giovedì 31 gennaio 2013

I meccanismi della fatalità


Ieri notte, in provincia di Terni, c'era una ragazza che tornava a casa, in macchina, al paese suo. Come puntualmente informano i giornali, aveva trascorso la serata col fidanzato. Questo, da un lato, può corrispondere alla verità, sebbene non abbia alcuna importanza ai fini di quel che è accaduto in seguito; dall'altro, serve senz'altro a creare pathos. Diverso, a tale scopo, sarebbe stato se avesse trascorso la serata a lavorare, o a fare qualsiasi altra cosa.

Ieri notte, sempre in provincia di Terni, due tizi entrano in casa di un altro tizio e lo rapinano di euro 50 (cinquanta) e di un'automobile Ford Fiesta. L'automobile serve loro per scappare dopo quel popo' di poderosa rapina, e il tizio derubato chiama le forze dell'ordine. In ordine d'importanza, è molto probabile che le chiami più per la macchina che per i cinquanta euro; sembra che la macchina sia dotata di satellitare, e quindi facilmente intercettabile coi moderni mezzi tecnologici. Ne ammazza più la tecnologia, si potrebbe dire.

Sto scrivendo queste cose, peraltro senza stabilire nessun inutile "link" alla notizia di cronaca (che ho letto su un giornale qualsiasi, stamani), perché m'interesserebbe poter stabilire, anche in un singolo caso, i meccanismi della cosiddetta "fatalità". La "fatalità" non va mai in pensione, sin dai tempi in cui il fato veniva considerato superiore anche agli dèi e questi dovevano inchinarvisi, come gli esseri umani. Con il passaggio dagli dèi al "monodìo" mediorientale, le cose sono cambiate soltanto in apparenza; il Fato è stato sovente sostituito dalla sua "volontà" (o "decisione"), ma non per questo è stato abbandonato. Tutt'altro. E quando si ha il concorso tra il Padreterno e il Fato, una semplice ragazza che torna a casa, una data notte, nel suo paese in provincia di Terni, nulla può.

Così si arriva al luogo prescelto, una curva su una strada. Grazie al satellitare, infatti, i due tizi che hanno rapinato l'altro tizio e gli hanno preso la macchina, sono stati intercettati dai Carabinieri. I quali si sono messi ad inseguirli a folle velocità. Gli inseguimenti, nei film o telefilm, piacciono a tutti; sono, come si dice, altamente spettacolari. Poi hanno un'altra caratteristica: generalmente, non muore mai nessuno. Si hanno degli scontri incredibili, voli, salti, capriole, e tutti restano illesi. Addirittura le macchine continuano a andare anche se mezze distrutte. Quando però dal film si passa alla realtà, ritrovarsi fatalmente nel mezzo di un inseguimento tra guardie e ladri, può costare la vita. Infatti la ragazza della provincia di Terni, che se tornava al suo paese, si è fermata alla curva. Presa in pieno dalla macchina dei ladri di euro cinquanta inseguita dai carabinieri da euro mille, milleduecento al mese. Senza nessuno scampo.

Nell'urto, frontale, muore anche uno dei rapinatori. In questi casi, il riportatore di notizie, per qualsiasi gazzetta scriva, ha due compiti precipui. Del primo abbiamo già parlato, vale a dire verificare immediatamente dove e con chi la vittima innocente abbia trascorso le sue ultime ore di vita, con la speranza malcelata che ci sia di mezzo una relazione sentimentale. Il colpo più ambito è senz'altro la scoperta che la vittima stesse per sposarsi. Avrebbe dovuto eccetera. Il secondo compito è scoprire la nazionalità, o etnia, dei malviventi che hanno provveduto al disastro: in questo particolare caso tutto sembra essere andato come previsto e, direi, anche sperato. Albanesi. Uno di loro, quello che non guidava, muore pure sul colpo; parecchi fruitori della notizia avranno quindi pensato al pareggio. Uno a uno. L'innocente ragazza e il maledetto albanese ladro. L'altro, quello che guidava, rimane ferito ed è piantonato in ospedale accusato di rapina a mano armata, furto e omicidio.

Questi sarebbero dunque i meccanismi della Fatalità. Restano fuori, naturalmente, i Carabinieri. I Carabinieri non conoscono altro verbo che dovere. Passano la vita a dovere, senza mai potere. Potevano, ad esempio, evitare di mettersi a inseguire due disgraziati che avevano rubato cinquanta euro e una macchina, senza -almeno sembra- torcere un capello al derubato. Potevano lasciarli andare senza mettere a repentaglio tutta una serie di vite umane, comprese le loro stesse, per degli stupidi oggetti. La macchina, oramai individuata, l'avrebbero lasciata da qualche parte e sarebbe stata ritrovata e restituita al proprietario. A piedi sarebbero stati probabilmente arrestati entro mezz'ora. Sarebbero finiti nella solita galera. Invece ci sono stati due morti, un ferito grave, e il proprietario si ritrova oltretutto con la macchina completamente distrutta.

Nella percezione collettiva non si parla quasi mai di meccanismi, ma di colpa. A differenza dei meccanismi, la colpa ha il vantaggio di poter essere quantificata, percentualizzata. Posto ovviamente che la povera ragazza che tornava a casa non ne ha e non può averne assolutamente nessuna, essa dovrebbe essere divisa tra i ladri e le guardie. Ma è una divisione che è ben lungi dal poter essere messa in atto. La colpa è, e deve essere, esclusivamente dei maledetti ladri; i Carabinieri, infatti, stavano effettuando il loro preciso dovere di inseguire a centomila chilometri all'ora i ladri su una buia strada provinciale della provincia di Terni, a mezzanotte meno un quarto. Nessun ragionamento elementare, del tipo: Ehi, ma se la smettessimo di fare questa cosa, rischiando di ammazzarci e di ammazzare qualcun altro? Scalata di marcia, freno motore, cinquanta all'ora e i ladri se ne vadano coi loro cinquanta euro e la Fiesta. Le assicurazioni, carissime, che esisteranno a fare?

Invece hanno proseguito, fino ad arrivare alla fatale curva dove il Fato stava facendo passare la ragazza in senso contrario. Fine di tutta la storia. I meccanismi della Fatalità hanno agito al meglio delle loro possibilità. I Carabinieri sono, naturalmente, del tutto esclusi dalla colpa; non si pone neppure il problema, né sui giornali e né nella coscienza delle persone (si noti che non uso, volutamente, la parola gente). I rapinatori, essendosi messi nell'illegalità, devono beccarsela tutta quanta, e pagare per questo. Con la vita e con la galera. Inseguiti com'erano, e a velocità folle, dalla legalità costituita, dovevano semplicemente arrendersi; accostare da una parte e lasciarsi ammanettare e portare via. Sono, come si vede, meccanismi del tutto perversi, quelli della presupposta Fatalità; perversi, e soprattutto costantemente evitabili. 

Resta, in fondo a tutto questo, una ragazza di venticinque anni che non è più. Però non intendo minimamente creare (o aggiungere) pathos. E' il famoso singolo caso di cui si parlava più avanti, anche se non è certamente l'unico del genere che è accaduto; anzi, è successo che diversi scontri mortali siano avvenuti non con i ladri, ma direttamente con le guardie. E' accaduto anche che le guardie non stessero affatto inseguendo i ladri, ma semplicemente scortando qualcuno d'importante, o recandosi da qualche parte per un intervento, oppure passando col rosso a un incrocio per portare una pericolosissima delinquente (una prostituta ucraina) in centrale per degli accertamenti. Beccando in pieno uno scooter con a bordo un'altra ragazza, ancora più giovane di quella di Terni, e ammazzandola sul colpo. Sullo scooter c'era anche il fidanzato della ragazza; e così, anche in quel singolo caso, il pathos fu salvo.

Termina qui questa cosa che si è occupata dei meccanismi della Fatalità. Del resto, tanto per restare vagamente in tema, dicevano gli Antichi che muor giovane colui che agli Dèi è caro. In alcuni casi, evidentemente, gli Dèi, o Dio, o chi per loro, si mettono in azione per cinquanta euro, un'utilitaria, per il Dovere, e per tutta una serie di cose per le quali bisognerebbe, a mio parere, andare più a fondo anche in altri meccanismi, parecchio più terreni e volgari.

mercoledì 30 gennaio 2013

Nascono le Ricette Asociali


Se nasce un blog nuovo, bisognerà pur fargli un minimo di réclame iniziale; poi, come è ovvio, camminerà da sé. Insomma, da oggi l'Asocial Network aumenta di uno, con un blog, pensate un po', di ricette di cucina: si chiama, come dubitarne, Ricette Asociali. Da oggi, putacaso v'interessi, lo trovate anche nell'apposita sezione "Asocial Network" nel blogroll. 

Dice "Ricette Asociali": Il libro di cucina dell'Asocial Network approvato da Max Stirner. Ricette inventate, singolari, rigorosamente Monodose e Antifamiglia. Le ricette sono tutte testate su me stesso: l'Unico e la sua Cucina. Quel che vi aspetta dovrebbe essere già abbastanza chiaro da queste poche righe; viene delucidato maggiormente nel post introduttivo, che in questo primo ed ultimo caso riproduco integralmente:


" Da oggi l'Asocial Network si arricchisce: dopo il blog principale, le tregge e la gatta Pampalea, ecco le ricette di cucina. A dire il vero, l'idea mi "covava" da un bel po' di tempo; però le mie cove durano parecchio e devono passare per tutta una serie di fasi. La fase decisiva è, peraltro, sempre la solita: consiste nella domandona, ma chi te lo fa fare di aprire un altro blog? In un mondo oramai dedito a Facebook, Twitter e ad altri social networks, in effetti, la forma "blog" sta già declinando. Il blog è una pagina bianca, e la pagina bianca fa sempre più paura dato che è necessario riempirla con qualcosa che non siano gli oramai universali centoquaranta caratteri di idiozie. Io, però, proseguo imperterrito e anche nella forma che mi è del tutto congeniale: quella del totale rifiuto dell' "interazione virtuale" e della "comunicazione in Rete". Come vale per gli altri blog dell'Asocial Network, anche qui i commenti sono bloccati: se volete dirmi qualcosa, scrivetemi un'e-mail o telefonatemi. Contatto diretto e senza mediazioni zuckerberghiane. Anche per quanto riguarda le ricette di cucina.

