giovedì 30 maggio 2013
Una tranquilla cittadina
La foto mostra uno shtetl dell'Europa orientale colto in una bella giornata qualsiasi, a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
Nell'Europa orientale (Ucraina, Polonia, Romania, impero Russo...) lo shtetl era il cuore della vita ebraica; il nome, propriamente, è il diminutivo dello yiddish shtot (città), ma uno shtetl era qualcosa di diverso sia da una città o cittadina, sia da un paese o villaggio. Spesso e volentieri, gli shtetlekh (forma plurale) erano vere e proprie "nazioni separate" all'interno di una città o di un paese; gli ebrei vi conducevano una vita del tutto diversa da quella dei non ebrei che vivevano nello stesso luogo; in pratica, ebrei e gentili potevano avere a che fare gli uni con gli altri solo per qualche incombenza quotidiana.
Frequente era il caso di città o cittadine divise precisamente a metà. La cittadina raffigurata nella foto aveva, ad esempio, all'epoca circa 16.000 abitanti, di cui 8000 ebrei e 8000 non ebrei. Non bisogna peraltro credere che gli ebrei fossero una "massa granitica": circa cinquecento di essi, ad esempio, ostentavano dichiarata indifferenza verso la religione, anche se alcuni di essi andavano in sinagoga per le feste comandate. In generale, comunque, si può dire che l'indifferenza religiosa non si manifestava con atti eclatanti di ribellione.
Gli ebrei della cittadina erano in gran parte commercianti (sarti, fabbri, fornai, macellai, carradori, negozianti al dettaglio). I mercati erano fiorenti e frequentati volentieri anche dai non ebrei, perché al marktog (il "giorno di mercato", che si teneva due volte alla settimana) si comprava bene. Il baratto al marktog era all'ordine del giorno: ebrei e gentili si scambiavano, generalmente, manufatti con prodotti della terra. Era rarissimo che vi fosse un contadino ebreo, quindi pollame, uova, verdure ecc. erano generi d'acquisto e di baratto.
La logica delle cose voleva che né gli ebrei, né i gentili potessero vivere gli uni senza gli altri; solo che si ignoravano, a parte qualche eccezione. Non si parlavano neanche tra loro, e non perché la lingua d'uso della popolazione ebraica, lo yiddish (ma così lo chiamavano i gentili, cioè "giudeo"; gli ebrei stessi, invece, lo chiamavano mameloshn, cioè "lingua materna"), fosse diversa da quella della popolazione non ebraica; i non ebrei intendevano alla meglio lo yiddish anche se non lo parlavano speditamente, mentre tutti gli ebrei conoscevano alla perfezione la lingua del posto.
Con tutto ciò, all'interno di una città o di un paese le relazioni tra ebrei e non ebrei erano tranquille, tranne qualche episodio di intolleranza dovuto perlopiù a colossali sbornie, o a apprezzamenti più o meno spinti su qualche ragazza. Neppure i soldati rappresentavano un problema; ogni tanto colonne militari passavano per la cittadina, la attraversavano e se ne andavano. Nelle vicinanze non c'erano comunque grosse caserme o guarnigioni.
Ciò che dava veramente l'idea dello shtetl, era che, in generale, corrispondeva col centro della città. I centri storici erano quasi interamente ebraici, e quindi gli ebrei erano, in senso proprio, i "cittadini". La popolazione non ebraica, invece, viveva nei sobborghi e, soprattutto, nelle campagne attorno alla città; si trattava quindi dei "campagnoli" che rifornivano i cittadini ebrei dei generi di prima necessità. Questo portò ben presto all'identificazione degli ebrei coi "ricchi"; nel centro, gli ebrei vivevano in case a più piani, avevano a disposizione servizi e negozi, e agli occhi della popolazione rurale "vestivano bene". Naturalmente esistevano anche molti ebrei poverissimi che non riuscivano letteralmente a mettere insieme il pranzo con la cena.
La cittadina raffigurata nella foto non era ricca. Esistevano comunque alcuni ebrei molto facoltosi, che si compiacevano di "opere di carità" ed erano comunque ben visti perché, in occasione delle festività, fornivano tutto il necessario per le celebrazioni e per i pranzi collettivi.
Il tempo atmosferico, nella località raffigurata nella foto, era generalmente abbastanza buono; non faceva mai certamente troppo caldo in estate, mentre in inverno le temperature non erano rigidissime. Nevicava molto, questo sì; la cittadina era attraversata da un fiume, la Sola, che non di rado gelava permettendo di attraversarlo a piedi. I contadini non ebrei, peraltro, sfruttavano la cosa: ritagliavano dal fiume ghiacciato dei grossi blocchi che vendevano ai cittadini ebrei che non potevano permettersi una ghiacciaia per conservare gli alimenti. A loro volta, gli ebrei si servivano sovente del ghiaccio per preparare e vendere gelati e gazzose, una loro specialità. Il gelato era comunque parecchio caro, anche se era considerato eccellente. Generalmente, i gelatai sostavano di fronte alla Beis Midrash, la scuola superiore ebraica (di orientamento religioso). Curiosamente, il ghiaccio con cui si preparavano i gelati proveniva da in fiume il cui nome, in ultima analisi, significa "salato".
Dimenticavo solo di dire il nome dello shtetl di cui ho parlato qui, e che è raffigurato nella foto. Si trova nella Polonia meridionale. In lingua yiddish il suo nome era Ohsvientsim, che riproduce esattamente il polacco Oświęcim. Storicamente, vi vivevano anche molti tedeschi che, a loro volta, lo chiamavano Auschwitz. Viene menzionato per la prima volta in un documento del 1117; nel 1270 lo ritroviamo organizzato sotto il diritto tedesco. Divenne polacco solo nel 1457, quando i sovrani invitarono appositamente gli ebrei a stabilirvisi; già nel XVI secolo erano la maggioranza della popolazione. Nel 1655 la città venne distrutta dalle truppe svedesi; cadde in seguito sotto il dominio prussiano, tornando alla Polonia soltanto dopo la I guerra mondiale. Un personaggio famoso è il poeta polacco Łukasz Górnicki, che vi nacque nel 1527. E' autore anche di ponderose Discussioni polonico-italiane.
lunedì 27 maggio 2013
2372 + 698 = 3070.
A leggere i risultati del primo turno delle elezioni comunali romane, viene veramente da rotolarsi in terra dal ridere. Prima di tutto per le "elezioni" in sé, es geht an sich; e qui corre l'obbligo, una volta fatto salvo tutto l'anarchismo possibile e immaginabile, di porgere complimenti, pugni chiusi, ricchi premi & côtillons alla Militant e alla campagna "Nessuno Sindaco" (o "Voto Nessuno") che ha sostenuto. Infatti non solo a Roma, ma anche nel resto dell'Italia interessata da questa "tornata elettorale amministrativa", praticamente nessuno è andato a votare. Altro che "beppegrillo" (che, fra l'altro, ha rimediato comunque una ciaffata degna del povero cialtrone che è); qui, finalmente, ci si sta seriamente avvicinando al redde rationem.
All'interno dei risultati romani, vale a dire dei numeri prodotti dai cittadini della capitale che si sono sobbarcati lo srotolamento e il successivo riarrotolamento di una scheda lunga un metro e venti, spicca però il possente esito riportato dai famosi fascisti del terzo millennio (avanti o dopo Cristo?); insomma, quelli che un tempo furono addirittura pompati dal blogger "progressista", Metilparaculo o come cazzo si chiama. La nera ondata oceanica che ha travolto la capitale è espressa nel titolo di questo post: alle ore 21, duemilatrecentosettantadue voti per il candidato di Casapound Italia, Simone Di Stefano (ve lo ricordate, quello del "siparietto" con il beppestrillo...) e ben seicentonovantotto voti per il candidato di Forza Nuova, Gianguido Saletnich. Alle ore 21, dunque, a Roma si contano ben tremilasettanta fascisti del III millennio; di che riempire agevolmente il campo sportivo del Tor Pignattara durante il sentito derby col Capracotta Futbol Creb. Vogliamo aggiungerci anche i settecentosettantasette che hanno affrontato i rotoli del Mar Morto per votare la Fiamma Tricolore? Non lo so; notoriamente quelli, come fascisti, so' rimasti ar secondo millennio.
Il problema è che, come è noto, specialmente Casaclown ha ricevuto da Alemanno una fraccata di milioni di euri; il problema è che questi poveri buffoni sono lasciati liberi di scorrazzare, anche in piazza Dalmazia, mentre si continuano a sgomberare centri sociali e a arrestare, pestare e reprimere compagni dappertutto. E questi qua che fanno? Praticamente non riescono nemmeno a uguagliare, come voti, i parenti e gli amichetti che er Sindaco ha sistemato in Comune in tutti questi anni. E si capisce meglio come mai, a Roma come altrove, gli srotolatori di schede siano in caduta libera. Da qualsiasi parte. Progressaioli, berluscoidi, beppegrìllidi "protestatari", il cattolicume oramai sbandato; a Roma c'era persino l'imprenditore mascellone co' a' listacìvica.
