giovedì 20 gennaio 2011

Bügd Najramdakh Mongol Ard Uls


1. La Mongolia è un enorme paese del quale non si sa, generalmente, quasi niente. Le sue vicende storiche, sociali e politiche non interessano; ha una popolazione estremamente scarsa, scattered, sparsa in un territorio sconfinato. Passano alcune cose, perlopiù lontane nel tempo e avvolte oramai dal mito: Timur Leng, più noto come Tamerlano, e Gengis Khan. I nomadi e i cavalli, e quello che viene impropriamente chiamato il deserto del Gobi; in realtà, gobi è un nome comune che indica una regione con vegetazione desertica e dove le marmotte non possono nutrirsi, ma i cammelli sì. Il Gobi viene indicato come un "deserto freddo", ma nella quindicina di giorni di cui consta l'estate ci fa un caldo terrificante quanto il freddo che ci fa d'inverno; freddo che, nel resto del paese, raggiunge livelli che non è un'iperbole definire allucinanti. Ci sono pochissime città degne di questo nome, e nella capitale vive il 38% della popolazione dell'intero paese. Si chiama Ulaanbaatar, o Ulan Bator, e ha più di un milione di abitanti; è considerata la capitale nazionale con il clima più freddo del mondo. Ha avuto parecchi nomi nella sua storia; si chiama così soltanto dal 1921, quando, con l'aiuto della Russia Sovietica, i mongoli riuscirono a liberarsi da un regime dittatoriale forse unico nella storia. Una tirannide personale dell'avventuriero russo-prussiano Von Ungern Sternberg, che era riuscito a cacciare i cinesi e a stabilire un'autentica proprietà privata di un milione e mezzo di chilometri quadrati, esercitandola con folle, gratuita e metodica crudeltà (tanto da guadagnarsi il soprannome di "Barone Pazzo"). La Mongolia fu il secondo paese comunista della storia, dopo l'Unione Sovietica; si legò talmente a quest'ultima, che la sua complicata lingua, da sempre scritta con un curioso alfabeto verticale derivato da quello tibetano, passò ad essere scritta con quello cirillico; una cosa che, certamente, i santissimi Cirillo e Metodio, greci di Salonicco, non avrebbero neppure lontanamente immaginato. Si trattò quindi di esprimere il concetto di "Repubblica Popolare Socialista di Mongolia" nella lingua nazionale, che fino a quel momento possedeva di tutto per indicare ogni più minuto concetto del buddhismo, ma non una cosa del genere; si ricorse all'espressione che forma il titolo di questo post. Significa, alla lettera, "Paese del Popolo Mongolo per la Felicità di Tutti", o qualcosa del genere.

2. In Mongolia non ci sono mai stato, e non penso che ci metterò mai piede. Queste cose le so dalle introduzioni a due grammatiche mongole, che ho entrambe da più di vent'anni. La seconda è un serissimo corso con esercizi pubblicato nel 1974 nella DDR; nella sua introduzione si racconta come, nel 1921, al momento dell'istituzione del Paese del Popolo Mongolo per la Felicità di Tutti, se un tizio qualsiasi si ammalava poteva contare su 160.000 lama che avrebbero per lui evocato gli spiriti benigni. Quando sui cieli della capitale, che allora si chiamava Urga, comparvero i primi aeroplani sovietici, la popolazione credette che si trattasse della reincarnazione del mitico uccello Garuda (che compare tuttora sulla bandiera della Mongolia). Il primo ospedale fu impiantato da delle infermiere russe, con la relativa scuola; poichè, in russo, "infermiera" si dice sëstra (ovvero "sorella"), gli abitanti della città ne storpiarono il nome in šaštir credendo immediatamente che si trattasse di un monastero femminile dove si studiavano dei nuovi testi sacri, i šaštiryn nomuud (nomuud vuol dire "libri"). La prima grammatica, invece, è pubblicata negli Stati Uniti d'America, a cura della Indiana University di Bloomington, nel 1961. Vi si specifica chiaramente che, pur essendo molti dei testi di lettura intesi ad onore e gloria del Comunismo, questo non presuppone un'adesione ideologica. Le introduzioni alle grammatiche e ai corsi di lingue "strane" sono spesso uno dei mille specchi della Guerra Fredda. È un libro cui sono legato molto, a causa di un particolare episodio della mia vita in cui, costretto ad un'attesa, me lo ero chissà perché portato dietro. Un tempo, forse, lo avrei raccontato; ora sono notevolmente più parco nel mettere in piazza i fatti miei. Ma ogni volta che lo riprendo in mano, per un motivo o per un altro, la mente va ad un certo giorno di circa ventisette anni fa; basta così.