Fatto il preambolo, parliamo brevemente di questo nuovo blog. 

Io sto da solo (con un gatto nero che va e viene liberamente, quando gli va e come gli va perché odio mettere in una gabbia qualunque essere vivente), e ci sto benissimo. Fine delle considerazioni simil-filosofiche; alla mia età, la convivenza forzata (e più o meno istituzionalizzata) con un altro essere umano mi risulterebbe assolutamente insopportabile. Naturalmente, tutto questo comporta tutta una serie di cose, tra le quali doversi fare da mangiare; e, debbo dirlo sinceramente, nonostante i miei recenti e non lievi problemi di salute sono rimasto (e rimarrò) una buona forchetta (e un ottimo bicchiere). Non crediate con questo che io mi ritenga un gran cuoco, o cucinatore; tutt'altro. Ho una specie di culto per i limiti personali, e soprattutto per la mia pienissima coscienza di averne e di accettarli. Però, tutto sommato, un po' di cose ho imparato a farle e, soprattutto, ho cercato di sviluppare, anche ai fornelli, l'arte della fantasia e dell'inventiva. Rigorosamente con le cose che ho a disposizione al momento.

Le ricette che troverete in questo blog, quindi, sono tutte create dal sottoscritto (che le ha provate rigorosamente su se stesso, con risultati non di rado orrendi alla prima...). Col tempo, e se la cosa prenderà piede, si potranno accettare anche ricette altrui, ma sempre secondo il medesimo principio. Niente è ripreso da libri, riviste, trasmissioni radiotelevisive, siti Internet o altro; le ricette qui contenute hanno da essere originali.

Un'altro principio basilare sono gli ingredienti comuni, di facilissimo reperimento e di basso costo. Qui dentro non vi sarà mai cucina "di lusso". Particolare risalto avranno gli avanzi, anche di due o tre giorni prima (se siete schizzinosi, quindi, levatevi immediatamente dai coglioni da questo blog e andate a seguire la Clerici).  Si tratta di ricette generalmente molto facili, e anche di rendimento non sempre assicurato. Del resto, ci posterò quel che garba a me e sta a voi decidere cosa fare (cosa della quale, francamente, non me ne frega assolutamente nulla). Traduzione: se sputerete tutto al primo boccone e/o i vostri eventuali commensali vi piglieranno a padellate sul muso, non pigliatevela con me.

Infine, tutte le ricette saranno invariabilmente espresse in dose singola. Per UNA persona. Questo è un libro di cucina prettamente Stirneriano: l'Unico e la sua Cucina. Sarebbe veramente ora di finirla con le dosi espresse tipo "per quattro persone": sempre la solita menata della "famiglia". A tavola si dev'essere per forza almeno in quattro: e formati famiglia, e trepperdùe, e carrellate di stronzate varie. Per questo, nell'intestazione del blog, si specifica a chiare lettere che le ricette sono "Antifamiglia". Niente cenoni natalizi, niente zii a pranzo la domenica, niente bambini rompiscatole (che, casomai, possono essere opportunamente cucinati in mille modi). Quindi, ricette Monodose. Se alle volte a tavola siete in due, raddoppiate la dose. Se siete in tre, la triplicate. Arrivo persino a dire che, se siete addirittura in quattro, la quadruplicate. Che ve l'hanno insegnato, a scuolina, a fare le moltiplicazioni? Ci riesco persino io, che sono sempre stato negato per l'aritmetica...

Non aspettatevi mai grandi cose. Io stesso sono quasi sempre molto critico nei confronti di ciò che faccio, roba da mangiare compresa. Nelle ricette saranno peraltro espressi rigorosamente e esclusivamente i miei gusti (ad esempio, sono abituato da sempre a infilare nelle pietanze quantità enormi di peperoncino, e non ho la minima intenzione di toglierlo o ridurlo). Non intendo "insegnarvi" alcunché, ma se per caso qualcosa vi piacerà ne sarò contento anche se non lo verrò mai a sapere.

Un'ultimissima cosa, sommamente importante: non è certo a caso che ci siano, qui, Max Stirner e l'Anarchist Cookbook. Qui si anarca, e parecchio, anche in cucina. Come Unico sono io, Unici siete pure voi. Più che "ricette", potrete pigliare tutto quel che ci sarà qua dentro come spunti (e spuntini, anche). In breve: fateci quel che volete. Modificate gli ingredienti, se vi va. Agite secondo i vostri gusti come io agisco secondo il mio. Introducete variazioni di ogni genere, queste sono ricette e non ordinanze ministeriali. Buttate via il Talismano della felicità e fregatevene anche della "buona cucina italiana", che è senz'altro buona ma qui si piglia l'argomento da un'angolazione leggermente differente. Eliminate quindi ogni stupidissimo nazionalismo anche dalle pentole e dalle padelle; vedrete quanti begli ibridacci ci saranno qua dentro. "

Buon appetito!

martedì 29 gennaio 2013

Missili, risarcimenti.



Fratello...
Io non nutro alcun rancore nei tuoi confronti.
Chiunque tu sia, per qualunque compito sia stato creato, qualsiasi intento nascondessi fra le tue rapide giravolte nei cieli, io semplicemente, non ti odio.
Lo so che non puoi parlare, che non puoi ascoltare.
Lo so che non hai coscienza alcuna.
Ma so che il destino ha voluto farci incontrare nell'attimo fatale che disegna il solco fra la vita e il suo contrario.
E se la tua sagoma ha sfiorato la mia, se il tuo profilo breve si è celato nel cono d'ombra del mio mantice di cavalli impazzito dal dolore e dalle ferite che solo un vigliacco poteva infliggermi. Ebbene, ironia della sorte, ora noi ci troviamo qui. Di nuovo. L'uno di fronte all'altro. Uniti per sempre da una storia che non è più soltanto la mia o la tua. E nemmeno delle ottantuno anime che da quel giorno io rappresento. No. Questa, oggi, è la storia di tutti.
È la storia di chi lavora, di chi viaggia, di chi studia, di chi si impegna e di chi si diverte; di chi opera alla luce del sole e di chi trama nel segreto di quattro mura. È storia che appartiene a tutti coloro che hanno inteso il mio e anche il tuo sacrificio. Ed è storia che si ripete idealmente ogni qualvolta un nostro fratello alato si leva al cielo, ogni volta che la sua rotta si profila nel quadrante luminoso del pannello di comando. Ogni volta che un viaggiatore si reca ignaro sulla soglia che lo separa dal vuoto.
Sarà così fino a quando coloro che sanno non decideranno di raccontare ciò che noi -io e te- abbiamo avuto le ventura di vivere sulla nostra pelle di metallo.
Fin quando la dignità di queste 81 anime -nonché quella del tuo pilota- sarà calpestata dalla menzogna e dal raggiro, noi sventoleremo le bandiere della memoria.
E se a te, fratello, non sarà dato modo, allora vorrà dire che sarò io a farlo per entrambi.
Ché per questo siamo stati chiamati a testimoniare. E, nell'oscurità dei vizi incomprensibili degli umani, a resistere.

Na stizza di munnu ti vulissi dari
Rintra li negghi ri stu celu anticu
Nu ciavuru tunnu di sti mani ranni
Rintra li vogghi ri stu viddìcu
E chianciu sinza sapiri nenti
E nenti io vogghiu sapiri
Sulu li to occhi mi ponnu taliari
Sulu li to pinseri mi ponnu tuccari. 

Cinzia Andres, 24 anni
Luigi Andres, 32 anni
Francesco Baiamonte, 55 anni
Paolo Bonati, 16 anni
Alberto Bonfietti, 37 anni
Alberto Bosco, 41 anni
Maria Vincenza Calderone, 58 anni
Giuseppe Cammarata, 19 anni
Arnaldo Campanini, 45 anni
Antonio Casdia, 32 anni
Antonella Cappellini, 57 anni
Giovanni Cerami, 34 anni
Maria Grazia Croce, 40 anni

 Na stizza di munnu ti vulissi dari
Rintra li negghi ri stu celu anticu
Nu ciavuru tunnu di sti mani ranni
Rintra li vogghi ri stu viddìcu
E chianciu sinza sapiri nenti
E nenti io vogghiu sapiri
Sulu li to occhi mi ponnu taliari
Sulu li to pinseri mi ponnu tuccari.  

Francesca D'Alfonso, 7 anni
Salvatore D'Alfonso, 39 anni
Sebastiano D'Alfonso, 4 anni
Michele Davì, 45 anni
Giuseppe Calogero De Cicco, 28 anni
Rosa De Dominicis (Allieva assistente di volo Itavia), 21 anni
Elvira De Lisi, 37 anni
Francesco Di Natale, 2 anni
Antonella Diodato, 7 anni
Giuseppe Diodato, 1 anno
Vincenzo Diodato, 10 anni
Giacomo Filippi, 47 anni
Enzo Fontana (Copilota Itavia), 32 anni
Vito Fontana, 25 anni
Carmela Fullone, 17 anni
Rosario Fullone, 49 anni

E chianciu sinza sapiri nenti
E nenti io vogghiu sapiri
Sulu li to occhi mi ponnu taliari
Sulu li to pinseri mi ponnu tuccari.

Vito Gallo, 25 anni
Domenico Gatti (Comandante pilota Itavia), 44 anni
Guelfo Gherardi, 59 anni
Antonino Greco, 23 anni
Berta Gruber, 55 anni
Andrea Guarano, 37 anni
Vincenzo Guardi, 26 anni
Giacomo Guerino, 19 anni
Graziella Guerra, 27 anni
Rita Guzzo, 30 anni
Giuseppe Lachina, 58 anni
Gaetano La Rocca, 39 anni
Paolo Licata, 71 anni
Maria Rosaria Liotta, 24 anni
Francesca Lupo, 17 anni
Giovanna Lupo, 32 anni

Na stizza di ventu mi catamia lu cori
Che è nivura di petra ri lava
N'anticchia di suli m'arruspigghia la peddi
Che mi quaria li brazza li manu lu coddu
Amuri lu sai ca lu tempu è un cavaddu
Biancu di ciuri e di razza patruna
Amuri lu sai ca lu tempu pirdutu
È russu di sangu e nun pirduna.

