venerdì 12 giugno 2009

Scogli e birre


Scrivo, a mano, da uno scoglio; e non è uno scoglio qualunque. È lo stesso scoglio sul quale, non più di due anni e qualche mese fa, stavo in compagnia d'una marea di persone, a fare e dire cose che non ha, qui, importanza raccontare. Avevano comunque un nome loro, quelle cose che si facevano e si dicevano; con quel nome ne ne ricorderò.

Non ci sono andato per caso, su quello scoglio. L'ho fatto del tutto coscientemente, apposta, volutamente, con intenzione. Appena messo piede sulla spiaggia pietrosa -la medesima di cui serbo un altro incancellabile ricordo addosso, sul braccio destro, grazie a una medusa cui dovevo stare particolarmente antipatico-, mi sono detto che dovevo andare proprio là, su quello scoglio semipiatto, a sdraiarmi da solo. Due anni e poco più. A questo punto si affaccia il pericolo mortale delle solite frasi banali, del tipo "...e sembra un secolo", oppure "par mill'anni". Nulla di tutto questo. Sembrano proprio due anni fa. Non importa ricorrere ai secoli o addirittura ai millenni: il tempo reale è già più che sufficiente. Due autentici anni fa ero su quello scoglio assieme a delle persone; oggi ci sono da solo. Col mio zaino blé, l'asciugamano e una giornata di giugno assolutamente maestosa, di quelle che comandano soltanto d'immergersi nella luce.

Sbaglierebbe, e grossolanamente, chi credesse che stia scrivendo qualcosa che abbia a che fare con la nostalgia, con il rimpianto, con gli appelli, con i richiami o altre idiozie del genere. Questa è una cosa che ha a che fare soltanto coi miei ricordi. Con alcune di quelle persone che stavano sullo scoglio ho ancora dei rapporti, seppur flebili; con altre, no. È la normalità del fluire, una normalità per la quale poco più di due anni sono un tempo più che ragionevole. I ricordi non sono, per natura, né allegri e né tristi. Possono esserlo, allegri o tristi, nell'immediatezza di un dato evento; ma dopo un po' diventano ricordi e basta. E sono sempre una ricchezza, forse l'unica vera che si ha.

C'è chi li fugge, li evita. C'è chi, capitando sulla stessa spiaggia, se ne sarebbe subito andato via oppure sarebbe andato a mettersi dalla parte opposta di quello scoglio. C'è chi, sicuramente, avrebbe invece provato indifferenza. Non io. Io, nei ricordi, mi ci butto dentro a capofitto, ci vado a fare il bagno. Mi ci confronto, rivedo, rivivo e penso. Ci siamo fatti del bene, del male oppure anche del niente. Ci siamo incrociati per un dato periodo. Ma sto benissimo da solo, in questo momento, su questo scoglio, così come ci stavo bene allora in compagnia. Non desidererei che foste con me, ora. Non vorrei vedervi comparire. La vostra presenza è nel ricordo, et hic manebitis optime.

Davanti a me, il paese e le sue case, i fiori, le barche colorate. Non è, in quel luogo, l'unico ricordo; non è soltanto quello scoglio. E non mi chiederò mai che "fine" abbiate fatto, quand'anche non dovessi mai rivedervi (ammesso che abbia un qualche senso "rivedersi", a ieri, a oggi o a domani). Chissà come mai si pensa sempre alla "fine": è come chiedersi in che modo siete morti. Invece siete vivi. Mi va di chiedermi, casomai, che inizio abbiate fatto, che avvio, che partenza, che ἀρχή. Senza desiderare alcuna risposta (che, naturalmente, non potrebbe esservi a parte nel territorio evanescente del sogno). Ma io sono per gli inizi continui. Continuo a detestare i pessimismi, le depressioni più o meno manovrate, le disillusioni, i ritiri.

