venerdì 26 giugno 2009

Muri a secco


Il mio bisnonno di parte materna, Menotti Dini, era nato lo stesso giorno in cui era morto Giuseppe Garibaldi: il 2 giugno 1882. Suo padre era esperto nell'arte di fabbricare i muri a secco per le vigne terrazzate dove si faceva il vino aleatico; e quelle vigne vogliono terreno secco come i muri, pietraie, e aria. Le migliori erano sopra il Seccheto, che il nome già dice tutto, sopra Cavoli, sopra Pomonte e Chiessi; e quelle ancora migliori erano le più in alto. Bisognava prendere dei sentieri ripidi spiombati e salire su fino a sei o settecento metri.

I bambini erano pregiati per quel lavoro. Agili, piccoli, con le dita che s'infilavano nei pertugi. Quando aveva cinque anni e mezzo, il mio bisnonno dovette andare a lavorare con suo padre, a fare i muri a secco. Siamo all'Isola d'Elba attorno al 1888, lo stesso anno in cui nacque quella che poi sarebbe diventata sua moglie, la mia bisnonna. Dini Giuseppa. A Marina di Campo si chiamavano quasi tutti Dini. Oppure Danesi, oppure Ditel. Un antico cognome francese che era rimasto chissà come impigliato da quelle parti. Niente scuola per il mio bisnonno. Imparò a leggere e a scrivere nei tre anni passati sotto le armi, a diciott'anni.

Una vita da bambino passata a ammazzarsi dalla fatica, e senza soldi. I soldi li pigliava solo il padre e dovevano bastare per tutta la famiglia. Pochi. Meno che pochi. Nei periodi buoni per fare i muri non esistevano né domeniche né riposo. I periodi buoni erano quelli quando faceva più caldo e non pioveva; doveva piovere dopo, perché i muri a secco sono tenuti insieme dall'incastro perfetto e dalla terra che ci si mette nel mezzo. Quando piove, nella terra crescono le piante che cementano il muro. Ora, credo, nessuno li sa più fare; ma quelli fatti bene durano da secoli.

Partivano all'alba, e non era una sveglia con buone parole e carezze. Giù dal letto; e per farsi forza, la colazione degli uomini. Pane inzuppato nel vino forte. A sei anni. Il mulo carico di pietre e loro a piedi, l'uomo di trent'anni e l'uomo di sei. Chilometri, di cui gli ultimi a salire su per un'erta da fare paura.

Sbagliare un incastro voleva dire buttare via il muro e ricominciare daccapo. Voleva dire la disperazione. Se il bambino sbagliava, la lezione era imparata a calci nel culo e botte selvagge; così non sbagliava più. Se il padre sbagliava, le botte selvagge se le tirava da solo, a se stesso. Prendeva un sasso e se lo batteva in testa, e il bambino guardava.

Arrivavano a diciott'anni e andare a fare il servizio militare, per tutti, era un sollievo. La ferma durava tre anni, ma la fatica e la disciplina del servizio era probabilmente nulla in confronto a quel che avevano dovuto passare fin da bambini. Per questo erano contenti. Andavano a vedere il mondo oltre l'isola. Mangiavano. C'era chi vedeva un pezzo di carne per la prima volta in vita sua. Imparavano a leggere e a scrivere se volevano. C'era, sì, l'inconveniente di dovere andare a morire in guerra, ma al mio bisnonno non toccò per motivi che non so. Toccò poi a uno dei suoi figli, che si chiamava Mamiliano, in un'altra guerra. Mamiliano non sapeva nemmeno come si facevano i muri a secco, e il mio bisnonno non volle poi più vederli. Per tutta la vita fece il pescatore. Non l'ho mai conosciuto; è morto l'anno prima che io nascessi.

Si chiama “memoria d'uomo”. Vuol dire avere sentito raccontare delle storie dalla voce di chi le ha vissute, o comunque le ha a sua volta sentite direttamente. La mia bisnonna, Dini Giuseppa, nata nel 1888 come ho detto, le aveva sentite da suo marito. Suo marito era il bambino che faceva i muri a secco. La raccontava sempre questa cosa dei muri a secco, della sveglia all'alba, della colazione a pane e vino, del mulo e dei calci. Ho fatto in tempo a sentirla, prima che morisse all'improvviso il 4 luglio 1968. Avevo cinque anni. Nessuno mi svegliava per dire d'andare a lavorare. La colazione la facevo con il latte e i biscotti. Qualche ceffone me lo pigliavo se facevo le marachelle, non perché sbagliavo a infilare una pietra in un muro.

Non so se sarò l'ultima parte della memoria d'uomo, per questa storia. Non avendo figli, è probabile. La memoria bisogna dirsela, non scriverla; quello che sto facendo è un artificio che non serve. Sicuramente non sarei stato un buon padre. Non ho grandi istinti paterni. Però una cosa per cui mi dispiace di non avere figli, è di non potergliele passare a voce, queste storie. Ma forse non gliene sarebbe importato nulla.

Ci sono stati bambini che non lo sono mai stati. La povertà li svegliava all'alba, urlava e metteva il vino nella tazza. Ci sono ancora, in mille parti del mondo, e senza nemmeno il vino.