Giuseppe Manitta, 54 anni
Claudio Marchese, 23 anni
Daniela Marfisi, 10 anni
Tiziana Marfisi, 5 anni
Rita Giovanna Mazzel, 37 anni
Erta Dora Erica Mazzel, 48 anni
Maria Assunta Mignani, 30 anni
Annino Molteni, 59 anni
Paolo Morici (Assistente di volo Itavia), 39 anni
Guglielmo Norrito, 37 anni
Lorenzo Ongari, 23 anni
Paola Papi, 39 anni
Alessandra Parisi, 5 anni
Carlo Parrinello, 43 anni
Francesca Parrinello, 39 anni
Anna Paola Pelliccioni, 44 anni
Antonella Pinocchio, 23 anni
Giovanni Pinocchio, 13 anni
Gaetano Prestileo, 36 anni

Amuri lu sai ca lu tempu è una stidda
C'è cu lu chianci, c'è cu l'addisìa
e c'è cu lu perdi jucannu e s'annaca,
Ma io lu me tempu lu dugnu a tia.

Andrea Reina, 34 anni
Giulia Reina, 51 anni
Costanzo Ronchini, 34 anni
Marianna Siracusa, 61 anni
Maria Elena Speciale, 55 anni
Giuliana Superchi, 11 anni
Pierantonio Torres, 32 anni
Giulia Maria Concetta Tripiciano, 45 anni
Pierpaolo Ugolini, 33 anni
Daniela Valentini, 29 anni
Giuseppe Valenza, 33 anni
Massimo Venturi, 31 anni
Marco Volanti, 36 anni
Maria Volpe, 48 anni
Alessandro Zanetti, 18 anni
Emanuele Zanetti, 39 anni
Nicola Zanetti, 6 anni.


Una goccia di mondo ti vorrei dare
dentro alle nebbie di questo cielo antico
un profumo rotondo di queste mani grandi
dentro alle voglie di questo ombelico
e piango senza sapere niente
e niente voglio sapere
solo i tuoi occhi mi possono guardare
solo i tuoi pensieri mi possono toccare.

Una goccia di mondo ti vorrei dare
dentro alle nebbie di questo cielo antico
un profumo rotondo di queste mani grandi
dentro alle voglie di questo ombelico
e piango senza sapere niente
e niente voglio sapere
solo i tuoi occhi mi possono guardare
solo i tuoi pensieri mi possono toccare.

E piango senza sapere niente
e niente voglio sapere
solo i tuoi occhi mi possono guardare
solo i tuoi pensieri mi possono toccare.

Una goccia di vento mi muove il cuore
che è  nera di pietra di lava
un po' di sole mi risveglia la pelle
che mi scalda le braccia le mani il collo
amore lo sai che il tempo è un cavallo
biancofiore di razza padrona
amore lo sai che il tempo perduto
è rosso di sangue e non perdona.

Amore lo sai che il tempo è una stella
c'è chi lo piange, c'è chi lo brama
e c'è chi lo perde al gioco e si trastulla,
io il mio tempo lo dono a te.

(Testi tratti da: Ultimo Volo, Orazione Civile per Ustica di Pippo Pollina. Monologo Quarto - Canzone Quarta.)

lunedì 28 gennaio 2013

Osservazioni su alcuni piselli bilingui del XXI secolo



Sembrerebbe, a prima vista, un normalissimo barattolo di piselli da me acquistati al supermercato "Conad" di Piacenza venerdì scorso, al presso di euro 1,20 (se ben ricordo, ma ho buttato lo scontrino di cassa). Me li sono poi portati a Firenze, e intendo consumarli in un modo ancora da decidere (a tale riguardo, le possibilità sono innumerevoli). Si tratta di "Piselli di Piacenza" in quanto inscatolati da una ditta locale a partire, presumibilmente, da una produzione agricola della zona; siamo di fronte, quindi, ad un probabile esempio della cosiddetta "filiera corta", per la quale viene suggerito ad un consumatore piacentino di non servirsi di piselli prodotti in Nuova Zelanda (ed anche, di converso, ad un consumatore neozelandese di non servirsi di piselli prodotti a Piacenza). Voltando però il barattolo si ha una sorpresa che induce ad alcune considerazioni (naturalmente del tutto oziose, ma non si può mica sprecare sempre il proprio tempo parlando di beppigrilli vari):


Ecco qua. Siamo in presenza, almeno per quanto mi è dato sapere, del primo esempio di barattolo di piselli bilingui della storia italiana, escludendo naturalmente il Trentino Alto-Adige/Südtirol e la Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste: da un lato l'italiano letterario, "Piselli di Piacenza", e dall'altro il piacentino: Riviòt ad Piaseinza. Ingrandendo le fotografie si potrà notare che, mentre nella parte italiana si ha una dicitura recante la banale indicazione "lessati al naturale" (sarebbe ben difficile che ci fosse scritto "lessati in recipienti al plutonio" o roba del genere), nella parte piacentina si sottolinea la provenienza locale: "da là nossa terra" (quasi stupefacente la pressoché totale identità tra il piacentino e il portoghese, ove suonerebbe da nossa terra).

Ovviamente, le mie conoscenze della lingua piacentina sono assai rudimentali; ho però la fortuna di frequentare assiduamente, mettiamola così, una signora nativa della zona, la quale mi ha gentilmente fornito (conoscendo bene i miei interessi linguistici non certamente sopiti dall'inesorabile tempo che passa) alcune delucidazioni. La principale ci permetterà di stabilire un sorprendente legame strutturale. In italiano, "piselli" è il singolare di "pisello": un barattolo contiene naturalmente più di un pisello, indi per cui contiene "piselli" in numero imprecisato. In piacentino, invece, sembra operare ancora l'antichissima categoria del collettivo: come specificatomi intelligentemente dalla signora di cui sopra (la quale deve evidentemente saper bene dove andare a mirare, perché non si fa un'osservazione del genere così a casaccio), "riviòt" indica i "piselli" in senso collettivo. In altre parole: morfologicamente è un singolare (in quanto non munito del morfema specifico del plurale), ma indica i "piselli" in senso generale.

L'italiano letterario conosce alcuni rari esempi di collettivo: "la legna", "la frutta". Si può notare come, generalmente, si tratti di antichi plurali neutri latini "tornati all'ovile"  in quanto, a livello indoeuropeo, il cosiddetto "plurale neutro" era in origine proprio un collettivo ("l'insieme dei singoli pezzi di legno", "l'insieme dei singoli frutti"). Prova ne sia che nell'arcaicissima lingua greca classica, il sostantivi neutri richiedono il verbo al singolare: τὰ ζῶα τρέχει "gli animali corrono", alla lettera "l'insieme degli animali corre". In piacentino, la cosa sembra essere ben più diffusa se anche i "piselli" ricorrono al medesimo meccanismo (ipotizzabile anche per i ceci, i fagioli, le cipolle, le pesche, i votanti della Lega Nord eccetera).  Sfogliando il Vocabolario piacentino-italiano di Guido Tammi (Edizioni Banca di Piacenza, 1998), la cui ultima copia disponibile è stata da me acquistata alla libreria "Romagnosi" della città emiliana alcun tempo fa (causando alla commessa làgrime d'addio), alla voce riviott (non stupisca la diversa ortografia rispetto al barattolo) si hanno alcuni esempi illuminanti: mnestra col riviott "zuppa di piselli", riviott e panzëtta in ümid "piselli e pancetta in umido", riviott frësch "piselli freschi", riviott sëcch "piselli secchi", al riviott salvädag al mangian i gogn e ill pegar "i piselli selvatici li mangiano i maiali e le pecore". Il termine sembra peraltro essere un antico prestito germanico, derivato dall'antico alto tedesco rîben nel senso di "sgranare". I piselli sarebbero quindi "ciò che viene sgranato".

Ma dicevo del sorprendente legame strutturale. Nelle lingue europee di mia più o meno approfondita conoscenza, che sono nell'insieme parecchie, la categoria del collettivo è latente (se ne hanno altri esempi nei famosi plurali inglesi invariabili: sheep "pecore", deer "cervi", fish "pesci/pesce" (cioè sia nel senso dello spagnolo peces sia di pescado). Soltanto in alcune lingue il collettivo esiste ancora come precisa categoria morfologica: le lingue celtiche. Se, ad esempio, confrontiamo il nostro riviòt piacentino col corrispondente bretone, piz-bihan (ovviamente si tratta di un corrispondente esclusivamente semantico), scopriamo che si comporta esattamente allo stesso modo: è, infatti, ugualmente un collettivo (in bretone i collettivi richiedono però il verbo al plurale). Il bretone, nella fattispecie, per indicare il "singolo pisello" (vale a dire l'unità presa dall'insieme) si serve di uno speciale morfema, -enn, che viene aggiunto alla base formando un sostantivo sempre di genere femminile: pizenn-vihan "singolo pisello" (la "mutazione" di bihan in vihan in presenza di un femminile è una particolare caratteristica delle lingue celtiche sulla quale non è opportuno qui soffermarsi). E' il cosiddetto singolativo.

