giovedì 11 ottobre 2012

Resurrezione (5-6)


5.

Dopo aver cerimoniosamente salutato la pesciaiola col suo fare che venticinqu'anni di morte avevano reso ancora più démodé, Piero Ciampi s'incamminò per il brevissimo tratto di strada che lo separava dal quarantuno di Via Garibaldi. Era un vecchio palazzo popolare, forse degli ultimi anni dell'ottocento, scampato a due guerre e, soprattutto, agli scempi edilizi della ricostruzione; un pesante e scalcinato portone vetrato in metallo grigioscrostato, e una campanelliera elettrica coi cognomi scritti alla bell'e meglio, un po' a penna e un po' con il Dymo. Accanto a Rossi c'era effettivamente un bottone senza alcun nome; Piero Ciampi lo premette con due brevi tocchi, e dopo due secondi gli fu aperto senza che nessuno parlasse al citofono (che, del resto, con tutta probabilità non funzionava da qualche decennio). 

Una rampa di scale ripidissima e buia portava al pianerottolo del primo piano, con una finestra su una piccola corte interna da dove s'intravedevano il disordine e la sporcizia più totali: vasi di piante rinsecchite ammassati l'uno sull'altro; oggetti di ogni tipo, tra i quali un discreto numero di vecchie bambole gnude; pezzi di plastica, reticelle da capelli, pannoloni sporchi di merda, e, cosa che attrasse per un brevissimo secondo l'occhio di Piero Ciampi, un filo telefonico che proveniva da un'altra finestra, e che s'inerpicava per quel biribissaio fino a sparire in una porta a vetri. "Tanto ci so' abituato", pensò Piero, appena in tempo per vedersi aprire la porta da una donna sui trent'anni e passa, altissima e decisamente robusta, e per sentir provenire dall'altra porta sul pianerottolo un grido lancinante, da vecchia strega, che s'interruppe abruttamente per lasciar posto ad una cantilena in uno strano dialetto che sembrava quello del noce di Benevento. 


"Lei dev'essere il signore che mi ha mandato la Marisa...piacere di conoscerla, Maria Fortunata Emiliani." 
"Piacere mio, Piero Litaliano", disse lui porgendole la mano, e con l'orecchio sempre teso ad ascoltare la bizzarra cantilena della dirimpettaia. 
"Non si preoccupi...è una vecchia di più di novant'anni che ci sta e non ci sta con il capo...però non farebbe male a una mosca", fece la donna stendendo a Piero Ciampi un largo e bel sorriso che riusciva almeno in parte a compensare il suo aspetto da petroliera verniciata di fresco. "Si accomodi, signor Litaliano, le faccio vedere la sua stanza... però poi non ho molto tempo, sa, io mi occupo di marketing per Teledue, e devo uscire...e quindi se si potesse regolare l'anticipo..." 
"Ma certo, signora, facciamo in cinque minuti", disse Piero ascoltando sempre la voce dall'altra porta, che era passata a ripetere ossessivamente la frase "I sicilian' so' tutt' delinguent', i sicilian' so' tutt' delinguent', i sicilian' so' tutt' delinguent'...."
  
La porta si spalancò all'improvviso, e ne fece capolino una vecchia decrepita che pareva davvero esser sortita dalla più antica iconografia delle streghe, un'immagine dallo Hexenbuch del Von Lanthen. 
"Lei è sicilian', eh...?" 
"No...no signora", fece Piero con un sorriso quanto più possibile ciampiano, "non sono siciliano. Sono di Parigi e ho conosciuto Céline." 
"Ah, mi parev' sicilian', eh...d' Parigg'...e bbrav'...." E richiuse la porta, sbattendola talmente da far tremare tutto il piano. 

