mercoledì 27 luglio 2011

I Monsummani


Questa è una cosa che mi è accaduta parecchi anni fa; non la chiamo storia perché una storia non è, non ne ha le caratteristiche. Risale ai primi anni '90, vale a dire a una serie cospicua di quando ancora non...; e, sempre che vi interessi, dovete figurarmi molto diverso da ora, sia che mi conosciate di persona, sia che soltanto mi immaginiate. Ero molto più magro; la barba la portavo a pizzetto e, a volte, persino me la tagliavo del tutto. A causa di una persona che, di lì a poco, mi avrebbe fatto penare non poco, inforcavo un paio di ridicoli occhiali "a televisore", che secondo lei obbedivano ai dettami della moda; in alcune cose la pensavo compagna a ora, in altre no. In questa cosa, come da un po' di tempo a questa parte, non farò nessun nome e cercherò di non far riconoscere nemmeno i luoghi; è un'elementare forma di prudenza che ho imparato (sovente a mie spese) a rispettare. Ma tengo a dire che parlerò di persone le quali, pur essendo lontanissime da me come età, abitudini, pensieri e modi di esprimersi, in quel dato momento si ritrovarono a fare una cosa che ritengo degna e che merita di essere, ancorché vagamente, conosciuta. Del resto, lavoravo per loro. O meglio, collaboravo.

Si trattava di una Confederazione non elvetica, ma di associazioni che operavano nel ramo sociosanitario; con un'espressione che tempo fa mi divertì parecchio, anche perché utilizzata durante un'irresistibile serie di invettive "in campo neutro" (con sceneggiata finale da far sciogliere in applausi il defunto Mario Merola), la si potrebbe tranquillamente definire rigidamente confessionale. Insomma, un'organizzazione cattolica, supercattolica, stracattolica; ma mi dava un po' da mangiare. La mia collaborazione, per la quale ogni mattina dovevo indossare giacca e cravatta, consisteva nel tradurre delle cose da e in alcune lingue straniere; e ora vi dirò esattamente cosa. Prima, però, debbo a tutti un'avvertenza: nel prosieguo di questo post mi vedrete addentrarmi in un territorio davvero inconsueto. Eppure fa parte del mio passato; e, del resto, se fior d'anarchici prendono lo stipendio dallo Stato e addirittura fanno i banchieri importanti, io potrò aver collaborato alcuni anni per i rigidamente confessionali.

Qualche anno prima, una delegazione di questa Confederazione era stata ricevuta in udienza privata dal capo dei capi, vale a dire da Giovanni Paolo II in persona. Costui le aveva affidato, e con lei a tutte le sue singole componenti sparse in Italia, una missione ben precisa: quella di essere testimone della civiltà dell'amore. Così, una volta tornata da queste parti, la Confederazione decise si metter su nientepopodimeno che una rivista mensile, cui venne appunto dato il titolo di Civiltà dell'Amore. A dirigerla fu chiamato un anziano giornalista pubblicista, il cui rapporto con l'allora incipiente mezzo informatico meriterebbe un post a sé. Lui ci aveva la macchina per scrivere e, meglio ancora, la penna stilografica; i' compiùter per la composizione era affidato ad una segretaria che era costantemente disperata. I' direttore, dovendo sí controllare ma non riuscendogli nemmeno pigiare un tasto di quell'artifizio del demonio, quando la segretaria doveva -mettiamo- andare in bagno, ne combinava di tutti colori dell'iride. Una volta, ritenendo che un articolo dovesse essere cancellato, non trovò di meglio che staccare la spina del calcolatore (così lo chiamava, e del resto quello significa computer) dalla presa. Cancellò sí l'articolo, ma anche tutta la rivista già composta e impaginata; le urla della povera segretaria si sentirono, credo, fin da Bologna.

Vi direte: sí, d'accordo, e tu, Venturi, che cosa c'entri? Il mio modo d'entrarci ha però bisogno di un'ulteriore spiegazione, ed il bello di essere un Asocial Network è anche di potersi prendere tutto il tempo che si vuole, e di svolgere compiutamente l'assunto senza che nessuno abbia a metter fretta.

