domenica 26 maggio 2013

Avere o essere


C'era una volta il femminicidio.

La sua parabola è durata poco; giusto il tempo di diventare di moda, suscitare “indignazione”, produrre qualcuna delle solite stronzate di “Repubblica”, un goccio di SNOQ, una puntina di Boldrini, e qualcos'altro. C'era un sito, Bollettino di guerra, che teneva la conta annuale; ora si è trasformato, con una scelta che non ho ovviamente nessun diritto né dovere di sindacare, in un resoconto degli omicidi di genere. Ignoro se, prima o poi, il vecchio femminicidio sarà stabilmente sostituito dal genericidio; il fatto è che, in tutto questo rigirarsi di parole nuove che diventano vecchie in un'amen, restano i fatti di ogni giorno. Davanti ai quali, oramai, si allargano le braccia dopo una dose più o meno cospicua di terrificante e desolato stupore. In quell'allargare le braccia, si riconosce non soltanto la propria impotenza; si riconosce una sconfitta. In tutto ciò, oltre a tutto, si corre il rischio di non riconoscere più la cosa principale: la morte violenta. L'interruzione. Il possesso che uccide, perché almeno spero che a qualcuno in più sia chiaro che non deve entrarci il cosiddetto amore. Non è l'amore che uccide, è il suo surrogato così com'è passato attraverso le leggi, le strutture e le imposizioni sociali e psicologiche della merce. Si butta via una persona, semplicemente, così come si butta via un oggetto usato; oppure la si distrugge quando non la si può avere. Tutto, desolatamente, qui.

Sono abituato a ragione sopra me stesso. Ad esempio, mi accorgo che a lungo, qua dentro o altrove, non ho più parlato di queste cose. Nonostante i due o tre femminicidi quotidiani che accadono in questo paese; e quand'è che scatta il meccanismo di riparlarne? Quando viene ammazzata, in modo atroce, una ragazzina di nemmeno sedici anni. Non quando viene ammazzata la quarantasettenne quotidiana per la quale non si vanno a cercare le foto su Facebook. Non quando viene ammazzata la vicina di casa mezza invalida. Non quando il carabiniere, il poliziotto o qualche altro maschio armato (sovente dallo Stato) sterminano mogli, figli e magari anche Dudù il cockerino tanto che c'è. No. Colpisce che una ragazzina, peraltro molto carina, sia stata ammazzata dal “fidanzatino”. Anche il Venturi, l' “Asociale” che tiene il blog, naturalmente è come tutti gli altri: clicca sul link di “Repubblica” e va a vedere sul link. Nome, cognome e fotografie; in barba ai “minori”, in barba alla “privacy”, tutto viene sbattuto davanti agli occhi perché il cocktail di morte violenta, “amore”, estrema giovinezza e bellezza è micidiale. Prima di scrivere tutto questo, ha funzionato alla perfezione anche con me. Non sarei mai andato a vedere le foto della sessantenne massacrata per centocinque euro nel borsellino, o della moglie del poliziotto tanto bravo e riservato; fra l'altro, neppure le mettono. Della ragazzina bruciata viva dal fidanzatino, sì. E sanno il loro mestiere, maledizione.

Poi, tutto l'armamentario consueto. Il paese, le finestre sprangate, il dolore che fanno puzzare di merce pure quello, che ci deve essere come un contorno al piatto forte. La morte senza confini, senza colori e senza età; e andare scrivendo con la piena coscienza del rischio di non far altro che inanellare belle parole, che già si sanno perfettamente inutili. Fumo. Diciassette, trentasette o settantasette anni; come fosse una scaletta già scritta. Le botte, le minacce, le domande se per caso viviamo trasformati oramai tutti in adolescenti assassini, quale che sia l'età che abbiamo. Tutto questo “non poter vivere” senza aver bloccato qualcun altro, senza averlo infilato a forza in una gabbia, o nel caveau d'una banca. Tutto questo rumor di lucchetti che si chiudono senza più nessuna possibilità di essere aperti; tranne la morte. Si comincia a girare per le strade con strani pensieri; si vede una coppietta di pischellini, e dopo l'iniziale tenerezza, dopo l'iniziale rimpiantino pensando ai bei tempi che furono, dopo l'iniziale sorriso, appaiono i contrafforti d'una montagna nera. Si pensa ai bombardamenti fatti di vendite, e alle propagande dell'avere, del rinchiudere, del murare. Si pensa al marketing della gelosia. Si pensa ai gadgets dell'insicurezza. Si vede quella coppietta così bella perdersi nel putridume, secondo i medesimi criteri che presiedono al possesso universale. Tutto questo, lo ripeto, messo in moto dalla sedicenne massacrata, e senza indulgere minimamente alle storie raccontate dai giornali. Scrivere e ragionare già sapendo, fin dall'inizio, che si tratta di un meccanismo in gran parte bacato.