Pochi giorni dopo le "elezioni universitarie" in questa città di Firenze, nelle quali gli imbrattamuri "picconatori" di Casaggì hanno ottenuto la bellezza di zero rappresentanti, numero del resto perfettamente rispondente alla loro più intima essenza, suggerirei a tutti coloro che se ne occupano (per dileggiarli crudelmente & spietatamente, ça va de soi), prima di tutto, di mutare espressione e di lasciar perdere la "galassia" per ricorrere a un ben più opportuno asteroide "Giangualtiero" che orbita sperduto dalle parti di Betelgeuse; indi di poi, di ricorrere al personaggio, mutuato dalla "Settimana Enigmistica", che più li rappresenta: Agente Zero, risultati Zero.
Nella foto: Militanti di Casapound Italia durante l'italica e poderosa spedizione in India, da essi paventata alcun tempo fa per riportare a casa gli eroici Marò. Una vera e propria dichiarazione di guerra all'India che i nostri fulgidi fascisti terzomillenari affronteranno con tremilasettanta effettivi, lanciandosi direttamente alla conquista di un cesso pubblico di Nuova Delhi.
domenica 26 maggio 2013
Avere o essere
C'era una volta il
femminicidio.
La
sua parabola è durata poco; giusto il tempo di diventare di moda,
suscitare “indignazione”, produrre qualcuna delle solite
stronzate di “Repubblica”, un goccio di SNOQ, una puntina di
Boldrini, e qualcos'altro. C'era un sito, Bollettino di guerra,
che teneva la conta annuale; ora si è trasformato, con una scelta
che non ho ovviamente nessun diritto né dovere di sindacare, in un
resoconto degli omicidi di genere. Ignoro se, prima o poi, il
vecchio femminicidio sarà stabilmente sostituito dal genericidio;
il fatto è che, in tutto questo rigirarsi di parole nuove che
diventano vecchie in un'amen, restano i fatti di ogni giorno. Davanti
ai quali, oramai, si allargano le braccia dopo una dose più o meno
cospicua di terrificante e desolato stupore. In quell'allargare le
braccia, si riconosce non soltanto la propria impotenza; si riconosce
una sconfitta. In tutto ciò, oltre a tutto, si corre il rischio di
non riconoscere più la cosa principale: la morte violenta.
L'interruzione. Il possesso che uccide, perché almeno spero che a
qualcuno in più sia chiaro che non deve entrarci il cosiddetto
amore. Non è l'amore che uccide, è il suo surrogato così
com'è passato attraverso le leggi, le strutture e le imposizioni
sociali e psicologiche della merce. Si butta via una persona,
semplicemente, così come si butta via un oggetto usato; oppure la si
distrugge quando non la si può avere. Tutto, desolatamente, qui.
Sono
abituato a ragione sopra me stesso. Ad esempio, mi accorgo che a
lungo, qua dentro o altrove, non ho più parlato di queste cose.
Nonostante i due o tre femminicidi quotidiani che accadono in questo
paese; e quand'è che scatta il meccanismo di riparlarne? Quando
viene ammazzata, in modo atroce, una ragazzina di nemmeno sedici
anni. Non quando viene ammazzata la quarantasettenne quotidiana per
la quale non si vanno a cercare le foto su Facebook. Non quando viene
ammazzata la vicina di casa mezza invalida. Non quando il
carabiniere, il poliziotto o qualche altro maschio armato (sovente
dallo Stato) sterminano mogli, figli e magari anche Dudù il
cockerino tanto che c'è. No. Colpisce che una ragazzina, peraltro
molto carina, sia stata ammazzata dal “fidanzatino”. Anche il
Venturi, l' “Asociale” che tiene il blog, naturalmente è come
tutti gli altri: clicca sul link di “Repubblica” e va a vedere
sul link. Nome, cognome e fotografie; in barba ai “minori”, in
barba alla “privacy”, tutto viene sbattuto davanti agli occhi
perché il cocktail di morte violenta, “amore”, estrema
giovinezza e bellezza è micidiale. Prima di scrivere tutto questo,
ha funzionato alla perfezione anche con me. Non sarei mai andato a
vedere le foto della sessantenne massacrata per centocinque euro nel
borsellino, o della moglie del poliziotto tanto bravo e riservato;
fra l'altro, neppure le mettono. Della ragazzina bruciata viva dal
fidanzatino, sì. E sanno il loro mestiere, maledizione.
Poi,
tutto l'armamentario consueto. Il paese, le finestre sprangate, il
dolore che fanno puzzare di merce pure quello, che ci deve essere
come un contorno al piatto forte. La morte senza confini, senza
colori e senza età; e andare scrivendo con la piena coscienza del
rischio di non far altro che inanellare belle parole, che già si
sanno perfettamente inutili. Fumo. Diciassette, trentasette o
settantasette anni; come fosse una scaletta già scritta. Le botte,
le minacce, le domande se per caso viviamo trasformati oramai tutti
in adolescenti assassini, quale che sia l'età che abbiamo. Tutto
questo “non poter vivere” senza aver bloccato qualcun altro,
senza averlo infilato a forza in una gabbia, o nel caveau d'una
banca. Tutto questo rumor di lucchetti che si chiudono senza più
nessuna possibilità di essere aperti; tranne la morte. Si comincia
a girare per le strade con strani pensieri; si vede una coppietta di
pischellini, e dopo l'iniziale tenerezza, dopo l'iniziale rimpiantino
pensando ai bei tempi che furono, dopo l'iniziale sorriso, appaiono i
contrafforti d'una montagna nera. Si pensa ai bombardamenti fatti di
vendite, e alle propagande dell'avere, del rinchiudere, del murare.
Si pensa al marketing della gelosia. Si pensa ai gadgets
dell'insicurezza. Si vede quella coppietta così bella perdersi nel
putridume, secondo i medesimi criteri che presiedono al possesso
universale. Tutto questo, lo ripeto, messo in moto dalla sedicenne
massacrata, e senza indulgere minimamente alle storie raccontate dai
giornali. Scrivere e ragionare già sapendo, fin dall'inizio, che si
tratta di un meccanismo in gran parte bacato.
Non
so come possa funzionare. Non posso neppure fare paragoni con me
stesso. A diciassette o diciott'anni ho vissuto, sulla mia pelle,
alcune cose che -in base a quel che accade adesso, quotidianamente o
quasi- mi avrebbero dovuto far diventare un pluriomicida; e mi guardo
idealmente allo specchio dicendomi con un barlume di fierezza che non
mi è mai passato nemmeno per l'anticamera del cervello, nemmeno
nelle situazioni peggiori, nemmeno nel buio di una notte in Sardegna
che ve la raccomando. Sembra che, ultimamente, basti una voce, un
sospetto. Un messaggino SMS. Una frase scritta su qualche cazzo di
social network. Vorrei allora dire che cosa significa restarsene per
un'ora da solo dentro una macchina, mentre il proprietario della
stessa, trentadue anni e sposato con una figlia, si sta scopando in
una casa vicina la tua ragazza di anni sedici, giustappunto. La quale
t'aveva detto: vado a salutarlo. Uno conosciuto il giorno prima per
un passaggio in autostop. E non tornano, e lo sai che stanno facendo,
lo sai benissimo. Dirsi allora che dev'essere così, che è giusto
così, che siamo giovani; e starsene lì da solo senza sapere che
cosa fare, in una notte d'agosto bellissima e piena di stelle.
Sapendo persino il nome di quella persona, che ancora non riesce a
andarmi via dalla testa nonostante pensi che ora ha più di
sessant'anni e chissà che fine ha fatto. Non contenta, la ragazza il
giorno dopo, come se nulla fosse, pure te lo dice senza nessun
problema, incazzandosi pure al tuo minimo “ma”; e io, il
sottoscritto, che non alzo nemmeno un dito. Nulla. Raccontarlo a
trent'anni e passa di distanza, però, è anche un atto di giustizia
verso me stesso. Molte cose sbagliate ho fatto nella mia vita; ma
oggi, di fronte a simili atti di morte, voglio riconoscere a me
stesso una cosa elementare. Di fronte al mondo sarei potuto apparire
come un debole, persino un succube; mi rendo conto, invece, di avere
avuto una forza sovrumana allora, probabilmente senza nemmeno
rendermene conto. Una forza che mi ha, in gran parte, schiantato
dentro ancor più di quanto non lo fossi per altri motivi che tenevo
nascosti a tutti; ma vedo che, per cose ben minori, si ammazza. Si
brucia. Si finisce in galera a diciassette anni facendo persino il
“duro” all'inizio, e se ne riparlerà dopo le prime notti in
cella, se ne riparlerà quando la festa per i tuoi diciott'anni
consisterà nell'essere trasferito da un carcere minorile ad uno
ordinario.
No,
non riesco a capirlo. Per nessuno. Con tutte le mie cose, mi sono
fatto la mia vita alla quale sono terribilmente attaccato. Sono
attaccato alla persona che amo, liberamente; e quanto più le sono
attaccato, tanto più deve sapere di essere, sempre, libera e se
stessa. Libera in mezzo alle vicende umane; sono, sì, figlio anche
di quella notte. Parecchie cose mi ha insegnato, anche se non me ne
sono immediatamente reso conto. Non mi riesce, per questo, capire che
cosa possa spingere una persona a desiderare la morte di un'altra per
il niente. Per tasselli che il tempo ricomporrà. Per una voglia di
avere che, invece, ti toglierà tutto. Rivedo il volto di quella
ragazza di allora, che si sovrappone a quello della povera ragazza di
Corigliano Calabro, e a quello di tutte le altre ragazze e donne mai
viste né conosciute, che hanno pagato tutto il mondo e tutta la
storia con la loro vita e con sofferenze atroci. Forse la soluzione
sarebbe dentro noi stessi, ma si dice sempre così senza pensare alle
prigioni che ci hanno costruito addosso, prigioni che ad un certo
punto si autorigenerano come cellule tumorali volontarie. Che cosa
resta da fare? Non lo so. Come sempre, si sente invocare altra morte;
da una porzione dell'universo, continuo a invocare altra vita. Andava
tanto di moda, in quegli anni di cui qui ho parlato, il saggio di
Erich Fromm, Avere o essere; lo compravamo tutti. Ce lo avevo
io e ce lo aveva quella ragazza. Per quel che mi riguarda, e con
tutti gli accidenti terribili che la cosa ha comportato, ho scelto
l'essere. Non me ne pento. Voialtri, fate naturalmente quel che vi
pare; ma almeno fermatevi, anche un attimo prima, di eliminare
entrambe le cose dalla vostra vita e da quella altrui. Pensateci.
