lunedì 31 ottobre 2011

La tovaglia e il borgomastro


Quella che vedete nella foto è una comune tovaglia. Anzi, no; propriamente, sarebbe un copritavolo; infatti sta sul tavolo di casa mia. Non la uso mai come tovaglia, vale a dire per sistemarci sopra, quando mangio, i piatti, le posate, le bottiglie dell'acqua e del vino; per questo ho delle tovaglie vere e proprie, quasi sempre bisunte e macchiate. Il copritavolo lo tolgo e lo ripongo nel cassetto; poi, quando ho finito di mangiare e ho sparecchiato, ce lo rimetto.

Poiché non ho nessuna elevata speculazione filosofica o politica da offrire, che sia originale o copiaincollata, e neppure nessun ricordo profondo (ci sono parecchi giorni in cui i ricordi se ne stanno belli tranquilli a profondizzare dove vogliono loro), vorrei raccontare la storia di questa tovaglia, o copritavolo che sia.

L'ho comprata circa tre anni e mezzo fa, assieme a due sue compagne. Questa qui è "quella nera", poi c'è "quella arancione" e, infine, "quella bianca". I colori distintivi sono quelli delle strisce che racchiudono il motivo, che nelle tre tovaglie è uguale. Le alterno sul tavolo, diciamo ogni due o tre mesi; il tempo che ci vuole perché siano talmente sporche da necessitare d'essere messe in lavatrice. La cosa ha la sua importanza; poiché la mia casa è un buco, un colore prevalente in un dato suo punto la "muta" nella sua luminosità. Avendo passato quasi tutta la mia vita in spazi angusti e in case piuttosto buie, la luce diventa un imperativo. Ieri "quella arancione" è andata nella cesta dei panni sporchi, e per l'autunno intero toccherà a "quella nera"; il 21 dicembre sarà la volta di "quella bianca".

Le ho comprate tutte e tre in un posto che non esiste più. Si chiamava Mercatino Etnico e si trovava in una specie di giardino alberato, accanto ad un ponte di Firenze, in riva all'Arno. Vi era stato sistemato alcuni anni prima da un'amministrazione comunale, dopo che i venditori (africani, sudamericani e anche italiani) erano stati sloggiati da dove stavano; sloggiati in tutti i sensi, perché si trattava giustappunto di una loggia, in centro. Il benevolo Comune aveva però deciso di effettuare una sperimentazione sociale e di assegnare al mercatino sloggiato dalla loggia uno spazio meno centrale dove sistemare le bancarelle e la mercanzia: il giardino di cui vi parlavo sopra. Per alcuni anni, il Mercatino Etnico è rimasto là, tra il ponte, il fiume e le migliaia di autobus turistici che parcheggiavano vomitando le comitive in visita alla città d'arte.

Il Mercatino Etnico era, senz'ombra di dubbio, il tempio della cianfrusaglia. Il Pantheon della carabattola. Il Goetheanum della paccottiglia. In questo non era dissimile da tutti gli altri mercati e mercatini che si trovano un po' dovunque, ma non era menzionato nelle guide turistiche e non era considerato pittoresco. In grandi linee era suddiviso nella "sezione Africa Nera" (maschere tribali fabbricate a Bielefeld, strumenti tipici prodotti a Montefiascone, scatole e scatolette varie, elefantini e altri animali in legno) e in quella "Ande", perché l'artigianato sudamericano deve sempre provenire dalla Cordigliera. Nessuno comprerebbe un oggetto se gli dicessero che viene dal Chaco paraguayano o da una cittadina del Suriname; bisogna che sia andino. C'era poi una sezione non meglio precisata, che poteva essere gestita da africani come da un paio di tizi di Torre del Greco; vi si trovava di tutto, un delirio di Padri Pii, madonne, finte icone russe, cazzi di pietra, samovar, komboloï, ritratti di Pietro Taricone e coltellini svizzeri. La gente entrava nel giardino, girava un po' per le bancarelle, generalmente non comprava niente e si sorbiva un misto di Inti-Illimani, Youssou N'Dour, quenas, bonghi, charangos e zucche vuote. A chi faceva allegria, e a chi tristezza; ma le umane reazioni non hanno una grande importanza. Importante era il fatto che famiglie intere ci campavano, su quelle cianfrusaglie. Importante era il fatto che la concessione di quello spazio non era affatto gratuita, bensì soggetta ad una (non indifferente) tassa di occupazione di pubblico suolo. La quale veniva pagata.

Confesso onestamente di detestare abbastanza l'artigianato africano, vero o finto che sia. Non mi è proprio mai riuscito di farmelo piacere, e magari sarà un mio limite; di converso, adoro l'artigianato del Nord Europa ma non ho mai visto, né a Firenze e né altrove, mercatini e bancarelle di finlandesi. Quello andino mi piace abbastanza; e così, quando si è trattato di arredare alla bell'e meglio casa mia (vale a dire di mettere qualcosa sopra o accanto ai mobili dell'Ikea, tavolo compreso) mi sono rifatto al Mercatino Etnico, e in particolare alla bancarellona peruviana. La chiamavo così perché era la più grossa di tutto il mercatino; ci stava sempre una simpatica signora fiorentina di mezza età, che diceva di fare da commessa per la padrona -che sudamericana lo era sul serio. Insomma, come sovente mi capita, per qualche mese ero diventato un habitué assieme alla Daniela; non dico di averci comprato mezza casa, ma parecchie cose sì. Le tre tovaglie, o copritavoli; una specie di arazzo che tengo sopra al letto; un tappetino che tengo sulla cassettiera rossa (Ikea DOC), e dove ho sistemato la radio a valvole che mio padre regalò a mia madre per le nozze (1953).

