solito teatro più o meno all'avanguardia). Deve imparare a fare i conti in modo diverso, e rimettersi completamente in discussione. Deve imparare che, in questi tempi, non sta andando in crisi soltanto l'economia, ma lo stesso caposaldo del "lavoro".

Prào è una città che, a lungo, col suo famoso “modello”, si è sentita la locomotiva della Toscana. Considerando tutto il resto, appunto, come vagoni a traino. Firenze? Una sgradevole appendice storica dalla quale staccarsi a tutti i costi (credo che Prato sia l'unica città italiana dove sia stato dedicato un viale alla data di costituzione di una specie di inutile provincia, “viale 16 aprile”). Prào lavora, produce, accumula, trasforma; gli altri, un inutile carrozzone buono per i turisti. Ora succede che i carrozzoni turistici se la barcamenano, persino Livorno che turistica non è per niente; mentre Prào chiede aiuto, ora. “Abbiamo dato aiuto a tanti, ora aiutate Prato”, si sente dire nel corteo. Toh!

Magari qualcuno potrebbe ricordare ai pratesi com'è fatto in sostanza, quel suo “modello”: fabbriche tessili smembrate e atomizzate per rientrare nel limite dei 15 dipendenti, al di sotto del quale non si ha la copertura dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (e guai a parlare di estensione, e tutti a boicottare il referendum del 15 giugno 2003). Il “modello pratese”, coi suoi macrolotti fatti di migliaia di finte microaziende, si è basato sul sor padre-padrone, su orari di lavoro massacranti, e su salari per gli operai che sono stati enormi in base alla produzione; finché il mercato ha tirato. Finché tutta questa politica imbecille non è stata messa a nudo da varie cause, tra le quali la totale incapacità di saper guardare un po' più in là del proprio naso. Credevano che durasse in eterno, i bravi pratesi; invece in eterno non dura niente. E siamo all'attuale sequela giornaliera di fallimenti, di chiusure, di drammi. Prào è anche la prova del fallimento dei distretti industriali monotematici, del rifiuto della differenziazione. Non se la deve prendere se la chiamano Cenciòpoli; Prato è quella, e caparbiamente ha voluto essere quella. Ora ne paga le spese, salatissime.

Paga anche le spese di rapporti umani inesistenti, di lotte al coltello anche all'interno della stessa famiglia per questioni di soldi, denaro, quattrini, sghèi; più in là non si va. Ostentazioni, villoni, SUV anche per il cane, e lavoro, lavoro e lavoro imbestialente, abbrutente. Per questo affermo che, se vuole vivere davvero, Prato deve chiudere. Chiudere e rifarsi. E che cosa vuole, restare “aperta” per ributtarsi in ciò che l'ha portata in questa condizione miserevole? Vuole restare “aperta” per continuare a basare tutta un'economia sul buttarselo nel culo a vicenda, sull'aggirare leggi un po' troppo scomode, sul paternalismo del “capoccia”, sull'incultura semitotale? Vuole restare “aperta” per dare la colpa ai cinesi? Poi non serve fare le manifestazioni imploranti col bandierone italiano da record. Non serve che tutti, persino sulla Nazione, scrivano articoli lagrimevoli; Il grido di dolore di Prato, titola l'articolista. Gnè gnè. Eppure qualcuno glielo aveva detto, sentendosi rispondere con risate miste a boria. O che non gliel'avevano insegnata, ai pratesi, la vecchia storia delle vacche grasse e delle vacche magre? O che non gliel'avevano insegnato, specialmente ai lavoratori, che l'accettazione passiva dello status quo stabilito dal padrone, alla fin fine fa andare tutto in malora anche se per un certo periodo ti ha dato stipendi da favola?

E, nel frattempo, nella “rossa” Prào si cominciano a vedere i funghi velenosi che crescono regolarmente in terreno di crisi e di percezione della mancanza di un futuro: sono funghi neri, armati di manganello, ben protetti dalla polizia e che, per l'appunto, amano tanto -pure loro- il bandierone italiano.

Invece di scendere in piazza a implorare, si riconsiderino da cima a fondo. Se non lo sanno fare, imparino. Tornino magari in provincia di Firenze, ché l'aborrito baraccone turistico una mano al maggior centro della provincia magari glielo poteva dare. Oppure vadano in provincia di Hangchow o di Shangai, ché i cinesi lo sanno come fare. Scendano in piazza con un bel bandierone rosso con la stella, invece che col bandierone italiano; altrimenti la loro famosa collina che li sovrasta (e dove s'è fatto seppellire Malaparte) adempirà al suo nome, e il vento li spazzerà via.