Buonanotte.
venerdì 24 maggio 2013
Il n'avait que dix-sept ans
Il giovane postino è morto,
aveva solo diciassette anni.
L'amore non può più viaggiare,
ha perduto il suo messaggero.
aveva solo diciassette anni.
L'amore non può più viaggiare,
ha perduto il suo messaggero.
È lui che veniva ogni giorno,
le braccia cariche di tutte le mie parole d'amore,
è lui che teneva nelle sue mani
il fiore d'amore colto nel tuo giardino.
È andato via nel cielo blu
come un uccello finalmente libero e felice
e quando la sua anima l'ha abbandonato
un usignolo, da qualche parte, ha cantato.
Ti amo come ti amavo allora,
ma oramai non posso più dirlo.
S'è portato via con lui
le ultime parole che ti avevo scritto.
Non andrà più sui sentieri
fioriti di rose e gelsomini
che portano fino a casa tua.
L'amore non può più viaggiare,
ha perso il suo messaggero
e il mio cuore è come in prigione.
fioriti di rose e gelsomini
che portano fino a casa tua.
L'amore non può più viaggiare,
ha perso il suo messaggero
e il mio cuore è come in prigione.
Se n'è andato via, il ragazzo
che ti portava le mie gioie e le mie pene.
L'inverno ha ucciso la primavera,
tutto è finito fra noi, ora.
Αντίο Γιώργο
mercoledì 22 maggio 2013
Pane pe' su' denti
E' morto Andrea Gallo, una persona degna di rispetto.
Non mi importa di quel "don" usualmente prefisso al suo nome. E non m'importa, né mi attiene, quel "messaggio evangelico" di cui sarebbe stato portatore. Non me ne intendo, e poi avesse portato un po' quel che gli pareva, nella sua vita.
E' morto, però, chi se n'era andato sulla nave Garaventa; e ci provasse a andare lui, chi oggi fa il disdegnoso o il sufficiente.
E' morto chi fu scacciato via dal Brasile in piena dittatura, mentre altri con la sua stessa veste benedicevano devotamente i dittatori.
E' morto un uomo in mezzo ad altri uomini prigionieri, su un'isola sperduta e carcere.
E' morto tutto questo ed altre cose, che sono ovviamente lasciate alla libera interpretazione. Alla libera intelligenza come alla libera imbecillità. Alla libera partecipazione come al libero allontanamento. Alla libera pienezza come alla libera nullità.
Si potrà domandarsi che cosa ci facesse Andrea Gallo dentro la chiesa cattolica; domanda più che legittima. Si potrebbe rispondere come certi grand'anarchici che ho conosciuto, che tutti i mesi si pigliano lo stipendio da qualche settore dello Stato e dicono poi di "combattere dall'interno del sistema".
Sono peraltro ragionevolmente certo che Andrea Gallo abbia avuto assai più problemi da parte della Chiesa, e che gliene abbia creati, di quanti non ne abbiano avuto i suddetti da parte dello Stato (e gliene abbiano creati dopo certe giovanili annate & formidabili).
Ma, francamente, non me ne importa una sega.
Mi importa, oggi nel giorno di sua morte, di questa persona al di là del suo mestiere e del suo dio.
Me ne importa al di là di qualsiasi altra cosa, scomprendomi idealmente il capo davanti alla sua vita e al suo ricordo.
M'importa del suo sigaro e del suo cappellaccio.
M'importa delle sue cose belle e anche dei suoi errori. M'importa di ciò con cui sono stato d'accordo, e di ciò con cui sono stato in disaccordo. M'importa di quando ha avuto coraggio e anche di quando non ne ha avuto.
E così se n'è andato, toccandogli pure la sua brava dose di cordogli.
Ma siccome a lui dei cordogli (e specialmente di quelli di certa gente) non credo gliene importi un accidente, preferisco immaginarmelo a tirare due calci a un pallone assieme a un ragazzo con un rotolo di scotch da pacchi al braccio.
Credeva in un padreterno che starebbe lassù nei cieli. Va bene così. Certo che, da stasera, quel padreterno, se c'è, quando se lo vedrà comparire avrà qualche sudorino freddo. Certo che avrà trovato pane pe' su' denti.
lunedì 20 maggio 2013
Cittadino di Niente
Questa cosa non ha nomi.
Parla di un Cittadino
Nordafricano, così almeno sembra. Di un senzanome. Di uno di quelli
per il quale è d'obbligo il modo condizionale: “si tratterebbe”.
Dicono un cittadino nordafricano, ma potrebbe essere di chissà dove;
potrebbe anche essere Cittadino di Niente. L'unica città che gli si
conosce è questa qua, quella dove ha terminato la sua vita nel buio
della notte.
Senza nome e senza età;
anzi, “circa”. “Circa quarant'anni”. C'è soltanto un numero
assolutamente certo: quello delle righe. Tredici in tutto, contate.
Allora si pensa a chi e a che cosa avrebbe potuto essere, sempre al
modo condizionale. Domani avrebbe potuto essere un lavoratore più o
meno precario o al nero, pronto a ricevere un salario o a volare di
sotto da un'impalcatura. Doman l'altro avremmo potuto vederlo in fila
davanti alla Questura per rinnovare il permesso di soggiorno. Fra tre
giorni gli sarebbe potuto pigliare il pazzo, e mettersi a ammazzare i
passanti a picconate. Oppure, domani sarebbe uscito di casa alle
Piagge, perché si chiamava Caputo Giuseppe e glielo dicevan tutti
fin da piccolo che sembrava un marocchino. Documenti? Sono di carta.
E la carta, in acqua, si scioglie. O te li porta via la corrente, i
documenti. Insieme alle chiavi del motorino, insieme alla fotografia
da piccolo, insieme al pacchetto di MS e all'accendino, insieme alla
tua vita.
In quelle tredici righe,
del resto, c'è tutto quel che si deve sapere su di te, Cittadino di
Niente.
Si deve sapere che, ieri
notte verso le una, qualcuno che passava t'ha visto annaspare nel
fiume e chiedere aiuto, perché il fiume, qui, a volte s'è divertito
a portar via la città intera e figurati se non porta via te. In quel
preciso momento, a me giravano i coglioni. Prima mi son visto rubare
la Champions' League, e poi è morto il Monni. Più o meno a
quell'ora, mentre te annaspavi in Arno e chiedevi aiuto, altri a cui
giravano i coglioni per la Champions' League scippata si riunivano a
una stazione ferroviaria per andare a infamare gli scippatori di
passaggio, tra i quali -in particolare- il cittadino italiano Mario
Balotelli. Tutto questo ha occupato oggi, sui giornali, migliaia e
migliaia di righe. Si è scomodato il borgomastro. Clima di dramma e
indignazione in città.
Intanto, Cittadino di
Niente, il fiume faceva il fiume e ti trascinava via. T'hanno sentito
al ponte alla Carraia. Hanno chiamato i carabinieri e i soccorsi, hai
visto bravi. Non mi riesce immaginare come dev'essere chiedere aiuto
sapendo, con tutta probabilità, che non t'ascolta nessuno e che sei
finito. Sei finito anche se t'ascolta qualcuno; che ti ci saresti
buttato tu, a parti invertite, in acqua alle una di notte? E l'Arno
non perdona nessuno. E' un troiaio di gorghi, correnti, fango e
buche. In questo maggio di merda che non fa che piovere, è pure
bello pieno. Così è andata a finire come doveva; verso le tre del
pomeriggio t'hanno ritrovato più in là, neanche tanto in fondo,
vicino al ponte Amerigo Vespucci. Morto in una buca, a quattro metri
di profondità.
Non si sa cosa avevi
fatto. Ti ci eri buttato, ripensandoci troppo tardi? Ci eri cascato
dentro, briaco? Ti ci hanno buttato? E perché? Son tutte domande che
si fanno relativamente a un essere umano. Uno è lì che cammina per
i fatti suoi, e sente un suo simile che grida aiuto mentre un coso
arrivato appositamente ad ammazzarti dal Monte Falterona ti sta
portando via senza speranza. E senza nome. “Cittadino
nordafricano”, vale a dire: esiste la Repubblica (o il Regno) del
Nordafrica di cui uno è cittadino. C'è il Sudafrica e ci può
essere anche il Nordafrica.