Ora, ritengo del tutto probabile che, anche in piacentino, per indicare un "singolo pisello" si ricorra (ovviamente coi mezzi a disposizione) ad un meccanismo del genere: così come in italiano si dice "un pezzo di legno", con tutta probabilita si avrà qualcosa come un "chicco di piselli" o roba del genere. Mi riprometto di chiedere bene alla signora piacentina che amabilmente frequento ulteriori delucidazioni, delle quali fornirò preciso resoconto. Tutto ciò sembra andare in controtendenza con quanto io stesso ebbi tempo fa ad affermare riguardo ai C'helto-Fadani (28 aprile 2009); si deve però tenere presente che la categoria del collettivo è, lo ripeto, latente e antichissima in ogni lingua indoeuropea, la quale ha provveduto autonomamente a svilupparla o comprimerla. La sua presenza nel piacentino, però, testimonia una notevolissima arcaicità del suddetto ed un tratto assai originale che trova perfetta espressione sul barattolo in vendita alla Conad.

domenica 27 gennaio 2013

Treni di sera



Dell' "Intercity" in ritardo di mezz'ora, oramai, non tengo più neanche conto. Piglio treni superstiti, quei pochi rimasti, e bisogna accettarli con calma, così come sono, coi ritardi e con le spiegazioni quasi surreali della controllora, Eh sì, ci spiace, parla al plurale aziendale si vede, a Milano abbiamo dovuto aggiungere una carrozza di prima classe perché la prima era piena e sa com'è, il tempo per fare arrivare la carrozza, il tempo per agganciarla, ci vuol poco a fare mezz'ora, e allora bofonchio qualcosa, mi gratto il solito piede, tiro fuori il Vangelo di José Saramago e mi metto a finire di leggerlo, sono arrivato a Gesù che guarisce Lazzaro e mi chiedo come sarebbe se mi mettessi una volta o l'altra, sul blog o chissà dove, a scrivere come il portoghese, senza virgolette ché alle virgolette ci ha già pensato un pezzo di merda qualche tempo fa, senza separare i periodi, lasciando fluire, scorrere, accavallarsi tutto quanto come nelle rapide d'un torrente, penso sì che potrei farlo, del resto Saramago ha di certo il copyright sui suoi libri ma mica sul modo di scrivere, quello glielo posso cercare di prendere mezza volta così per fare, per gioco, sul serio, di soppiatto, Che ore saranno chiedo a un improvvisato compagno di viaggio che mi guarda con aria strana perché dev'essere russo, o comunque slavo, e ascolta musica con le cuffie incastrate negli orecchi, si sentono dei rimbombi, dev'essere qualche cantante pop o roba del genere, e così mi tocca tirare fuori il telefono perché l'orologio da polso l'ho sempre detestato, mai portato uno nemmeno per sbaglio, una volta che una tizia me ne regalò uno lo persi senza essermelo mai messo, Parma, Reggio Emilia, ecco, Reggio Emilia. Mezz'ora dopo è partito il treno, mezz'ora dopo arriverà, inutile anche sperare che riguadagni qualcosa, Eh no, nel frattempo è salita una coppia di mezz'età che dall'accento si capisce che scendono pure loro a Firenze, lui legge la Repubblica, lei non legge nulla e s'incuriosisce al titolo del libro, il Vangelo secondo Gesù Cristo, che titolo curioso, come se lo avesse scritto Cristo in persona, Signora, beh, un po' è così, mettiamola in questa maniera, No, non è qualcosa che consiglierei a tutti come lettura, putacaso uno arda di fede dopo un po' arderebbe anche il libro, la signora sorride, in treno si legge di tutto, si fanno le parole crociate, si osservano figure umane che è improbabile rivedere, ci si gioca, la Compagna di Viaggio, i suoi occhi il più bel paesaggio ma non ci sono compagne che ispirino a tali vette anche se ci vorrebbe poco affinché degli occhi fossero più belli del paesaggio dato che è buio pesto, non si vede una sega nulla e le poche luci sono a stazioni orrende, dico ma l'avete mai vista la stazione di Reggio Emilia, uguale a quella di Arezzo o di Benevento, lo stesso troiaio, le stesse macchinette delle merendine e delle bibite, i pannelli, le partenze, gli arrivi. Di nuovo silenzio, sembra che in questo treno tutti si siano accalcati in prima classe, la seconda è semivuota, ogni tanto passa il carrellista, anche Alfredo Bandelli ha fatto il carrellista sui treni, sapete quello che passa per i corridoi vendendo panini gommosi carissimi, caffè schifoso carissimo, biscotti multinazionali carissimi, bottigliette d'acqua minerale carissime, e intanto s'avvicina la catastrofe, Gesù Cristo arrovescia tutto il Tempio di Gerusalemme assieme a una banda di pescatori, poi scommetto che lo metteranno in croce, anche se col portoghese non si sa mai, quello è capace anche di farlo scappare all'ultimo rigo e in cuor mio, sì, ci spero, potrei quasi quasi scriverla io questa storiella ma ora come ora non mi azzardo, fra poco poi siamo a Bologna e Bologna è Fumopoli, Smokeville, Rauchstadt, il treno ferma sempre cinque minuti anche se è in ritardo e si può scendere a fumare di corsa, tenendo un piede sul predellino quasi con l'illusione di trattenere il treno se per caso riparte. A Bologna il treno si riempie, è l'ultimo che passa da Firenze e sono in una strana situazione, strana almeno per chi non è abituato a viaggiare sui trenacci italiani, insomma all'andata ho lasciato la macchina alla stazione di Rifredi, e questo treno invece a Rifredi non ferma e devo andare fino a Santa Maria Novella, bisogna che becchi subito un trenino regionale che se le fa tutte, le fermate, ferma a Firenze Rifredi Lastra a Signa Empoli San Miniato Pontedera Pisa Centrale Livorno Centrale, e se lo perdo mi tocca aspettare un'altra mezz'ora, ma pensa un po' che mi tocca fare, e insomma alla fine scendo, Arrivederci signora, Arrivederci al marito, ma quale arrivederci d'Egitto, ci si augura di rivedersi quando si sa che non accadrà mai o, se per caso succederà manco ci si riconoscerà eppure mi aveva chiesto del titolo curioso del libro, ma la curiosità svanisce presto, s'innestano pensieri assurdi, Chissà se un giorno lo compra, lo legge, le piace, non le piace, si entusiasma, si indigna, lo tiene al proprio capezzale, lo butta nella spazzatura, se ne dimentica, muore. Che fortuna, il regionale non è ancora partito, anzi mi rimane addirittura il tempo di fumarmi un altro mezzo sigaro, giusto giusto quello che m'è restato nella scatola, Ma no, meglio mettersi a sedere subito, intanto il Vangelo è terminato, anche stavolta è andata come doveva andare, Gesù Cristo è stato crocifisso, gli hanno spezzato le gambe, qualcuno gli ha porto la spugna imbevuta di posca, acqua e aceto non era affatto uno spregio come ci hanno voluto, che simpatico bisticcio, dare a bere, anzi era la bevanda più dissetante che potesse esistere, si chiamava sì Posca da un'antica radice latina che vuol dire bere, come poto, pot-sca da cui posca, però non vede il sangue che gli cola in una scodella, ma raccontare la storia della scodella sarebbe troppo lungo, leggetevi il libro e se come dicevo prima ardete di fede, vorrei dirvi qualcosa di più gentile ma non mi viene e vi dirò quindi che sono cazzi vostri. Il libro dopo, quello che comincio a leggere, è giapponese, strano perché a me il Giappone sta anche piuttosto sul culo, al diavolo quel nazista di Yukio Mishima, di Banana Yoshimoto non me n'è mai fregato un cavolo, poi vediamo chi c'è, boh, però mi hanno regalato quel libro e m'incuriosisce non poco, si chiama Io sono un gatto, lo ha scritto un gatto e dalle prime due o tre pagine sembra carino. Un posto a caso, del tutto a caso, il treno regionale non è né pieno e né vuoto, come si dice, normale, mezzo e mezzo, c'è gente, chi andrà a Empoli, chi a Pontedera, chi a Pisa, chi a Livorno, io vado a Rifredi, cinque minuti, un posto del tutto a caso accanto a un ragazzo con la barba che parla al telefono con qualcuno, Sì, il libro poi l'ho comprato, ho cominciato appena a leggerlo, se ne parla quando l'ho finito, clic, conversazione chiusa, telefono appoggiato, sbircio un secondo perché lo so che è una pessima abitudine, non si dovrebbe fare, però quando specialmente sul treno mi trovo accanto a qualcuno che legge mi piglia la curiosità di vedere, capire, magari chissà, e in due secondi lo sguardo mi casca su due parole scritte su una pagina, Galinàri de l'uspèsi, ah, capisco, mi verrebbe voglia di sorridere ma me lo tengo per me, fra tutti i viaggiatori del treno mi sono andato a casaccio a sedere accanto a uno che legge il Contadino nella Metropoli di Prospero Gallinari, glielo deve avere consigliato un amico, leggi, è morto pochi giorni fa, il funerale sotto la neve, è una storia dura, e gli occhi vorrebbero non staccarsi, vorrebbero dire qualcosa ma cosa dire in un treno di sera, quando si sta per scendere, quando si è quasi arrivati, quando bisognerà fare un sottopassaggio, una rampa di scale, la macchina, speriamo che non si sia scaricata la batteria, ci ho una fame che non ci vedo, Gesù Cristo, l'Internazionale di Fortini, la notte.

mercoledì 23 gennaio 2013

La spalla del boia


Non importa dove sia stata scattata questa foto. Se in Iran, o negli Stati Uniti, o in Russia, in Giappone o in un altro degli stati dove viene applicata la pena di morte. E non importa nemmeno che sia stata diffusa da giornali più o meno di regime e asserviti a questo o quel potere. Infine, non importa (e, massimamente, non importa al sottoscritto) di immaginare le consuete ipotesi a base di foto falsificate o a bella posa per screditare questo o quello stato mostrando la sua presupposta ferocia e disumanità; si tratta di due caratteristiche proprie di ogni stato costituito, che prenda due ragazzi e li faccia impiccare per un furto oppure che piazzi bombe nelle stazioni, sui treni o nelle piazze.

Importa vedere quei due ragazzi accompagnati alla morte dai loro carnefici camuffati. Importa vedere il cappio già pronto per l'impiccagione, che si scorge in alto a destra. Importa vedere la faccia disperata del ragazzo in primo piano, tenuto da uno dei due boia. Importa vedere l'altro ragazzo che appoggia, piangendo, la sua testa sulla spalla dell'altro boia, che gli tiene a sua volta una mano sulla spalla, con un gesto che non mi riesce di definire perché sono certo che qualunque cosa dicessi sarebbe sbagliata.