Poco tempo dopo la famosa udienza papale, l'allora presidente di questa Confederazione si era accorto, con notevole entusiasmo, di una cosa. Era un ometto con la faccia appuntita, rigidamente democristiano e sicuramente non antipatico; mi aveva preso abbastanza a benvolere, nonostante un Venturi -sia pure sbarbato e incravattato- non fosse affatto, neppure allora, un tipico personaggio che si vedeva da quelle parti. In breve, si era accorto che organizzazioni che recavano il medesimo nome della sua esistevano in diversi altri paesi del mondo; e poiché la vulgata recitava che la prima organizzazione del genere fosse stata fondata a Firenze nel XIII secolo, si era incuriosito dopo esser venuto a sapere non si sa come che, in Portogallo, già nel XV secolo ne esistevano di analoghe, e che ugualmente si dedicavano all'assistenza de' malati, de' poveri, de' lebbrosi e degli appestati, e delle partorienti. E non solo in Portogallo: anche nella Francia meridionale (si potrebbe dire: in Occitania), e qualcuna in Ispagna. Fu preso come da una febbre: che tali organizzazioni si fossero diffuse da Firenze in mezza Europa in tempi antichi? Il cammino dei pellegrini? Santiago de Compostela e la via Francigena? Insomma, in breve si ebbe una specie di delirio internazionale; ci furono i primi contatti coi portoghesi, i quali risposero meravigliati che ignoravano del tutto l'esistenza di tali organizzazioni anche in Italia, e che, casomai, erano certi che le consorelle italiane derivassero da quelle portoghesi. Scoppiò una specie di amorevole guerra per la ricerca di antichi contatti, di chi per primi li avessero avuti, di documenti negli archivi; e c'era ovviamente bisogno di qualcuno che conoscesse la lingua portoghese. E aveva voluto il destino che io la conoscessi, soprattutto per tramite del pagano anticattolico don Fernando António Nogueira Pessoa.


Avessero saputo delle poesie di Alberto Caeiro, o guardador de rebanhos, forse non mi avrebbero preso a scrivere corrispondenza e a fare telefonate a prelati e funzionari della curia lisboeta; però cosí fu. Ogni tanto me ne toccava anche qualcuna in francese; ma il meglio, e al tempo stesso il peggio, doveva arrivare. Dopo qualche mese, sulla scia dei portoghesi, spuntarono organizzazioni del genere anche più in là; si era nel periodo immediatamente successivo al crollo del muro di Berlino, alla fine dell'Unione Sovietica e all'eliminazione del barbaro comunismo, e tutta l'Europa dell'est era attraversata da impeti ricristianizzatori; e, tàc, ecco saltar fuori decine e decine di Милосердие (qui lo posso scrivere, tanto nessuno lo sa leggere) da Kaliningrad a Vladivostok. Tutte fondate di recente, e tutte dedite a occuparsi dei milioni di disgraziati che si venivano formando in quelle terre. E non solo: anche in quella che ancora era la Cecoslovacchia e nei paesi Baltici. Curiosamente sembravano assenti solo dalla Polonia!

La rivista Civiltà dell'Amore fu quindi dotata, ad un certo punto, di una pagina finale di riassunti degli articoli, in quattro lingue: inglese (perché l'inglese comunque ha da esserci), francese, portoghese e russo. Delle prime tre mi occupavo io; della quarta una traduttrice esterna, visto che il russo non sono mai stato capace di scriverlo decentemente meglio del Babelfish. Però con qualche letterina proveniente dai posti più assurdi dovevo comunque cimentarmi, e si trattava non di rado di lettere che chiedevano aiuto per bambini ammalati. E c'era di mezzo, ovviamente, anche Cernobyl.

Mi avevano sistemato in un ufficio al piano di sopra, ricavato nella vecchia biblioteca; un periodo quasi d'oro, dato che qualsiasi richiesta di acquisto dei dizionari più improbabili mi veniva automaticamente soddisfatta. Aprivo la finestra, e mi ritrovavo davanti...non vi dico cosa, ma uno spettacolo assolutamente stellare, data l'ubicazione della Confederazione; di fronte a me, un modernissimo 386 con installato un Wordstar 2, il non plus ultra dei word processor. E lì mattinate intere a tradurre amori, civiltà, papi, cardinali, cattolicate andanti, portogalli, contatti e quant'altro. Non mi muovevo di lì, ufficialmente non potevo fumare (ma lo facevo lo stesso), non rompevo le scatole a nessuno e nessuno me le ruppe finché non arrivò un altro tizio; ma questa è un'altra storia.