Comunque la si metta, hai
fatto davvero una fine di merda. Può darsi che di merda sia stata
anche tutta la tua vita, che tu sia del Nordafrica o di Quaracchi. Là
sotto, solo nella notte e nella morte mentre un fiume ti cancella
rombando d'acqua marmata e di fango puzzolente. Aiuto, aiuto! Ma chi
t'aiuta, Cittadino di Niente. L'unica funzione che ti è rimasta è
quella di fornire tredici righe di riempitivo, come quel tuo amico
che fregava il rame e c'è rimasto secco in una cabina elettrica,
come quella tua amica fatta a pezzi da qualcuno venti bocca cinquanta
fica.
Poi, magari, avevi visto
una lucciola.
Sarebbe stagione delle
lucciole. L'altra notte me n'è entrata una in casa.
A volte si segue la
minima luce.
E per seguirla, si casca
nel fiume oscuro.
Senza nome.
Senza carta.
Senza storia.
E tu facevi bene, Carlo
E tu facevi bene, Carlo, a stàgni davanti a quello lì, in bicicletta.
Tu facevi bene quando, qualche volta, ti vedevo sulla tranvia per Scandicci, invece che a leggere danti e bibbie.
Tu facevi bene a dire le poesie di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi in un album d'un ragazzo, invece che andare a pigliare premi Oscar.
Tu facevi bene a fare spettacoli a gratis al CPA, invece che a abbracciare Clinton e altri pezzi di merda.
Tu facevi bene a esse' rimasto quel che eri, invece che andare in televisione a fare da spalla a Saviano.
Vorrei dirti tant'altre cose; ma 'un ce la fo.
E' m'ha trombato i' silenzio, stasera. E' so' rimasto incinta.
venerdì 17 maggio 2013
Mio caro padrone
In questi ultimi tempi, le morti per lavoro si vanno prepotentemente diversificando in Italia. Certo, quelle preferite -vale a dire le morti bianche da un lato (non ho mai capito bene perché volare da un'impalcatura, essere schiacciato da una pressa o esser presi in pieno dalla Jolly Nero debba essere bianca, come morte, ma non importa) e i suicidi dall'altro- occupano sempre la pole position, anche perché permettono, sovente, di esercitare il consueto rituale fatto di "eroi", di applausi alle bare tricolorate, di lacrime in diretta e di storie commoventi; ma cominciano a succederne di discretamente differenti, ora.
Ora, dico che il terreno è, qui, per natura minato. Ieri mattina, ad esempio, il dipendente di una ditta di qualche infisso, o struttura, o supporto di nonsoccosa, a suo dire vessato dal padrone e da costui licenziato in tronco (che è un fatto), ha compiuto una diversificazione sulla quale c'è ben poco da scherzare o da tenere toni lievi. Alle sette di ieri mattina è entrato nel bar di un paese lombardo (di quelli in -ate ) dove sapeva che il padrone e suo figlio andavano sempre a fare colazione, e li ha abbattuti a revolverate.
Il ricorso alla famosa canzone di Paolo Pietrangeli può sembrare quasi banale, o d'obbligo; in realtà, la cosa non è tanto semplice e né tantomeno automatica. Il "padrone sparato" di Pietrangeli odora (o puzza) di Agnelli-Pirelli-Marzotto, sa di padronato altoborghese contrapposto alla classe operaia e, inoltre, gli "spari" proposti nella sarcastica canzone fanno un deciso rumore di tutta una serie di antiquate cose come la "rivoluzione", o l' "abbattimento del capitalismo". Gli spari di oggi, quello del paese lombardo, hanno colpito due immigrati calabresi con qualche sparuto dipendente, tirati da un immigrato foggiano. Non c'è niente, in essi, che possa essere riportato seppur lontanamente a una qualsiasi forma di coscienza di classe; per quel che mi risulta, sia le vittime che lo sparatore potevano benissimo aspirare -come decine di migliaia di lavoratori attuali- ad una vituccia "dignitosa" di stampo piccoloborghese, votare a destra, inveire contro gli "immigrati che rubano il lavoro" e cose del genere. E', quindi, una semplice, elementare storia di rabbia: prendendo per buono ciò che ha detto lo sparatore, si tratta di una persona maltrattata sul lavoro e poi licenziata che ha reagito in maniera violenta per qualcosa che le è capitato personalmente, direttamente.
Si potrebbe allora parlare delle forme che sta assumendo, e potrebbe ancora assumere, questa rabbia frammentata e, generalmente, priva di coscienza. Una forma assai diversa, ad esempio, la sta assumendo la lotta dei lavoratori della logistica (in buona parte, tra le altre cose, formata da manodopera immigrata); trovo strano che se ne parli così poco, anche considerata la capitale importanza del settore (vale a dire la movimentazione dei componenti e delle merci). Con l'episodio di oggi si può soltanto parlare di uno scricchiolio, dell'ennesima crepa nei meccanismi del pietismo e del "tragedismo".
Si può pensare, certo, a che cosa possa essere effettivamente successo perché una persona abbia covato talmente tanta rabbia verso chi gli dava lavoro, e talmente tanto rancore per i loro comportamenti, da fargli armare la mano e varcare la soglia di quel bar per uccidere. Non è, peraltro, la prima volta; qualcuno si ricorderà, ad esempio, del dirigenticidio di Massarosa del 23 luglio 2010. Si potrebbe parlare di che cosa, nell'economia "reale" delle piccole imprese, sia veramente il rapporto tra il "padrone" e il "dipendente"; in questo, l'episodio di oggi somiglia molto di più ad una strage familiare (e non solo perché sono stati coinvolti un padre e un figlio) che a un'azione rivolta contro dei "padroni". Resta soltanto il fatto che l'omicida e le sue vittime hanno trovato il loro destino a causa di un lavoro, di un reddito, e delle condizioni che si vengono a creare laddove vi sia un'impresa che assume dei salariati o dei collaboratori, seppur minuscola.
E, ancora una volta, appare sempre più sottile, o inventato, il confine tra l'autodistruzione che si vende bene, e la distruzione che crea paura. Tra l'autodistruzione che produce indifferente e falso pathos, e la distruzione cui si dedica l'Autorità. Tra le bare che escono dalla chiesa con quell'orrenda consuetudine degli applausi, e una persona che invece esce da una caserma dei carabinieri in manette e viene infilata a forza su una vettura che lo porterà a tutta una vita in galera. Tra la folla che grida "eroi!" a dei morti, e quella che invoca la morte per un vivo. Tutto questo, però, mi ricorda le immagini dell'Alluvione di Firenze, quando l'Arno, poco prima di straripare, premeva sulle spallette che cominciavano a far zampillare, ad una pressione inimmaginabile, acqua dai pertugi.
giovedì 16 maggio 2013
Chaconne des Scaramouches
Mi hanno detto, abbastanza di recente ma, in realtà, da un remoto passato, che dovrei avere una vita normale. Il problema è che, da un lato, non so assolutamente che cosa sia, una "vita normale"; e, dall'altro, che ritengo la mia vita del tutto normale, pur nell'assoluta assenza di norme. Ho provato, e provo tuttora, a spingermi in certi recessi non sovente esplorati; però il tempo m'ha instillato una certa leggerezza nel farlo, ed ammaestrato a mie spese del pericolo che comporta il voler penetrarvi a tutti i costi. Ho, credo, una normalità abbastanza variegata; ed è questo, ahimé, che non riesce mai a capire chi, basandosi su non so quali criteri, cerca di richiamare all'ordine. La mia normalità, invece, non solo mi consente, ma addirittura mi impone, di passare con la massima tranquillità dal resoconto di un curioso episodio accaduto davanti a un trippajo di periferia alla Chaconne des Scaramouches.
Ciò che, probabilmente, state ascoltando e vedendo adesso, vale a dire la Chaconne des Scaramouches, è un brano musicale composto nel 1670 da Giovan Battista Lulli, o Jean Baptiste Lully che dir si voglia; qui a Firenze si preferisce dire Lulli, perché di nascita il musicista era fiorentino anche se poi si fece suddito francese. La chaconne, che in italiano si chiama "ciaccona", è sempre stata rinomata per le sue notevoli difficoltà di esecuzione; qui è interpretata dal gruppo Modo Antiquo, che per la cronaca proviene proprio da Firenze.
L'uomo, dall'aspetto longilineo e signorile che dirige i musicisti alla maniera antica (vale a dire battendo il tempo col bastone, così come faceva lo stesso Lulli e per cui passò a miglior vita dopo essersi con esso colpito accidentalmente un piede e morendo poi per l'infezione e la setticemia gangrenosa causata dal non volersi far curare) si chiama Federico Maria Sardelli. E' livornese di nascita (pur abitando a Firenze, in via dei Serragli), e potrei anche aggiungere che tra i musicisti del gruppo c'è pure la delycatissima sua consorte, Bettina Hoffmann, violinista e violoncellista di fama (è la signora biondissima che si vede nel video).
Non ho, lo devo dire, nessun talento musicale attivo; come son solito dire, a malapena riesco a suonare il campanello di casa mia, e male pure quello. Ma, oltre a una certa predisposizione al canto, credo di avere un buon talento di ascoltatore di musica, nelle forme più svariate; una di esse è, da sempre, la musica antica. Da quella medievale a quella barocca, in senso lato; prima o poi, insomma, col Modo Antiquo (che peraltro non ho mai visto esibirsi dal vivo) ci dovevo prima o poi aver qualcosa a che fare. Federico Maria Sardelli, che oltre a musicista è anche musicologo, è reputato uno dei maggiori interpreti e intenditori di musica antica in Italia e non solo; solo che il cosiddetto "grande pubblico", che si potrebbe chiamare anche "persone normali", non lo conoscono per questo.