Come ultimo atto di una vita breve, che sta per terminare perché uno stato lo ha deciso a norma di legge (e con l'immancabile beneplacito di Dio), un ragazzo cerca conforto presso la persona che lo sta conducendo a morire. Presso, quindi, colui che rappresenta in quel momento lo stato assassino. Presso la sola persona che, in quel momento, possa farlo: il boia. Non ho assolutamente nessuna indulgenza verso un boia, neppure di fronte ad un'immagine come questa. Che riceva o meno un compenso per la sua attività, si tratta soltanto di qualcuno incaricato di mettere cappi al collo di persone condannate per una qualche legge schifosa, coadiuvata non di rado da un dio altrettanto schifoso nella sua varietà di nomi, di "misericordie", di "perdoni", di tribunali celesti, di paradisi e d'inferni. 

Di fronte alla morte, però, si cerca un proprio simile. Uno qualsiasi. Anzi, l'unico possibile. Di fronte ad una morte imposta d'autorità, qualunque cosa si sia fatta. E' lo Stato che decide, lo Stato coi suoi assassini legalizzati e coi suoi meccanismi di sopraffazione e di morte. Allora non ti resta che andare a morire affidandoti al boia stesso, per l'ultimo gesto che ti viene riservato da essere umano; tutto questo lo si può vedere perché avvenuto in un paese che esegue le proprie sentenze capitali all'aperto, in pubblico. Bisognerà però immaginarsi anche quel che avviene nel chiuso di carceri, di caserme o di altre installazioni civili e militari; bisognerà immaginarseli sempre questi gesti. Bisognerà vederle sempre queste facce, e ficcarsele bene nella testa.

Magari prima di aprir bocca a tavola, la sera, con la propria famiglia, invocando "pene di morte" e "muri" commentando la notizia qualsiasi del telegiornale; la pena di morte condita con la pastasciutta. Magari prima di mettere una firma su un foglio, promossa da una qualche congrega organizzata di forcaioli che sarebbe bene chiamare col loro nome di assassini. E, magari, anche prima di pensare che siano cose che avvengano in un cosiddetto "stato canaglia", perché canaglie sono tutti gli stati, indifferentemente. 

Ci sarà chi, avendo visto questa foto, avrà pensato senz'altro all' "umanità del boia". Che anche il boia sia un essere umano, non c'è alcun dubbio. E', però, anche assolutamente certo che non sarà mai un'umanità che si spinge oltre; per spingersi oltre bisognerebbe presupporre una ribellione. Bisognerebbe immaginare che il tizio incappucciato, dopo che il ragazzo mandato a morte gli ha appoggiato la mano sulla spalla, lo liberasse, lo facesse scappare via. Impossibile. Lo Stato si rivarrebbe immediatamente su di lui, facendogli fare la stessa fine. Ci sarebbe già pronto un altro boia con la sua spalla. Una spalla di non si nega a nessuno, e nemmeno una corda al collo pochi minuti dopo.

martedì 22 gennaio 2013

Se di notte urlano nel ghetto


Blanca fra Santena e Venaria Reale

Piove ed il mio cuore che dimentica ogni tanto persino di pulsare
Vuole solo sudare questa notte
E comiche trasudano persino le campane
In un albergo tra Santena e Venaria Reale

Piove e siamo anime lucide quasi rassegnate a rimanere nei vivai
L'America ci attende ma noi no
Non arriveremo mai

Piove su tutte le conquiste
Che l'uomo pone in vetta alla sua etica
Dalla disperata teologia
Alla cibernetica

Popolo perché vi lamentate se di notte urlano nel ghetto
Non possono guardare tutti quanti la tv
Prima del letto

Piove questa vita ancora appesa ai fili del telegrafo
Soffia sui colossi finanziari la voce del tornado di questo nuovo secolo
Soffia sui deliri organizzati dell'epoca new age
Piove sui delitti familiari a colazione per rendere più umana l'uccisione

Popolo perché vi lamentate se di notte urlano nel ghetto
Non possono guardare tutti quanti la tv
Prima del letto

Piove su Bertusi addormentato la vita è un precipizio
Dentro cui sono cascato
Piove sulle fragili realtà che chiuse dentro al loro Germinal
Fanno la purezza su misura della loro società

Popolo perché vi lamentate se di notte urlano nel ghetto
Non possono guardare tutti quanti la tv
Prima del letto

= Davide Giromini "Redelnoir" =
Ballate di Fine Comunismo

lunedì 21 gennaio 2013

Quattordici galeotti (L'eccidio di Procchio)

 
Molti anni dopo, davanti al plotone di esecuzione... comincia così, se ben mi ricordo, uno dei romanzi più famosi della letteratura di tutti i tempi. Ciò che segue non è famoso, anzi è quasi del tutto sconosciuto. Non è neppure un romanzo. L'unica cosa che rimane, è un plotone di esecuzione; è già passato il tramonto di mercoledì 13 ottobre 1943. Schierato, il plotone di soldati tedeschi, sulla spiaggia di Procchio, all'Isola d'Elba; di fronte, quattordici uomini che sono stati costretti a scavarsi la fossa da soli. Quattordici uomini; quattordici carcerati. Quattordici uomini, quattordici galeotti. Quattordici uomini e basta. E' già calata la sera di un giorno, qualcuno dice, ancora caldo.

Procchio. Di recente, Procchio è andata nelle cronache; ma non è “salita” a nessun “onore”, come si suol dire in una delle tante frasi fatte che popolano 'sto mondo. Un “ecomostro”, stracarico dei soliti intrallazzi affaristici, che sta ora a disfarsi in pieno paese, e una parte della rovinosa alluvione del 7 novembre 2011. Paese, già; perché Procchio, con quella popo' di spiaggia meravigliosa che s'è ritrovato, negli ultimi trent'anni è diventato un paese vero e proprio; io me lo ricordo ancora in forma di dieci case, dieci magazzini, e un bivio stradale. La strada che si biforca; venendo da Campo, a diritto si va a Portoferraio e a sinistra si va alle due Marciane, quella marina e quella alta. Alberghi e campeggi, campeggi e alberghi; il minimarket, i negozi di souvenir, il noleggio di biciclette e motorini e il parco di divertimenti per due o tre mesi d'estate; il resto dell'anno, un niente che si rispecchia in mare. Arrivi da Portoferraio e, dall'alto della strada, il panorama su Procchio riesce ancora a essere mozzafiato; figurarsi per chi chiude un millisecondo gli occhi e se lo rivede com'era da bambino. Il nome è antico, addirittura latino; pare derivi dall'avverbio procul, che significa “lontano”. Secondo altri deriverebbe invece da tale Proculus, un nome proprio che, comunque, è imparentato con l'avverbio.

Mia madre aveva, nel 1943, dieci anni. Li avrebbe compiuti dopo tre giorni, anzi, essendo nata il 16 ottobre del 1933. Nonostante abbia sentito da lei ogni sorta di racconti, faccio ancora fatica ad immaginarmi l'Elba di ottant'anni fa, perché ottanta saranno a ottobre di quest'anno. La guerra, poi; sì, certo, so tutto dello sbarco alleato dato che, come mi diverto spesso a dire, pochi hanno avuto la sorte di venire da una famiglia che s'è ritrovata un intero sbarco alleato direttamente in casa. Eppure non racconto storielle: la mia famiglia, mia madre compresa, abitava tutta sulla spiaggia di Fonza; e all'alba 17 giugno 1944 le truppe coloniali dei tirailleurs senegalesi, comandate dall'ammiraglio De Lattre De Tassigny, scelsero proprio la spiaggia di Fonza come primo punto di sbarco ricognitivo, prima di lanciare la testa di ponte sulla grande spiaggia di Marina di Campo. Non sarà stata la Normandia, e Fonza non somiglia manco un po' a Omaha Beach; però voialtri gli sbarchi alleati ve li siete visti al cinema, io li ho sentiti raccontare in diretta da mia madre e dai miei zii, che erano lì. Ma questa è storia di quasi un anno dopo. La fine dell'occupazione tedesca dell'Isola d'Elba, cominciata col bombardamento di Portoferraio e con il siluramento del piroscafo Sgarallino (un morto per ogni famiglia elbana, si dice tuttora). Qui bisogna tornare all'inizio, perché questa storia non comincia all'Elba, ma in un'isola vicina. L'isola di Pianosa.


Pianosa significa galera. Ancora oggi, che la galera è stata chiusa. Ma sta ancora là. Le isole che sono state galera, e galera e basta, non se ne staccheranno mai. Hai voglia a farci i “parchi”, le “oasi ecologiche” e quant'altro; se dici Pianosa, dici carcere. Li mettevano sulle isole in mezzo al mare, e ce li mettono tuttora, perché da un'isola non si scappa; non a caso la galera più famosa del mondo, Alcatraz, era anche lei su un'isola. Non si scappa, però ci si prova lo stesso; bisogna provarci. Persino da Alcatraz, come ci ha raccontato anche un famoso film; sulle fughe, o tentate fughe, da Pianosa, invece non c'è manco un cartone animato bulgaro. Brutta cosa essere Pianosa, che nelle giornate limpide sembra quasi di poterla raggiungere a nuoto da Cavoli o da Fetovaia; a esserci voluti scappare, non ti tocca soltanto il plotone di esecuzione, ma l'oblio completo. Eppure l'occasione era ovvia: l'otto settembre 1943. La dissoluzione del paese chiamato “Italia”, in tutte le sue strutture e istituzioni. La notizia, sembra dopo qualche giorno, arriva anche alla galera di Pianosa, che peraltro è stata già occupata da un presidio tedesco; scoppia una rivolta tra i detenuti.

