lunedì 1 febbraio 2010

Come dire d'un cielo rosa


Irrompe, a mezz'inverno, la voglia d'uscire senza un motivo. Da solo, sbattendosene del gelo della prima notte di febbraio, in un giorno cominciato grattando ghiaccio e che sta finendo grattando confusioni. Inforcare il berrettone di lana blé, inventarsi una fame che somigli almeno un po' a quella di vivere, maledire il freddo e tutto questo mese idiota e chiudersi la porta alle spalle.

La mèta è quella solita: il trippaio all'angolo con via Livorno. Neanche a farlo apposta, ci sono delle persone a ragionare di uno che è finito in galera. Non mi va di ascoltarle, anche se riesco a cogliere lacerti di discorsi, e di una storia non bella. Come se volessi pigliarmi una pausa dal pensiero della galera, che in questi ultimi tempi mi ha accompagnato. Perché c'è galera come si gira gli occhi. C'è galera come c'è la tirannia della poesia di Gyula Illyés. C'è galera, ormai, nella testa, e una galera che nessuno riesce più nemmeno a esprimere. C'è galera nella rassegnazione e nell'omologazione. Galera nelle sonerie dei telefonini. Galera nei bassi sparati dagli stereo delle macchine, maledette cacofonie stordenti. Galera negli sguardi sempre più vuoti. Galera nel puzzo della fabbrica che sgrassa gli oli usati per la zootecnia. Galera nell'alone di luce giallastra emesso dalla galera vicinissima. E febbraio, mi vien fatto di pensare usando della mia fame da galera, è il suo mese. Mese che ha la febbre nel nome.

Ma sono uscito. A casa mia c'è caldo, ci sono le cose che amo. C'è un frigorifero pieno di dimenticanze e di incognite. Case, oramai, come mondi. Ed è proprio quando più farebbe piacere restarci che bisogna uscire. Andare fuori. Andare a vedere che succede. Il vuoto della periferia come un Maelström. Uccidere la televisione e le rassicuranti finestre illuminate nel cortile. Gettarsi nei parcheggi scuri, e tendere l'orecchio al minimo rumore cercando di cogliere tutto quel che si può. Verrà rielaborato, poi, nella sinfonia dei ricordi che non ti abbandoneranno; impedirà che la vita sia tutta una sequela di giorni qualunque. E tre bicchieri di vinaccio, bevuti uno dietro l'altro, mentre il freddo aumenta.

Smettono di passare le macchine, e cominciano a passare le immagini non appena quel sottile dolore di solitudine frammisto a sciatalgia s'acquieta. Viene a mente un vecchissimo racconto di Paperino, una vignetta con un bambino che gioca felice con un cerchio in un bel giorno di primavera, un passero che cinguetta posato sul palo di un cartello. È la prima cosa, sì, che passa per la mente. Sfumano le voci delle persone che parlano; il ragazzo che prepara i panini s'è messo a sedere, fuma una sigaretta e guarda rapito il televisore portatile che trasmette Il grande Fratello. Non sa, probabilmente, nulla di Orwell. E non sa che, dietro di lui, mentre addenta un panino esageratamente piccante e beve il suo quarto bicchiere di vino, c'è uno che sta compiendo la sua quotidiana, minuscola fuga, provando a rendersi invisibile.

Ché l'invisibilità si acquisisce pensando intensamente di non essere visto da nessuno. Convincendosi che il pensiero, e quello solo, può vincere sulle sozze meccaniche di controllo e non solo volare libero, ma anche volare a distruggere. E allora, per un momento, anche febbraio è sconfitto. Senza neppure chiudere gli occhi, e continuando con dei gesti talmente consueti da partecipare della meraviglia del non essere percepiti, appare un bambino che gioca con un cerchio. Appare un passerotto che cinguetta. Come dire d'un cielo rosa che che sovverte la realtà e rende, seppur vagamente, invincibili.