E', infatti, lo stesso Federico Maria Sardelli che, da tempo oramai immemore, inonda di zolfi vari le colonne del "Vernacoliere". L'autore di Clem Momigliano, del Baluganti, delle "Più belle cartolyne del mondo" e di altre cose come "Trippa" (vedete che un po' di trippa c'è sempre), nonché del "Libro Cuore (forse)", una delle rare cose che ha rischiato, a suo tempo, di farmi autenticamente schiattare dal ridere.
Non solo; Federico Maria Sardelli, tutto quel che scrive, se lo disegna e illustra da solo; uomo d'ogni talento, verrebbe da dire, ed è vero. Solo che una parte non indifferente del suo talento l'ha rivolta verso il dileggio popolaresco nelle sue forme più grevi ed eleganti al tempo stesso; una cosa che a me stupisce assai poco, conoscendo anche fin troppo bene Livorno e chi ci è nato. E' a Livorno che ho imparato che la più elevata condizione dello spirito e arroìssi da' ponci vanno a braccetto, e che l'Arte è sorella de' Cazzotti e de' Moccoli.
Fate pure, se vi pare, andare ancora la Chaconne des Scaramouches e riflettete, sempre che vogliate, sulla "normalità" che magari state ricercando, oppure che vi ritrovate ad esaltare e rivendicare, ed anche a raccomandare a chi vi è oramai del tutto estraneo per storia e per esperienza. Strade differenti che non hanno più nessuna possibilità di incontrarsi. Appartenere, negli stessi precisi momenti, alla gagliofferia e all'infima classe dalla quale si proviene e nella quale si individuano ancora le proprie radici e la propria coscienza, e alla condizione più elevata: quella che ha messo a disposizione un'intera vita d'apprendimenti e di sapere ad uno sguardo costantemente diverso sul mondo, sulle sue figure e sui suoi fatti. Non rifiutandone nessuna forma e, anzi, cercando di farla propria.
Tutta una Ciaccona di Scaramucce fatta di continui ed infiniti passaggi tra i linguaggi, di scorrerie tra i sensi palesi e nascosti, di lotte ignote tra i variopinti noistèssi che ci popolano e si beffano di noi mentre bolliamo nel ridicolo del non dar libertà totale agli oceani che abbiamo dentro, suicidandoci per un lavoro perso o ammazzando per possessi inappagati. Abituati a quantificare la ricchezza secondo criteri che dovrebbero, invece, essere relegati, e con disprezzo, nella povertà. E allora, prima di chiudere gli occhi e di lasciarvi invadere da questa musica secolare, che vi riporterà non tanto alla corte del Re Sole quando alla corte di voi stessi e al Sole che avete ricoperto d'inutili nuvolaglie, guardate ancora una volta quel signore alto ed elegante capace di disegnare anche la "grosse Koalition", vale a dire il misto di aglio, cipolle, würstel e miasmi escrementizi che si sta formano nell'intestino del Baluganti chiamato dalla maestra alla cattedra, e che esplode in un'enorme scoreggia. E' questa la Chaconne des Scaramouches, ed è questa l'intera vita: un'immensa, inestricabile ghirlanda d'elevazioni e merda.
martedì 14 maggio 2013
Trippa al sugo
I' trippajo di una piazza vicina a casa mia, come gli dico sempre, ce lo deve avere avuto nel dienneà; oppure, come gli dico altrettanto spesso, è born tu bì trippajo. Ce l'ha nel sangue: trippa, lampredotto, centopelle, poppa. Oltre alle preparazioni classiche fiorentine, fa delle "variazioni sul tema" di sua creazione che lo rendono, a mio immodesto parere, uno dei migliori trippai di Firenze. Superiore di due spanne anche a quelli del mercato centrale; in questa piazza di periferia, poi, di turisti non ce ne vengono. Alle dieci e mezzo di stamani, quando ci sono passato, c'era il casino di una bella mattinata di metà maggio; e, naturalmente, già la gente a mangiare lampredotto e dintorni. Bisognerebbe fare un'attenta disamina sul cibo da strada, cosciente che potrebbero capirmi bene soltanto i napoletani, i siciliani e, forse, i romani; però quel che è successo stamani ha a che fare col cibo da strada soltanto come efficace arma di persuasione. Vo a spiegarmi meglio.
Mi sono fermato cinque minuti a fare due chiacchiere col mio amico trippajo, di cui sono molto fiero d'aver tenuto a battesimo il figlio: nel senso che il primo panino col lampredotto preparato dal ragazzo (diciassette anni) l'ho ordinato, a suo tempo, io. E il buon sangue non mentiva. Tra il capannello di mangiatori ho notato una persona mai vista: un tizio molto alto, non certamente un ragazzo, massiccio e con i capelli lunghi raccolti a coda di cavallo. Vicino a lui c'era il classico omino, o umarell, col giubbottino blé ancora chiuso ben bene nonostante la temperatura quasi estiva, che stava discutendo con altre persone. Confesso di nutrire una discreta passione per le discussioni in piazza; sono sempre un indice dei tempi, e attribuisco loro una speciale importanza nella propensione che ho a osservare e registrare il mondo da posizione sotterranea.
Va da sé: la tentazione di ordinare anch'io un panino, o un piatto di trippa al sugo bene incaciata, era forte. Ma mi devo, come è noto, trattenere; la botta che ho avuto due anni fa è stata forte, e ho imparato a resistere. Già in saccoccia avevo i sigari che, a rigore, non dovrei vedere nemmeno col lanternino; nel frattempo la discussione continuava, e l'omino col giubbotto blé aveva attaccato una concione sui recenti fatti di Milano. Quali sono questi recenti fatti? L'immigrato ghanese che, a Milano, è completamente impazzito all'alba, prendendo a picconate dei passanti a casaccio e ammazzandone tre (nonché ferendone gravemente altri). Pazzo furioso, sì, anche se magari la pazzia può essere stata aiutata da certe particolari condizioni di vita che non sto nemmeno a spiegare; e, come è notissimo oramai, la follia va bene soltanto quando produce suicidi o stragi in famiglia. Negli altri casi, invece, produce presidi della Lega oppure ometti coi giubbottini blé.
Animatamente e con aria da concione, il suddetto omino blè-giubbottato esprimeva il suo illuminato pensiero con tanto di dito puntato: "E poi per quello che ha ammazzato quelli là in piazza Dalmazia hanno fatto le manifestazioni! Ha fatto bene, invece, a ammazzarli! Così se ne tornano tutti a casa!". Va fatto presente, peraltro, che la piazza del trippajo è letteralmente piena di senegalesi, un paio dei quali conoscevano pure di persona Diop Mor e Samb Modou. "E gli è ora di finirla con questi!...."; ma non ha fatto i tempo a finire il comizio, l'omino col giubbotto blé. Il tizio mai visto, quello alto coi capelli a coda di cavallo, che fino a quel momento era rimasto zitto a mangiarsi il suo panino (beato lui!), si è alzato in piedi; uno da averci abbastanza poca voglia di farci a manate, garantisco. Si è diretto verso l'omino.
"Scusi, ma secondo lei allora quello lì ha fatto bene a ammazzarli, quello in piazza Dalmazia?", gli ha detto. "E quello lì a Milano allora ha fatto bene?", ha risposto l'omino. "Quello a Milano era uno completamente impazzito", ha ribattuto il tizio con la coda di cavallo. "E perché, quello di piazza Dalmazia 'unn'era pazzo...?", ha di nuovo controbattuto l'omino. "No!" -ha tuonato l'altro. "Quello di piazza Dalmazia non era pazzo, era un fascista di merda, hai capito? Un fascista di merda di Casapound, un fascista come te, hai capito?" Al che l'omino col giubbottino blé ha cominciato a preoccuparsi, anche vedendo che nessuno stava intervenendo in sua difesa. Né tantomeno io, che guardavo la scena molto interessato. Il destino ha voluto che il trippajo, proprio in quel momento, stesse passando al tizio alto il piatto di trippa al sugo che aveva ordinato: caldo, fumante, con il cacio sopra. Una meraviglia. La trippa alla fiorentina nel suo massimo fulgore; la quale, appunto, è servita all'istante come efficace e fùlgida arma di persuasione in quanto ho visto una manona sollevare il piatto di plastica e spiaccicarlo sul muso, con tutto il suo delizioso contenuto, all'omino col giubbotto blé tifoso del Casseri mentre lo teneva ben saldo pe' i' bàero. "Vai, o mangia la trippina, pezzo di merda!", sentivo dire al tizio alto con la coda di cavallo mentre ribadiva coscienziosamente la trippa sul viso del malcapitato, e mentre deliri di sugo, pezzi di trippa e cacio gli colavano sul giubbottino. E tutti zitti. Dopodiché il tizio alto ha pagato il suo e il piatto di trippa armata, e si è allontanato con calma mentre l'omino pure se ne andava visibilmente tremante e ancor più visibilmente ridotto a un concio di sugo di pomodoro, trippa nel colletto della camicia e cacio parmigiano nei capelli. Uno che ci ripenserà un paio di volte prima di rifarlo; e poiché il fatto è avvenuto in una piazza affollata, chissà che non si possa ritirar fuori il vecchio detto, "Colpirne uno per educarne cento".