La signora Maria Fortunata Emiliani stava piantata sulla porta senza dire niente. Piero Ciampi fu fatto entrare direttamente in una vasta e scarna sala, senz'alcun corridoio, dove stavano sistemati un paio di vecchi mobili e due brandine; alle pareti, un poster con dieci cuccioli di rottweiler dentro al bagagliaio di una vecchia Mercedes arancione, e una veduta di Via Garibaldi risalente forse ai primi anni del '900. 
"Non si preoccupi se c'è un po' di disordine...sa, io non sto molto tempo in casa, e sono spesso via dal mio fidanzato a Velletri", fece la signora sempre con un gran sorriso stampato in faccia. 
"Stia tranquilla, signora...non me ne importa nulla dell'ordine, basta averci un posto per stare per qualche tempo." 
"D'accordo, signor Litaliano, le faccio vedere la stanza, allora." 

S'incamminarono per un corridoio sempre buio, che portava alla cucina; oltre una porta a vetri, la casa s'illuminava all'improvviso per la luce proveniente da un'altra corte interna, molto più grande, che dava sul retro dei palazzi circostanti. Piero Ciampi, al primo passo in quella stanza, rivide Livorno. Rivide uno squarcio di cielo azzurrissimo, rivide i panni sbattuti dal vento, risentì le voci berciare dalle case, il rumore dei piatti, le televisioni a tutto volume. La stanza era semivuota. Anche lì due vecchi armadi dozzinali, un tavolo bianco, e una strana serie di scaffalature sempre bianche, che andavano tutte giro giro su tre pareti. Solo la metà di quella a destra della porta era occupata da alcuni libri. 

"Ecco, signor Litaliano, questa è la stanza. Ci può mettere quello che vuole...la mia vicina m'ha detto che lei fa il musicista..." 
"Sì, ma sono tornato da....dall'estero, e non ho ancora niente con me. Magari ci metterò qualcosa quando l'avrò. Mi va benissimo così..." 
"Naturalmente il letto lo prendo dalla sala...le va bene un lettino solo, o vuole che unisca i due per fare un matrimoniale?" 
"No, me ne basta e avanza uno...e 'unn'ho nessuna voglia di risposàmmi." 
"Ecco, bravo, ha davvero ragione...sa, anch'io sono stata sposata, anzi, questa che le do era la stanza, anzi lo studio, di quello....scusi la parola, di quello stronzo del mio ex marito, speriamo che gli sia venuta la diarrea cronica ovunque si trovi...ma forse la mia vicina le ha accennato qualcosa."
"Qualcosa." 
"Beh, lasciamo stare, ormai è cosa vecchia, e tanto quello lì non combinerà mai nulla nella vita a parte scrivere cretinate su internet...le piace la stanza?" 
"Mi va bene." 
Nel frattempo, cioè nei due attimi di pausa prima che la signora Emiliani ricominciasse a parlare, Piero s'era domandato che cosa fossero il màrchetin, Teledue e, soprattutto, l'internet dove l'ex marito stronzo scriveva le sue cretinate. 


"D'accordo....senta, io devo davvero uscire, non è che...?" 
"Certo, signora, ma quanto mi chiede al mese?" 
"Centocinquanta euro, tanto la dò per arrotondare qualcosa..." 
"Le va bene se le lascio cinquanta li....euro di caparra?" 
"Non è che potrebbe fare almeno settanta? Sa, in fondo non la conosco..." 
"Vanno bene settanta, signora." E tirò fuori dal portafoglio due di quegli strani biglietti colorati, uno da cinquanta e l'altro da venti. La signora li prese con un gesto rapidissimo, un gesto che fece subitamente pensare a Piero Ciampi che il màrchetin e Teledue non le facessero guadagnare un grand'istipendio. 
"Va bene....allora io vado. Guardi, qui accanto c'è il bagno con la doccia, ma stia attento perché a volte s'intasano sia quella che il water...cerchi di buttare poca carta nello scarico, soprattutto...e se vuole farsi qualcosa da mangiare la cucina è lì, ma io sono a dieta e c'è poco in frigo." 
"Non stia a preoccuparsi, per mangiare me la cavo fuori." 
"Va bene...ecco, prenda, questa è la copia delle chiavi e stia attento anche a chiudere bene perché ci sono i ladri. Ci sono due serrature, quando esce chiuda anche la cassaforte." 
"Chiuderò tutto. Qui nel palazzo, do noia se suono la chitarra?" 
"Di giorno no. Di sera, guardi un po' lei, magari non oltre le undici e mezzo..." 
"D'accordo. Non oltre le undici e mezzo." 
"Arrivederci, signor Litaliano." 
"Arrivederci a lei, signora Emiliani." 
 