Qui bisogna, pare, affidarsi alla “voce popolare”. All'Elba, vicinissima ma lontanissima al tempo stesso (seppure essa stessa, in parte, una galera con l'ergastolo di Portolongone), si dice che in un giorno compreso tra l'otto e il ventitré di settembre, in Pianosa sia accaduto qualcosa di tremendo. Non se ne sa di più, anche perché gli elbani sono occupati a piangere e a seppellire, quando possibile, i trecentotrenta figli suoi silurati sullo Sgarallino davanti a Nisportino. Figurarsi se si potevano dannare più di tanto l'anima per dei carcerati; ma essere carcerato nel 1943 non può essere, credo, immaginabile. Detenuti in una delle galere più dure e inaccessibili d'Italia, e in regime ancor più duro visto che s'era in tempo di guerra; si capirà perché sto facendo una fatica tremenda nello scrivere queste cose. Non mi sono sempre reso conto, scollinando alla curva del Colle di Palombaia, quando all'improvviso s'apre davanti quel mondo in forma di mare e d'aria costellato di terre di cui Pianosa è la prima a esser vista (e la sola nelle giornate fosche), che davanti a me, davanti ai miei occhi che rimangono ogni volta spalancati di meraviglia anche se quella curva l'ho passata migliaia di volte, ci sono stati i dannati della terra. C'erano ancora quando ero bambino. C'erano ancora quando avevo vent'anni. Ci sono stati fin quando ne avevo quasi trenta. E c'erano nel settembre del 1943, vent'anni esatti prima che nascessi.

La rivolta dei dannati di Pianosa era stata domata alla svelta. Non avevano nulla, dato che uno Stato, seppur dissolto, per i galeotti rimane in funzione e in armi. Con l'aiuto del presidio tedesco, la ribellione fu stroncata nel sangue: cinque detenuti furono ammazzati sul posto. Ma non con le armi da fuoco: furono presi, legati e bastonati a morte dalle guardie e dai tedeschi. Se ne conoscono i nomi: Antonio Andreani, Lorenzo Cerrutti, Giuseppe Lo Piccolo, Luigi Maccioni e Giuseppe Tornatore. Certo, l'ultimo di quei cinque dannati si chiamava proprio così: omonimo di colui che sarebbe diventato un famoso regista cinematografico. Siciliano come lui (e come, probabilmente, Giuseppe Lo Piccolo). Chissà, qualcuno potrebbe andare a dirgli di girarci un film; potrebbe essere stato anche suo parente, vicino o lontano.

Facevano parte, quei cinque, di un gruppo di diciannove detenuti che erano stati “individuati” come capi della rivolta; in realtà, era una rivolta senza nessun capo. Una rivolta di disperati senza nulla da perdere; i quali, peraltro, si trovavano in Pianosa per reati che la Regia Procura di Lucca (dimenticavo: in uno stato squagliatosi, continuavano a funzionare anche le procure e i tribunali, tutti “regi” seppure il “re” avesse tagliato la corda) aveva appurato “non essere infamanti”. Sì, perché era stata ordinata un'inchiesta sui fatti, per quanto possa sembrare incredibile, ed erano persino state messe sotto inchiesta le guardie italiane (non i tedeschi, ovviamente). Tutte assolte in breve tempo perché gli avvenimenti erano stati fatti passare come “originati in conflitto”; la procura di Lucca, però, ad un certo punto cominciò a dubitare che i diciannove “capi della rivolta”, tra cui i cinque bastonati a morte, fossero stati presi a caso. Uno qui, uno là. Il confine tra il bastone che ti ammazza e il restare vivo affidato al puro caso, o all'ambarabà cicciccoccò di qualche assassino in divisa. Tutto fu chiuso rapidamente, anche perché il bagno penale non aveva, dopo di allora, subito altri turbamenti. Disciplina durissima, pane e acqua se c'erano, e botte quotidiane elargite in santa comunanza da italiani e tedeschi. Cinque ammazzati; seppelliti in fretta e furia sull'isola, con le usuali croci numerate dei carcerati (se ne conoscono i nomi dai registri). Ne restavano quattordici; feriti, febbricitanti, senza mangiare e senza bere. Anche di questi, i registri riportano i nomi. Con la provenienza e l'età di ciascuno di loro.

Marino Caceffo, di Verona, cinquantasei anni. Michele Franchina, di Castell'Umberto, provincia di Messina, quarantacinque anni. Pietro Albanese, di Petralia Soprana, provincia di Palermo, quarantatré anni. Gino Lucca, di Firenze, quarantatré anni. Guido Lucca, di Firenze, fratello di Gino, quarant'anni. Carmine De Rosa, di Quindici, provincia di Avellino, quarant'anni. Antonino Giarrizzo, di Adrano, provincia di Catania, quarant'anni. Giovanni Capasso, di Somma Vesuviana, provincia di Napoli, trentanove anni. Luigi Chizzoniti, di Radicena, provincia di Reggio Calabria, trentanove anni. Edoardo Moramarco, nato al Cairo in Egitto, trentanove anni. Mario Carlo Beraud, di Oulx in Valsusa, provincia di Torino, trentasette anni. Emanuele Fazio, di Palermo, trentacinque anni. Giuseppe Polimeni, di Cerosi, provincia di Catania, trentadue anni. Antonino Violante, di Rosali, provincia di Reggio Calabria, trentuno anni. Cinque siciliani, due calabresi, due toscani, due campani, un veneto, un piemontese e un egiziano. Nessuno al di sotto dei trent'anni, forse perché per finire a Pianosa era improbabile essere ragazzini. I registri sono depositati all'Archivio Storico del Comune di Marciana, di cui Procchio fa parte; lo stesso Archivio che conserva la nota stilata dalla stessa direzione del bagno penale, in cui si specifica che “I quattordici detenuti furono prelevati per ragioni ignote anche alla Direzione degli Stabilimenti Penali di Pianosa”.

Prelevati. Feriti, ammalati, affamati. Sotto la sorveglianza di un maresciallo italiano, furono presi dai soldati tedeschi e fatti marciare da un capo all'altro dell'isola, per trovare un posto dove rinchiuderli separatamente; non avendone trovati di acconci, furono fatti salire in catene su un rimorchiatore, e infilati nella stiva come merce. Ora, però, bisogna pensare che un rimorchiatore, in realtà non ha nessuna “stiva”; lo spazio interno è occupato dalle macchine, dai serbatoi di carburante, dai pozzetti dei cavi di rimorchio, con una temperatura infernale. Furono sistemati lì. Il settembre del 1943 era, inoltre, caldissimo. Rotta all'Isola d'Elba; ad un certo punto, per non farli morire asfissiati, gli aguzzini stessi li tolsero da dove stavano e li fecero salire, sempre incatenati, in coperta. Avevano fatto credere loro che li avrebbero trasportati al carcere di Portolongone; i detenuti ne furono sollevati, quasi felici. Rispetto all'inferno di Pianosa, persino Portolongone doveva apparire come un luogo desiderabile. La cosa singolare è anche anche i soldati tedeschi, che avevano prelevato i quattordici detenuti senza nessun motivo, erano -sembra- intenzionati a portarli al forte di San Giacomo; e, in effetti, vi furono condotti, a piedi, e fatti entrare nell'androne. Vi rimasero delle ore, finché il direttore del carcere, che non ne sapeva assolutamente nulla, non decise di respingerli. Galeotti rifiutati da una galera. Il direttore disse che non c'era da mangiare per loro. Furono quindi fatti ritornare al porticciolo e ributtati sul rimorchiatore, che riprese il largo; rotta non si sa dove. Per giorni e giorni il rimorchiatore vagò un po' costeggiando l'Elba, un po' spingendosi in mare aperto; tutti, tedeschi e detenuti, stavano in coperta. Il periplo dell'isola fu effettuato non si sa quante volte, coi viveri che cominciavano a mancare; finché non fu deciso, finalmente, l'attracco a Portoferraio distrutta dal bombardamento di pochi giorni prima. Era il 29 settembre 1943.

Per rinchiuderli, fu deciso di ricorrere al Forte della Linguella: un bastione mediceo ottagonale che, decine e decine di anni prima, era stata la tomba in vita dell'anarchico Passannante, che aveva fatto una scalfittura a re Vittorio Emanuele II. Tant'è che, ancora oggi, gli elbani chiamano quel bastione “Torre di Passannante”, e così anch'io l'ho conosciuta per la prima volta da bambino pensando che “Passannante” si chiamasse quella zona di Portoferraio. Parecchio tempo dopo imparai che Passannante, invece, era un anarchico; e che gli anarchici li pigliavano, li rinchiudevano nelle torri e li lasciavano lì per dieci o vent'anni nello sterco e in mezzo metro d'acqua di mare fissa. Finché non diventavano pazzi (anzi, pazzi lo erano già perché anarchici) e morivano in manicomio criminale, a Montelupo. Quando morivano, gli staccavano il cervello e lo mandavano alla Specola o a Cesare Lombroso. In quella torre decisero di rinchiudere i galeotti rivoltosi di Pianosa, il Caceffo di Verona e i Lucca fiorentini. Il Giarrizzo di Adrano e il Beraud valsusino. Solo che la Torre di Passannante, pure lei, era stata bombardata; ed era mezza crollata. Non c'era posto per quattordici galeotti. Respinti anche dalla seconda galera; dalla prima per mancanza di viveri, dalla seconda per mancanza di spazio. Bisognava trovare un'altra galera, ma di altre galere non ce n'erano a meno di non far ripigliare il mare a tutti quanti per altre isole lontanissime, la Gorgona o la Capraia. Basta mare; catene e piedi. Piedi e catene. In fila e marciare mentre 'sto settembre bolle ancora come fosse metà luglio. Mentre bombardano.