Tornando a casa a piedi e ripensando all'episodio testè osservato, mi sono messo a ragionare su cosa potesse effettivamente aver armato di trippa al sugo la mano dello sconosciuto tizio coi capelli a coda di cavallo (il quale, peraltro, parlava con accento strettamente fiorentino). In quella mano che sollevava il piatto pronto a spiaccicarlo sul viso dell'anziano razzistello ci potevano essere tante cose; e non solo piazza Dalmazia. Ci potevano essere, ad esempio, quei tanti bravi nonni di famiglia, tutti casa e nipotini, che al bar dicono che la ragazzina di quattordici anni stuprata dal branco se la è cercata perché portava i jeans a vita bassa. Oppure ci potevano essere quelli che scrivono le letterine alla "Nazione". Ci poteva essere quella comitiva familiare in pizzeria (pure da me vista e sentita venerdì scorso) che, tra un boccone e un bicchier di vino, proponeva di "schiacciare la testa agli zingari"; ci potevano essere le grida di "metteteli al muro" che esprimono alla perfezione ciò che è diventato questo paese non tanto nella sua "classe politica", quanto tra la gente stessa. Il cosiddetto "paese reale", insomma, e nelle sue classi popolari. Questo non è un quartiere di lusso, e bisognerebbe pur cominciare a pensare che l'Alba Dorata può essere davvero il giorno dopo.
Io credo che non bisognerebbe mai "lasciare stare". Che bisognerebbe imparare a controbattere e, possibilmente, in modo persuasivo. Ne ho abbastanza dei "pacificatori" e di quelli del "ma che te ne frega..."; e gli interventi dovrebbero essere non su una generica "politica"con tutto il suo lessico oramai stantio (tipo la "casta" e roba del genere), perché in realtà una "casta" di ometti coi giubbottini blé, che formano l'intelaiatura di una società davvero votata non solo alla follia, ma alla preparazione di un fascismo oramai in fase avanzatissima, ce la abbiamo, e tangibile, sotto gli occhi non appena mettiamo il naso fuori dal portone e ci avviamo verso le normali e banali incombenze quotidiane. E "lasciare stare" dovrebbe essere chiamato col suo nome vero: complicità. Oggi ho visto un tizio alto e coi capelli a coda di cavallo che complice non lo vuole minimamente essere; e il suo piatto di trippa al sugo non è stato spiaccicato solo in faccia all'ometto, al "bravo nonno"tutto nipotini e sangue nelle piazze, ma a un mondo intero che ha da essere arrovesciato. Anche in un piccolo episodio di cui sono stato, casualmente, testimone.
Post volutamente formattato in stile "Femminismo a Sud".
domenica 12 maggio 2013
Uccelli di passo
Nell'ultimo verso della canzone originale (e della poesia, ovviamente) non c'è nessuna "gru"; ci sono les gueux, cioè "i mendicanti, gli straccioni". Io ci ho messo le gru. Secondo me ci stanno meglio.
Borghesi, bella vita !
Che aprile sbocci
o che dicembre geli
son felici e contenti
Il piccione amerà
la femmina tre giorni
basta così : lo sa,
questo è il tempo che ha.
’Sto tacchino che va
ringraziando il destino,
poi quando toccherà
morire, guardate là
quest’ochetta che frigna :
« E’ qui che sono nata,
muoio qui, con mia madre,
è questo il mio dovere. »
L’ha fatto, il suo dovere :
cioè, non ha mai avuto
un sogno, un’utopia,
un desiderio, mai,
Mai voluta la luna
Mai voluta una giunca
lasciata alla corrente
d’un fiume sconosciuto.
E son tutti così :
viver la stessa vita
sempre, per questi qui
vergogna mai non è
E’ un sol becco che han,
non desideran mai
di non averne più
oppur d’averne due.
E non gli occorre mai
un bacio sulla bocca,
lungi dai vani sogni
e da tremende pene
Hanno al posto del cuore
delle sane budella,
un orologio svizzero,
dieci anni di garanzia.
Ma come son contenti !
Di colpo, nello spazio,
lassù sembra passare
un grande volo lento
di forma triangolare,
arriva, plana e passa.
dove vanno ? chi sono,
così alti nel cielo ?
E state lì a guardarli,
loro sono i selvaggi,
vanno via con il vento
più in su delle montagne,
sopra i boschi e sui mari,
liberi e mai schiavi.
Inghiottono tant’aria
che voi ne scoppiereste.
Guardateli ora : prima
di coronare il sogno
si spezzeran le ali
con gli occhi insanguinati,
tanti ne moriranno.
Hanno un padre e una madre
e certo sanno amarli
come e meglio di voi.
Per smoinare la moglie
o far cena alla mamma
potevan diventare
pollame come voi
Ma son prima di tutto
figli della chimera,
dei poeti, dei folli
assetati del blu.
Guardateli, gallinacci,
ochette edificanti :
mai potrete salire,
voi, tanto in alto, mai !
Quel che vi toccherà
è una cacata in testa.
Ai borghesi non va
veder passar le gru.
Guardateli, gallinacci,
ochette edificanti :
mai potrete salire,
voi, tanto in alto, mai !
Quel che vi toccherà
è una cacata in testa.
Ai borghesi non va
veder passar le gru.
Che aprile sbocci
o che dicembre geli
son felici e contenti
Il piccione amerà
la femmina tre giorni
basta così : lo sa,
questo è il tempo che ha.
’Sto tacchino che va
ringraziando il destino,
poi quando toccherà
morire, guardate là
quest’ochetta che frigna :
« E’ qui che sono nata,
muoio qui, con mia madre,
è questo il mio dovere. »
L’ha fatto, il suo dovere :
cioè, non ha mai avuto
un sogno, un’utopia,
un desiderio, mai,
Mai voluta la luna
Mai voluta una giunca
lasciata alla corrente
d’un fiume sconosciuto.
E son tutti così :
viver la stessa vita
sempre, per questi qui
vergogna mai non è
E’ un sol becco che han,
non desideran mai
di non averne più
oppur d’averne due.
E non gli occorre mai
un bacio sulla bocca,
lungi dai vani sogni
e da tremende pene
Hanno al posto del cuore
delle sane budella,
un orologio svizzero,
dieci anni di garanzia.
Ma come son contenti !
Di colpo, nello spazio,
lassù sembra passare
un grande volo lento
di forma triangolare,
arriva, plana e passa.
dove vanno ? chi sono,
così alti nel cielo ?
E state lì a guardarli,
loro sono i selvaggi,
vanno via con il vento
più in su delle montagne,
sopra i boschi e sui mari,
liberi e mai schiavi.
Inghiottono tant’aria
che voi ne scoppiereste.
Guardateli ora : prima
di coronare il sogno
si spezzeran le ali
con gli occhi insanguinati,
tanti ne moriranno.
Hanno un padre e una madre
e certo sanno amarli
come e meglio di voi.
Per smoinare la moglie
o far cena alla mamma
potevan diventare
pollame come voi
Ma son prima di tutto
figli della chimera,
dei poeti, dei folli
assetati del blu.
Guardateli, gallinacci,
ochette edificanti :
mai potrete salire,
voi, tanto in alto, mai !
Quel che vi toccherà
è una cacata in testa.
Ai borghesi non va
veder passar le gru.
Guardateli, gallinacci,
ochette edificanti :
mai potrete salire,
voi, tanto in alto, mai !
Quel che vi toccherà
è una cacata in testa.
Ai borghesi non va
veder passar le gru.
La poesia originale di Jean Richepin è del 1876. Messa in musica e cantata da Georges Brassens nel 1969; qui nella versione interpretata da Maxime Le Forestier.
venerdì 10 maggio 2013
Tango
Ciò che ieri sera fu è e non è
La barchetta che si allontana
e la barchetta che si accosta
I capelli così vicini erano capelli stranieri
Questo è facile a dirsi E' sempre così
Il lago grigio è proprio il lago grigio
Il pane fresco di ieri sera è indurito
Nessuno balla Nessuno bisbiglia Nessuno piange
Il fumo è dissolto e non dissolto
Il lago grigio adesso è azzurro Qualcuno chiama
Qualcuno ride Qualcuno se n'è andato
C'è molta luce Era mezzo buio
La barchetta non sempre ritorna
E' la stessa cosa e non è la stessa
Qui non c'è nessuno La roccia è roccia
La roccia cessa di essere roccia
La roccia ridiventa roccia
E' sempre così Nulla scompare
e nulla rimane Ciò che fu
è e non è ed è Questo
nessuno lo capisce Ciò che ieri sera
fu è facile a dirsi Com'è luminosa
qui l'estate e com'è breve.
La barchetta che si allontana
e la barchetta che si accosta
I capelli così vicini erano capelli stranieri
Questo è facile a dirsi E' sempre così
Il lago grigio è proprio il lago grigio
Il pane fresco di ieri sera è indurito
Nessuno balla Nessuno bisbiglia Nessuno piange
Il fumo è dissolto e non dissolto
Il lago grigio adesso è azzurro Qualcuno chiama
Qualcuno ride Qualcuno se n'è andato
C'è molta luce Era mezzo buio
La barchetta non sempre ritorna
E' la stessa cosa e non è la stessa
Qui non c'è nessuno La roccia è roccia
La roccia cessa di essere roccia
La roccia ridiventa roccia
E' sempre così Nulla scompare
e nulla rimane Ciò che fu
è e non è ed è Questo
nessuno lo capisce Ciò che ieri sera
fu è facile a dirsi Com'è luminosa
qui l'estate e com'è breve.