Rimasto solo in casa, Piero Ciampi si sedette sul pavimento, nella stanza che era diventata sua, e si mise a pensare. "Stamani sono risorto. Ora sono qui in questa stanza. Ieri a quest'ora ero ancora morto. Ora sono vivo." Non riusciva a pensare ad altro. Per quanto si sforzasse. Si alzò, e aprì la finestra. Ne entrò una folata di vento, di puzzo di fritto, di umido, di vita d'ogni giorno. E Piero Ciampi riuscì all'improvviso a pensare un'altra cosa. "No. Non voglio morire mai più. Piuttosto di rimorire, mi ammazzo." La fame e la sete avevano però sovvertito ogni ordine, sotto e sopra, e ora si spintonavano, s'accapigliavano, si davano der budiùlo l'una all'àrtra, si 'azzottavano come D'Agata e Atzori, se non addirittura come Benvenuti e Monzón; e visto che la fame stava per far la fine di Benvenuti, e che era comunque sempre meglio bere dopo aver messo qualcosa nello stomaco vuoto, Piero Ciampi andò in bagno, si dette una sciacquata al viso e fece una pisciata già vinosa; poi prese le chiavi dategli dalla signora Maria Fortunata Emiliani, marchettingara ("Ma sarà mica...?", pensò ridacchiando) di Tele Due ("Sarà qualche televisione libera"....), e uscì. Le scale, viste dall'alto, sembravano ancora più ripide. Un minuto dopo era di nuovo sul marciapiede di via Garibaldi. Era quasi il tocco. 

6. 

 
"Dé, penzavo di dovenni dà' cento euri, e invece unn'ha voluti 'e settanta...trenta di più, chissà quante lire fanno...e ora vo a mangià." C'era una specie di voce, dentro Piero Ciampi, che gli diceva, mentre camminava verso la piazza del Voltone, che uno appena risorto dal regno dell'Ade avrebbe fatto forse meglio a cogitare qualcosa di più profondo, o di elevato; per esempio, a chi o a che cosa avesse fatto sì che si ridestasse dal cosiddetto sonno eterno per approdare a Livorno in una qualsiasi mattinata di novembre. Ma se vita doveva esser di nuovo, la vita è questa: mangiare, bere, dormire, magari anche fare all'amore, e le cose in sovrappiù non verrebbero mai senza sfamarsi, senza dissetarsi e senza riposare. "Dé, figuriamoci poi se la vita continuerebbe senza fà' all'amore...", si disse, e rivide sua figlia Mira, e rivide due donne alte, bionde e snelle, e rivide il fosso grande attorno alla Fortezza, quello in cui era cascato chissà quante volte dentro. 


Ancorate alle bordate de' fossi c'erano le solite decine di barche; qualcuna, persino, la riconosceva. Si ricordava dei nomi: il "Grinta", il "Santa Giulia", lo "Scubidù"...e c'erano ancora i gatti, di tutte le taglie, di tutti i colori, che se ne stavano spanciati sugli scali delle Cantine a riscaldarsi al sole e al loro effabile, ineffabile, effanineffabile nome... ...e arrivato in piazza Garibaldi, proprio mentre le bancarelle del mercatino stavano sbaraccando, rivide dopo venticinqu'anni la statua nella piazza. Si fermò. Poi traversò la strada con passo incerto, mentre la fame opponeva un'ultima eroica e disperata resistenza prima di soccombere definitivamente alla voglia di scolarsi un bel litro di vino rosso, dolce o amaro che fosse. La statua nella piazza. Si mise a guardarla. "Dé...me la riordo 'vella sera...e non ero nemmeno briaco, ero solo disperato. Solo disperato. Solo disperato." E nel ripensare a quanto fosse stato disperato quella sera, per una non chiara alchimia sorrideva largamente, trasmettendo l'ondata del sorriso anche a un ciuffo di capelli che si mise a ondeggiargli sulla fronte. E gli si mise a canterellare dentro: 