Le tre tovaglie, mi era stato assicurato, provenivano da qualche posto a metà tra il Perù e la Bolivia; non ho alcun dubbio che siano state tessute in qualche posto a metà tra San Giovanni in Persiceto e Ustí nad Labem. Poco importa; mi erano piaciute all'istante, erano belle e, cosa di non secondaria importanza, avevano la stessa forma del tavolo. Non sono un contrattatore di prezzi, non amo molto il rito di "tirare" e quando mi chiedono 30 euro, piglio 30 euro e li pago. Sarà un prezzo giusto? Sarà ingiusto? E chi se ne frega; ingiusto è essere spolpati da Equitalia, o dalla banchetta di turno che si fa tanta bella pubblicità coi suoi prodotti finanziari (ma da quando in qua le banche "producono" qualcosa?!?), o da qualche altro organismo squaliforme -magari in forma di "Stato". E così mi sono portato a casa le tre tovaglie "andine", e le ho messe sul tavolo. L'arazzo l'ho inchiodato sopra il letto (proprio così: inchiodato).

Una mattina, verso l'alba, è arrivata la polizia municipale assieme alle ruspe. Così, senza preavviso. Il Mercatino Etnico dava noia. Sgombero immediato ordinato dal Comune di Firenze, dopo che era cambiato il sindaco. Bisognava restituire quell'area alla cittadinanza, perché il borgomastro si preoccupa tanto della bellezza, del decoro, del degrado e dei bambini che giocano coi nonnini. Inoltre, ovviamente, dei solerti cittadini avevano denunciato sui vari giornali tutta una serie di nequizie che si svolgevano in quell'area, e che non sto a dirvi; il Mercatino Etnico, insomma, è stato smantellato in poche ore. Il borgomastro, uno giòvane e dinamico, tutto Facebook e modernità, non sopporta -come è noto- i rottami; e quello era il sacrario del rottame. Pagavano la tassa di occupazione di pubblico suolo? E pazienza. Lavoravano? Disoccupato in più, disoccupato in meno. Certo, quel posto era sistemato bene, in posizione ottima; ma il sindaco del bello e la sua giunta sono tanto preoccupati dell'Immagine, e un'accozzaglia di tovaglie, padri pii, collanine e maschere di legno è intollerabile a pochi passi dai bus turistici.

E la cosa dev'essere stata così importante per il borgomastro, così sentita, da metterla addirittura al primo posto in un dépliant faraonico fatto stampare in decine di migliaia di copie e distribuito assieme ad una pubblicazione cittadina gratuita. Incellofanato assieme, addirittura. In tutte le cassette della posta. Lo sgombero del Mercatino Etnico ha sovrastato tutte le altre realizzazioni del borgomastro, tutte le sue promesse mantenute, tutti suoi cento punti del programma. All'anima. Ora lo spazio è stato restituito. Un giardino, bellino sì, con le panchine, i vialetti e addirittura il baracchino che vende solo bevande analcoliche perché il borgomastro pensa anche alla nostra salute. Questo di giorno; a sera e di notte, però, i bambini e i nonnini se ne vanno (e ce ne sono comunque sempre pochi, perché il giardino è pur sempre circondato da una bella massa di traffico e di gas di scarico) e possono tornare tranquillamente gli spacciatori.

Il borgomastro sgomberatore, perché quest'attività gli deve piacere parecchio e "paga" assai in termini di popolarità e di voti, è sceso in campo. Si fa i suoi "big bang", si dà alla folla, è in televisione ogni mezz'ora e vuole portare la gioventù al potere. Nel frattempo, casa mia, suo malgrado, è diventata una specie di ultima testimonianza di un luogo. Con le sue tovaglie, l'arazzo e il tappetino. Può darsi che quel luogo non fosse gran ché, può darsi che vi si vendessero oggetti falsi, può darsi tutto ciò che si può dare; ma continuo a preferirlo alle bellezze, alle immagini e ai decori che nascondono il solito verminaio di interessi, di intrallazzi e di devastazione -vera- del territorio. A partire dalla TAV che lo stesso borgomastro sta facendo tranquillamente scavare sotto questa città senza che nessuno o quasi batta ciglio, con le relative opere infrastrutturali.

Bene, me ne vo a mangiare. Tolgo la tovaglia, pardon il copritavolo, e apparecchio. Ora che ci penso, al Mercatino Etnico avevo comprato anche una scacchiera andina con i pezzi in forma di soldati di Lautaro (i bianchi) e di conquistadores spagnoli (i neri). La tenevo sulla libreria divisoria, ovviamente sempre made in Ikea, ma l'ho dovuta levare; ci giocherellava il gatto.