E, allora, fregandomene bellamente di quello che -eventualmente- pensiate di me, ché sono affari vostri e non mi riguardano nemmen di striscio, vi auguro sempre inizi. Voglio, su questo scoglio, chiedermi e immaginarmi di che cosa siate vivi, e non morti. Voglio divertirmi a fare le ipotesi più strampalate, e ammazzarmici pure dalle risate. Voglio figurarmi la Teodora che sta per farsi carmelitana scalza. Il Menandro che si è dato, sul suo poggiolo, all'apicoltura o alla pastorizia, magari scrivendo carmi pagani come Caeiro. Mezzo nudo, of course, o al massimo avvolto solo da una bandiera del Torino neoretrocesso (ma il Torino è una di quelle squadre che non retrocede mai). La Ludovica innamorata di una cuoca messicana, tra cene luculliane, delicato ma deciso sesso saffico e interessanti disquisizioni sul peperoncino più scovillato del mondo. L'Andronìco a dar da mangiare sasizz' e friarielli a dei simpatici iguana che tiene di nascosto sul lido di Torpappànica. Il Saltimbanco a fare il viaggio di ritorno, giù, fin dove il mare suggerisca il ciclo. La Samuela a manovrare sani bulldozer spianamontagne, tutta sudata, polverosa, finanche un pochino puzzolente. Il Sofronio lacustre a cantare E la vita l'è bèla briaco sì, ma di indefinibile contentezza. Boezio e famija a rimettere finalmente in sesto quel carrarmato trovato sepolto in giardino, ché se ne potrebbe fare decisamente buon uso. E voglio immaginare anche un po' me stesso, la mia carta d'identità con su scritto: "Professione: Paradigma". No, non mi piace la fine, nemmeno un po'. Ho un alfabeto di tutte alfa. Tanto si resta quel che si è; si cambiano le maschere, gli scimmiottamenti di questa o quella cosa o persona, le croste di cui ci si pasce di rivestirsi. Poi, un bel giorno, ognuno ha il suo scoglio di giugno. Ci si mette a sedere e tutto va via; e il ricordo, lui solo, risplende.

Mi ricordo, ad esempio, che il Menandro e sua moglie, su quello scoglio, avevano portato una marea di roba; tra cui una cassa di birra artigianale fatta dalle loro parti. Una birra che, anch'essa, è un ricordo. Alzandomi, oggi, da quello scoglio ci stavo proprio ripensando; e anche di lei mi chiedevo che inizio avesse fatto.

Sono tornato pian piano alla macchina, sotto il sole, deciso a andarmi a bere una bella birra; ché il ricordo ha pure questo, d'instillarti la voglia di qualcosa, una voglia da donna incinta. Tanto più quando il sole picchia e ci hai una sete realissima e beccarona. C'è un bar aperto, appena terminata la salita, sulla Provinciale; si vede che il cielo non manda sempre guarigioni miracolose, stimmate e madonne che lacrimano roba rossa. A volte, ben più opportunamente, manda una pompa di benzina. O un bar dove hanno di sicuro una bella birra diaccia.

Entro e non c'è nessuno. Mi avvicino al frigorifero delle bevande, e lo sguardo mi cade, tra le Wührer, le Dreher, le Pilsner, le Beck, le Heineken e le Cazzinkulen, su un nome mai visto. Domina. Prendo la bottiglia in mano, e scopro che è birra fatta qui, su quest'isola, la prima in assoluto. Vedo parole che mi sono consuete, tipo le coti nere. Fuori di qua, nessuno potrebbe capire cosa siano le "coti", vale a dire delle erte, delle ripide salite in mezzo a una pietraia: si va su pelle 'oti, di dice. La piglio subito, pago il prezzo esorbitante che costa. Me la bevo, torbida, buonissima; me la gusto proprio, io l'ingurgitatore, io la cisterna umana. Sorso dopo sorso, facendo persino decantare la schiuma densa.

E, allora, capisco all'improvviso che inizio abbia fatto quella birra portata due anni fa, e rotti, dal Menandro su quello scoglio. È diventata la birra delle coti nere. Ci dev'essere restata talmente bene, da quelle parti, da metterci su casa. Anche lei, ora, è sola, nel bicchiere di uno solo in un bar, di uno che beve, ridacchia e fa pure il ruttino. Di uno in una vita. La mia.