= Hans Magnus Enzensberger =
Tango finlandese
mercoledì 8 maggio 2013
La porta aperta sul cortile
Dicono che i sogni non
muoiono mai; sicuramente. Però, a volte, si ammalano; e anche di
malattie molto gravi. Ci son dei sogni che, un dato giorno o in una
data circostanza, cominciano a perdere colpi; dapprima un colpo di
tosse, poi altri acciacchi, e alla fine arriva la diagnosi. Magari
non muoiono perché se morisse anche il minimo sogno, morirebbe il
mondo; ma rimangono indietro, salutano dicendo d'andare avanti come
il fuggiasco che chiede ai compagni d'essere abbandonato al suo
destino affinché gli altri non siano catturati, arrivano a essere
semidimenticati. Pensate che stia facendo filosofia da tre soldi?
Pensateci bene, perché invece è la vita di tutti. Nessuno escluso.
In qualsiasi epoca, in qualsiasi parte del mondo, sotto qualsiasi
costellazione.
Bisognerebbe allora
essere capaci di vedere quali sogni si ammalano, quali vengono
lasciati indietro; ma non è qualcosa che può essere fatta
all'istante, sul momento. Occorre che passi almeno, diciamo, una metà
della vita e che tutto sia stato, se non chiarito, almeno spiegato
nelle sue linee principali. Occorre che il cammino non semplice della
vita abbia riservato una notevole dose di cadute e di sollevamenti,
di ricadute e di risollevamenti. Occorrerebbe, anche, una cosa
elementare e difficilissima al tempo stesso: non smettere di crederci
mai, nei sogni. Perseguirli. Qualsiasi nome e forma abbiano. I sogni
che si ammalano sono, in gran parte, contagiosi; alla fine infettano
gli altri sogni, i fuggiaschi che cercavano la libertà, e tutto si
tramuta in sconfitta, prigionia, morte.
Quali sono, dunque, i
sogni che soccombono alla malattia? Sono quelli che decidi tu. Sei
tu, caro il mio oneiropoietés, che decidi chi si debba fermare e chi
debba andare avanti; e, quasi sempre, i sogni che lasci indietro sono
quelli che non erano riusciti davvero a penetrare dentro te stesso,
che non avevano scavato la breccia, che non ottemperavano alla
condizione necessaria del vero sogno, vale a dire la perfetta,
meravigliosa, ferrea indifferenza alla loro realizzabilità. Chi
parla di “realizzare i sogni” non sa e non ha mai saputo,
probabilmente, che cosa sia veramente un sogno. Si sarà forse
risparmiato parecchie illusioni, alcune delle quali dolorose, ma si è
perso lo svegliarsi e veder entrare nella propria stanza, come diceva
Juan Rodolfo Wilcock, ogni mattina un mondo nuovo.
E' questo il motivo per
cui non mi piace né chi dice di non avere più sogni, né chi si è
ripiegato, accartocciato sui sogni morti di un passato più o meno
lontano. Per questo non mi piace né chi fa corrispondere i sogni a
quelli di una vita “normale”, alla tranquillità e alla
realizzazione borghese, alla propria piccola vita in cui altro non
resta che rimpiangere qualche passato, mitico o di verdura che sia,
oppure proiettarsi artificialmente in qualche luogo, o epoca, ideale.
Per questo non mi piace chi spende il proprio tempo a collezionare
declinazioni, proprie o altrui, di occasioni perse, senza rendersi
conto di stare sprecandolo inesorabilmente a perdere l'occasione di
mettersi a vivere. Qualsiasi cosa accada e dovunque ti trovi a
mettere i tuoi giorni in fila, uno dietro l'altro.
Io so, e lo dico senza
nessuna vuota presunzione, di risultare estraneo a molti. Non è
un'estraneità ricercata, o figlia di qualche vuoto snobismo. Non è
un'estraneità di modi di pensare, perché tutto sommato ho parecchie
cose e vedute in comune con altri, e la cosa mi dà tutt'altro che
fastidio. Non è un'estraneità derivata da invidie, da rimpianti o
da “fallimenti”; per quanto riguarda quest'ultimo termine, anzi,
mi sono sempre pregiato di lasciarlo nel suo esclusivo ambito
commerciale, dal quale un po' troppo spesso viene fatto uscire per
marchiare degli esseri umani, oppure per marchiarsi da soli
esercitando l'inutile arte di un confronto la cui applicazione è
comunque e sempre segnata dal mercantilismo. E non è neppure, in
ultimo, un'estraneità di cui mi beo, o nella quale mi crogiolo come
un maiale nel trogolo.
E' un'estraneità che
promana nel mio non cessare, mai, di sognare. Oltrepassando il finto
muro della realizzazione e trovando nel sogno sia la mia ricchezza
inesauribile, sia l'unico e autentico strumento per interpretare e
capire la realtà. La realtà interpretata attraverso la realtà è
una desolazione continua, e non credo che nulla possa nascere dalla
desolazione. E' un sognare che è molto, molto diverso dallo
“sperare”; mi rifiuto di paragonare il sogno al Superenalotto, o
a un padrone qualsiasi che ti offre una schiavitù sottopagata. E', infine, un'estraneità che promana dal
non sentirmi più ad un agio artificiale con persone incatenate ai
loro punti cardinali; non mi è estraneo soltanto chi ha sovvertito
le direzioni. Non mi è estraneo chi è diventato fiume passando per
siccità e alluvioni, per cascate e rapide, per tratti d'acqua
limpida ed altri d'acqua putrida e inquinata, per deserti e città
affollate, per foreste vergini e bidonvilles, sognando però sempre
d'essere il Rio delle Amazzoni prima d'arrivare all'oceano; mi è
estraneo chi, nella sua normalità e sicurezza, ha scelto d'essere un
Liri-Garigliano qualunque. E con questo procedo; scritto l'otto
maggio duemilatredici, con la porta aperta sul cortile.
martedì 7 maggio 2013
Hanno sbagliato Castro
Inutile fare: negli Stati Uniti d'America, quando c'è di mezzo Castro, perdono la testa e non ne azzeccano una. Ad esempio, hanno perso quasi sessant'anni a dar la caccia a quel Castro qua sopra nella fotografia, insomma Fidel Castro, quando invece le ragazzotte gliele rapisce Ariel Castro. D'accordo che i nomi sono parecchio simili (basta mettere Ari- al posto di Fid-...), che anche il Castro dell'Ohio ha dei fratelli e che, di certo, non si può mettere l'embargo su Cleveland; però, sarebbe meglio che guardassero un po' di più a casa propria invece che a Cuba. Anche perché la ragazza bianca, rapita dieci anni fa, che è riuscita a liberarsi e a dare l'allarme grazie all'intervento di tale Charles Ramsey, vicino di casa nonché negro, ha pensato bene di fare un gesto più che normale in una situazione del genere: si è buttata tra le braccia del suo liberatore. Il quale, nella prima intervista che gli è stata fatta, ha pronunciato una frase che rischia seriamente di passare alla storia:
" Something's wrong... when a pretty little white girl runs to a black man's hand something's wrong here. "
" C'è qualcosa che non va...quando una bella ragazza bianca si butta nelle braccia di un negro, c'è qualcosa che non va. "
Qualcuno, magari, potrebbe andare a dirlo a Yoani Sánchez, e anche a qualche "libertario" italiano del cazzo, tanto che c'è.
lunedì 6 maggio 2013
A volte piace pensare
Persino quelli di Wikipedia si erano ormai convinti che fosse immortale (così compariva la pagina fino a pochi minuti fa, dandomi modo di fare uno storico scrìnsciot). Come il "Numero Uno" di Alan Ford: c'era da sempre, ci sarebbe sempre stato. E invece
bòrda n' i' culo !
A volte piace pensare d'aver portato una discreta scalogna a qualcuno.
Pochi giorni fa, quando si eleggeva il presidente della Repubblica, quel signore là sopra con gli occhialoni era riuscito, infatti, a prendere un voto. Come Rocco Siffredi.
In quell'occasione avevo ipotizzato che vi potesse essere qualche sorpresina (non si sa mai!). Poi sappiamo tutti com'è andata.
E' passata solamente una ventina di giorni.
Ora mi godo prima i cordogli, perché lo spettacolo dei cordogli italiani è imperdibile.
Poi, naturalmente, inizierà un conteggio accurato di coloro che dichiareranno: Lo sa solo lui quanti segreti s'è portato nella tomba!
Prevedo anche un'antologia televisiva delle sue famose battute.
Vo alla televisione. Frittata di cipolle, Peroni ghiacciata e rutto libero!
domenica 5 maggio 2013
sabato 4 maggio 2013
Dorando
Nella foto si vede un'anziana signora greca, quella con la canottiera coi delfini, ricevere un sacco di patate da due graziose nazifasciste di Alba Dorata. Così vedete bene pure come si scrive per davvero in greco, con il particolare del "sigma" maiuscolo che riproduce esattamente la grafica delle SS.