E non era ancora finita. Mentre oramai tutta la Confederazione fremeva per quello che si andava configurando come un Movimento Europeo dell'Amore, ecco la variante impazzita. Cominciano a scrivere anche organizzazioni consimilari dai paesi islamici. Questo nessuno, ma proprio nessuno, se lo aspettava: dal Maghreb fino all'Iraq esistevano cose del genere, e con lo stesso nome espresso in lingua araba. Probabilmente un islamista non se ne sarebbe stupito più di tanto, visto che l'insieme di attività e di comportamenti verso il prossimo espresso con quella parola è uno dei fondamenti di ogni buon musulmano; ma addirittura che esistessero organizzazioni strutturate, ed in modo decisamente simile a quelle europee, fu una specie di bomba.

Poco mancò che qualcuno si presentasse la mattina in caffettano; ettolitri di ecumenismo, di interreligiosità, di ponti culturali, di reciproci interessi, di studi sommari sull'Islam affidati sulla rivista a improbabili esperti, a giornalisti del Resto del Carlino, a missionari d'avanzata età. I portoghesi e i russi quasi se n'ebbero a male; da un momento all'altro, la Confederazione, che sorgeva allora di fronte ad un importantissimo tempio della Cristianità, si ritrovò dentro un full immersion di Islamismo a gogò. Io mi dovetti arrangiare col francese e con l'inglese; telefonate in Marocco, in Egitto, una persino in Sudan; per i riassunti della rivista fu ingaggiato un traduttore in arabo. Un delirio, anche perché il dinamico presidente aveva deciso che a Firenze, entro poco, dovesse svolgersi il Primo Congresso che avrebbe sancito la formazione della Confederazione Internazionale. In quel momento, la signora Oriana Fallaci era ancora una giornalista considerata un faro di progresso e di laicità, mentre il signor Breivik era un ragazzino che andava alle scuole medie, o comunque si chiamino in Norvegia. La Lega Nord diceva di essere anticlericale; saltavano per aria le autostrade e le vie palermitane, c'era una crisi terribile, volavano monetine sulla testa dei politicanti e il qui presente stava imboccando un tunnel.

C'era sí il presidente, che oramai si stava quasi islamizzando e che aveva riempito la biblioteca di Corani e di studi ponderosi che saranno poi finiti chissà dove; c'erano però anche i vicepresidenti, i membri del consiglio e i semplici impiegati che scuotevano la testa. E c'era un po' da capirli: fino a pochi mesi prima si erano dovuti occupare delle organizzazioni di Quarrata, di Collesalvetti, di San Piero a Sieve e al massimo di San Vito Lo Capo o di Lerici; all'improvviso si ritrovavano sbattuti in mezzo a Póvoa de Varzim, Funchal, Kazan', Ustí nad Labem, Irkustk, Aix-en-Provence e Olivença. Non ci capivano più niente. Salivano trafelati berciando: Venturi....c'è un fax da Piripopoff...! Ovviamente i portoghesi avevano portato quelle organizzazioni anche in Brasile, e il Brasile è un po' più grandino del Portogallo; e da Settignano e San Quirico d'Orcia gli era toccato passare a Fortaleza e a Salvador Bahia. Poi ci si misero i Maomettani, e giù passaggi in due minuti dalla festa per l'inaugurazione della nuova ambulanza a Bagni di Lucca alle richieste di conoscenza da parte di un imam di Marrakech o dal consiglio degli anziani di Suleimaniya. Dopo un po' cominciarono a serpeggiare nella Confederazione dei vaghi istinti omicidi nei confronti del presidente, ma tutti espressi con cristiana rassegnazione. Anche perché la cosa cominciava ad essere risaputa sulla stampa persino nazionale.

Uno dei vicepresidenti era un anziano signore dalla voce roca, proveniente da un paese dell'alto Casentino. Sicuramente, per raggiungere quella carica, doveva aver passato una vita a strascinare malati da posti impervi verso ospedali di campagna in via di rapida soppressione; nella sua vita, di mestiere, doveva aver fatto l'artigiano, il trombaio o chissà cosa, e a settant'anni suonati si ritrovava in pochi mesi a dover avere a che fare con il vescovo di Angra do Heroísmo, con l'ex funzionario del PCUS convertito alla carità cristiana, con il nobilastro cattolico tradizionalista di Aubagne (da me conosciuto personalmente) e, dulcis in fundo, con gli ulamâ dell'oasi di Cufra. Un bel giorno mi prese in disparte.

"Venturi" -mi disse, "lei che se ne intende..."
Chissà come mai son sempre passato per uno che se ne intende; poi, in quel periodo, mi divertivo sinceramente un mondo in quel bailamme cristocattoislaminternazionalista, anche se stavo andando diritto verso una mia catastrofe personale.
"...lei che se ne intende, me la dice una cosa...?"
"Prego...se posso..."
"Ma...secondo lei...ma icché vogliano 'sti Monsummani?..."
"Le terme!"