3. Ad un certo punto, anche in Mongolia il Comunismo è caduto. È finito nell'Unione Sovietica, e la Mongolia le è, come sempre, andata dietro. Sono tornati i lama, il sacro uccello Garuda (quello degli aeroplani) è stato non solo rispolverato ma è finito addirittura in effigie sulla nuova bandiera decomunistizzata, sono comparsi i telefonini e le automobili giapponesi e, almeno per un certo periodo, il paese è stato retto da un presidente ultraliberista (ovviamente con passati comunisti di regime) che ha ridotto la capitale a una fogna di gelo e povertà. Fogna in tutti i sensi, perché centinaia di persone (tra le quali moltissimi bambini e adolescenti) si sono ritrovate a vivere, appunto, nelle fogne. Che sono minimamente riscaldate. In gennaio e febbraio, a Ulaanbaatar si può tranquillamente arrivare a quaranta sotto zero. Ulaanbaatar non ha cambiato stavolta nome; significa "eroe rosso" e fu così chiamata in onore del generale Sukhbataar, o Sukhebator, il "Lenin mongolo". La parola baatar, "eroe", nel vecchio alfabeto verticale (pieno di lettere che non si leggevano), si scriveva nella forma antica baγatur; chi conosce il russo o altre lingue slave vi avrà riconosciuto bohater', bohatyr o roba del genere. Una parola al diretto seguito di Tamerlano, insomma. Ultimamente, con sarcasmo, la città letteralmente ammorbata dagli scarichi delle Toyota e delle Ssangyong viene chiamata Utaanbaatar, cioè "eroe dello smog". Ci sono i nuovi ricchi e i nuovi poveri; e i nuovi poveri, come tutti, a un certo punto se ne vanno. Riprendono a fare i nomadi a cavallo coi loro greggi e i bod: un bod è un'unità di misura del bestiame equivalente a un cavallo, uno yak, sette pecore, quattordici capre e mezzo cammello. Oppure se ne vanno altrove, ma senza più nessun Gengis Khan. Naturalmente la Repubblica di Mongolia non è più per la Felicità di Tutti; si chiama, ora, semplicemente Mongol Uls, "paese dei Mongoli". E', ad esempio, la scritta che campeggiava sugli stemmi militari dei 130 soldati che sono stati mandati a esportare la democrazia in Iraq, a suo tempo. Pure i Mongoli. E' stato rispolverato anche l'alfabeto verticale, pur essendo scomodo e farraginoso; fortunatamente, in un paese che in vent'anni aveva debellato l'analfabetismo, tutti si sono accorti che sarebbe stata un'innomimabile idiozia imporlo di nuovo. Il mongolo continua a scriversi in cirillico. Molti penseranno che sia una lingua che ha a che fare col cinese, ma non c'entra assolutamente niente. È piena di declinazioni e il verbo è formato quasi interamente da infiniti e gerundi (o "converbi").

4. Ieri mattina ho letto una notizia. Non le vado a cercare, le notizie; mi ci sono realmente cascati gli occhi sopra. Sopra il titolo c'era la parola "Livorno", e quando vedo qualcosa che viene da Livorno un'occhiata gliela do sempre. Una ragazza di diciotto anni precipitata in mare da un traghetto della Moby Lines, circa 27 miglia al largo di Livorno. Una ragazza di origini mongole. La Mongolia, avevo dimenticato di dirlo prima, è lontanissima da qualsiasi mare; anzi, è in assoluto il paese più lontano dal mare del mondo intero (e questo spiega il suo severissimo clima continentale). Se anche il giornale avesse semplicemente titolato: Ragazza mongola vede il mare, sarebbe stata una notizia degna di nota. Ci si sarebbe potuti immaginarla mentre osservava quella strana distesa liquida, senza fine, ondeggiante, scura nella notte. Non mi piace fare poesia da hard discount, quindi non vado oltre; era in compagnia, dice sempre il giornale, di un altro mongolo e di un cinese. Pare che si sia voluta suicidare: ad un certo punto è stata vista camminare sul bordo della nave, e poi lasciarsi andare di sotto facendo come un cenno di saluto con una mano. Una ragazza mongola nel mare che non esiste, che non è contemplato, che sta a diecimila miglia a sud, a nord, a ovest, a est. Ha salutato e si è gettata nell'inesistenza dell'inesistente. Qualche ora dopo, oltre la mezzanotte, è stata ripescata. Morta al largo di Livorno, nel deserto dell'Oceano. Allora mi sono alzato e sono andato a riprendere la grammatica mongola della Indiana University, che da anni è priva di una pagina bianca di risvolto dove avevo scritto, con una penna rossa, una cosa che ho preferito conservare altrove (in mezzo ad un altro libro, comunque). Diciotto anni e salutare, così, volando accontentandosi di un gabbiano come Garuda e di una notte di gennaio. Lascia che sia fiorito eccetera; poi, tanto, non è fiorito niente. Chissà che ci faceva, sul traghetto partito da Livorno; chissà se il Mediterraneo ha allargato le braccia dicendo: Ma devo proprio?... E chissà che tutto questo non abbia dei significati, perché le storie e le vicende di ognuno di noi vogliono sempre dire qualcosa. Ma non lo sappiamo. Ora è quasi mattina e non mi riesce di prendere sonno, nemmeno a provarci; però vado a letto lo stesso. La grammatica mongola la vado a rimettere a posto dove sta; prima, però, mi sporgerò dalla porta per vedere se da qualche parte nel buio c'è un po' di Felicità per Tutti. Bügd Najramdakh. Mi sa che non la troverò, ma del resto son solo tre minuti per una sigaretta.