Le distribuzioni gratuite di cibo ed altri generi di prima necessità organizzate da Alba Dorata hanno un gran successo. Pochi giorni fa, ad esempio, ne è stata organizzata una direttamente nella piazza principale di Atene, Platia Syndàgmatos (cioè, si badi bene, "Piazza della Costituzione"). Davanti al parlamento greco, insomma. Una distribuzione, come sempre, riservata esclusivamente non ai "cittadini greci" (ché "cittadino greco" potrebbe essere anche un giapponese o un africano), ma a coloro che, carta di identità (Δελτίον Ταυτότητος) alla mano, potevano dimostrare di essere greci di razza e di nome. La cosa non è andata giù al sindaco di Atene, che ha vietato l'iniziativa e ordinato alla polizia (nota per l'adesione quasi in massa a Alba Dorata) di scioglierla; rimediandone, sembra, parecchi cazzotti dai giovinotti in maglietta nera.
Il problema, però, non è questo.
Il problema è che in fila, a ricevere gratuitamente pane, carne e tsoureki (una specie di pandolce tipico della Pasqua greco-ortodossa) c'erano migliaia di persone.
Migliaia di persone che non hanno, praticamente, più niente per comprarsi un po' di carne e persino il pane (figurarsi, poi, il pandolce). Disposte a far la fila sotto un sole che, a Atene a fine aprile, picchia già sodo. Disposte a andarsela a prendere anche da Alba Dorata, e a mostrare la carta di identità per dimostrare di essere "greci".
La domanda d'obbligo è la seguente: saranno tutti nazisti? E, voialtri, sì proprio voialtri, che avreste fatto?
Un'altra domanda abbastanza d'obbligo è questa: di chi è la colpa di tutto questo? Ricominciamo, per favore, a usare termini molto semplici. Se ne ha fin qui delle profondissime e originali analisi. E anche dei bimbiminkia "alternativi" (bimbiminkia che, non di rado, hanno i capelli bianchi) che giocherellano a confutare, con arzigogoli vari, il vecchio, caro senso comune. Il quale esiste ancora e, sovente, ha perfettamente ragione.
Così, nei ragionamenti di questi coglioni (li riconosci quasi sempre dalla frequenza del nome "Keynes" nei loro interventi) è vietato dare, ad esempio, la colpa alle banche. Troppo banali, le banche; forse perché qualcuno di loro ci lavora dentro, quando non è impegnato a "distruggere lo stato" pigliandone però un regolare stipendio a fine mese.
Oppure, guai a nominare "troike", istituzioni "europee", governi vari, parlamenti e quant'altro. Cazzo, troppo elementare! Bisogna, invece, lanciarsi in ragionamenti a monte, risalire al pleistocene e, soprattutto, esprimersi in un linguaggio da finto conoscitore degli argomenti sui quali si pontifica.
Nel frattempo, tra un governo Letta "con le donne" (un brand infallibile, attualmente), un paio di suicidi al giorno quando va bene e un voto per il comico di turno (che non è necessariamente Beppe Grillo), le file si ingrossano. Dorando dorando, tutto questo sta producendo nazismo; perché il risalir risalire di questi signori, evidentemente, salta sempre il 1933.
Per chi voteranno, quei greci là in fila? Per chi dà loro da mangiare, o per chi glielo toglie?
Vogliamo continuare a stigmatizzare, tra un'analisi e quella dopo (una più originale, radicale, alternativa e pungente dell'altra, naturalmente subito diffusa su Facebook e/o sinteticamente twittata), scandalizzandoci per il razzismo, mentre, dorando dorando, quelli si ingrossano e ingrossano?
Vogliamo continuare a manifestare solidarietà all'elegante e progressista Boldrini, oppure entrarci dentro, a quei parlamenti di merda, in Grecia, in Italia e altrove? E buttarli tutti fuori, una volta per tutte, senza farci incantare dai "voti di protesta" che si rivelano, come è ovvio, la solita inutile fuffa?
Vogliamo continuare coi nostri carabinieri eroi?
Vogliamo continuare con le "generazioni che hanno perso"?
Vogliamo continuare con queste e altre cose?
Benissimo. Non resta, allora, che prepararci, prima o poi, a fare la fila pure noialtri. A mostrare la nostra carta di idendità per dimostrare di essere "italiani di razza". Ciomp ciomp. Le patatine. La braciola affettata. Il panettone a Natale. Buon appetito, poveracci. Eja, eja, alalà!
giovedì 2 maggio 2013
Dolce ritorno alla normalità
È così bello tornare alla normalità, minchia.
Via i titoloni a centododici colonne dalla homepage di Repubblica. Via gli inviti a "non abbassare la guardia". Via i troncamenti della viulenza di Gasparri, zittito (ahahaha!) da un carabiniere. Via l'eroica fìgghia con tanto di mammamòrta®. Via tutto quanto: come prevedibile, è durato lo spazio di pochi giorni; il Preiti annuncia che voleva prima suicidarsi e, fra un po', chiederà l'immancabile perdono. Perché l'Italia è terra di perdoni; per un perdono si potrebbe persino arrivare, che so io, a ammazzare.
Un'iniezione di normalità, dopo tanto bailamme, ci voleva. Ed eccola, puntuale: finalmente siamo tornati al caro, vecchio, rassicurante
suicidio.
Come ci informa sempre Repubblica, sebbene in un articoletto relegato nei bassifondi, oggi la normalità è stata recuperata. Un altro dramma della disccupazione (sic, col consueto refuso dei dislessici che redigono l'edizione online del quotidianone). Il carpentiere N.C. -stavolta non si fa nemmeno il nome-, di anni 62, si è impiccato in casa sua, a Matinella di Albanella (Salerno), perché non trovava più lavoro. L'articolista di Repubblica riesce, comunque, a raggiungere comunque un apice: dopo essersi premurato di nominare il disoccupato suicida soltanto con le iniziali, verso la fine dell'articolo riporta il manifesto mortuario fatto preparare dalla famiglia, con tanto di cognome (Carrano). Favoloso.
Manifesto mortuario nel quale la famiglia Carrano accusa lo Stato per il suicidio del congiunto. Sono questi i gesti che piacciono a Repubblica: il più rigoroso suicidio per disperazione, e l'atto d'accusa della famiglia verso un non meglio precisato Stato. Solo che, allo Stato, del tuo suicidio non gliene frega assolutamente un cazzo. Nada de nada.
Quindi, ti puoi tranquillamente impiccare a Matinella di Albanella; oppure, meglio ancora, darti fuoco davanti a Montecitorio. Naturalmente ve ne siete già tutti dimenticati di Angelo di Carlo, il disoccupato di Forlì che l'11 agosto 2012 si è dato fuoco proprio nello stesso posto dove il Preiti ha sparato: davanti a Montecitorio, appunto. Quello andava bene. Quello suscitava commozione. L'agonia di otto giorni prima della morte. Insomma, la conclusione è questa: per essere ammesso nel rango dei buoni "accusatori dello Stato", non hai che da ammazzarti. Ammazzarti lo puoi fare senza problemi anche davanti a Montecitorio; non avrai le nove colonne sul giornale, ma non avrai nemmeno le accuse di "terrorismo". E avrai, soprattutto, tante, tante, tante làgrime.
Se però davanti a Montecitorio ci vai con una pistola e spari, hai voglia poi a dire che "prima volevi suicidarti", come sta dicendo ora -sembra- il Preiti. Eh no, ciccio, non funziona. Se volevi far parte dei bravi suicidi per disoccupazione, ci avevi a pensare prima, perdìo. Andavi a Montecitorio e ti davi fuoco. Oppure ti impiccavi in casa come il carpentiere salernitano, che s'è rimediato pure una bella accusa allo Stato post-mortem. Ora sei nei cattivi, e ci resti. Sei tra i terroristi. Il tuo disagio sociale lo hai espresso sparando, giustappunto, allo Stato. Ti sarai reso conto del casino che hai combinato, e della fifa blé che hai messo addosso a parecchia gente.
La quale parecchia gente farà di tutto perché siano promossi, incentivati e coccolati i suicidi. Sono come il cacio sui maccheroni: oltre a non provocare nessun danno e nessuna paura, sono ottimi per far credere che la rabbia monti, mentre non monta assolutamente una sega. Al massimo montano l'audience della Vita in diretta o le vendite dei rotocalchi. Il suicidio, specie se spettacolare, è una valvola di sfogo per il popolo dei bar la mattina dopo, quando si commenta "fra un po' ci s'ammazza tutti" davanti alla pastarella e al cappuccino (ottimi motivi, per altro, per rimandare il suicidio).
Facendo naturalmente attenzione che tutto resti nel dolce ritorno alla normalità; insomma, c'è suicidio e suicidio. Impìccati pure in casa, datti fuoco davanti al parlamento, ma sempre e rigorosamente da solo. I carabinieri devono arrivare a tentare di salvarti dall'insano gesto, non ad essere sparati dal folle. Devono essere eroi, non bersagli in quanto protettori armati dello Stato che poi, magari, i tuoi familiari accuseranno nei manifesti mortuari. A pensarci bene, suicidi sono stati anche quelli sugli aeroplani dell'undici settembre, no? O ve lo immaginate una squadriglia di disoccupati che dirottano un aeroplano e si buttano in picchiata su Montecitorio? Altro che lacrime. Altro che commozione!
Che tu lo voglia o no, quindi, caro Preiti, questo hai messo in moto in questo paese. Ed è per questo che al tuo gesto è stato dato tanto risalto, mentre a quello del carpentiere salernitano è riservato un articolino sega con tanto di refuso. Sei stato un cattivo disoccupato; magari hai persino ricordato a qualcuno, tirandoglielo fuori da qualche pertugio del cervello, che qualche disoccupato in più che spara potrebbe fare, che so io, la lotta di classe.
Iscriviti a:
Post (Atom)