Mi era venuta cosí, all'istante, e subito dopo mi resi conto che avevo di fronte quello che era, a rigore, un mio superiore. Il quale era una persona semplice e di buon cuore, di quelle che mi chiedeva ogni tanto quanti libri avessi letto in vita mia e roba del genere; sicuramente gli avevo mancato, e non poco, di rispetto. Il bello è che annuì, facendo un profondo "aaaah..."; e il diavolo, che covo dentro, mi spinse a continuare.

Gli imbastii una pappardella sulla civiltà dei paesi monsummani (vedendomi intanto Giuseppe Giusti e Ivo Livi che mi redarguivano da uno scaffale) che prevedeva una capillare pulizia personale, una rete di bagni caldi profumati ("si chiamano ammàmme, pensi!"), le fontanelle per le abluzioni, le essenze, i petali di fiori, le donne gnude con le ancelle e dolci ore di ozio; "E questa è una cosa, sa, che i monsummani hanno in comune con gli antichi Romani! Pensi alle terme di Caracalla..."

Dopo le terme di Caracalla, andò via soddisfattissimo. Mi sentivo un verme, ma ridevo come un matto; probabilmente, in quel momento mi stavo guadagnando anche la dannazione di Allah, non contento di quella del Padreterno.

E alla fine ci fu, il famoso Congresso Internazionale. Debbo pensare un attimo anche agli amiconi della celeberrima pagina finta sul Libro dei Ceffi, e fornir loro qualche elemento ulteriore: dire ad esempio che, nel novembre del '92 al Palazzo dei Congressi di Firenze ho fatto da interprete al presidente di una repubblica (quella di Moldavia, per la precisione), e che sono stato intervistato dalla televisione di stato della Repubblica di Armenia. Sembrava quasi una cosa importante; ma è probabile che, in quel frangente, i rappresentanti di quei paesi sarebbero intervenuti anche al convegno dell'Unione Mondiale dei Produttori di Formaggini, o della Confederazione Internazionale dei Tiratori al Piattello. Ad un certo punto intervenne a parlare, arrivato in ritardo perché aveva perso il treno da Bologna, Romano Prodi. Pure lui.


Poco dopo cominciò il buio.
Continuai a lavorare lì perché non avevo altro modo di sbarcare il lunario; ma non mi divertivo più. Accaddero altre cose, ma qui non hanno importanza. Dopo qualche tempo me ne andai; o meglio, mi fecero andare. Non servivo più; la Civiltà dell'Amore si stava pian piano trasformando in civiltà dell'odio, e i Monsummani, caritatevoli o meno che fossero, cominciavano l'invasione. Non ho saputo nemmeno che fine abbiano fatto il presidente che voleva i ponti culturali; la rivista cessò le pubblicazioni dopo nemmeno un anno, e la Confederazione Internazionale si perse nel nulla. A volte mi viene da pensare che, se un qualcuno rifacesse la stessa cosa ora, finirebbe nel mirino della Digos. Ogni tanto mi è capitato di leggere di qualcuna di quelle organizzazioni lusitane nel Viagem a Portugal di José Saramago; quello scrittore ateo che visitava le chiese e parlava coi curati, e che poi, dopo morto, è stato oggetto di un articolo a dir poco lurido da parte dell'Ottenebratore Romano. Si è tutto dissolto, ma a volte ci ripenso. E quando ci ripenso, prima o poi mi vien da scrivere. Prima o poi.

Credo di avere, almeno in parte, assistito a un sogno provieniente da una mentalità e da una fede che non mi appartengono, e che non desidero mi appartengano. Dialoghi, ponti, culture, amori, missioni, carità e via discorrendo; e mi ricordo anche quel presidente, che forse sarà morto e sepolto, che a volte mi diceva: "Certo che si sta diventando uno schifo...uno schifo di razzisti...." Ho assistito al suo sogno e ho fatto le traduzioni; e gli pago volentieri un tributo di rispetto. Credo che bisogni saperlo pagare specialmente a chi è più differente da noi, quando cerca di stringere dei legami e non di scavare fossati. Se è ancora vivo, viva sereno; se è morto, riposi in pace. Come avete visto, non era una storia; e forse nemmeno una cosa. E uno di questi giorni andrò a fare un giro a Monsummano, dove abitano i Monsummani e dove sicuramente la popolazione insorgerebbe se qualcuno proponesse di costruire una moschea.