Pianosa si chiama così perché è piatta come un vassoio. L'Elba, invece, è tutta una montagna. Piedi e catene, catene e piedi; alla fine, basta, non possono più andare avanti né galeotti né aguzzini. Di nuovo al rimorchiatore, e di nuovo in mare. Quella lunare e spaventosa comitiva, vittime e assassini insieme sulla stessa carretta, torna a vagare senza meta; a un certo punto finiscono i viveri a bordo, e tutti si mettono a pescare. Può darsi che le vittime e i carnefici comincino pure a discorrere, ché la differenza delle lingue non è mai stata un problema; del resto, fra loro stessi, sarebbe stato ben difficile che un veronese si capisse alla prima con un calabrese, o un valsusino con un palermitano. Vorrei persino spingermi a dire che, in quella situazione pazzesca, senza una ragione, ad un certo punto del vasto mare tutti si siano dimenticati del perché stessero su quel battello che arrancava. Che a tutti fosse presa la voglia di far rotta verso il continente, e via. Tornare a Rosali, a Firenze, a Radicena, persino al Cairo. O in qualche ignota plaga della Pomerania o del Mecklemburgo. Al diciassettesimo giorno di giri nel niente e di galere che non volevano galeotti, invece, un sottufficiale tedesco pensò che, forse, era meglio tornare dov'erano partiti. A Pianosa. Non ci volle molto per tornarci; l'isola era già in vista con la sua galera, e stavolta non ci potevano essere dubbi che i galeotti sarebbero stati accolti: per forza. C'erano già. Era il loro carcere di assegnazione. A meno di un miglio dal porticciolo di Pianosa, però, il rimorchiatore, dopo diciotto giorni di navigazione quasi ininterrotta, diede forfait. Un guasto. Che parve riparabile, al momento; tutti quanti, detenuti compresi, di misero al lavoro per smontare la macchina in avaria. Però il tempo era cambiato all'improvviso; il vento s'era messo a maestrale, presagendo l'autunno. Il rimorchiatore, con la macchina smontata, non era più governabile e il timone non pescava; e non s'è mai visto un rimorchiatore a vela. La macchina non veniva riparata e la nave andava alla deriva; furono alzate le bandiere di soccorso, e arrivò una motobarca dall'Elba.

Data la situazione, i detenuti furono riuniti e fatti salire sulla motobarca di soccorso, sotto stretta scorta armata. Terminato all'improvviso il barlume di fraternizzazione, se mai c'era stato. Di nuovo tutti al loro posto: le guardie armate e i dannati sotto punteria, in catene. La lancia, per le condizioni del mare che cominciava a ingrossarsi, non poteva arrivare in Pianosa con più di venti persone a bordo; fece quindi rotta verso il porto più vicino dell'Elba. Marina di Campo. Dove, in quel momento del 1943, già erano viventi mia madre, i miei zii, le mie zie, la mia bisonna Giuseppa. E decine di altre persone che ho conosciuto, con cui ho parlato, che ho toccato e sentito respirare. C'era già tutta la mia memoria mentre quei disperati sbarcavano, presumibilmente al molo dopo aver doppiato punta Bardella e visto la spiaggia di Galenzana. Ma nemmeno a Marina di Campo esistevano carceri; e tutti ricominciarono a vagare senza meta. Prima per il paese, poi per le campagne. Al Crino, al Vapelo, al Formicaio, alla Piastraia; il sottufficiale tedesco, ad un certo punto, ordinò al maresciallo dei Carabinieri di trovare una sistemazione per la notte. Fu trovata una stalla. Probabilmente in quella notte fu deciso il destino di quelle quattordici persone in catene.

I tedeschi non ne potevano più. I galeotti si erano addormentati, sfiniti; probabilmente non avevano la minima intenzione di tentare la fuga, e non ne avevano più nemmeno la forza. D'altronde, una stalla non era una galera; bastava tirare un calcio a una porta malandata tenuta con lo spago; arrivò anche il maresciallo dei Carabinieri, quello che aveva reperito quel posto. Ci fu, verosimilmente, un confabulare mentre i detenuti dormivano.

Furono svegliati all'alba; era il ventesimo giorno dal loro prelevamento dalla Pianosa. Mercoledì 13 ottobre 1943, una giornata che, dopo un assaggio di autunno, s'era rifatta calda. I quattordici furono rimessi in marcia; ma, stavolta, verso l'interno. Uscirono dal paese e presero la carrareccia per Portoferraio; arrivarono, dopo due ore di cammino, a Procchio. Qui, finalmente, furono condotti sulla spiaggia; era quello il posto deciso dopo il confabulare notturno tra i tedeschi e il carabiniere. Bisognava farla finita. Sbarazzarsi di quel carico di bestiame il quale era stato portato via non si sa per che cosa. Una volta sulla spiaggia, però, quei quattordici uomini pensarono di poter chiedere un altro po' di riposo dopo la marcia nel sole; fu loro accordato. Quando furono svegliati, nel pomeriggio, furono consegnate loro delle pale e delle vanghe. Attrezzi di lavoro. Bisognava scavare; fu fatto loro credere che si trattava di una trincea. Del resto, uno sbarco era possibile; credettero che, in mancanza di un carcere, fossero stati assegnati alla guerra. Una trincea, poi magari dei reticolati, altre opere; lavorare. Finito il lavoro, furono di nuovo incatenati; ma sul bordo della fossa che avevano essi stessi provveduto a scavare. Finalmente capirono.

I soldati furono fatti prima allontanare, poi tornarono con dei mitra e si schierarono.

Due raffiche a distesa.

Forse, se avessero potuto, avrebbero ordinato ai galeotti persino di ricoprirsi, da soli, i loro cadaveri. Toccò, invece, farlo a loro. La sabbia della spiaggia di Procchio. Le barche alla fonda. Una vecchia paranza arenata. La notte.

*

Chissà, può darsi che vi stiate chiedendo se la storia che ho raccontato è vera.



Rispondo che mi piacerebbe che non lo fosse. Che, in una notte di gennaio, mi sia venuta in mente una storia come ne ho fabbricate altre; no. Non è così. Lo chiamano l' “Eccidio di Procchio”, e se ne ha da un po' sommaria notizia persino su Wikipedia (coi nomi dei detenuti massacrati). Non ne avevo mai saputo niente fino alla scorsa estate, quando me ne aveva fatto mezza parola un giovane amico e compagno anarchico di terre lontane, innamorato dell'Elba; cosa avvenuta proprio a Procchio, una sera d'agosto. Questo giovane amico sappia che io non dimentico nulla di ciò che mi viene detto. Neppure una parola. Mi ci vogliono poi mesi, e a volte anni, per elaborarla e cavarmela fuori dalle viscere; ma vorrei ringraziarlo qui, con un abbraccio e con la promessa di rivedersi presto all'Elba.



Eppure sembrerà magari strano che proprio il sottoscritto non abbia, fino a pochi mesi fa, mai saputo nulla di una storia del genere; ma è così. Mai sentita da nessuno, all'Elba. Rimossa. Non una lapide, non un ricordo qualsiasi che sia uno, almeno a mia conoscenza; poi, mi auguro, potrò sbagliarmi. Uno dei tipici casi in cui si amerebbe parecchio essere smentiti. Del resto, è una storia di carcerati; non ci sono, qui, partigiani o resistenze. Non ci sono nemmeno i civili massacrati dalle orde nazifasciste; Procchio non è Marzabotto, non è Sant'Anna di Stazzema, non è il Padule di Fucecchio. E' una spiaggia dove furono ammassati quattordici detenuti sul bordo d'una fossa. Quattordici delinquenti, e delinquenti rimangono anche se ammazzati dai tedeschi in un giorno del '43.


Raffaello (Raffaele) Brignetti.


Ci sono dei documenti nell'Archivio Storico del Comune di Marciana, però. E, soprattutto, c'è la testimonianza di Giulio Caprilli. Aveva quindici anni quando venne a conoscenza di quel che era accaduto; scrisse un racconto, in una rara edizione, intitolato: La ritrattazione. Quel che ho raccontato, quindi, non è quasi in niente farina del mio sacco, né ho intenzione di farla passare per tale. Stralci del racconto si trovano qua; se avrete la bontà di leggere tutto quanto, vedrete pure che qualche parte del mio racconto è stata ripresa quasi di peso da quello, bellissimo, di Giulio Caprilli. Il quale fu poi commentato da uno dei più grandi scrittori che l'Elba abbia avuto: Raffaele Brignetti, detto Raffaello. Dato che il sottoscritto non corre certamente il rischio d'essere ricordato come tale, si può permettere anche il lusso, una sera sfociata in una notte, di fare una specie di “collage” per parlare d'una cosa che ignorava del tutto fino a ier l'altro. E anche quello, verso mezzanotte, di pigliare il telefono, chiamare quella incallita tiratardi di sua madre e di chiederle se, per caso, sapeva qualcosa di quattordici detenuti della Pianosa che erano stati ammazzati sulla spiaggia di Procchio un giorno d'ottobre del '43. Sapeva tutto. Non me lo aveva mai raccontato. E mi dice anche che la zia Clara sa tutto, che sapevano tutta quanta la storia a Campo, a San Piero, a Sant'Ilario. Sento, al telefono, i berci di mia zia: “ma senti te, ma senti te, ma dove l'ha scovata...?”



Non l'ho scovata; stavolta sono stato scovato io. Ciononostante, penso che questa specie di “centone” malfatto potrebbe essere di una qualche utilità; e qui mi tiro un paio di nocchini da solo e ricorro ad uno dei più triti artifici che esistano per chiudere un racconto. Quello del “viandante”. Ma dove diavolo esisteranno, al giorno d'oggi, i viandanti? Eppure, mi toccherà andare a finire così. Se dunque codesto famoso viandante, che magari potresti anche esser tu mentre ti fai un bel bagno la prossima estate, si trovasse sulla spiaggia di Procchio, ci pensi un istante. Pensi a com'è stata vista quella stessa spiaggia da quattordici dannati, un lontanissimo giorno d'ottobre. Pensi alla raffica, e alla luce che si spegneva su quelle onde dove ora un bambino gioca con la sua palla.



domenica 20 gennaio 2013

Un fiore rosso nella neve


L'ultima volta mi è successa un mese e mezzo, due mesi fa. Una sera d'autunno che ero andato a vedere un concerto alla casa del popolo in piazza; suonava e cantava la nipote della chitarra ammazzafascisti, o se si vuole la figlia del ristorante di Alice. In piazza non c'è naturalmente verso di parcheggiarla, la macchina; e, quella sera lì, nemmeno al belvedere là sotto. Sarà stato sicuramente per la Sarah Guthrie, senz'altro; peccato, perché due passi da solo al belvedere mi fa sempre piacere farli. E' probabilmente il più bel panorama di Firenze che si possa vedere, e poi do sempre un'occhiata a una panchina in pietra che mi ricorda una fotografia andata persa chissà dove.