Un pianto che si scioglie, 
la statua nella piazza 
la vita che si sceglie 
è il sogno d'una pazza. 
La sera è già calata, 
comincio a camminare 
sperando d'incontrare qualcuna come te... 

E si disse, ancora, che quella canzone l'aveva chiamata "Livorno" perché, quella triste triste sera, lui stava vagando per il centro di Roma alla ricerca di qualcuna come lei, come si fa sempre quando s'è perduto qualcuno di amato, e si cammina, e si cammina, e si cammina senza una mèta nella speranza che il destino consegni una copia in carta carbone. Riconsegni quegli sguardi, quelle parole, quelle braccia, quelle labbra. Forse, ci si dice, è lì, dietro l'angolo ad aspettare; o forse è in un altro continente, o su un altro pianeta dove qualche nave porterà di sicuro... 

Ho incontrato una nave che salpava 
ed ho chiesto dove andava... 
"Nel porto delle illusioni", 
mi disse quel capitano, 
Terra, terra, forse cerco una chimera, 
questa sera, eterna sera. 
 

"Guarda, è morto anche Marchetti." Erano la fame e la sete che gli parlavano in coro, oramai unite dopo che l'arbitro aveva rinunciato a dirigere quel match, e che avevano deciso di riscuoterlo in un modo un po' sgarbato. Ma Piero Ciampi, da gran signore qual era, fece un inchino. Un paio di passanti lo guardavano scuotendo il capo. L'insegna d'un bar qualunque, all'angolo della piazza. Panini in mostra nelle bacheche. Gente ai tavolini che mangiava e beveva, il televisore acceso. I panini erano imbottiti d'ogni sorta d'untume, gravidi di maionesi giallastre, di würstel tagliati a metà, di pomodori, di fette di mortadella e prosciutto, di milanesi plastificate, di sottoli che sembravano usciti da un terremoto del sesto grado della scala Richter, di melanzane arrabbiate, di pasta d'acciughe che in Gorgona, al massimo, ci dovevano essere state messe all'ergastolo.

"Desidera, signore...?"
"Mi dia...due panini."
"Come li vuole?"
"Faccia lei. A caso."
"Tanto, dé, dèvano fà' tutti schifo...", pensò Piero Ciampi nel più rigoroso silenzio, mentre passava la sigla del telegiornale del tocco e mezzo. Gli fu messo in mano un piattino con due panini, uno con il prosciutto crudo e le melanzane, e l'altro con i gamberetti e una salsa dal colore e dalla consistenza della tempera Giotto rosa.

"Vuole qualcosa da bere...?"
"Sì...mi dia un litro di vino rosso, pe' piacere."
"Un litro?"
"Sì, un litro...'un si pole?"
"Le posso dare una bottiglia, caraffe non se ne servono".
"Mi dia una bottiglia, allora. Una da non tanto."
"Ci s'ha ir vino di Monteàrlo a tre euri."
"Va bene ir vino di Monteàrlo, chissà che 'un vinca pure ar casinò."

Il barista si mise a ridere, pensando che quello strano ed allampanato tipo ci aveva di certo voglia di ruzzare, prese la bottiglia e la stappò porgendo a Piero Ciampi anche un bicchiere. Piero si mise a mangiare in piedi, con la bottiglia e il bicchiere appoggiati sul frigorifero dei gelati Sanson. La televisione gracchiava sempre; c'era un servizio in corso su una guerra, si vedevano carri armati che passavano, autoblindo saltate per l'aria, case bombardate, sangue, persone fatte a brandelli, bambini con ustioni orribili, e soldati, e armi...il giornalista parlava di Bagdad e di altre città dai nomi sconosciuti, qualcosa come Bassòra, Fallùia, Mossùl, e di americani, e d'inglesi...