Non so come possa funzionare. Non posso neppure fare paragoni con me stesso. A diciassette o diciott'anni ho vissuto, sulla mia pelle, alcune cose che -in base a quel che accade adesso, quotidianamente o quasi- mi avrebbero dovuto far diventare un pluriomicida; e mi guardo idealmente allo specchio dicendomi con un barlume di fierezza che non mi è mai passato nemmeno per l'anticamera del cervello, nemmeno nelle situazioni peggiori, nemmeno nel buio di una notte in Sardegna che ve la raccomando. Sembra che, ultimamente, basti una voce, un sospetto. Un messaggino SMS. Una frase scritta su qualche cazzo di social network. Vorrei allora dire che cosa significa restarsene per un'ora da solo dentro una macchina, mentre il proprietario della stessa, trentadue anni e sposato con una figlia, si sta scopando in una casa vicina la tua ragazza di anni sedici, giustappunto. La quale t'aveva detto: vado a salutarlo. Uno conosciuto il giorno prima per un passaggio in autostop. E non tornano, e lo sai che stanno facendo, lo sai benissimo. Dirsi allora che dev'essere così, che è giusto così, che siamo giovani; e starsene lì da solo senza sapere che cosa fare, in una notte d'agosto bellissima e piena di stelle. Sapendo persino il nome di quella persona, che ancora non riesce a andarmi via dalla testa nonostante pensi che ora ha più di sessant'anni e chissà che fine ha fatto. Non contenta, la ragazza il giorno dopo, come se nulla fosse, pure te lo dice senza nessun problema, incazzandosi pure al tuo minimo “ma”; e io, il sottoscritto, che non alzo nemmeno un dito. Nulla. Raccontarlo a trent'anni e passa di distanza, però, è anche un atto di giustizia verso me stesso. Molte cose sbagliate ho fatto nella mia vita; ma oggi, di fronte a simili atti di morte, voglio riconoscere a me stesso una cosa elementare. Di fronte al mondo sarei potuto apparire come un debole, persino un succube; mi rendo conto, invece, di avere avuto una forza sovrumana allora, probabilmente senza nemmeno rendermene conto. Una forza che mi ha, in gran parte, schiantato dentro ancor più di quanto non lo fossi per altri motivi che tenevo nascosti a tutti; ma vedo che, per cose ben minori, si ammazza. Si brucia. Si finisce in galera a diciassette anni facendo persino il “duro” all'inizio, e se ne riparlerà dopo le prime notti in cella, se ne riparlerà quando la festa per i tuoi diciott'anni consisterà nell'essere trasferito da un carcere minorile ad uno ordinario.

No, non riesco a capirlo. Per nessuno. Con tutte le mie cose, mi sono fatto la mia vita alla quale sono terribilmente attaccato. Sono attaccato alla persona che amo, liberamente; e quanto più le sono attaccato, tanto più deve sapere di essere, sempre, libera e se stessa. Libera in mezzo alle vicende umane; sono, sì, figlio anche di quella notte. Parecchie cose mi ha insegnato, anche se non me ne sono immediatamente reso conto. Non mi riesce, per questo, capire che cosa possa spingere una persona a desiderare la morte di un'altra per il niente. Per tasselli che il tempo ricomporrà. Per una voglia di avere che, invece, ti toglierà tutto. Rivedo il volto di quella ragazza di allora, che si sovrappone a quello della povera ragazza di Corigliano Calabro, e a quello di tutte le altre ragazze e donne mai viste né conosciute, che hanno pagato tutto il mondo e tutta la storia con la loro vita e con sofferenze atroci. Forse la soluzione sarebbe dentro noi stessi, ma si dice sempre così senza pensare alle prigioni che ci hanno costruito addosso, prigioni che ad un certo punto si autorigenerano come cellule tumorali volontarie. Che cosa resta da fare? Non lo so. Come sempre, si sente invocare altra morte; da una porzione dell'universo, continuo a invocare altra vita. Andava tanto di moda, in quegli anni di cui qui ho parlato, il saggio di Erich Fromm, Avere o essere; lo compravamo tutti. Ce lo avevo io e ce lo aveva quella ragazza. Per quel che mi riguarda, e con tutti gli accidenti terribili che la cosa ha comportato, ho scelto l'essere. Non me ne pento. Voialtri, fate naturalmente quel che vi pare; ma almeno fermatevi, anche un attimo prima, di eliminare entrambe le cose dalla vostra vita e da quella altrui. Pensateci. Buonanotte.