Non resta che andare verso il cimitero, per una stradina poco più su; prima o poi, anche inventandoselo, un posto lo si trova. Non c'è assolutamente nessuno, in quella strada che a un certo punto quasi si perde tra le colline; il cancello del cimitero è ovviamente chiuso. Per forza. Sono oltre le nove di una serata d'autunno, e non conosco cimiteri aperti a quell'ora; però mi fermo due minuti davanti al cancello serrato. Mi capita sempre quelle poche volte che ci passo, così a pensare. Con gli anni che passano, poi, mi succede di collegare sempre più spesso i luoghi ai pensieri; se mi trovo in un dato posto, so già che penserò a una data cosa.

Infatti, là fermo per quel breve lasso di tempo, pensavo alla solita cosa. Al fatto che non sarei entrato nemmeno se il cancello fosse stato spalancato. Al fatto che il fiore, o il gesto, o qualsiasi altra cosa, era e doveva restare soltanto quello stare là fermo, senza entrare. Non spingermi oltre, perché ce n'è voluto di tempo prima di capire che il limite e la chiarezza sono fratello e sorella. A dire il vero, non pensavo nemmeno che ci sarei riuscito; invece devo essere davvero cambiato. Forse per questo avevo anche una specie di sorriso, mentre fumavo tenendomi una mano in tasca del giubbotto mezzo sdrucito. Più in là non si va, Riccardo. Il tuo mondo e la tua storia te la costruisci con quel che sei e quel che vivi. Entri, giustamente, chi appartiene per sguardi, e per voci, e per azioni.

Così lassù sotto la neve in un sabato di gennaio. C'era chi ci doveva essere, a quella fine di una storia. Ma non finisce la storia, e un suo pezzo infinitesimo riguarda e deve riguardare anche chi non c'era e non ci doveva essere. Anche me. Nei miei modi, forse strampalati e fuori da ogni dogma; ma le strade, alla fine, finiscono per incontrarsi. Allora potranno aprirsi i cancelli, anche a sera tardi, anche cercando un povero parcheggio per una macchina scassata, in una strada di collina. E questo, e non altro, reco a chi se ne va; poi spengo il sigaro e vado, con un miscuglio di solitudine e di folla, in faccia a quel che sia, con un fiore rosso nella notte o nella neve.

sabato 19 gennaio 2013

Prefetti


Da queste parti, nell'Asocial Network, occuparsi di prefetti è una specie di tradizione. Non senza qualche rischio, perché quando se n'è occupata ad esempio la Gatta Pampalea (a proposito di un signore che ha lasciato a Firenze, come uniche e flebili tracce, delle foto mentre prorompe in escandescenze in tribuna allo stadio per un rigore negato a una squadra di pallone, nonché certe sue confusioni tra cantautori e presunti "terroristi"), non l'hanno presa molto bene in un posticino situato in una via dedicata alla città dalmata di Zadar. Tant'è; scriveva proprio il signore di cui sopra, quello del rigore non dato e del terrorista Lucio Battisti, che il prefetto è uno "sconosciuto". Già: Il prefetto, questo sconosciuto. Titolo di una sua fondamentale opera che, disgraziatamente, ancora non si è vista in edizione economica, in qualche collana di tascabili. Bene, a giudicare da come si son fatti conoscere ultimamente alcuni prefetti italiani, vale a dire i rappresentanti del governo nelle città, verrebbe da dire che è bene che lo rimangano, belli sconosciuti. Quando si ha modo di conoscerne qualcuno, infatti, vengono fuori cosette che la dicono sin troppo lunga non tanto sulle loro persone, che interessano francamente poco, quanto sullo Stato e sul "governo" che li deputa a rappresentarli al massimo grado nelle realtà cittadine.

E, così, pochi mesi fa si è avuto il caso di un prefetto la cui somma funzione dev'essere quella di vigilare sull'uso della parola "signore"; vi ricorderete senz'altro tutti del signor prefetto di Napoli, Andrea De Martino, che durante una riunione redarguì pesantemente don Maurizio Patriciello, un sacerdote cattolico da sempre impegnato contro la Camorra, mentre questo stava parlando proprio in prefettura a proposito dell'allarme sui rifiuti tossici in Campania. La colpa di don Patriciello? Non aver chiamato "signor prefetto" una collega di De Martino (il prefetto di Caserta, Carmela Pagano), ma semplicemente "il prefetto". Rifiuti tossici? Camorra? Ma che importa; quel che veramente conta, per mostrare "rispetto verso le istituzioni", è dire signor prefetto. Notoriamente non godo di un'eccessiva simpatia nei confronti di preti e chiese, ma fossi stato nei panni di don Patriciello avrei immediatamente provveduto a lanciare un anatema sanguinoso sul De Martino, scomunicandolo in piena prefettura e imponendo sulla sua figura il marchio della possessione satanica a base di roboanti vade retro, præfecte!



E' notizia d'oggi che un altro prefetto, questo sconosciuto ha mostrato quanto il "governo", per bocca e per mano dei suoi supremi rappresentanti nelle città, sia sollecito nel manifestare la premura paterna (anzi, in questo caso, materna) a' cittadini che soffrono per un'immane disgrazia. Perché di questo si parla: una tragedia come il terremoto dell'Aquila, non di meno. Una tragedia che ha immediatamente trasformato la sventurata città abruzzese nel più immondo teatrino di politicanti e di altre figure "istituzionali" che si potesse immaginare; nel pretesto per spot elettorali, per l'esercizio della protezione incivile, per farne "commovente scenario" dell'ennesimo vertice di gangster e, soprattutto, per tante belle risatone sulla pelle dei terremotati. Si sa che questo paese ama tanto le "battute", tanto che la battuta di spirito migliore è sempre stata, è e sempre sarà lo Stato che ne occupa il territorio; deve quindi, a rigore, apparire logico che i suoi "rappresentanti" si dedichino all'attività che riesce loro meglio: ridere. Ridono, sghignazzano, cachinnano.

Come il signor prefetto dell'Aquila, Giovanna Iurato, della quale oggi sono state pubblicate alcune pregevoli intercettazioni telefoniche mentre era a colloquio con un suo signor collega prefetto. Il quale collega non è uno qualsiasi, peraltro; giornali e giornaletti non lo fanno notare, ma l'interlocutore del signor Prefetto Giovanna Iurato è nientepopodimeno che Franco Gratteri, ex direttore della "Direzione Centrale Anticrimine" e dello SCO (Servizio Centrale Operativo) della Polizia di Stato, poi interdetto dai pubblici uffici perché tra i protagonisti della "macelleria messicana" della scuola Diaz nel luglio 2001 a Genova. Eh sì, ci son proprio da fare delle belle risatone. Vedere questi due signori prefetti (signore e signora) confessarsi amabilmente finte lacrime davanti ai ragazzi morti nella casa dello Studente dell'Aquila; fanno rimarcare i PM napoletani di come Giovanna Iurato, al telefono col macellaio messicano, "scoppiava a ridere ricordando come si era falsamente commossa davanti alle macerie e ai bimbi rimasti orfani".

Ma, ripeto, in tutta questa vicenda non c'è, a mio parere, da stupirsi eccessivamente. Non è nemmeno questione di protervia, di esercizio della fame di potere di simili personaggi, delle "istituzioni" screditate oramai irrimediabilmente anche agli occhi di coloro che si ostinano, poveracci loro, a credervi; è questione di pura finzione. La quale non si arresta davanti a niente. La quale, come dichiarato dal signor prefetto Iurato Giovanna al collega, gli sarebbe stata addirittura "consigliata dal padre" . E a questo punto mi fermo. Mi fermo solo per un motivo: perché non ritengo giusto, non avendo vissuto personalmente il dramma dell'Aquila e, soprattutto, tutta la sequela di tragiche prese per i fondelli che sono state ammanite agli aquilani, sostituirmi a loro. Nemmeno nel disprezzo totale, che spero distribuiscano a piene mani, ed in forme concrete, a tutti questi personaggi di bassa lega ed allo Stato che li mette in carica fornendo loro lauti stipendi e saccate di potere. 

E, a questo punto, la famosa immagine della prefettura dell'Aquila distrutta dal sisma assume il suo pieno valore simbolico.

venerdì 18 gennaio 2013

Il gatto eterno e bello.


Ore tre e dieci del diciotto gennaio. Nove anni fa, esatti, emigravo per l'ennesima volta (n° 3747, rosso).

Il CPA ribolliva. Eh. Musiche. Prosperi. Bevute! 

Poi, dopo, eccomi qui.

Non so che pigli in certe noctes hibernales.

A un bar, vecchie rapine. Mario! Ciro! Dio cane, Gordon con la pallina da rugby per giocare. E poi all'occupazione di via Monte Oliveto, merdate militari!

Fratello catanese. Catanisi!

Ma voi non capirete mai. Non mi entrerete mai dentro per quanti sforzi, a parte forse.

Galere!

Porca madonna cane impestata.

Via di qua e via di là.

Biciclette.

Una ferita sul naso, una ferita sul mento.

Mondo di merda, rinuncia ad avermi e vattelo a pigliare nel culo.

Fratelli sconosciuti nella notte di gennaio!

La città.

Il respiro.

Il dono del comprendere senza parole.

Il diavolo.

La notte. La notte come idioletto del percepire il nulla e il tutto.

Alle 3,22 avevo

questo aspetto sciolto

dinocampana

infinitamente occhiuto





non potrete mai o quasi capire cosa sia ἀναρχία

è un dio negato e spallanzato notturno vecchio strega merda bovo diocane

è una rapina

crederete che

tre e venticinque

vado a letto naturalmente

col gatto sopra col mio amore sopra perché amore è tutto

ciao!

il gatto eterno e bello dorme

dorme

dorme e vive.