"Dé, boia, 've' popò di merdosi dèvano èsse' riandati a rifà la guerra da quarche parte...Bagdad...aspetta, in Irak, sì....in Irak...o cosa ci so' andati a fà...", pensava Piero Ciampi addentando i due panini e versandosi il terzo bicchiere di vino. Si sentiva meglio; la gente ai tavoli, però, non sembrava essere molto interessata al servizio sulla guerra, e continuava a parlare di Lucarelli e della paratona di Amelia che aveva salvato il risultato a San Siro, al novantaduesimo. Finito il servizio sulla guerra, con l'annuncio che la democrazia stava facendo passi avanti, l'annunciatrice, una specie di cariatide imbellettata da qualche truccatore in vena di fare il buontempone, passò alla notizia successiva: "E ora la politica interna. Non si placano le polemiche suscitate dall'attacco di Ignazio La Russa al presidente della repubblica Ciampi..."

Per poco, a Piero non andò un boccone di panino di traverso. Un pezzo di würstel subì una frenata brusca, prima di andare a fare il bagno nel vino precipitandogli giù a rotta di collo per l'esofago appena risorto. Il presidente della repubblica Ciampi? Passarono le immagini di un tizio dall'aria vagamente e stupidamente luciferina, con un pizzetto da eia eia alalà ("budello...'vello dev'èsse' fascista di siùro..."), seguito da un altro tizio più anziano, vestito da presidente o forse vestito da repubblica, che parlava davanti a dei parrucconi in toga da giudice con un accento vagamente livornese.


Piero Ciampi s'azzardò a rivolgere la parola a un tizio che sembrava seguire il telegiornale, sorseggiando un caffè che oramai doveva avere una temperatura antartica:
"Mi scusi..."
"Prego?"
"Ma...quello lì....?", fece Piero Ciampi indicando il televisore.
"Quello lì Ciampi?"
"Sì, quello..."
"E' ir presidente della repùbbria, 'un lo rionosce...?"
"Ma certo...ma volevo dì...'un mi riordo...ancora quanto ci deve stà'?"
"Boh...fino ar dumilasei, l'anno prossimo....ma come mai lo vole sapé?"
"Così...pe' curiosità."
Il tizio tornò a bersi il suo caffè diaccio, mentre il presidente della repubblica Ciampi ammoniva i giudici a non farsi mai strumento di istanze politiche e a mantenere la loro indipendenza. Il cantautore, musicista e poeta anarchico e comunista Piero Ciampi, alias Piero Litaliano, invece, pensò di nuovo fra sé e sé che tutti quei pezzi di merda esistevano ancora, che nessuno li aveva mai smossi, e anche se avevano facce mai viste o delle quali s'era dimenticato, che potevano tranquillamente andà a fàsselo troncà' ner culo con tutti i loro discorsi der cazzo. E, per sottolineare il concetto, buttò giù d'un fiato il quinto e ultimo bicchiere di rosso, visto che la bottiglia ci aveva evidentemente un buco sul fondo. "Ir presidente Ciampi...ecco perché m'avevan detto dell'omonimo, mònimo, omomonònimo...", si disse Piero avviandosi al bancone per pagare; e gli prese un ridere,
ma un ridere,
ma un ridere,
ma un ridere,
ma un ridere che gli tornò sete.

"Undici euro e settanta", gli fece il barista chiedendosi dove diavolo avesse già visto quello strano tipo  "Dé...quasi quasi mi fo passà' per 'ir su 'ugino...so' a posto!" E gli riprese, uscendo da quel bar, un ridere da fargli venir la voglia d'andare in Via Grande, perché in via Grande ci passano le bimbe belle. E, poi, in fondo a via Grande comincia ir porto. S'accese una sigaretta, appena fuori. S'era persino ricordato del divieto del ministro Nerchia.

(5/6 - continua)